Corte Cost n. 49 del 2015
Il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento.
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), promossi dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, con ordinanza del 17 gennaio 2014 e dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con ordinanza del 20 maggio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 101 e 209 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2014.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, con ordinanza depositata il 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del 2014), ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui, in forza dell'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
Il giudice a quo premette di conoscere del ricorso proposto contro una sentenza della Corte d'appello di Roma, che, tra le altre statuizioni, ha disposto la confisca di immobili e terreni oggetto di lottizzazione abusiva.
Si è trattato, in particolare, della realizzazione di una struttura residenziale di 285 abitazioni, in contrasto con gli strumenti urbanistici e in luogo del previsto «complesso di case-albergo per anziani».
Con riferimento al reato di lottizzazione abusiva, punito dall'art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, gli imputati sono stati prosciolti per estinzione del reato conseguente a prescrizione. Al giudizio penale hanno partecipato anche acquirenti delle abitazioni frutto della lottizzazione, in qualità di parti civili. Il rimettente riferisce che «almeno per quindici di esse si pone il problema della confiscabilità degli immobili», posto che tale misura, disposta dal giudice del merito, li raggiungerebbe, in quanto proprietari del bene, ai sensi dell'impugnato art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Tale disposizione stabilisce che la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Il giudice rimettente precisa che la confisca «può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato, purché sia accertata – come avvenuto nel caso in esame – la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell'ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che verifichi l'esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l'aspetto dell'imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere».
Per quanto concerne la posizione degli imputati, la Corte di cassazione esclude di poter accogliere la domanda di assoluzione per insussistenza del fatto, perché, quanto al proscioglimento per intervenuta prescrizione, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., «non può dirsi che dagli atti emerga l'assoluta assenza della prova di colpevolezza» a loro carico. Ne consegue che i ricorsi andrebbero rigettati anche con riguardo ai «capi della sentenza impugnata con cui è stata disposta la confisca delle aree e dei terreni lottizzati».
Il rimettente, in altri termini, si troverebbe a confermare una sentenza che, pur in presenza di una causa estintiva del reato, reca l'accertamento della lottizzazione abusiva e a valutare se la confisca, prevista in tal caso dall'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, possa raggiungere il terzo acquirente dell'immobile oggetto del reato.
Su quest'ultimo punto, la Corte di cassazione osserva che «Non emergono [...] elementi incontrovertibili da cui possa escludersi che i 15 acquirenti e i restanti promissari acquirenti gli immobili abusivamente lottizzati, costituitisi parti civili nel presente processo, fossero qualificabili come terzi di buona fede», come la Corte d'appello avrebbe illustrato nella propria decisione oggetto di ricorso. Pertanto «la disposta confisca dovrebbe essere confermata, con innegabile sacrificio patrimoniale del diritto di proprietà, non potendo gli stessi qualificarsi come terzi estranei al reato di lottizzazione abusiva per il solo fatto di non aver mai rivestito la qualità di persona sottoposta ad indagini od imputato, né l'intervenuta costituzione di parte civile è decisiva per affermarne l'estraneità».
Tuttavia, il giudice a quo, dopo aver dato atto che la consolidata interpretazione dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anche alla luce della sentenza n. 239 del 2009 di questa Corte, imporrebbe di confiscare i beni, dà conto della sopravvenienza della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 29 ottobre 2013, Varvara contro Italia (ric. n. 17475 del 2009), e ritiene che essa abbia modificato il contenuto della disposizione censurata. La Corte europea, infatti, avrebbe statuito che, in base all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e all'art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale, la confisca non possa mai essere disposta in difetto di una sentenza di condanna per il reato di lottizzazione abusiva, ed in particolare quando si è verificata l'estinzione del reato.
Il rimettente osserva che simile indirizzo, non univoco nella giurisprudenza europea, si pone in conflitto con una linea di tendenza legislativa volta a prevedere ipotesi di «confisca senza condanna», come ad esempio disporrebbe, in talune ipotesi, la direttiva 3 aprile 2014, n. 2014/42/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell'Unione europea). Tuttavia, esso, promanando dalla Corte di Strasburgo, andrebbe in ogni caso recepito.
Una volta assunto l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 nel significato attribuitogli in senso conforme alla CEDU, il giudice a quo dubita della compatibilità di tale significato con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., «i quali impongono che il paesaggio, l'ambiente, la vita e la salute siano tutelati quali valori costituzionali oggettivamente fondamentali, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà».
2.– Il rimettente specifica che la questione è rilevante, poiché, allo stato, la disposizione impugnata osterebbe alla confisca dei beni oggetto di lottizzazione abusiva in danno del terzo acquirente, mentre, ove essa fosse accolta, tale misura, già disposta dalla Corte d'appello, andrebbe confermata.
3.– Con riguardo alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo enuncia una premessa che accomuna tutte le censure, svolte poi analiticamente con riferimento ai parametri sopra dedotti. La confisca del frutto della lottizzazione abusiva sarebbe l'effetto di una scelta legislativa conseguente agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost.
Infatti, il diritto di proprietà, alla cui salvaguardia sarebbe preposta l'interpretazione dell'art. 44, comma 2, impugnato, valorizzato dalla giurisprudenza europea, sarebbe destinato a recedere di fronte a valori costituzionali di maggior rilievo, tra i quali quelli espressi dalle sopracitate norme costituzionali. La Costituzione, prosegue il rimettente, «certamente riconosce come diritto fondamentale, da definire diritto inviolabile dell'uomo, ai sensi dell'art. 2 Cost., non il diritto di proprietà privata senza aggettivi, ma il diritto di "proprietà personale", quella riferibile al soddisfacimento dei bisogni primari dell'uomo», e lo colloca «nel Titolo dedicato ai "Rapporti economici"». Esso, pertanto, «non costituisce un valore assoluto, un diritto fondamentale inviolabile, ma un diritto che esiste secondo la previsione della legge, la quale, tenuto conto del suo obbligo di assicurarne la funzione sociale e di renderl[o] accessibile a tutti, potrebbe anche comprimerl[o]», riducendolo a un nucleo essenziale.
In questo contesto, aggiunge il giudice rimettente, «È, quindi, la legge che impone, in caso di "accertata" lottizzazione [...] il sacrificio del diritto di proprietà». La disposizione impugnata verrebbe invece ad impedire tale sacrificio, esponendosi al dubbio di costituzionalità.
4.– Passando ad approfondire le censure, il giudice rimettente ritiene leso anzitutto l'art. 2 Cost., poiché l'art. 44, comma 2, impugnato, imporrebbe «di considerare il diritto di proprietà come inviolabile», in contrasto con quanto osservato in senso opposto dallo stesso giudice.
Sarebbe poi violato l'art. 9 Cost., giacché omettendo la confisca si pregiudicherebbe il bene dell'ambiente, mentre «La natura di principio fondamentale della nostra Carta costituzionale della tutela del paesaggio e del territorio giustifica, nell'ottica del legislatore, il sacrificio della proprietà privata». La disposizione impugnata assicurerebbe invece la «prevalenza del diritto di proprietà», così invertendo la contraria scelta costituzionale.
Per le medesime ragioni sarebbe leso l'art. 32 Cost. Il giudice rimettente premette che la «legislazione urbanistica» ha «come obiettivo non soltanto la conservazione di un ordinato assetto territoriale, ma anche quello di garantire la tutela del diritto ad un "ambiente" salubre e, dunque, la tutela della salute umana».
Ne consegue che «nel conflitto tra tre diversi interessi quali il mercato, l'ambiente e la persona» è ammessa una compressione dell'integrità ambientale «in ragione degli interessi economici delle imprese», ma in nessun caso potrebbe venire compromesso «l'interesse fondamentale della persona alla difesa della salubrità dell'ambiente (Corte Cost., sentenza n. 127/1990)».
Il giudice a quo conclude che «escludere [...] la confiscabilità dei terreni e degli immobili sequestrati determinerebbe, ancora una volta, la prevalenza del diritto di proprietà sul diritto alla salute», in contrasto con l'art. 32 Cost.
Infine, analogo ragionamento è svolto con riferimento agli artt. 41 e 42 Cost. La Corte di cassazione evidenzia che è lo stesso legislatore che, assegnando prevalenza all'«interesse dello Stato a reprimere» le violazioni urbanistiche, impone «il sacrificio del diritto di proprietà attesa l'incompatibilità della condotta integrante l'illecito lottizzatorio con la funzione sociale e con l'utilità sociale».
Il rimettente conclude, rammentando che «il potere di pianificazione urbanistica» è «funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti».
Venendo meno la confisca, nel caso di lottizzazione abusiva, «si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.».
5.– Alla luce di queste considerazioni, il giudice a quo, ripercorsa la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra CEDU e legge nazionale, rammenta che «il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall'ordinamento interno» e reputa la norma impugnata contraria al principio di «massima espansione delle garanzie», posto che essa frustra gli interessi costituzionali riassunti dalle disposizioni asseritamente violate. Né sarebbe possibile «attivare la procedura prevista dal Protocollo n. 16 alla Convenzione» e richiedere il parere della Corte europea, posto che tale strumento non è ancora entrato in vigore. A parere del rimettente, non resta perciò che sollevare una questione di costituzionalità dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel significato da attribuirgli sulla base della giurisprudenza di Strasburgo.
6.– Con ordinanza depositata il 17 gennaio 2014 (r.o. n. 101 del 2014), il Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della CEDU, «nella parte in cui consente che l'accertamento nei confronti dell'imputato del reato di lottizzazione abusiva – quale presupposto dell'obbligo per il giudice penale di disporre la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite – possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione».
Il rimettente si trova a giudicare una persona imputata del reato di lottizzazione abusiva previsto dall'art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in qualità di proprietario dell'area e committente dei lavori.
Il giudice a quo rileva, anzitutto, che il reato è prescritto e che pertanto, in difetto delle condizioni per assolvere l'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p., è necessario dichiarare di non doversi procedere per estinzione del reato stesso.
Peraltro, il rimettente reputa integrati gli estremi dell'illecito penale, anche sotto l'aspetto della responsabilità personale dell'imputato, se non altro a titolo di colpa. Quest'ultimo, prosegue il rimettente, ha progressivamente alterato la destinazione urbanistica agricola dell'area, imprimendole carattere residenziale. Nonostante gli atti di assenso della pubblica amministrazione, la macroscopica violazione della normativa urbanistica, e il difetto di un reale nesso strumentale dei beni edificati rispetto alle esigenze agricole del terreno, convincono il giudice a quo della colpevolezza dell'imputato.
Ciò premesso, il Tribunale osserva che, alla luce dell'interpretazione dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, vigente, a seguito della sentenza di questa Corte n. 239 del 2009, e seguita dalla Corte di cassazione, sarebbe necessario disporre la confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, poiché essa non richiede inderogabilmente la condanna penale, ma il solo accertamento della responsabilità della persona verso cui la misura è disposta.
Tuttavia, il rimettente reputa che tale assetto, che costituisce diritto vivente, dovrebbe ritenersi superato per effetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo resa nel caso Varvara contro Italia, sopra già citata, con la quale si sarebbe stabilito che l'art. 7 della CEDU vieta di applicare una sanzione reputata penale nei confronti di chi non sia stato condannato.
Il giudice a quo esclude di potersi discostare in via ermeneutica dal diritto vivente appena ricostruito, nonostante l'«ambiguità del dato letterale» offerto dalla disposizione impugnata, ma ritiene che esso si ponga in contrasto con l'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e conseguentemente con l'art. 117, primo comma, Cost.
Secondo questa prospettiva, sarebbe necessario superare «ogni residuo dubbio interpretativo» sull'intrinseca natura penale della confisca, concludendo per un'attrazione di essa «nell'orbita garantista sostanziale» assicurata dai «principi di legalità della pena e di "colpevolezza"» di cui all'art. 25 Cost.
7.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
L'Avvocatura ritiene che la confisca prevista dalla norma impugnata non costituisca una sanzione penale, perché non è diretta a punire, ma a permettere all'amministrazione di recuperare l'area lottizzata, ripristinando la «situazione ambientale». La misura concernerebbe esclusivamente la tutela del territorio, come si dovrebbe dedurre dal fatto che l'amministrazione può scegliere se demolire l'opera o acquisirla al proprio patrimonio, e dal fatto che la confisca, pur disposta dallo Stato, opera a favore dell'ente locale.
L'Avvocatura aggiunge che la sentenza resa nel caso Varvara contro Italia, peraltro solo a maggioranza dei componenti della Corte europea, «desta allarme prima che perplessità», perché pone in questione il meccanismo «consolidato» delle sanzioni amministrative, indebolendo la risposta sanzionatoria nei confronti di condotte assunte in danno del territorio. Ciò comporterebbe la violazione degli artt. 9 e 42 Cost.
In ragione della prevalenza da attribuirsi a tali disposizioni rispetto alle norme della CEDU, l'Avvocatura reputa «nel potere della Corte costituzionale accertare e dichiarare» la inidoneità della Convenzione nel caso di specie «ad imporre la conformazione del diritto interno».
8.– Con memoria depositata il 18 dicembre 2014, l'Avvocatura ha ulteriormente sviluppato gli argomenti già enunciati per sostenere l'infondatezza della questione.
Dopo aver ripercorso il contenuto delle pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Sud Fondi srl e altri contro Italia e nel caso Varvara contro Italia, l'Avvocatura rileva che il «principio di diritto nazionale», affermato in quest'ultima sentenza, secondo cui non sarebbe possibile applicare una sanzione accessoria, come la confisca per la lottizzazione abusiva, in caso di reato estinto per prescrizione o per altra causa, non sarebbe sancito dalla Costituzione o da norme legislative dell'ordinamento nazionale e non troverebbe riscontro nel diritto vivente di fonte giurisprudenziale. Il legislatore nazionale avrebbe previsto, infatti, diverse ipotesi di confisca senza condanna, subordinandole all'accertamento della responsabilità colpevole dell'imputato. Il diritto vivente di origine giurisprudenziale avrebbe affermato un analogo principio in tema di confisca di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La possibilità della confisca senza condanna sarebbe prevista anche dal diritto dell'Unione europea (art. 4 della direttiva n. 2014/42/UE) e dal diritto internazionale (art. 54, paragrafo 1, lettera c, della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni unite contro la corruzione del 31 ottobre 2003).
Secondo l'Avvocatura, «L'applicazione della "pena" della confisca» anche in presenza di una sentenza di proscioglimento non costituirebbe un esito illogico o incomprensibile del processo penale. Infatti, se si attribuisse «all'etichetta "condanna penale" il significato di applicazione di una "pena" (intesa in senso ampio, ex art. 7, Cedu), la sentenza di proscioglimento con confisca [sarebbe], in realtà nella sostanza, una condanna, e dunque non [costituirebbe] un controsenso». Ricollegando all'espressione «"condanna penale" il significato di applicazione delle sole pene formalmente considerate tali dall'ordinamento nazionale», la confisca di cui all'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, non sarebbe ugualmente in «contraddizione» con il principio di legalità, in quanto essa, nell'ordinamento italiano, costituirebbe una sanzione amministrativa e non una pena. Il presupposto della condanna, infatti, andrebbe inteso non come categoria astratta, «ma solo come termine evocativo dell'accertamento della responsabilità che giustifica la sottrazione definitiva del bene».
Pertanto, qualora si ritenga che la sentenza della Corte europea resa nel caso Varvara «abbia inteso per "condanna" non la categoria formale, ma solo la pronuncia evocativa di un accertamento pieno accompagnato da tutte le garanzie difensive della responsabilità dell'imputato», la Corte dovrebbe adottare una sentenza interpretativa di rigetto. Ove si ritenga, invece, che tale sentenza affermi che il legislatore «non ha previsto» o «non poteva prevedere» un caso di confisca senza condanna, allora tale decisione, avente «valore sub-costituzionale» sarebbe in contrasto con i principi costituzionali che riservano alla Corte costituzionale e alla Corte di cassazione il compito di «definire il diritto vivente interno desumibile rispettivamente dalla Costituzione o dalle altre fonti del diritto», e con l'art. 25 Cost., che attribuisce al legislatore ordinario la competenza a «definire i presupposti di applicazione delle pene e dunque della confisca».
L'Avvocatura, inoltre, sottolinea che la regola affermata dalla Corte europea nel caso Varvara, secondo cui sarebbe priva di base legale e arbitraria la confisca disposta ai sensi dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, in assenza di una condanna penale, rischierebbe di pregiudicare i valori fondamentali del paesaggio, dell'ambiente, della vita e della salute, destinati a prevalere, in considerazione del rango sub-costituzionale della Convenzione e delle decisioni della Corte di Strasburgo. Inoltre, i valori in questione prevarrebbero nel bilanciamento con il diritto di proprietà, il quale non costituisce un diritto assoluto inviolabile, dovendo comunque essere rivolto ad assicurare una funzione sociale.
L'interpretazione dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, discendente dalla giurisprudenza europea, fornendo al diritto di proprietà una protezione maggiore di quella sancita in Costituzione, sarebbe in contrasto con il valore costituzionale primario del paesaggio di cui all'art. 9 Cost. Ugualmente, sarebbe violato il diritto alla salute, nella sua accezione di diritto ad un ambiente salubre, previsto dall'art. 32 Cost., e destinato a prevalere sul diritto di proprietà.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del 2014), la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), nella parte in cui vieta di applicare la confisca urbanistica «nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
La disposizione impugnata stabilisce che «La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite».
Il giudice rimettente è investito del ricorso proposto da numerose parti contro una pronuncia della Corte d'appello di Roma, che, rilevato il decorso del termine di prescrizione del reato, ha ugualmente disposto la confisca urbanistica di beni oggetto di lottizzazione abusiva, anche nei confronti dei terzi acquirenti di essi. Il giudice rimettente, dopo avere escluso di poter assolvere gli imputati ai sensi dell'art. 129 c.p.p., osserva che il capo della sentenza di merito concernente la confisca meriterebbe conferma, perché non emergono dagli atti «elementi incontrovertibili da cui possa escludersi» che gli acquirenti «fossero qualificabili come terzi di buona fede», come avrebbe adeguatamente illustrato la corte territoriale. Pertanto, l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo la lettura tradizionalmente seguita dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe comportato la confisca dei lotti unitamente alla pronuncia penale dichiarativa della prescrizione del reato.
Tuttavia, la Corte di cassazione reputa che, per effetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 29 ottobre 2013, Varvara contro Italia (ric. n. 17475 del 2009), la norma impugnata abbia assunto il significato che è preclusa la confisca dei beni quando non viene pronunciata una condanna per il reato di lottizzazione abusiva.
La misura non potrebbe perciò essere più adottata, quando il reato è prescritto, e nonostante sia stata, o possa venire, incidentalmente, accertata la responsabilità personale di chi è soggetto alla confisca.
Tale assetto appare al giudice a quo in contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in quanto esso determinerebbe una forma di iperprotezione del diritto di proprietà, nonostante il bene abusivo non assolva ad una funzione di utilità sociale (artt. 41 e 42 Cost.), con il sacrificio di principi costituzionali di rango costituzionalmente superiore, ovvero del diritto a sviluppare la personalità umana in un ambiente salubre (artt. 2, 9 e 32 Cost.).
2.– Con ordinanza del 17 gennaio 2014 (r.o. n. 101 del 2014), il Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui consente che la confisca urbanistica dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite venga disposta «anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione».
Il rimettente premette di procedere penalmente per il reato di lottizzazione abusiva nei confronti di un imputato, la cui responsabilità è stata dimostrata nel corso del dibattimento. Tuttavia, aggiunge, è maturata la prescrizione, con la conseguenza che si impone una pronuncia di non doversi procedere. In base al diritto vivente formatosi sulla norma in questione, sarebbe parimenti doveroso disporre la confisca dei beni oggetto di lottizzazione, posto che a tal fine è sufficiente che sia stata accertata la responsabilità di colui che la subisce, mentre non è richiesta la condanna penale. La lettera della disposizione impugnata, infatti, non menziona tale condanna, ma il solo accertamento della lottizzazione abusiva.
Il rimettente reputa, però, che tale ultima regola, fino ad oggi pacifica, sia entrata in collisione con l'art. 7 della CEDU, nell'interpretazione da ultimo adottata con la ricordata sentenza Varvara contro Italia. Con questa decisione, la Corte di Strasburgo avrebbe escluso la conformità al principio di legalità in materia penale di una confisca urbanistica applicata unitamente ad una sentenza dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione, e dunque in assenza di condanna.
Tale contrasto è all'origine dell'odierno dubbio di legittimità costituzionale, posto che il giudice rimettente esclude di poterlo risolvere in via interpretativa.
3.– Le questioni sono connesse, giacché vertono sulla medesima disposizione, e pongono problemi affini. È perciò opportuno disporre la riunione dei giudizi, affinché possano essere decisi con un'unica pronuncia.
4.– La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione è inammissibile, anzitutto perché erroneamente ha per oggetto l'art. 44, comma, 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalità, ovvero al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitamente ad una pronuncia di condanna penale.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito che il carattere sub-costituzionale della CEDU impone un raffronto tra le regole da essa ricavate e la Costituzione, e che l'eventuale dubbio di costituzionalità da ciò derivato, non potendosi incidere sulla legittimità della Convenzione, deve venire prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007; in seguito, sentenza n. 311 del 2009).
Il rimettente è convinto che, a seguito della sentenza Varvara contro Italia, l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, debba assumere, in via ermeneutica, il significato che la Corte di Strasburgo gli avrebbe attribuito, e che, proprio per effetto di un simile processo adattativo, tale significato si presti a rilievi di costituzionalità.
Questo modo di argomentare è errato sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, esso presuppone che competa alla Corte di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale, quando, al contrario, il giudice europeo si trova a valutare se essa, come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia, nel caso sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU. È pertanto quest'ultima, e non la legge della Repubblica, a vivere nella dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato.
Naturalmente, non è in discussione che, acquisita una simile dimensione, competa al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente ad essa (sentenza n. 239 del 2009), a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008).
Tuttavia, e in secondo luogo, sfugge al rimettente che il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007).
Il più delle volte, l'auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana.
Nel caso sottoposto al giudizio di questa Corte, perciò, il giudice a quo non avrebbe potuto assegnare, in sede interpretativa, all'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, un significato che la stessa Corte di cassazione reputa incostituzionale. La pretesa antinomia venutasi a creare tra il diritto nazionale interpretato in senso costituzionalmente orientato, e dunque fermo nell'escludere che la confisca urbanistica esiga una condanna penale, e la CEDU, che a parere del rimettente esprimerebbe una regola opposta, avrebbe perciò dovuto essere risolta ponendo in dubbio la legittimità costituzionale della legge di adattamento, in quanto essa permette l'ingresso nell'ordinamento italiano di una simile regola.
5.– La questione di legittimità costituzionale proposta dalla Corte di cassazione è inammissibile anche per difetto di motivazione sulla rilevanza.
Come si è visto, il rimettente ritiene che solo per effetto della sentenza Varvara sarebbe oramai preclusa l'applicazione della confisca urbanistica nei confronti dei terzi acquirenti dei beni lottizzati. In assenza di questa sopravvenienza, invece, avrebbe dovuto essere confermato il capo della sentenza di merito che aveva ordinato la misura ablativa, nonostante la prescrizione del reato. La motivazione in ordine alla applicabilità della regola di diritto tratta dalla giurisprudenza europea, e oggetto del dubbio di costituzionalità, è dunque legata al presupposto secondo cui, nel caso di specie, essa impedisce un effetto giuridico nel processo principale, che altrimenti si sarebbe prodotto. Tuttavia, è proprio tale motivazione a rivelarsi carente, per le ragioni che seguono.
Come è noto, la confisca urbanistica prevista dalla norma impugnata è una sanzione amministrativa (ordinanza n. 187 del 1998), che per lungo tempo la giurisprudenza nazionale ha ritenuto di poter disporre sulla base del solo fatto obbiettivo costituito dal carattere abusivo dell'opera, e dunque senza che fosse necessario muovere un addebito di responsabilità nei confronti di chi subiva la misura.
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare (sentenza n. 239 del 2009) che la situazione è mutata in seguito alla sentenza della Corte di Strasburgo 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia, con la quale si è deciso che la confisca urbanistica costituisce sanzione penale ai sensi dell'art. 7 della CEDU e può pertanto venire disposta solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti.
Si è aggiunto che, nel nostro ordinamento, l'accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l'imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l'autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede acquirente del bene (sentenze n. 239 del 2009 e n. 85 del 2008).
Naturalmente, non spetta a questa Corte soffermarsi sui limiti che l'ordinamento processuale può, di volta in volta e a seconda della fase in cui versa il processo, imporre al giudice penale quanto alle attività necessarie per giungere all'accertamento della responsabilità, benché si possa ravvisare in giurisprudenza una linea di tendenza favorevole ad un ampliamento di essi (ad esempio, Corte di cassazione, sezioni unite penali, 10 luglio 2008, n. 38834). Resta il fatto che, di per sé, non è escluso che il proscioglimento per prescrizione possa accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato (misura, quest'ultima, che il giudice penale è tenuto a disporre con la sentenza definitiva che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva ai sensi dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001).
È chiaro che, una volta recepito il principio enunciato dalla sentenza Sud Fondi srl e altri contro Italia, ed interpretato alla luce di esso l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, tale motivazione non costituisce una facoltà del giudice, ma un obbligo dal cui assolvimento dipende la legalità della confisca.
Sia che la misura colpisca l'imputato, sia che essa raggiunga il terzo acquirente di mala fede estraneo al reato, si rende perciò necessario che il giudice penale accerti la responsabilità delle persone che la subiscono, attenendosi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell'effettivo apprezzamento compiuto.
Ora, tali considerazioni chiariscono che il terzo acquirente di buona fede, che ha a buon titolo confidato nella conformità del bene alla normativa urbanistica, non può in nessun caso subire la confisca. Va poi da sé che l'onere di dimostrare la mala fede del terzo grava, nel processo penale, sulla pubblica accusa, posto che una "pena", ai sensi dell'art. 7 della CEDU, può essere inflitta solo vincendo la presunzione di non colpevolezza formulata dall'art. 6, comma 2, della CEDU (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 1° marzo 2007, Geerings contro Paesi Bassi).
Tornando al caso oggetto di giudizio, si è già ricordato che la Corte di cassazione è giunta alla conclusione dell'applicabilità della confisca nei confronti del terzo acquirente (impedita dalla sopravvenienza del divieto che sarebbe stato enunciato con la sentenza Varvara), osservando che non erano emersi dagli atti elementi incontrovertibili, che permettessero di escludere che i terzi acquirenti fossero in buona fede, e rinviando sul punto a quanto dedotto dalla Corte d'appello con la sentenza di merito.
Ora, fermo il pacifico divieto di integrare per relationem la motivazione dell'ordinanza di rimessione (ex plurimis, ordinanza n. 33 del 2014), è evidente che il giudice a quo, con tali espressioni, non ha affatto dato conto del superamento della presunzione di non colpevolezza del terzo, ma ha adottato un criterio di giudizio esattamente opposto, e perciò inidoneo a sorreggere la confisca. Ai fini della motivazione sulla rilevanza della questione, invece, sarebbe stato necessario argomentare il raggiungimento della prova della responsabilità del terzo acquirente, perché, seguendo il ragionamento del rimettente, solo in tal caso vi sarebbe stata la necessità di applicare la contestata regola di diritto tratta dal caso Varvara.
Nell'ipotesi opposta, al contrario, la confisca non avrebbe potuto essere disposta neppure in applicazione del "diritto vivente" che ha preceduto quest'ultima pronuncia della Corte EDU.
6.– Un'ulteriore causa di inammissibilità della questione sollevata dalla Corte di cassazione, e anche di quella sollevata dal Tribunale ordinario di Teramo, deriva dal fatto che entrambe sono basate su un duplice, erroneo presupposto interpretativo.
I giudici rimettenti, pur divergendo in ordine agli effetti che la sentenza Varvara dovrebbe produrre nell'ordinamento giuridico nazionale, sono convinti che con tale pronuncia la Corte EDU abbia enunciato un principio di diritto tanto innovativo, quanto vincolante per il giudice chiamato ad applicarlo, raggiungendo un nuovo approdo ermeneutico nella lettura dell'art. 7 della CEDU.
Il primo fraintendimento imputabile ai giudici a quibus verte sul significato che essi hanno tratto dalla sentenza della Corte di Strasburgo.
Nonostante le questioni siano state sollevate, in conformità ai casi oggetto dei giudizi principali, con specifico riferimento al divieto di adottare una misura riconducibile all'art. 7 CEDU unitamente ad una sentenza che abbia accertato la prescrizione del reato, è chiaro che il principio di diritto selezionato dai rimettenti mostra un respiro ben più ampio. La Corte europea, in definitiva, avrebbe affermato che, una volta qualificata una sanzione ai sensi dell'art. 7 della CEDU, e dunque dopo averla reputata entro questo ambito una "pena", essa non potrebbe venire inflitta che dal giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato. Per effetto di ciò, la confisca urbanistica, che fino ad oggi continuava ad operare sul piano interno a titolo di sanzione amministrativa, irrogabile anzitutto dalla pubblica amministrazione, pur con l'arricchimento delle garanzie offerte dall'art. 7 della CEDU, sarebbe stata integralmente riassorbita nell'area del diritto penale, o, per dirlo in altri termini, alle tutele sostanziali assicurate dall'art. 7 si sarebbe aggiunto un ulteriore presidio formale, costituito dalla riserva di competenza del giudice penale in ordine all'applicazione della misura a titolo di "pena", e perciò solo unitamente alla pronuncia di condanna.
Ne seguirebbe un corollario: l'illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia discrezionalità dal reato (ordinanza n. 159 del 1994; in seguito, sentenze n. 273 del 2010, n. 364 del 2004 e n. 317 del 1996; ordinanze n. 212 del 2004 e n. 177 del 2003), appena fosse tale da corrispondere, in forza della CEDU, agli autonomi criteri di qualificazione della "pena", subirebbe l'attrazione del diritto penale dello Stato aderente. Si sarebbe così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Per effetto di ciò, l'area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi oltre gli apprezzamenti discrezionali dei legislatori, persino a fronte di sanzioni lievi, ma per altri versi pur sempre costituenti una "pena" ai sensi dell'art. 7 della CEDU (Grande Camera, sentenza 23 novembre 2006, Jussila contro Finlandia).
I rimettenti, nell'enunciazione di una simile premessa, non colgono che essa si mostra di dubbia compatibilità sia con la Costituzione, sia con la stessa CEDU, per come quest'ultima vive attraverso le pronunce della Corte di Strasburgo.
6.1.– Su questo piano, non può sfuggire che l'autonomia dell'illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell'imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza n. 317 del 1996), corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l'ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n. 487 del 1989; in seguito, sentenze n. 447 del 1998 e n. 317 del 1996). Difatti, «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono [...] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n. 447 del 1998).
Tale principio, che si pone alla base delle scelte di politica criminale operate dal legislatore, si coniuga armonicamente, del resto, con lo sviluppo della giurisprudenza europea sull'autonomia dei criteri di valutazione della natura penale di una sanzione, ai fini dell'estensione delle garanzie offerte dall'art. 7 della CEDU, rispetto alla qualificazione che l'ordinamento nazionale offre della medesima sanzione.
Come è noto, la Corte EDU, fin dalle sentenze 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania, ha elaborato peculiari indici per qualificare una sanzione come una "pena" ai sensi dell'art. 7 della CEDU, proprio per scongiurare che i vasti processi di decriminalizzazione, avviati dagli Stati aderenti fin dagli anni 60 del secolo scorso, potessero avere l'effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della CEDU (sentenza 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania).
Non è stata perciò posta in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l'ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per i profili procedimentali semplificati connessi alla prima sede amministrativa di inflizione della sanzione. Piuttosto, si è inteso evitare che per tale via andasse disperso il fascio delle tutele che aveva storicamente accompagnato lo sviluppo del diritto penale, e alla cui difesa la CEDU è preposta.
In questo doppio binario, ove da un lato scorrono senza opposizione le scelte di politica criminale dello Stato, ma dall'altro ne sono frenati gli effetti di detrimento delle garanzie individuali, si manifesta in modo vivido la natura della CEDU, quale strumento preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l'effettività.
È infatti principio consolidato che la "pena" può essere applicata anche da un'autorità amministrativa, sia pure a condizione che vi sia facoltà di impugnare la decisione innanzi ad un tribunale che offra le garanzie dell'art. 6 della CEDU, ma che non esercita necessariamente la giurisdizione penale (da ultimo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, con riferimento ad una sanzione reputata grave). Si è aggiunto che la "pena" può conseguire alla definizione di un procedimento amministrativo, pur in assenza di una dichiarazione formale di colpevolezza da parte della giurisdizione penale (sentenza 11 gennaio 2007, Mamidakis contro Grecia).
È perciò da dubitare che la sentenza Varvara si sia davvero incamminata sulla via indicata da entrambi i giudici a quibus, introducendo un elemento disarmonico nel più ampio contesto della CEDU; né i rimettenti si sono adoperati per risolvere un simile dubbio, impiegando gli strumenti di cui dispongono a tal fine.
I canoni dell'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata debbono infatti trovare applicazione anche nei confronti delle sentenze della Corte EDU, quando di esse, anche per le ragioni che si diranno, non si è in grado di cogliere con immediatezza l'effettivo principio di diritto che il giudice di Strasburgo ha inteso affermare per risolvere il caso concreto (sentenza n. 236 del 2011).
In tali evenienze, non comuni ma pur sempre possibili, a fronte di una pluralità di significati potenzialmente compatibili con il significante, l'interprete è tenuto a collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest'ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione.
Nell'ipotesi definita dalla sentenza Varvara, questa Corte reputa che una tale attività per i rimettenti fosse doverosa e che il mancato esaurimento di essa li abbia indotti ad attribuire a questa pronuncia una portata che era invece tutta da verificare, anche alla luce del caso concreto.
6.2.– Questa Corte ha già affermato che «Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo [...] resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata» (sentenza n. 236 del 2011).
Nel caso Varvara, la Corte EDU, dopo aver preso atto che la confisca era stata disposta in ragione dell'oggettivo contrasto del piano di lottizzazione con la normativa urbanistica (paragrafo 22), e nonostante il reato fosse stato dichiarato estinto per prescrizione, ha concluso che l'applicazione al ricorrente di una "sanzione penale", quando il reato era estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta con il principio di legalità enunciato dall'art. 7 della CEDU (paragrafo 72). Questa disposizione infatti non si concilierebbe con la punizione di un imputato, il cui processo non si è concluso con una condanna (paragrafo 61).
La questione da risolvere, secondo i criteri appena enunciati dell'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, consiste allora nel decidere se il giudice europeo, quando ragiona espressamente in termini di "condanna", abbia a mente la forma del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione criminale ai sensi dell'art. 7 della CEDU, vale a dire l'accertamento della responsabilità.
Se si fosse realizzata quest'ultima alternativa, non vi sarebbe ragione di dubitare che essa corrisponda ad una regola già impostasi nell'ordinamento giuridico nazionale (sentenza n. 239 del 2009), la cui osservanza dipende perciò non dalla normativa vigente, che la contempla, ma dal modo con cui essa trova applicazione di volta in volta.
Parimenti, si tratterebbe di un principio tutt'altro che innovativo, e del tutto consono al più tradizionale filone della giurisprudenza europea, che, in base alla presunzione di non colpevolezza, non permette l'applicazione di una pena, quando la responsabilità di chi la subisce non sia stata legalmente accertata (tra le molte, sentenza 1° marzo 2007, Geerings contro Paesi Bassi, in materia di confisca). Del resto, l'assenza di significativi profili di innovazione ben spiegherebbe per quale ragione sia stata respinta la richiesta del Governo della Repubblica di sottoporre il caso Varvara al giudizio della Grande Camera.
Che sia proprio l'accertamento di responsabilità a premere al giudice europeo è ben argomentabile sulla base sia del testo, sia del tenore logico della motivazione svolta con la pronuncia Varvara. Qui si sottolinea, infatti, che l'art. 7 della CEDU esige una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato (paragrafo 71), poiché non si può avere una pena senza l'accertamento di una responsabilità personale (paragrafo 69). Non è in definitiva concepibile un sistema che punisca coloro che non sono responsabili (paragrafo 66), in quanto non dichiarati tali con una sentenza di colpevolezza (paragrafo 67).
Simili espressioni, linguisticamente aperte ad un'interpretazione che non costringa l'accertamento di responsabilità nelle sole forme della condanna penale, ben si accordano sul piano logico con la funzione, propria della Corte EDU, di percepire la lesione del diritto umano nella sua dimensione concreta, quale che sia stata la formula astratta con cui il legislatore nazionale ha qualificato i fatti.
Come si è già ricordato, nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità. Quest'ultimo, anzi, è doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica. Decidere se l'accertamento vi sia stato, oppure no, è questione di fatto, dalla cui risoluzione dipende la conformità della confisca rispetto alla CEDU (oltre che al diritto nazionale). Ed è appunto questo compito, che istituzionalmente le spetta in ultima istanza, che la Corte di Strasburgo ha assolto nel caso di specie, concludendo per la violazione del diritto, dato che era mancato un congruo accertamento di responsabilità.
Né va tralasciato che il giudice europeo deve essere messo nella condizione di valutare con cognizione la natura della sentenza dichiarativa della prescrizione, affinché sia posto in luce il contenuto di accertamento che essa può assumere (ed ha eventualmente assunto nel caso a giudizio) ove il legislatore lo richieda quale condizione per applicare contestualmente una sanzione amministrativa.
Si tratta quindi non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell'accertamento. La stessa Corte di Strasburgo, pronunciandosi in altra occasione sulla compatibilità con la presunzione di non colpevolezza di una condanna alle spese adottata nonostante la prescrizione del reato, ha infatti escluso di poter decidere la controversia sulla base della sola natura in rito della sentenza adottata dal giudice nazionale, senza invece valutare come quest'ultimo avesse motivato in concreto (sentenza 25 marzo 1983, Minelli contro Svizzera).
Questa Corte deve concludere che i giudici a quibus non solo non erano tenuti ad estrapolare dalla sentenza Varvara il principio di diritto dal quale muovono gli odierni incidenti di legittimità costituzionale, ma avrebbero dovuto attestarsi su una lettura ad esso contraria. Quest'ultima è infatti compatibile con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa, più armonica rispetto alla tradizionale logica della giurisprudenza europea, e comunque rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà in materia penale, nonché della discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli illeciti, con eventuale opzione per la (interna) natura amministrativa della sanzione.
Le garanzie che l'art. 7 della CEDU offre rispetto alla confisca urbanistica sono certamente imposte, nell'ottica della Corte di Strasburgo, dall'eccedenza che tale misura può produrre rispetto al ripristino della legalità violata (sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia), a propria volta frutto delle modalità con cui l'istituto è configurato nel nostro ordinamento.
Esse però non pongono in ombra che la potestà sanzionatoria amministrativa, alla quale tale misura è affidata prima dell'eventuale intervento del giudice penale, ben si lega con l'interesse pubblico alla «programmazione edificatoria del territorio» (sentenza n. 148 del 1994), alla cui cura è preposta la pubblica amministrazione. Un interesse, vale la pena di aggiungere, che non è affatto estraneo agli orizzonti della CEDU (sentenza 8 novembre 2005, Saliba contro Malta).
Allo stato, e salvo ulteriori sviluppi della giurisprudenza europea (in seguito al deferimento alla Grande Camera di controversie attinenti a confische urbanistiche nazionali, nei ricorsi n. 19029/11, n. 34163/07 e n. 1828/06), deve perciò ritenersi erroneo il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di costituzionalità, che la sentenza Varvara sia univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva.
7.– Entrambe le questioni sono altresì inammissibili, perché i rimettenti erroneamente hanno ritenuto di essere obbligati a recepire il principio di diritto che avevano ricavato dalla sentenza Varvara. In tal modo essi hanno attribuito all'art. 7 della CEDU un significato non immediatamente desumibile da tale disposizione, benché la pronuncia appena citata non fosse, con ogni evidenza, espressione di un'interpretazione consolidata nell'ambito della giurisprudenza europea.
Questa Corte non può che ribadire quanto affermato fin dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ovvero che alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell'art. 32 della CEDU. Si tratta di una «funzione interpretativa eminente» (sentenza n. 348 del 2007), con la quale si assicura che, all'esito di un confronto ermeneutico, tale da coinvolgere nel modo più ampio possibile la comunità degli interpreti, sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l'uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell'uomo.
Tuttavia, sarebbe errato, e persino in contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato.
Il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall'art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si «esprime l'esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l'indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun'altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto» (sentenza n. 40 del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell'ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento.
Certamente, il giudice comune non potrà negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata (sentenza n. 210 del 2013). In tale ipotesi «la pronunzia giudiziaria si mantiene sotto l'imperio della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa» (sentenza n. 50 del 1970).
Quando, invece, si tratta di operare al di fuori di un simile presupposto, resta fermo che «L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenza n. 349 del 2007).
Ciò non vuol dire, però, che questi ultimi possano ignorare l'interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione. Corrisponde infatti a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo.
Quest'ultimo, poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost., e comunque sull'interesse di dignità costituzionale appena rammentato, deve coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost., nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso. È in quest'ottica che si spiega il ruolo della Corte EDU, in quanto permette di soddisfare l'obiettivo di certezza e stabilità del diritto.
Questa Corte ha già precisato, e qui ribadisce, che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 303 del 2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).
È, pertanto, solo un "diritto consolidato", generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo.
Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai diritti dell'uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni, ammette l'opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera.
È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un'altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un'opzione di favore per l'iniziale confronto fondato sull'argomentare, in un'ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l'imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.
La nozione stessa di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell'art. 28 della CEDU, a riprova che, anche nell'ambito di quest'ultima, si ammette che lo spessore di persuasività delle pronunce sia soggetto a sfumature di grado, fino a quando non emerga un «well-established case-law» che «normally means case-law which has been consistently applied by a Chamber», salvo il caso eccezionale su questione di principio, «particularly when the Grand Chamber has rendered it» (così le spiegazioni all'art. 8 del Protocollo n. 14, che ha modificato l'art. 28 della CEDU).
Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all'impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una "sentenza pilota" in senso stretto.
Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un "diritto consolidato" o di una "sentenza pilota", il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all'incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest'ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l'eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un "diritto consolidato", è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.
7.1.– I rimettenti sono consapevoli che la sentenza Varvara, secondo la lettura che ne hanno dato, non riflette alcun orientamento consolidato della giurisprudenza europea, e, anzi, presuppongono dichiaratamente la carica innovativa dell'affermata incompatibilità con l'art. 7 della CEDU di un provvedimento di confisca adottato con una sentenza che contestualmente abbia accertato la responsabilità personale, anziché mediante una sentenza penale di condanna.
In questo contesto, entrambi i rimettenti avrebbero dovuto vagliare i profili di costituzionalità implicati dalla vicenda, muovendo dal presupposto che la sentenza Varvara non li vincolasse ad attribuire all'art. 7 della CEDU il significato che invece ne hanno tratto. La Corte di cassazione, inoltre, non avrebbe potuto in nessun caso sposare un'interpretazione che lo stesso giudice rimettente riteneva di dubbia costituzionalità.
L'erroneità del presupposto interpretativo sul vincolo derivante dalla sentenza Varvara determina un'ulteriore ragione di inammissibilità delle questioni.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, sollevata, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2015.
Sul triplice rilievo di Corte cost., sent. n. 49/2015, che ridefinisce i rapporti tra ordinamento nazionale e CEDU e sulle prime reazioni di Strasburgo
* Giusi Sorrenti** (7 dicembre 2015)
SOMMARIO: 1. Delimitazione dell’oggetto di queste brevi note. - 2. Quesito n. 1: le novità sulla natura e la portata del vincolo interpretativo dei giudici nazionali alle pronunce della Corte edu. - 3. Quesito n. 2 e quesito n. 3: un chiarimento sul rapporto tra interpretazioni “conformi a ...” e una netta presa di posizione sulle conseguenze dell’incostituzionalità della CEDU (e sulle modalità per farla valere). - 4. Conclusioni, alla luce della decisione della Corte edu – e della concurring opinion del Presidente Raimondi et al. – nel caso Parrillo.
1. Delimitazione dell’oggetto di queste brevi note
La sent. n. 49/2015 della Corte costituzionale torna ad incidere sui rapporti tra l’ordinamento nazionale e la CEDU, introducendo anche alcune autentiche innovazioni. I punti su cui si intende qui brevemente soffermare l’attenzione sono tre: la definizione dell’obbligo di assumere la Convenzione europea, ai fini del suo rilievo interno, nel significato ad essa assegnato dai giudici di Strasburgo; il rapporto tra il dovere di interpretazione convenzionalmente orientato e il dovere di interpretazione conforme a Costituzione; l’esatta individuazione dell’oggetto della questione di legittimità costituzionale.
Quanto al primo profilo, com’è noto, il vincolo dei giudici nazionali alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, affermato sin dalle sentt. nn. 3481 e 349 del 20072, è stato riformulato dal garante della legittimità costituzionale delle leggi a più riprese nel corso degli anni, suscitando ogni volta nuovi ed interessanti spunti di riflessione. Volendo richiamare per sommi capi le tappe dell’excursus giurisprudenziale, si può cominciare con il ricordare come inizialmente esso sia stato espresso senza alcun distinguo, in modo tale da far pensare ad una sua valenza assoluta e generalizzata, che «non pare ammettere né restrizioni, né condizionamenti, né eccezioni»3. Posto in questi termini, il vincolo interpretativo comuni e interpretazioni adeguatrici, Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 6 novembre 2009, Giuffré, Milano 2010, 178 e già B. RANDAZZO, La Cedu e l’art. 117 della Costituzione. L’indennità di esproprio per le aree edificabili e il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, in Giornale dir. amm.,
aveva destato qualche perplessità, soprattutto manifestata da chi richiamava l’attenzione sulla natura casistica dell’accertamento affidato alla Corte edu – volto ad appurare se nel caso concreto addotto dal ricorrente si fosse consumata una violazione del diritto invocato – natura che difficilmente avrebbe consentito di ricavare da tali accertamenti elementi sufficienti a delineare un modello normativo di garanzia di un certo diritto, cui poter raffrontare la disciplina generale posta da una legge nazionale4. Ne discendevano aporie di non facile superamento per l’impiego delle sentenze di Strasburgo nella ricostruzione del parametro che, alla stregua di fonte interposta eretta dall’art. 117, co. 1, Cost., avrebbe potuto determinare l’illegittimità della legge interna. A queste critiche solo in parte sopperiva la stessa Corte costituzionale, precisando che «ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo [...] resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata»5, così dando atto del salto di dimensione – dalla decisione in concreto alla definizione in astratto della portata normativa di un precetto CEDU – che l’invocazione parametrica della Convenzione richiedeva all’interprete e, innanzitutto, agli organi rimettenti. Peraltro, com’è noto, già nelle pronunce nn. 311 e 317 del 2009, la Corte mostrava di attenuare il rigore e la portata di quel vincolo, asserendo che «beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatosi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza»6.
Premesso questo excursus necessariamente fugace, è evidente che non è questa la sede idonea per ripercorrere compiutamente il dibattito che si è svolto sull’argomento, né per prendere posizione sui molteplici profili problematici presenti sul campo prima della pronuncia in commento: in che modo superare la natura casistica della giurisprudenza europea per ricavare da essa indicazioni interpretative generali utili ai fini dell’impiego in chiave parametrica della CEDU; come intendere il richiamo alla “sostanza” nella ricostruzione degli orientamenti interpretativi dei giudici d’oltralpe; ancora più in generale, come concepire il rapporto tra l’autorità di cosa interpretata e l’autorità di cosa giudicata delle sentenze europee, posto che quest’ultima in tesi dovrebbe essere rigorosamente limitata alle parti in causa, ma da qualche tempo viene sospinta ben oltre tali angusti confini, tanto da indurre a domandarsi, più puntualmente, se il vincolo all’esecuzione nei confronti dei giudici nazionali discenda solo dalle sentenze di condanna del nostro Paese – le uniche cui, il nostro ordinamento è tenuto a conformarsi ex art. 46, par. 1, CEDU – ovvero anche da quelle formulate verso qualcun altra delle Alte Parti contraenti7.
2008, 30.
4 V. F. CRISAFULLI, Intervento, in AA.VV., Corte costituzionale, giudici comuni, cit., 303 ss.
5 Sent. n. 236 del 2011 e, nello stesso senso, nn. 257 e 303 del 2011, nonché 15/2012.
6 Su tale complessiva evoluzione v. i numerosi contributi di A. RUGGERI, tra cui la Corte costituzionale“equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte edu, in Quad. eur., n. 36/2011 e Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in www.ConsultaOnLine, 17 marzo 2012 ed anche in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XVI, Studi dell’anno 2012, Torino, Giappichelli, 121 ss.
7 Sull’autorità di cosa giudicata, in particolare, v. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea, Milano, Giuffré, 2004, passim.
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Nello spazio ristretto del presente commento ci si vuole, invece, soffermare esclusivamente sulla novità costituta dalla scelta di circoscrivere il vincolo alle decisioni della Corte europea alle pronunce che costituiscano espressione di una «giurisprudenza consolidata», una formula questa che rappresenta (per il momento) l’ultimo approdo dell’evoluzione giurisprudenziale in materia e che indubbiamente vi apporta una significativa – e già da subito alquanto controversa – innovazione.
2. Quesito n. 1: le novità sulla natura e la portata del vincolo interpretativo dei giudici nazionali alle pronunce della Corte edu
L’espressione “giurisprudenza consolidata” sembra riprendere un suggerimento fornito tempo addietro da L. Condorelli, il quale, muovendo dall’argomento per cui l’attività della Corte di Strasburgo non è informata al vincolo al precedente giudiziario e si presenta di fatto caratterizzata da frequenti mutamenti di rotta, proponeva che gli effetti delle sentenze dei giudici alsaziani nell’ordinamento interno – ai fini dell’adeguamento interpretativo o del giudizio di legittimità sulle leggi – avrebbero dovuto essere circoscritti ai soli orientamenti stabilizzati8. A parte qualche pronta adesione9, il restringimento del campo delle pronunce europee rilevanti ha suscitato per lo più reazioni critiche10, anche in considerazione delle oscillazioni summenzionate che la giurisprudenza costituzionale ha lasciato registrare sul punto, incertezze in cui si è creduto di poter intravedere il segno di un atteggiamento «diffidente, e a dir poco ambiguo»11 del giudice delle leggi nei confronti della Convenzione del 1950.
Prima facie, l’espressione ora adottata riecheggia quel concetto che, con riferimento alle coordinate degli ordinamenti giuridici nazionali, è noto come “diritto vivente” – nozione che probabilmente non a caso non è stata in questa occasione menzionata dall’organo costituzionale di controllo – e, a causa di questa assonanza, difficilmente può aspirare a suscitare una positiva accoglienza, dato che esso sembra mal attagliarsi ai caratteri della giurisprudenza europea. È noto, infatti, come la formula “diritto vivente” sia stata elaborata per temperare l’assoluta centralità del testo attribuita nella attività di ricognizione della regola del caso dai giudici dell’Europa continentale, introducendovi un’adeguata considerazione del ruolo e dei
8 Il riferimento è a L. CONDORELLI, La Corte costituzionale e l’adattamento dell’ordinamento italiano alla CEDU o a qualsiasi obbligo internazionale?, in Dir. umani e diritto internaz., 2008, 310.
9 V. M. BIGNAMI, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente, in Dir. pen cont., spec. 4.
10 V., ad es. A. RUGGERI, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, in Dir. pen. cont., 2 apr. 2015; G. CIVELLO, La sentenza Varvara c. Italia non “vincola” il giudice italiano: dialoghi tra Corti o monologhi di Corti?, in Arch. pen., n. 1/2015 e N. COLACINO, Convenzione europea e giudici comuni dopo Corte costituzionale n. 49/2015: sfugge il senso della «controriforma» imposta da Palazzo della Consulta, in Rivista OIDU, n. 3/2015.
11 F. VIGANÒ, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su Corte cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, Pres. Criscuolo, Red. Lattanzi, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in Dir. pen. cont., 30 mar. 2015, 1.
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margini di scelta insiti nell’attività di concretizzazione giudiziale12: in questo modo si innestava sull’eccessivo formalismo dei sistemi di civil law un benefico influsso, proveniente dagli ordinamenti improntati al realismo giuridico, sia di stampo scandinavo che nordamericano. È chiaro tuttavia che in un sistema quale quello CEDU – in cui ben altro ruolo rispetto alle famiglie degli ordinamenti giuridici europei continentali assume il testo (svincolato dalla centralità della posizione riconosciuta in queste ultime al legislatore), in cui manca del tutto un ruolo sistematizzante della dottrina e, infine, domina il campo una giurisdizione di stampo casistico – la contrapposizione di un “diritto vivente” ad un “diritto sulla carta” finisce con l’avere ben poco significato: che la Convenzione si identifichi con le pronunce della Corte e non con il mero testo è un dato pressoché scontato e l’insistenza sul diritto quale vive nelle aule dei tribunali nulla aggiungerebbe al quadro teorico in cui si colloca l’applicazione della Convenzione.
Un diverso discorso – va detto per inciso – è da fare invece per la qualificazione della CEDU come living instrument, ovvero come documento vivente, che può essere suscettibile di interpretazione evolutiva, dando così ingresso nel sistema convenzionale di protezione dei diritti umani a nuove forme di garanzia in corrispondenza con l’emersione di inedite tipologie di aggressione cui possono risultare esposti i sottesi beni meritevoli di tutela. Qui infatti viene in rilievo non tanto – come nella categoria teorica sopra richiamata del diritto vivente – la capacità dell’interpretazione/applicazione giudiziale di cristallizzare, sincronicamente, il significato del testo in uno dei possibili significati alternativi da esso astrattamente desumibili, annettendo conseguentemente proprio a tale lettura valore normativo, quanto piuttosto l’idoneità del testo ad esprimere, diacronicamente, anche diritti e garanzie originariamente non riconducibili entro i confini della portata normativa del documento convenzionale, arricchendosi via via dei contenuti sempre nuovi ed ulteriori che l’evoluzione storica e delle forme della convivenza civile e sociale renda osservabili.
Riprendendo il filo del discorso, anche a prescindere dalle facili – ma tutt’altro che felici – assonanze sopra segnalate con il diritto vivente, che rendono il concetto di «giurisprudenza consolidata» a prima vista poco intellegibile nel contesto della giurisdizione internazionale europea, il riferimento a tale ultima nozione nella sent. n. 49 di quest’anno non manca di sollevare perplessità. È innegabile infatti il valore che ogni decisione della Corte edu assume in quanto tale, anche isolatamente considerata, soprattutto in un contesto incentrato su un’unica istanza dotata di giurisdizione esclusiva, valore che non risulta di per sé sminuito dalla circostanza per cui, pur ascrivendosi normalmente la giurisdizione dell’organo di Strasburgo alla matrice di common law, non sia logicamente predicabile per il suo operato il principio dello stare decisis, né abbia propriamente senso invocare l’esistenza di un vincolo giuridico formale al precedente. Come i giudici di Strasburgo hanno avuto modo di
12 V. la nota riflessione di T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, 352 ss.
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chiarire, infatti, «la Corte non è vincolata ai propri precedenti, ma usualmente li segue ed applica, nell’interesse della sicurezza giuridica e dell’ordinato sviluppo della sua giurisprudenza»13: se non si può propriamente parlare, dunque, per le ragioni appena dette, di precedente vincolante, esiste però una più che legittima (ed anzi doverosa) istanza di continuità che sta dietro la conformità delle pronunce dei giudici alsaziani ai propri precedenti, come riflesso, anzi condicio sine qua non, a sua volta, dell’esigenza di legittimazione della stesso organo giurisdizionale internazionale. Queste ragioni fanno sì che, pur non sussistendo formalmente un vincolo al precedente, l’usus della Corte edu sia ormai assestato – come ricorda il passo della pronuncia or ora riportato – sul rispetto delle proprie decisioni in casi simili, cosicché, a parte il canonico ricorso alla tecnica del distinguishing, che rimarca i fattori differenziali del caso oggetto di ricorso, i revirement – pur essendo di fatto non infrequenti – sarebbero in teoria possibili soltanto se giustificati da un’evoluzione delle condizioni normative o socio-culturali di riferimento, ovvero (eventualità invero alquanto rara) dal riconoscimento dell’inadeguatezza della pregressa giurisprudenza europea.
È evidente che, posta questa premessa, per restare coerenti con essa si deve trarre la conclusione che anche da una singola pronuncia può scaturire quel vincolo interpretativo ai fini del rilievo interno della Convenzione, senza alcuna necessità di attendere una ripetizione delle affermazioni di diritto in essa contenute in successive decisioni. Le ipotesi che la Corte costituzionale elenca quali indici di ricognizione di una giurisprudenza consolidata diventano per lo più, sulla scorta di questi presupposti, scarsamente intellegibili e suscettibili di critica: così accade per esempio per il richiamo alle decisioni della Grande Camera14, in quanto, se il riferimento a tali pronunce è inteso come volto ad escludere che le sentenze di ciascuna Camera15 possano avere di per sé effetti vincolanti, il restringimento del vincolo appare del tutto ingiustificato; ma lo stesso può dirsi per il riferimento alle sentenze-pilota, la cui peculiare caratteristica consiste solo nel decidere ricorsi che lamentano violazioni ripetitive e seriali, dovute a carenze di tipo sistemico o strutturale dell’ordinamento giuridico nazionale di riferimento16 e dunque in alcun modo possono essere
13 Corte edu, Cossey c. Regno Unito, 27 settembre 1990, § 35 (c.vo non testuale).
In argomento v. A. GUAZZAROTTI, Uso e valore del precedente CEDU nella giurisprudenza costituzionale e comune posteriore alla svolta del 2007, in www.diritti-cedu.unipg.it e A. RUGGERI, L’“intensità” del vincolo espresso dai precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo al piano dei rapporti tra CEDU e diritto interno e in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, in “Itinerari” dei una ricerca sul sistema delle fonti, XVII, Studi dell’anno 2013, 37 ss., spec. 43 ss.
14 La Grande Chambre, com’è noto, viene interpellata quando una Camera singola abbia ad essa rinviato un caso che solleva serie questioni di interpretazione della Convenzione, ovvero quando si prospetta un contrasto di giurisprudenza ex art. 30 CEDU; o ancora, in via eccezionale, quando un collegio di cinque giudici ammetta che, dopo la sentenza di una singola Camera e a richiesta di parte, il caso sia riesaminato dalla stessa, ex art. 43 CEDU.
15 Il garante della supremazia costituzionale fa eccezione per la sola sentenza che decide il caso sul quale il giudice nazionale si trova poi a doversi pronunciare.
16 Per l’osservazione di come sia ultroneo l’argomento tratto dall’espressione jurisprudence bien établie, contenuta nell’art. 28/1 lett. b), per avallare la distinzione tra giurisprudenza consolidata e non, v. V. ZAGREBELSKY, Corte cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, in RivistaAIC, n. 2/2015, 5 s.
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maggiormente espressive degli orientamenti costanti e stabilizzati della Corte d’oltralpe.
Tuttavia, un’attenta considerazione della vicenda che ha dato origine alle questioni di legittimità costituzionale risolte con l’odierna sent. n. 49 induce a prospettare un’ipotesi di rilettura, adeguatamente contestualizzata e precisata, dell’affermazione della Corte costituzionale, che ne ridimensiona l’impatto innovativo e la rende meno criticabile. Anticipandone i contenuti, l’ipotesi che si intende avanzare è che con la pronuncia in commento non si voglia negare il rilievo interno (interpretativo e parametrico) a qualsiasi sentenza della Corte edu, ma solo a quelle decisioni che contengano bruschi ed immotivati revirement rispetto all’orientamento pregresso. Per quanto la Corte costituzionale non introduca esplicitamente alcuna distinzione di questo genere, l’ipotesi appena delineata trae fondamento dalla specificità della vicenda a monte, che è bene dunque succintamente ripercorrere.
Com’è noto, le questioni suddette scaturiscono dalle condanne subite dall’Italia in relazione all’istituto della confisca per reati urbanistici e, precisamente, all’art. 44, co. 2, d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che «La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite». Il 20 gennaio 2002, dopo aver affermato che la confisca costituisce una sanzione penale, la Corte edu, nella sentenza Sud Fondi et al. c. Italia, condanna il nostro Paese perché «il reato rispetto al quale la confisca è stata inflitta alle ricorrenti non aveva alcuna base legale», il che rende arbitraria «l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni delle ricorrenti», con conseguente violazione dell’art. 1, Prot. n. 117. Per quanto i giudici di Strasburgo si reputino pertanto dispensati da ulteriori oneri di motivazione, ugualmente essi ritengono «opportuno fare alcune considerazioni sull’equilibrio che deve regnare tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo»18, osservando in proposito come non si sia avuto alcun riguardo per «la buona fede e l’assenza di responsabilità delle ricorrenti», in quanto «le procedure applicabili nella fattispecie non permettevano in alcun modo di tenere conto del grado di colpa o di imprudenza né, a dir poco, del rapporto tra la condotta delle ricorrenti e il reato controverso»19. Secondo il “diritto vivente” nazionale in seguito invalso in materia e riconducibile alla posizione della Corte di cassazione, la confisca prevista nel decreto del 2001 può essere (anzi deve) essere disposta dal giudice penale anche quando il reato di lottizzazione abusiva risulti ormai prescritto, sempre che sia stato in concreto accertato l’illecito in tutti i suoi elementi costitutivi, siano essi oggettivi o soggettivi, nonché con salvezza della posizione del terzo in buona fede. Alla luce del tenore delle precisazioni contenute nella sentenza Sud Fondi, il diritto vivente nazionale, che ammette la sanzione ablatoria pur in assenza di condanna per decorsi termini di prescrizione, ma in
17 Corte edu, caso Sud Fondi, cit., punto 137. 18 Ivi, punto 138.
19 Ivi, 139.
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presenza di un accertamento sostanziale – irrinunciabile – della fattispecie di illecito penale20, pare pertanto ancora compatibile (sempreché l’accertamento richiesto vi sia realmente stato, con le annesse garanzie processuali) con la posizione del guardiano della Convenzione del 1950.
Sennonché, come si sa, nella sent. Varvara c. Italia, 29 ott. 2013, la Corte edu addiviene ad una seconda condanna dell’Italia in merito allo stesso istituto, stavolta per violazione dell’art. 7 CEDU, sotto il profilo del divieto nulla poena sine iudicio, e dell’art. 6, par. 2, CEDU, laddove prevede la presunzione di innocenza di chi è soggetto a giudizio. Invero, sul punto – centrale – della possibilità di disporre la confisca in caso di proscioglimento per decorso dei termini di prescrizione, la pronuncia non è del tutto perspicua, dato che contiene affermazioni tra loro stridenti: mentre in un passaggio argomentativo vi si legge che «quando il reato è prescritto, non si può comminare una pena»21, altrove è scritto che è inconcepibile un sistema giuridico in cui una persona subisca una pena «senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza»22.
Il difetto di chiarezza ora segnalato si riflette puntualmente nelle reazioni dei commentatori e degli operatori giuridici nazionali rispetto ai quali la pronuncia spiega i suoi effetti. Quanto ai primi (dei secondi si parlerà più avanti), un’autorevole lettura suggerisce che, attenendosi al criterio dell’autonomia delle nozioni giuridiche impiegate nel sistema convenzionale rispetto a quelle nazionali, si sarebbe potuto agevolmente constatare come, laddove i giudici di Strasburgo esigono una «sentenza di condanna» per poter colpire il bene, essi fanno riferimento, conformemente al pregresso orientamento giurisprudenziale, ad un accertamento sostanziale di responsabilità e non invece ad un provvedimento emesso ai sensi dell’art. 533 c.p.p., come invece viene inteso dai giudici domestici con le lenti provenienti dall’adozione dei concetti giuridici e delle categorie dogmatiche nazionali23. Non sussisterebbe dunque, a ben vedere, secondo questa tesi, alcun mutamento del pregresso orientamento giurisprudenziale e la pretesa novità apportata dalla pronuncia del 2013 rispetto a quella del 2002 si rivelerebbe solo frutto di quei fraintendimenti che insidiosamente si annidano nel dialogo tra organi giudiziari appartenenti ad ordinamenti diversi e adusi ad impiegare linguaggi formalizzati tipici di due distinti universi giuridici: essa sarebbe, in breve, frutto di un “equivoco”, chiarito il quale la pronuncia Varvara non avrebbe suscitato tanto «sconcerto»24, né indotto la Corte costituzionale ad alcun “arroccamento difensivo”.
20 In questa possibilità di comminare la confisca pur in caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione, sulla base però di un immancabile accertamento di responsabilità, non si vede necessariamente una lesione del diritto di difesa dell’imputato, che concentrerebbe la sua strategia sull’obiettivo di far maturare i relativi termini, trascurando aspetti sostanziali della difesa (così G. GUARINO, Corte costituzionale e diritto internazionale: noterelle a margine della sent. 49/15, in ConsultaOnLine, 2/2015, 580 s.), in quanto non è pacifico che una tale condotta della parte sia in linea con l’esigenza – oggi progressivamente avvertita – di scongiurare forme di abuso del processo.
21 Corte edu, caso Varvara, cit., punto 60 della motivazione. 22 Ivi, punto 67 (c.vo non testuale).
23 V. ZAGREBELSKY, op. cit., 2.
24 Ibidem.
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Chiarimenti sul punto possono provvidamente giungere a breve dalla pronuncia della Grande Chambre, che è stata sollecitata a dire l’ultima parola sulla questione della lottizzazione abusiva dalla Sezione II della Corte edu, il 25 marzo 2015, in merito al ricorso Hotel Promotion Bureau s.r.l. c. Italia: a tale organo spetterà anche eventualmente prendere posizione in merito alle osservazioni avanzate con opinione parzialmente concorrente dal giudice Pinto de Albuquerque, che contesta, in virtù della sua preminente natura preventiva e non repressiva, la riconducibilità della confisca di cui all’art. 44 nell’alveo dell’art. 7 CEDU ed afferma la sua sindacabilità solo alla stregua dei requisiti di proporzionalità che devono assistere le limitazioni apponibili alla proprietà privata nell’interesse generale a norma dell’art. 1, Prot. 1.
Venendo ora alle reazioni degli operatori, la pronuncia ha prodotto due azioni consequenziali (sia pure di segno opposto) tra i giudici comuni. Da un lato, il tribunale di Teramo impugna il diritto vivente formatosi sull’art. 44, co. 2, d.P.R. 380/2001, «nella parte in cui consente che l’accertamento nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva – quale presupposto dell’obbligo per il giudice penale di disporre la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite – possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione», per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, nell’interpretazione europea data nel caso Varvara, all’evidente scopo di elidere la possibilità di comminare la confisca in caso di proscioglimento consentita dal diritto vivente ed adeguare la prassi giurisprudenziale nazionale ai (nuovi) paletti di Strasburgo; così facendo, il giudice di merito evidentemente assume l’interpretazione contenuta nella sentenza della Corte di Strasburgo come parametro di legittimità costituzionale della legge interna.
Dall’altro, la Corte di cassazione, sez. III – in un analogo caso in cui era ormai maturato il termine prescrizionale del reato di lottizzazione abusiva, pur essendo tuttavia emersa, nei precedenti gradi di giudizio di merito, la responsabilità degli imputati per il fatto illecito – solleva essa pure questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto lo stesso art. 44, co. 2, d.P.R. 380/2001, nella parte in cui, in forza dell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi»: in ciò i giudici di legittimità ravvisano un contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo invocato, tuttavia, non in riferimento all’art. 7 CEDU (principio di legalità in materia penale), bensì in relazione all’insieme delle fonti internazionali che impongono la tutela del paesaggio e dell’ambiente. Volendo ricostruire il legal reasoning dell’organo di nomofilachia, si vede come la Cassazione ribalta il proprio diritto vivente in virtù di un’interpretazione convenzionalmente orientata (sempre sulla scorta della sentenza Varvara), per poi dubitare della sua legittimità costituzionale alla stregua delle istanze di salvaguardia del paesaggio, dell’ambiente, della salute e dell’ordinato assetto urbanistico, irragionevolmente sacrificate sull’altare del diritto di proprietà, chiedendo dunque alla Corte costituzionale una decisione che si discosti
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dalla posizione europea, in nome di un diverso bilanciamento tra i valori coinvolti (sulla scorta di quanto già avvenuto ad es. nella sent. n. 264/2012, relativa alle c.d. pensioni svizzere ed ai limiti delle leggi di interpretazione autentica, in cui si presero le distanze dall’orientamento espresso dalla Corte edu nel caso Maggio). Anche la suprema istanza di legittimità dunque assegna rilievo alla pronuncia emessa dalla Corte europea nel caso Varvara, non tuttavia al fine di invocarla quale parametro bensì come modello cui orientare l’interpretazione della normativa interna (attenendosi all’obbligo di interpretazione conforme alla CEDU, che – com’è noto – costituisce l’unico strumento a disposizione del giudice comune per assicurare la preminenza della Convenzione nell’ordinamento nazionale una volta scartata l’opzione dell’applicazione diretta), salvo poi sospettare appunto fortemente della sua costituzionalità.
È evidente l’antiteticità dei due quesiti, rispettivamente posti dal tribunale di Teramo e dalla suprema istanza di legittimità. nonché il carattere ancipite del ruolo in essi separatamente assegnato alla pronuncia Varvara: una volta parametro di legittimità costituzionale (in quanto convenzionale) della legge interna, una volta oggetto della diversa questione di costituzionalità, in quanto pronuncia foriera di una lettura “saldata”, in via di adeguamento interpretativo, nella portata normativa della stessa legge nazionale25.
Quest’immediata ripercussione interna, nell’una e nell’altra modalità, è all’origine della presa di posizione della Corte costituzionale, soprattutto perché tanto i giudici di Teramo quanto quelli della cassazione mostrano di accreditare (gli uni ai fini della costruzione del parametro, gli altri ai fini dell’orientamento interpretativo della legge nazionale) la sopravvenuta sentenza dell’istanza giurisdizionale europea nel significato che sembra frontalmente disattendere l’affermazione del 2002. Delle due l’una, perciò: o i giudici europei hanno mutato il proprio orientamento, senza motivare in alcun modo il cambiamento di indirizzo, così minando quel principio di continuità giurisprudenziale su cui si regge la sua legittimazione (ed anche evidentemente l’“aggancio” dell’ordinamento nazionale, con lo stretto e serio condizionamento che ne consegue in termini di annullabilità della legge interna) oppure, non sussiste alcun overrulling, ma solo un’infelice e poco perspicua motivazione, che fa salva la coerenza del “cammino” giurisprudenziale in materia dei giudici europei.
La Corte costituzionale, tra l’altro, mostra chiaramente di propendere per questo secondo corno dell’alternativa, come si evince precisamente dalle affermazioni secondo cui nella pronuncia Varvara «non è stata (...) posta in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per i profili procedimentali semplificati connessi alla prima sede amministrativa di inflizione della sanzione. Piuttosto, si è inteso
25 Rimarca particolarmente questa differenza di impostazione tra le due ordinanze di rimessione F. VIGANÒ, La Consulta e la tela di Penelope, cit., 3
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evitare che per tale via andasse disperso il fascio delle tutele che aveva storicamente accompagnato lo sviluppo del diritto penale, e alla cui difesa la CEDU è preposta»26, nonché definitivamente dal seguente passaggio dell’iter argomentativo: «che sia proprio l’accertamento di responsabilità a premere al giudice europeo è ben argomentabile sulla base sia del testo, sia del tenore logico della motivazione svolta con la pronuncia Varvara. (...) Si tratta quindi non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento»27.
Si capisce allora perché il giudice delle leggi abbia imposto ai giudici nazionali l’onere, prima di far discendere le serie conseguenze annesse ad ogni nuovo arrêt di Strasburgo, di verificarne il consolidamento: è come se esso ammonisse indirettamente la Corte europea a salvaguardare la continuità dei propri indirizzi giurisprudenziali, poste le conseguenze che ne derivano in ambito interno, che consistono nell’annullamento della legislazione in materia, almeno quando – come nel caso di specie – la violazione dei precetti convenzionali si annidi nella legge, oppure a motivare più chiaramente i termini e le ragioni del revirement. Non qualsiasi sternuto a Strasburgo, in altri termini, è in grado di provocare uno tsunami nell’ordinamento interno.
Per inciso si può, a questo proposito, notare come, se fosse entrato già in vigore il meccanismo dell’advisory jurisdiction istituito dal Prot. n. 16 CEDU (attualmente peraltro siglato da sedici Stati), la Corte di cassazione in quanto giurisdizione superiore a ciò abilitata avrebbe potuto avvalersi della possibilità di chiedere un chiarimento interpretativo all’istanza internazionale, evitando la proposizione della questione, cosicché, dal canto suo, la Corte costituzionale avrebbe potuto attendere il chiarimento sopraggiunto tramite tale parere prima di decidere la questione eventualmente sollevata dal tribunale di Teramo. In alternativa, in mancanza della sollecitazione dell’advisory jurisdiction da parte della suprema istanza di legittimità, il giudice delle leggi avrebbe potuto richiedere esso stesso l’esercizio della istituenda funzione consultiva ai giudici d’oltralpe, sempreché ritenuto annoverabile tra le “giurisdizioni nazionali superiori” che, alla stregua del suddetto Protocollo, sono ammesse alla richiesta di pareri (inclusione che per la verità non risulta operata dal disegno di legge di attuazione dell’accordo internazionale attualmente all’esame del Parlamento italiano)28. Anzi, l’odierna vicenda si presta bene ad evidenziare una concreta utilità del nuovo strumento consultivo, che si rivela sin d’ora prezioso in situazioni di contrasto giurisprudenziale interno alla Corte di Strasburgo, dissipando le perplessità sul suo scarso rilievo operativo che, com’è
26 Sent. 49/2015, Punto 6.1. del Cons. in dir.
27 Ibidem, Punto 6.2. del Cons. in dir. (c.vo non testuale), ove si conclude, altrettanto chiaramente, che «i giudici a quibus non solo non erano tenuti ad estrapolare dalla sentenza Varvara il principio di diritto dal quale muovono gli odierni incidenti di legittimità costituzionale, ma avrebbero dovuto attestarsi su una lettura ad esso contraria. Quest’ultima è infatti compatibile con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa, più armonica rispetto alla tradizionale logica della giurisprudenza europea, e comunque rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà in materia penale, nonché della discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli illeciti, con eventuale opzione per la (interna) natura amministrativa della sanzione».
28 V. l’art. 3 del d.d.l. n. C3132.
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noto, sono state avanzate da quanti hanno rilevato, all’indomani della pubblicazione del Protocollo, come in presenza di un’ampia casistica giurisprudenziale europea difficilmente ci si sarebbe trovati dinanzi a dubbi interpretativi della Convenzione già non risolti da qualche pregressa decisione giurisprudenziale29.
Se i risultati della contestualizzazione della sent. n. 49, evidenziati da questa riflessione, sono corretti, non deve leggersi in essa alcuna sconfessione integrale e a priori del vincolo a qualsiasi pronuncia emessa dalle singole Camere della Corte edu. L’onere di verificare che i contenuti della sentenza europea corrispondano ad una giurisprudenza consolidata a mio avviso va circoscritto a quelle sole circostanze in cui sembri possibile ravvisare una forte discontinuità tra le sentenze della Corte europea, capace di provocare precise ricadute sulla compatibilità convenzionale di istituti interni, imponendo in questo caso ai giudici nazionali o di leggere le successive pronunce apparentemente contrastanti in conformità con i precedenti in materia – soprattutto in mancanza di qualsiasi menzione nelle motivazioni delle ragioni per discostarsi dal pregresso orientamento – ovvero, se si intende assegnare ad esse una portata dirompente, di attendere a tal fine i successivi chiarimenti che vengano addotti in sentenze posteriori (rese anche nei confronti di altri Paesi) o, più nettamente, una presa di posizione in merito della Grande Camera. Si pone il problema naturalmente per cui da un tale rinvio del momento in cui si verificheranno le conseguenze interne dell’accertamento della violazione convenzionale discenda una lesione dei diritti di chi si trova in posizione analoga a quella del ricorrente che ha sollecitato la condanna del nostro Stato, non riconosciuta come espressiva di giurisprudenza consolidata. Tale problema viene superato solo se ed in quanto l’annullamento della legge, quando dovesse giungere – in seguito al consolidamento della giurisprudenza europea e alla conseguente invocazione di essa come parametro nel giudizio sulle leggi ex art. 117, co. 1 Cost. – sia in grado di incidere positivamente, avendo effetto generale e retroattivo, anche nelle situazioni giuridiche dei soggetti menzionati, non divenute ancora definitive. Altrimenti permane, ma, nella lettura qui caldeggiata in dimensioni appunto più circoscritte rispetto a quelle che assumerebbe, se non si ritenesse di addivenire ad una interpretazione restrittiva dell’ambito di incidenza della sentenza in commento.
2. Quesiti n. 2 e n. 3: un chiarimento sul rapporto tra interpretazioni “conformi a ...” e una netta presa di posizione sulle conseguenze dell’incostituzionalità della CEDU (e sulle modalità per farle valere)
29 V., volendo, G. SORRENTI, Un’altra “cerniera” tra giurisdizioni statali e Corti sovranazionali? L’introduzione della nuova funzione consultiva della Corte di Strasburgo da parte del Protocollo n. 16 CEDU, in Forum di Quad. cost., luglio 2014, 1 ss. e ora in AA.VV., La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 CEDU, Atti del Convegno svoltosi a Milano-Bicocca il 10 marzo 2014, a cura di E. Lamarque, Milano, Giuffrè, 2015.
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Un'altra puntualizzazione che viene dalla decisione in commento si rinviene nella motivazione che sorregge la dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, sez. III. Quest’ultima, come si è visto, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, d.P.R. 380/2001, interpretato in senso conforme alla pronuncia della Corte edu (ed in senso opposto al proprio precedente orientamento), perché tale articolo, così inteso, determinerebbe una tutela sbilanciata a favore del diritto di proprietà, disattendendone tra l’altro lo stesso orientamento – costituzionalmente sancito – verso una funzione sociale. Una simile operazione è tuttavia viziata, in quanto – osserva il garante della supremazia costituzionale – non è ammissibile prima impiegare l’accordo internazionale (nella formulazione vivente derivante dalle sentenze di Strasburgo) per adeguare l’interpretazione della legge nazionale e poi sospettare dell’incostituzionalità della legge così riletta. L’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea è infatti condizionato alla conformità della Convenzione stessa alla Carta fondamentale – che costituisce un prius rispetto all’uso interpretativo dell’accordo convenzionale30 – e ne è conseguentemente preclusa l’osservanza, quando si reputa esistente un contrasto tra la CEDU e la Costituzione, prevalendo sulla dottrina dell’interpretazione convenzionalmente orientata quella dell’interpretazione adeguatrice rispetto alla Costituzione. In quest’ultima evenienza, il giudice nazionale avrebbe dovuto, dunque, intendere la legge nel significato che egli dimostra di reputare costituzionalmente compatibile – ovvero nel senso già in precedenza fatto proprio dal diritto vivente – e sollevare questione di costituzionalità, anziché sulla legge nazionale, sulla Convenzione del 1950 stessa, per il tramite della relativa legge di esecuzione.
Molto vi sarebbe da dire su questo preciso rapporto di priorità logica e cronologica che si instaura tra le due forme di interpretazione orientata31. Esso infatti mostra come l’unica forma di interpretazione adeguatrice dotata di un fondamento teorico autonomo sia costituita dall’interpretazione conforme al testo fondamentale, essendone, tanto l’interpretazione convenzionalmente orientata, quanto quella conforme al diritto dell’UE, due meri corollari, che emergono dalla prima naturaliter non appena la Convenzione europea da una parte ed il diritto dell’Unione dall’altra
30 Proprio a ciò credo debba intendersi allusivo il riferimento al «predominio assiologico» della costituzione effettuato nella sentenza in commento, che a taluno è parso in astratto discutibile: v. G. GUARINO, Corte costituzionale e diritto internazionale, cit., 568 ss.
31 Sulla pluralità di forme di interpretazione “conforme a ...” v. i diversi contributi in AA.VV., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, cit., e E. LAMARQUE, Le relazioni tra l’ordinamento nazionale, sovranazionale e internazionale nella tutela dei diritti, in Dir. pubbl., 3/2013, 786 ss., cui adde, da ultimo, sul terzo tipo di vincolo all’adeguamento interpretativo della legge nazionale attualmente gravante sul giudice italiano, quello rivolto verso il diritto dell’UE (che rimane in questa sede in ombra), A. BERNARDI, l’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea. Profili e limiti di un vincolo problematico, Napoli, Jovene, 2015.
Sull’ordine logico e cronologico tra di esse v., da ultimi, M. NISTICÒ, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2015, 188 ss. (in una prospettiva simile a quella qui accolta) e, con un diverso approccio, A. RUGGERI, A margine di M. NISTICÒ, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2015, in www.diritticomparati.it, par. 9.
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conseguono una “copertura” costituzionale nel nostro ordinamento e come conseguenza di tale riconoscimento. A questa tesi non si può dedicare qui purtroppo che un breve cenno, non apparendo questa la sede idonea ad argomentarla neppure sinteticamente.
Basti qui notare come il giudice delle leggi affermi a chiare lettere la preminenza dell’interpretazione conforme a Costituzione rispetto al secondo tipo di interpretazione orientata, rivelandone al strumentalità a garantire in ultima analisi il rispetto della Costituzione una volta che la CEDU è stata eretta a parametro interposto di legittimità costituzionale; evidenziando in tal modo, altresì, come la funzione interpretativa di un determinato testo normativo sia strettamente connessa alla sua acclarata funzione parametrica, di modo che, venendo meno quest’ultima, anche la prima non possa più in alcun modo dispiegarsi.
In occasione della precisazione di tale rapporto tra i due richiamati tipi di condizionamento ermeneutico, poi, il giudice delle leggi definisce anche, una volta per tutte, la conseguenza del contrasto tra la CEDU e la Costituzione. Dopo le perplessità iniziali seguite alle sentenze gemelle, infatti, com’è noto, la soluzione sembrava essersi attestata sulla sospensione dell’efficacia parametrica della norma CEDU di dubbia costituzionalità: tale soluzione era stata infatti quella prescelta nella sent. n. 264/2012, con cui il giudice delle leggi, com’è noto – discostandosi dalla posizione assunta dalla Corte edu sui limiti alla retroattività delle leggi di interpretazione autentica nel celebre caso Maggio e basandosi esclusivamente sull’applicazione di parametri interni – salvava la l. finanziaria per il 2007 di revisione del calcolo delle c.d. pensioni svizzere. Adesso invece, con una presa di posizione che appare come un ritorno al passato, ovvero a quella che era stata adombrata come conseguenza del conflitto CEDU/Costituzione nella sent. n. 348/2007, l’organo costituzionale di controllo puntualizza che, ove il giudice nazionale sospetti l’incompatibilità di un diritto di matrice convenzionale con il complessivo quadro costituzionale delle garanzie, deve impugnare la legge n. 848/1955 di esecuzione della Convenzione europea, operazione che presumibilmente preluderà, in caso di riscontro positivo del vizio addotto dal rimettente, ad una dichiarazione (parziale) di illegittimità costituzionale da parte del giudice delle leggi. Più precisamente, stante poi il fatto che, anche quale oggetto dei giudizi di legittimità, la Convenzione rileverà nel significato ad essa dato dalla Corte di Strasburgo, è lecito immaginare che la sentenza di accoglimento dell’organo costituzionale di controllo possa assumere la veste di un dispositivo interpretativo di accoglimento, volto a precludere l’applicazione della disposizione CEDU nella interpretazione europea censurata. Naturalmente, posto che non rientra nella disponibilità dei giudici nazionali un mutamento interpretativo in proposito, vista la posizione di esclusività in merito riconosciuta dalla Corte costituzionale italiana ai giudici di Strasburgo, l’unica conseguenza di tale pronuncia sarà quella di paralizzare a livello interno qualsiasi uso, sia interpretativo che parametrico, della norma CEDU come intesa a Strasburgo.
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È evidente che questo modus operandi richiesto dalla Corte costituzionale al giudice a quo – che consiste nel porre ad oggetto della questione di legittimità costituzionale la legge di esecuzione della CEDU e non la legge nazionale in contrasto con quest’ultima – non si riferisce, come qualcuno ha temuto32, a tutte le ipotesi in cui si profili una condizione di non-convenzionalità della legge nazionale, bensì solo ed esclusivamente a quelle in cui altresì il giudice rimettente ritenga il dettato convenzionale, come fatto vivere dai giudici d’oltralpe, non pienamente in linea con il quadro dei valori fatto proprio dalla Costituzione italiana: più esplicitamente, tale modalità di impugnazione valeva, con riferimento alle concrete questioni di legittimità costituzionale decise con la sent. n. 49, per la questione sollevata dalla Corte di cassazione – che infatti incorre proprio per tale motivo in una pronuncia di inammissibilità – ma non per quella prospettata dal tribunale di Teramo. Non sembrano porsi dunque tutti i dubbi operativi avanzati dalla dottrina da ultima richiamata circa l’estensione temporale della modalità di impugnazione appena indicata – chiedendosi, in particolare, se essa valga anche per il passato, decretando la sopravvenuta inammissibilità di tutte le questioni pendenti ovvero se sia introdotta solo pro futuro (come è più congeniale a tutte le modifiche che hanno un’incidenza processuale) – così come si ridimensionano notevolmente i timori paventati circa i negativi riflessi che da tale svolta della Corte costituzionale discenderebbero sul piano della piena adesione dell’Italia al sistema convenzionale di protezione dei diritti fondamentali.
4. Conclusioni, alla luce della decisione della Corte edu – e della concurring opinion del Presidente Raimondi et al. – nel caso Parrillo
L’ipotesi di inquadramento della sent. n. 49 qui prospettata, oltre a sembrare a chi scrive ragionevolmente fondata sulla attenta considerazione della natura della giurisdizione internazionale coinvolta e sulla adeguata contestualizzazione della decisione costituzionale, ha il merito di mitigare la portata restrittiva di essa nei confronti del vincolo dei giudici nazionali alle pronunce emesse dalla Corte edu. In questo modo la decisione si sottrarrebbe, almeno in parte, alle reazioni negative che ha suscitato, non solo in ambito interno ma anche in seno all’istanza giurisdizionale internazionale interessata.
Ci si riferisce precisamente all’opinione parzialmente concorrente annessa alla sentenza pronunciata dalla Corte edu il 27 agosto 2015, nel caso Parrillo, con la quale i giudici Casadevall, Raimondi (da novembre di quest’anno Presidente della Corte), Berro, Nicolau e Dedov ritornano sulla questione relativa all’assolvimento dell’obbligo del previo esaurimento dei rimedi interni da parte dei ricorrenti nell’ipotesi in cui questi, lesi nei loro diritti di matrice convenzionale ad opera di una legge nazionale, non abbiano sollecitato una corrispondente questione di legittimità costituzionale prima di rivolgersi all’istanza internazionale.
32 Ancora V. ZAGREBELSKY, op. cit., 8.
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Com’è noto, la questione si era posta a partire dal caso Costa e Pavan, quando il ricorso presentato dalla coppia di coniugi contro alcune inadeguatezze della l. n. 40/2004 era stato ritenuto ricevibile, in quanto in linea con l’obbligo di cui all’art. 35, par. 1, CEDU (che è presidio, com’è noto, della sussidiarietà del sistema convenzionale di protezione dei diritti), anche senza che fosse stato rimesso un corrispondente dubbio di legittimità costituzionale al garante della supremazia della Carta fondamentale: l’argomentazione fornita a questo fine dai giudici di Strasburgo faceva leva sul fatto che, in mancanza di un diritto dei singoli a ricorrere alla Corte costituzionale per lamentare la lesione di un loro diritto fondamentale compromesso da una legge interna (ossia dell’istituto del ricorso individuale di costituzionalità, omologo al recurso de amparo e alla Verfassungsbeschwerde), tale via di rimedio interna non potesse considerarsi effettiva, venendo così meno l’obbligo del suo preventivo perseguimento come condizione di ricevibilità del ricorso in sede europea. Nella concurring opinion i giudici europei in posizione minoritaria rilevano che tale valutazione merita di essere rivista alla luce delle sentenze gemelle del 2007 della Corte costituzionale italiana, in quanto queste impongono al giudice comune, che non sia in grado di pervenire ad una lettura adeguatrice della legge che la armonizzi alla CEDU, di rimettere la legge stessa al giudizio di costituzionalità ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. In virtù di tale obbligo, che consegue all’accentramento della risoluzione dei contrasti tra CEDU e legge nelle mani della Corte costituzionale – opzione fondamentale del sistema di adattamento alla Convenzione prescelto dal filone inaugurato dalle c.d. sentenze gemelle – si sarebbe così configurato, nell’ordinamento italiano, un corrispondente diritto delle parti ad ottenere il vaglio di legittimità costituzionale di una legge non in linea con i paletti fissati a Strasburgo. Ciò premesso – conclude nel suo ultimo passaggio l’argomentazione della concurring opinion – adesso, a seguito della sent. n. 49/2015, la situazione sarebbe nuovamente mutata, nel senso che, posta la relativizzazione dell’obbligo di assegnare efficacia parametrica ad ogni singola pronuncia della Corte di Strasburgo, ai fini della prospettazione del giudizio di costituzionalità, si affievolirebbe nuovamente la posizione della parte individuale, che cesserebbe ancora una volta di poter essere qualificata come un vero e proprio diritto all’esame della questione di convenzionalità della disciplina nazionale da parte del giudice delle leggi. Si tornerebbe in sostanza alla posizione cristallizzata nella sentenza Costa e Pavan, in cui chi si ritiene vittima di una violazione di un diritto convenzionalmente sancito, in ragione della insufficiente tutela ad esso accordata dalla disciplina interna, può rivendicarne la protezione direttamente davanti all’istanza internazionale regionale. E si ripropongono, correlativamente, i rischi di un’emarginazione di ritorno della Corte costituzionale rispetto alla cruciale opera di tutela dei diritti fondamentali.
Mentre, in sintesi, la posizione maggioritaria espressa nella sentenza Parrillo conferma l’orientamento della Corte edu per cui, negli ordinamenti in cui manca un ricorso diretto di legittimità costituzionale, il singolo non può considerarsi obbligato a percorrere la via del giudizio di costituzionalità prima di ricorrere a Strasburgo (e non assegna dunque rilievo particolare alla sent. n. 49), il ragionamento formulato nella
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concurring opinion suona come una sollecitazione al giudice delle leggi a rivedere le affermazioni contenute nella sent. n. 49, offendo “in contraccambio” l’introduzione dell’incidente di costituzionalità tra le vie di rimedio interne di cui la Corte edu pretende l’esperimento ai fini della ricevibilità del ricorso individuale.
La ricerca di nuovi, migliori equilibri, rispetto a quelli che risultano dagli ultimi riassestamenti dei rapporti tra le due Corti e dei rispettivi sistemi di tutela, come si vede, si impone.
** Associato di diritto costituzionale. Università degli Studi di Messina.
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