GLI ATTI NORMATIVI CONCERNENTI LE P.A

 

Gli atti normativi che regolano le vicende del diritto amministrativo sono gli stessi di ogni settore del diritto (a cominciare da quelle internazionali, assai rilevanti per il diritto amministrativo).

Ogni fattispecie amministrativa è retta da una pluralità di fonti di vario tipo e livello: direttive comunitarie, leggi statali e regionali, atti regolamentari.

 

1. Le fonti di organismi sovranazionali


Per lungo tempo, gli atti normativi delle organizzazioni sopranazionali sono stati considerati non significativi per il diritto amministrativo, ancorato alla sovranità statale.

Gli atti normativi delle organizzazioni sopranazionali erano considerati non significativi per il diritto amministrativo, in quanto fonte di obblighi solo per gli stati nei loro rapporti reciproci.

Gli organismi sopranazionali assumono ora nuova importanza, non solo nei confronti degli Stati ma spesso anche dei singoli individui, a favore dei quali vengono stabiliti obblighi di prestazione a carico degli stati di appartenenza (garanzia di interessi individuali e collettivi).

Accade spesso, tuttavia, che gli stati si discostino dagli obblighi internazionali che contraggono, in quanto non vi sono strumenti di coercizione, ma la semplice volontà degli stessi di accettare limitazioni alla loro sfera di sovranità.

L’Italia fa parte di molte organizzazioni internazionali e alcune si occupano di settori in cui l’amministrazione è tradizionalmente impegnata e le quali hanno il potere di emanare atti normativi vincolanti per gli stati membri.
Es.: Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), Organizzazione MOndale del Commercio (WTO), Unione Postale Universale (UPU).

Inoltre l’Italia ha deciso di vincolarsi al rispetto del diritto internazionale: l’art. 117 Cost. stabilisce che “la potestà legislativa dello stato e delle regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (pena la censura d’incostituzionalità).

L’U.E è quella che ha maggiormente influenzato il diritto amministrativo, emancipandolo dalla dimensione meramente nazionale.

 

2. Le fonti dell’U.E

 

Nel sistema italiano, il fondamento della vincolatività delle fonti comunitarie è stato a lungo individuato nell’ art. 11 Cost.: “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento, che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.

Oggi un fondamento esplicito si trova nell’ art. 117 Cost., che individua negli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’U.E un vincolo all’esercizio della potestà legislativa statale e regionale.

L’adesione al Trattato istitutivo della Comunità europea ha determinato importanti ripercussioni sul sistema delle fonti interne: il diritto comunitario prevale sulle norme interne di livello anche costituzionale, con i soli limiti dei principi fondamentali e dei diritti dell’uomo (i cd. controlimiti).
Questa prevalenza è assicurata mediante la disapplicazione della norma nazionale incompatibile con il diritto comunitario.

L’obbligo della disapplicazione grava sia sui giudici che sulle amministrazioni nazionali.

La prevalenza e l’effettività del diritto comunitario sono garantite anche dalla previsione di una responsabilità risarcitoria in capo agli stati membri che abbiano violato norme comunitarie cagionando un danno ai privati (titolari di un diritto al risarcimento).

Questa responsabilità è poi stata estesa alle violazioni commesse non solo dal legislatore ma anche mediante provvedimento amministrativo e giurisdizionale.

Le condizioni che devono sussistere perché vi sia responsabilità dello stato sono tre:

1) che la normativa comunitaria violata attribuisca un diritto a favore del singolo;
2) che la violazione sia grave e manifesta;
3) che vi sia un nesso di causalità fra la violazione della norma e il danno subito dal singolo.

Non è richiesto l’accertamento di uno stato soggettivo di colpevolezza né rileva il carattere immediatamente applicabile o meno della disposizione violata.
Le norme sulla base delle quali deve essere accertata la responsabilità sono quelle previste dall’ordinamento dello stato per analoghi rimedi interni (principio di equivalenza), sempre che l’applicazione di queste norme non renda impossibile o eccessivamente difficile l’accesso alla tutela da parte del soggetto danneggiato (principio di effettività).

Nel caso dell’ordinamento italiano, la norma da attivare per far valere la responsabilità dello stato è l’art. 2043 c.c., in materia di responsabilità extracontrattuale.

Tuttavia la Corte di Cassazione (Sez.Uni.) ha recentemente affermato la natura contrattuale e indennitaria della responsabilità del legislatore per omesso o tardivo recepimento delle direttive comunitarie, da qui l’impossibilità di ricondurre questo comportamento allo schema dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.

La conseguenza è che il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria corrisponde a 10 anni e non al termine più breve di 5 anni, previsto per la responsabilità extracontrattuale.

Le attribuzioni dell’U.E sono circoscritte dal principio di attribuzione: essa agisce solo nei limiti delle competenze e degli obiettivi ad essa assegnati (art 5 Tr.), lasciando per il resto libertà agli stati membri.

Il rapporto tra Comunità e stati è retto dal principio di sussidiarietà: l’intervento della prima al di fuori delle sue competenze esclusive si giustifica solo quando determinati risultati non possono essere raggiunti adeguatamente dagli stati.

Il Trattato disciplina anche i poteri impliciti (art 380), che consentono alla Comunità di intervenire nel modo che ritiene più opportuno, anche in assenza di una apposita competenza, quando lo richieda il perseguimento di uno dei suoi scopi nel funzionamento del mercato comune (es. in materia di tutela ambientale).

È inevitabile che le fonti comunitarie influiscano sull’attività e sull’organizzazione delle amministrazioni: vi sono principi sanciti dal Trattato o dalla Corte di Giustizia che si sovrappongono o si aggiungono ai principi stabiliti dalle norme costituzionali (ad es. i principi di legalità, effettività della tutela giurisdizionale, di non discriminazione, di ragionevolezza, di tutela dei diritti umani, ma anche principi più specifici dell’attività amministrativa: di sussidiarietà, proporzionalità, tutela dell’affidamento che hanno ricevuto grazie al diritto comunitario un rafforzamento). Altre norme comunitarie incidono sull’organizzazione dell’amministrazione nazionale (ad es. stabilendo le caratteristiche dei soggetti che ricevono determinati benefici o prescrivendo la creazione di appositi organismi).

Il processo di integrazione europea ha portato all’adozione di alcune misure organizzative volte a coordinare le pubbliche amministrazioni nazionali nell’adempimento degli obblighi che derivano dall’appartenenza all’U.E.
A tal fine il Presidente del Consiglio dei ministri, responsabile dell’adempimento, si avvale di un apposito Dipartimento della Presidenza del Consiglio, il Dipartimento per le politiche comunitarie.

Inoltre l’attività delle P.A è stata influenzata dal diritto europeo anche mediante normative settoriali che disciplinano specifici procedimenti amministrativi (es. procedure di evidenza pubblica per la stipulazione dei contratti).

Le fonti comunitarie comprendono, oltre al Trattato istitutivo con le sue modifiche, le fonti di diritto derivato (regolamenti e direttive); le istituzioni dell’U.E adottano poi decisioni, raccomandazioni, pareri. Fondamentali sono poi le decisioni della Corte di Giustizia.

• REGOLAMENTI: ex art. 288 del TFUE hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli stati membri e quindi dalle P.A (ciò implica l’automatico adattamento dell’ordinamento nazionale al regolamento senza bisogno di un atto interno di recepimento).

Il regolamento prevale sulle normative difformi vigenti negli stati membri e si sostituisce ad esse nella disciplina della materia. La diretta applicabilità non esclude che in alcuni casi il regolamento necessiti provvedimenti interni di natura integrativa, senza i quali non potrebbe trovare applicazione.

• DIRETTIVE: ex art. 288 TFUE sono rivolte agli stati membri e li vincolato in ordine al risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali quanto all’individuazione della forma e dei mezzi da impiegare.

Possono anche essere individuali (cioè rivolte solo ad uno o più stati membri) ma più frequenti sono le direttive generali.
Chiedono un atto interno di recepimento, senza il quale non possono trovare applicazione (non sono dotate di diretta applicabilità).
Ogni direttiva indica un termine entro il quale gli stati devono provvedere alla sua attuazione: se lo stato non recepisce la direttiva entro tale termine è inadempiente e si espose a possibili conseguenze risarcitorie per danni causati ai singoli.
La giurisprudenza comunitaria ammette che, scaduto comunque il termine di attuazione, le direttive producano effetti diretti nell’ordinamento interno, purché dotate di sufficiente precisione ed incondizionatezza: si tratta delle direttive self-executing, le quali, essendo dettagliate, non necessitano di un atto interno di recepimento. Ma la loro efficacia diretta si esplica solo nei rapporti che coinvolgono uno/più soggetti privati e le P.A di uno stato membro e non nei rapporti tra privati, in quanto solo agli stati membri è rimproverabile la mancata attuazione delle direttive. Quindi se una direttiva inattuata (con i requisiti di precisione e incondizionatezza) attribuisce ad un soggetto un diritto da far valere nei confronti della P.A, questo diritto può essere esercitato anche davanti all’autorità giudiziaria. Se invece il diritto conferito dalla direttiva deve essere fatto valere nei confronti di un altro soggetto privato, il titolare non può direttamente esercitarlo né richiederne tutela in sede giurisdizionale, ma può solo ottenere l’azione risarcitoria da esperire nei confronti dello stato per violazione del diritto comunitario.

• DECISIONI: sono atti obbligatori in tutti i loro elementi per i destinatari da esse designati (art. 288 TFUE). A differenza delle direttive che possono essere indirizzate solo agli stati, le decisioni possono avere come destinatari anche i singoli.

Non si tratta di vere fonti del diritto ma di atti amministrativi di competenza delle istituzioni comunitarie.
Non richiedono un atto di adeguamento dell’ordinamento nazionale, essendo efficaci ed obbligatorie per il soggetto che ne è destinatario.

• PARERI E RACCOMANDAZIONI: non sono qualificabili come fonti del diritto, in quanto il Trattato stabilisce che non producono effetti vincolanti (art. 288, ult. par. del TFUE). L’adeguamento ad essi è il frutto di uno spontaneo comportamento dello stato membro cui sono rivolti tali atti. Il Tr. riconosce alla Commissione un potere generale di raccomandazione.

• SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: rese nell’ambito di rinvii pregiudiziali ex art. 267 del TFUE. Assumono una portata che va oltre il caso concreto nell’ambito del quale viene sollevata la questione interpretativa: sono obbligatorie per tutti i giudici che si trovino a decidere casi analoghi.

 

3. Le fonti nazionali, regionali e degli enti locali


a) LA COSTITUZIONE: contiene norme espressamente dedicate all’organizzazione e all’attività amministrativa (artt. 28, 97 e 98).

L’art 28 detta un principio fondamentale: la responsabilità dei funzionari e della P.A, sulla base di leggi penali, civili e amministrative, per gli atti compiuti in violazione dei “diritti” (diritto inteso come situazione soggettiva protetta: vi rientrano non solo i diritti soggettivi ma anche gli interessi legittimi).

L’art 97 stabilisce che l’ordinamento degli uffici deve essere disciplinato con legge per assicurare l’imparzialità e il buon andamento della P.A.
Stabilisce poi che agli impieghi nelle P.A si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge.

L’art 98 stabilisce, invece, che i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della Nazione; autorizza la legge a prevedere limitazioni al diritto di iscrizione ai partiti politici per categorie specifiche di dipendenti pubblici (magistrati, militari, rappresentanti diplomatici, funzionari, agenti di polizia), che necessitano di indipendenza dal potere politico.

I titoli II e III Cost. contengono la disciplina degli organi di vertice della P.A: il Presidente della Repubblica (art. 87) e il Governo (artt. 92-96) e gli organi ausiliari, in particolare il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti (art. 100).

Le norme sulla giurisdizione (art 111 ss.) conferiscono valore costituzionale a una giurisdizione specifica sugli atti delle P.A: “contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi attinenti alla giurisdizione” (art. 111 Cost.); “contro gli atti della P.A è sempre ammessa tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinnanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinare categorie di atti.

La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della P.A nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa” (art. 113 Cost.).

Altre norme costituzionali dettano principi sull’allocazione delle funzioni amministrative fra gli enti locali: l’art. 118, comma 1, Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che per assicurarne l’esercizio unitario siano conferite ai livelli territoriali superiori (province, regioni, stato), sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Quanto ai rapporti tra enti locali e formazioni sociali, l’art. 118 , comma 4, Cost. stabilisce che gli enti territoriali favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.

Dunque la Costituzione contiene numerose disposizioni che incidono direttamente o indirettamente sull’attività amministrativa che, riconoscendo libertà e diritti agli individui e alla collettività, diventano fonte di correlativi doveri a carico delle P.A (ad es l’art. 32 Cost. relativo al diritto alla salute; l’art. 33 Cost. sull’istruzione; gli artt. 52 e 53 Cost. sulla difesa della patria e sull’obbligo di pagare le tasse; l’art. 117 Cost. sulla tutela dell’ambiente).

In particolare si individuano nelle norme e principi costituzionali, quattro tipi di normative che incidono sull’organizzazione e sull’attività amministrativa:

1- Quelle che dettano i principi funzionali dell’organizzazione e dell’attività (legalità, imparzialità, buon andamento, responsabilità, accesso per concorso, controlli, giustiziabilità);

  1. 2-  Quelle che disciplinano gli organi di vertice della P.A;

  2. 3-  Quelle attinenti all’allocazione delle funzioni e dei poteri tra gli enti territoriali (accentramento, federalismo, autonomie, decentramento, sussidiarietà verticale), e tra enti territoriali e formazioni sociali;

  3. 4-  Quelle che riconoscono libertà, diritti e doveri da cui scaturiscono obblighi organizzativi e di comportamento a carico della P.A.

La Costituzione rappresenta quindi il primo fondamento legale del potere delle P.A in quanto atto sovraordinato ad ogni altra fonte di attribuzione e disciplina delle funzioni amministrative.

Tuttavia essa è successiva alla formazione delle amministrazioni e del diritto amministrativo: la riconduzione delle funzioni amministrative al testo costituzionale non attiene ai caratteri essenziali dei diritto amministrativo ma solo all’attuale sistema positivo.

Inoltre va tenuto conto della presenza di fonti sovraordinate (diritto comunitario) alle stesse norme costituzionali. Nonostante ciò, la Costituzione ha influito sul rinnovamento del diritto amministrativo e sul suo adeguamento alla tutela dei diritti.

b) GLI STATUTI REGIONALI: sono atti normativi che determinano la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento delle regioni (art. 123, comma 1, Cost).

La riforma del titolo V Costituzione ha ampliato la potestà statutaria delle regioni.
Il nuovo art. 116, comma 1, Cost. continua a prevedere che Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino e Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

Poichè gli statuti speciali di queste regioni vengono equiparati, sul piano delle fonti del diritto, alle leggi costituzionali, è possibile che essi deroghino alle disposizioni che la stessa Costituzione detta con riferimento alle regioni ordinarie.
La Costituzione, però, come una sorta di contreppeso a questa forma di autonomia particolarmente accentuata, non attribuisce alle regioni a statuto speciale la elaborazione e l'approvazione dei propri statuti, che quindi per esse costituiscono fonti di disciplina eteronome. Gli statuti delle regioni ordinarie sono approvati e modificati dal Consiglio regionale con legge regionale approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi (art. 123, comma 2, Cost.).

Una volta approvati, devono essere sottoposti a referendum popolare se, entro 3 mesi dalla loro prima pubblicazione, ne faccia richiesta 1/50 degli elettori della regione o 1/5 dei componenti del Consiglio regionale.
In questo caso, gli statuti non possono essere promulgati se non approvati dalla maggioranza dei voti validi.

Il governo resta del tutto estraneo al procedimento (diversamente di quanto avviene per gli statuti speciali), potendo solo promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte Costituzionale entro 30 giorni dalla loro prima pubblicazione (ex art. 123 Cost.).

Nel sistema delle fonti del diritto questi statuti devono essere inquadrati in base ai criteri della gerarchia (solo in rapporto alla Costituzione e alle altre leggi costituzionali alle quali sono sotto-ordinati; e alle leggi e ai regolamenti regionali, ai quali sono sovraordinati) e della competenza (in rapporto a tutte le altre fonti del diritto).

L’ art. 121 Cost. prevede come organi di governo della regione il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente, ed attribuisce a ciascuno di questi organi precise funzioni: uno statuto regionale non potrebbe prevedere organi di governo diversi o allocare le funzioni in maniera diversa.

L’ art. 122, comma 1, Cost. stabilisce che il sistema elettorale e i casi di ineleggibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta e dei consiglieri regionali devono essere disciplinati con legge regionale nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica: lo statuto regionale non potrebbe provvedervi.

L’ art. 123 Cost. prevede che gli statuti regionali devono essere “in armonia con la Costituzione” (e non più anche con le leggi della Repubblica).
L’ art. 122, comma 5, Cost. rimette agli statuti regionali la facoltà di scegliere fra una forma di governo di tipo presidenzialista (con elezione del Presidente della Giunta a suffragio universale e diretto) e altre forme di governo (ad es. di tipo semipresidenzialista o parlamentarista).

Se la potestà statutaria regionale decide per l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Giunta, deve sottostare ad un ulteriore limite previsto dall’ art. 126, comma 2, Cost., il quale contiene la clausola simul stabunt, simul cadent (l’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Pres della Giunta nonché la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio). L’art. 123, comma 1, Cost. prevede i c.d. contenuti obbligatori (materie che gli statuti regionali devono obbligatoriamente disciplinare): esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.

Inoltre l’art. 123, comma 4 Cost. prevede che gli statuti regionali disciplinano il Consiglio delle autonomie locali, organo di consultazione tra la regione e gli enti locali. Un problema di rilievo riguarda la possibilità che gli statuti disciplinino contenuti ulteriori e diversi da quelli obbligatori (c.d. contenuti eventuali).

c) LE LEGGI: l’art. 97 Cost. pone il principio di legalità come cardine dell’organizzazione e dell’attività della P.A.

La competenza ad adottare leggi è ripartita tra lo stato e le regioni ex art. 117 Cost., come riformato dalla l. cost. 3/2001.
Lo stato è titolare di competenze esclusive, formalmente tassative, in numerose materie, alcune trasversali a settori di competenza regionale.

Vi è poi una competenza concorrente stato-regioni: spetta allo Stato la fissazione dei principi e alle regioni la disciplina di dettaglio delle materie che vi rientrano (ad es.: l’istruzione, la tutela della salute).

Invece la potestà legislativa spetta alle regioni in tutte le materie non previste come competenza esclusiva o concorrente dello stato.  Si tratta comunque di una competenza di carattere residuale poiché le competenze trasversali e i poteri sostitutivi lasciano allo stato la responsabilità ultima della tutela della collettività e dei suoi componenti.

In ogni caso una parte rilevante dell’organizzazione e dell’attività amministrativa è soggetta in tutto o in parte alla legislazione regionale. (ad es. l’art. 117, comma 2, lett. g, Cost., da cui si evince che è compito delle regioni disciplinare l’organizzazione degli enti pubblici regionali e locali).

Lo spazio assegnato alla legge può essere occupato anche mediante atti con forza di legge (decreti legislativi e decreti legge e analoghi atti a livello regionale), non esistendo in materia amministrativa una riserva di legge formale.
Dato il sistema europeo, può inoltre verificarsi la vigenza, nell’ordinamento interno, di leggi adottate in altri paesi dell’U.E (nell’ipotesi di concorrenza fra ordinamenti, ad es le discipline nazionali relative ai processi di produzione delle merci non sono oggetto di armonizzazione ma sono considerate equivalenti, in base appunto al principio di equivalenza, in modo da poter coesistere nello spazio giuridico europeo).

d) GLI STATUTI DEGLI ENTI LOCALI: l’ art. 114, comma 3, Cost. riconosce e garantisce la potestà statutaria degli enti locali e configura i comuni, le province e le città metropolitane come enti autonomi con propri statuti.

I limiti alla potestà statutaria egli enti locali sono fissati dalla Costituzione, che ex art. 117, comma 2, lett. p, attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato le materie relative alla legislazione elettorale, agli organi di governo e alle funzioni fondamentali di comuni, province, città metropolitane: questi sono i limiti entro i quali può esercitarsi l’autonomia statutaria degli enti locali.

Nel sistema delle fonti, gli statuti degli enti locali sono gerarchicamente sotto- ordinari solo alla Costituzione e alla legge statale adottata ex art 117, comma 2, lett. p). In relazione ad ogni altra fonte del diritto, tali statuti possono essere inquadrati solo secondo il criterio della competenza.

Altri limiti alla potestà statutaria degli enti locali derivano da altre disposizioni della Costituzione (ad es.: è sempre necessaria una legge statale o regionale per l’attribuzione agli enti locali di funzioni amministrative che comportino l’esercizio di poteri autoritativi, legge alla quale gli statuti devono conformarsi; determinate competenze dello stato nelle materie trasversali possono incidere su aspetti rimessi alla disciplina statutaria; le forme di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza non economica possono essere disciplinati anche dalla fonte legislativa regionale).

e) I REGOLAMENTI: l’art. 17 della L. 400/1988 disciplina i regolamenti dell’esecutivo.

Sono atti normativi (disciplinano una materia in termini generali), la loro violazione è censurabile dal giudice amministrativo come “violazione di legge”, ma essendo atti adottati dalla P.A possono essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo. L’impugnazione può essere fatta insieme all’atto amministrativo che ne dà attuazione ma anche direttamente, se producono effetti lesivi.

I regolamenti governativi sono approvati dal Consiglio dei Ministri, previo parere del Consiglio di Stato, emanati con decreto del Presidente della Repubblica, con il controllo preventivo della Corte dei Conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.
Il Governo può adottare regolamenti senza la necessità di un’apposita previsione legislativa, tranne le ipotesi in cui l’ordinamento stabilisce che una determinata disciplina sia rimessa alla legge (es in materia penale).

Quanto al rapporto con la legge, i regolamenti sono di vario tipo:

  • Regolamenti di esecuzione ed attuazione delle leggi: adottati per specificare il contenuto di norme legislative non sufficientemente dettagliate;

  • Regolamenti indipendenti: disciplinano materie sulle quali non esiste disciplina normativa di rango primario, purché non si tratti di materie coperte da riserva di legge;

  • Regolamenti delegati: sono autorizzati da una legge di delega e disciplinano materie (non coperte da riserva di legge) sulle quali già esiste una disciplina legislativa, che però viene abrogata dalla legge delega con effetto a decorrere dall’entrata in vigore del regolamento.

    In questo modo la gerarchia viene rispettata, perché è la legge di delega che abroga le leggi preesistenti, anche se l’effetto dell’abrogazione è posticipato all’entrata in vigore del regolamento, in modo da non lasciare la materia senza una disciplina.

    La legge che autorizza il Governo ad adottare tali regolamenti deve contenere i principi e i limiti entro cui la potestà regolamentare deve essere esercitata. Lo scopo che ha spinto l’introduzione di questi regolamenti e quello della delegificazione, per porrministro o dai ministri competenti autorizzati da una legge a tal fine. Essi sono subordinati ai regolamenti del Governo;

    • Regolamenti di organizzazione: volti a disciplinare l’assetto delle amministrazioni interessate (quindi l’individuazione dei dipartimenti, la definizione della pianta organica e dell’articolazione interna dei compiti tra le varie strutture).

    Nelle materie di legislazione concorrente e in quelle di competenza esclusiva regionale, la potestà regolamentare spetta alle regioni (art. 117, comma 6, Cost.). La potestà regolamentare regionale è normalmente esercitata dalla giunta, ma lo statuto della regione può attribuirla al consiglio.

    Possono adottare regolamenti anche gli enti locali, per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, comma 6, Cost.).

    Anche le autorità amministrative indipendenti dispongono di potestà regolamentare, che può assumere rilevanza sia interna che esterna.

    Infine una potestà regolamentare residua anche in capo agli enti pubblici non territoriali (generalmente confinata all’ambito di profili organizzativi ma può assumere anche rilevanza esterna, ad es regolamenti degli ordini professionali e quelli delle camere di commercio).

    4. Le fonti di associazioni

    a) Contratti collettivi di lavoro: il contratto collettivo, dopo il processo di “privatizzazione” del pubblico impiego, è divenuto fonte regolativa dei rapporti di lavoro con le P.A.
    La contrattazione collettiva aveva competenza generale (“può svolgersi su tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali”), ma recenti interventi normativi hanno stabilito che una serie di oggetti devono essere necessariamente disciplinati dalla legge.

    Il contratto collettivo nel settore pubblico è inderogabile dal contratto di lavoro individuale ed è efficacie erga omnes.

    La disciplina del contratto collettivo presenta sostanziali differenze a seconda che si prenda in esame il settore pubblico o privato: il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro privato è un contratto di “diritto comune”, espressione di autonomia privata collettiva.

     

    Il contratto collettivo che regola i rapporti di lavoro alle dipendenze delle P.A presenta i requisiti tipici di una fonte normativa (piuttosto che di una fonte negoziale): è efficace erga omnes e resiste alla forza abrogativa ordinaria di una fonte-atto; è adottato dall’esito di una procedura disciplinata dalla legge ed è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.

    La dottrina e la giurisprudenza più diffuse non attribuiscono a questo contratto collettivo la natura di fonte del diritto, ma quella di atto negoziale espressione di autonomia privata collettiva.

    b) Norme deontologiche: il potere di emanare norme deontologiche coercitive e strumentali all’esercizio del potere disciplinare è una delle più tipiche espressioni dell’autonomia degli enti pubblici associativi, in particolare degli ordini professionali. Per rendere azionabile tale potere, sono necessarie delle norme-parametro rispetto alle quali valutare la congruenza dei comportamenti degli associati, al fine di irrogare le eventuali sanzioni.

    Le norme deontologiche indicano gli obblighi che devono essere rispettati nell’esercizio di una professione.
    Sia il potere disciplinare che il potere di adottare codici deontologici sono attribuiti dalla legge: si intende tutelare non solo l’interesse dei terzi che entrano in contatto con l’ente e quello dell’ente stesso, ma anche l’interesse pubblico a che professioni importanti per la collettività siano svolte in modo corretto.

    5. Norme tecniche

    Le fonti legislative fanno spesso rinvio a regole di carattere tecnico e a standard, in ragione della necessità di adeguare la produzione legislativa alle molteplici esigenze di una società altamente tecnologicizzata.
    Prima la definizione delle norme tecniche era rimessa a enti pubblici nazionali (per lo più di carattere associativo).

    Si è poi avuto uno spostamento della produzione di norme tecniche ad associazioni, enti privati e organismi non governativi (come l’ISO, volto a creare in vari settori un “alfabeto comune” degli scambi a livello mondiale).
    Le modalità attraverso le quali le norme tecniche acquistano rilievo giuridico nell’ordinamento sono molteplici: talvolta le leggi statuiscono l’obbligatorietà di determinate norme o principi tecnici previa apposita “omologazione” (cioè verificandone la compatibilità con i principi generali dell’ordinamento).

    In altre ipotesi le leggi delegano un organismo di normazione privato (es UNI) alla formulazione di norme tecniche sulla base di principi individuati dalla legge, orientandone perciò l’attività al fine di ottenere la garanzia di interesse generale. Infine una diffusa modalità è quella del “rinvio” a norme tecniche di origine extralegislativa (si pensi ai frequenti rinvii legislativi alle norme ISO o UNI).

    La nozione di rinvio è spesso utilizzata secondo l’accezione del “rinvio recettizio”, volto cioè ad estendere il riferimento legislativo non solo alla singola norma ma anche alle successive modifiche della stessa.

 

 

Corte Cost n. 49 del 2015
Il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento.

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