1. Il fondamento. Il sinallagma

Definizione di risoluzione. Quando si parla di risoluzione di un contratto si fa riferimento allo scioglimento del rapporto derivante dal contratto. La risoluzione si verifica quando il contratto non assicura più il soddisfacimento degli interessi dei contraenti e tale inidoneità può essere causata dal comportamento delle parti ma può anche dipendere da eventi non prevedibili e non imputabili

Sia nel caso della rescissione come della risoluzione, ad essere colpito è il sinallagma, cioè l’equilibrio delle prestazioni però mentre nella rescissione il difetto è "genetico" ossia originario, in caso di risoluzione è "funzionale", cioè sopravvenuto; in entrambi i casi il vizio del sinallagma può colpire i contratti a prestazioni corrispettive, dove le prestazioni sono legate da un nesso di interdipendenza funzionale.

La validità del contratto attiene al momento della conclusione, però un contratto concluso validamente può anche non produrre effetti per circostanze sopravvenute e in quest’ ultimo caso abbiamo la risoluzione.

Il sinallagma riguarda tutti quei contratti nei quali la prestazione a carico di ciascuna delle parti trova il proprio fondamento nella prestazione che è a carico dell’altra parte. Ciascuna delle prestazioni ha un senso solamente se considerata in relazione all’altra prestazione.
Galgano fa vari esempi di sinallagma , noi utilizzeremo l’esempio della compravendita ,dove il trasferimento della proprietà trova il suo senso nel pagamento del prezzo da parte dell’altro contraente e viceversa.
Il sinallagma possiamo vederlo nella prospettiva della causa , in riferimento alle reciproche attribuzioni.

Abbiamo due tipi di sinallagma :

- il sinallagma Genetico
- il sinallagma Funzionale

Il sinallagma genetico è il rapporto che lega la prestazione e la controprestazione al momento della conclusione del contratto.
Il sinallagma funzionale riguarda lo stesso rapporto che lega le prestazioni ma che viene considerato nel momento dell’esecuzione del contratto.

Quando noi parliamo di risoluzione facciamo riferimento ad un ipotesi in cui viene meno il sinallagma ; sinallagma che in un primo momento era sussistente.
Perché?
Perché in realtà se le prestazioni sono prive di causa fin dall’origine abbiamo la nullità del contratto stesso. Invece in caso di risoluzione (che in ultima analisi significa scioglimento del contratto ) si fa riferimento a tutte quelle ipotesi in cui questo nesso di corrispettività viene a cessare.

La risoluzione presuppone che vi sia un contratto concluso validamente, dal quale scaturisce un rapporto giuridico che presenta un rilevante squilibrio nel suo svolgimento, a causa di fatti successivi alla conclusione del contratto. Al contrario, la nullità e l’annullabilità si hanno in presenza di un contratto concluso invalidamente.
In altri termini, uno squilibrio rilevante del sinallagma genetico dà luogo all’invalidità del contratto (nelle due forme della nullità e dell’annullabilità); uno squilibrio rilevante del sinallagma funzionale dà luogo al rimedio della risoluzione, cioè dello scioglimento del rapporto derivante dal contratto, sorto validamente.

La risoluzione mira a riequilibrare la posizione economico-patrimoniale dei contraenti eliminando con efficacia ex tunc gli effetti del contratto e dunque essa incide sul rapporto e non sull’atto.

 

2. Le tre teorie sul fondamento della risoluzione

Parliamo innanzitutto del fondamento della risoluzione.
Nella struttura del contratto che cos’è lo scioglimento del contratto rappresentato dalla risoluzione,come lo possiamo classificare?
Abbiamo tre tesi (sono trattate in nota a pag. 200 del Di Majo, n.d.a.) :

Secondo la prima tesi, nel contratto a prestazioni corrispettive  abbiamo una condizione risolutiva tacita.
Cosa significa?
Significa che ciascuna promessa di prestazione è risolutivamente condizionata all’esecuzione della controprestazione. Si immagina che le parti (tacitamente, perché nel contratto non troveremo una clausola, al pari di quando vengono inserite le condizioni volontarie o qualunque altro elemento accidentale del contratto) non inseriscano espressamente nel contratto la condizione , però si intende che è come se la parti, figurando un contratto di questo tipo, abbiano tacitamente inserito una condizione risolutiva.
Ora qual è la caratteristica della condizione risolutiva?
E’ che il contratto produce effetto ed il verificarsi dell’accadimento futuro e incerto, oggetto della condizione risolutiva, farà venire meno l’efficacia del contratto.
Quindi secondo questa teoria il contratto produce normalmente i suoi effetti, l’inadempimento, cioè la mancata esecuzione di una delle due parti(che tutto sommato è un evento futuro e incerto visto che non possiamo sapere in anticipo che la parte non adempirà) agisce come una condizione risolutiva, nel senso che fa venire meno il contratto. Questo perché gli effetti della risoluzione nell’ordinamento italiano sono retroattivi .
Di Majo non è d’accordo con questa tesi perché non questa tesi non spiega il fondamento del diritto che ha il contraente adempiente ad ottenere oltre la risoluzione anche il risarcimento del danno. Questo è chiaro perché quando in un contratto vi è uno degli elementi accidentali quale condizione o termine e si avvera l’evento oggetto dedotto in condizione, non esiste un problema di responsabilità in via generale , le parti consapevolmente e liberamente hanno deciso che quel verificarsi della condizione farà venire meno gli effetti del contratto, ma non c’è un problema di responsabilità. Se noi allora consideriamo che la risoluzione del contratto è in realtà l’effetto dell’avverarsi di una condizione risolutiva come facciamo a giustificare il fatto che vi è anche un diritto al risarcimento del danno?
La seconda critica che viene sollevata a questa teoria è che non trova una sua collocazione l’intervento del giudice, che invece è molto importante e fondamentale nella risoluzione giudiziale(ruolo che preciseremo più avanti) ma in relazione al verificarsi di una condizione il giudice potrà soltanto accertare se l’evento dedotto in condizione si è verificato o meno ma non ha un potere discrezionale essenziale nel produrre l’effetto risolutivo .

La seconda teoria è quella che vede come fondamento della risoluzione l’assenza sopravvenuta della causa.
L’inadempimento di una parti per questa tesi rompe il sinallagma e fa si che le due prestazioni non sono più fondate su una causa perché quest’ultima è venuta meno.
Anche questa tesi viene criticata da DI Majo, il quale osserva che in realtà la causa è cmq un elemento essenziale del contratto ma non riguarda la fase dell’adempimento . La causa deve esistere nel contratto, ma non possiamo spostare questa rilevanza della causa nella fase dell’esecuzione del contratto. Inoltre (questa è il secondo appunto che fa Di Majo a questa tesi) se ci troviamo di fronte ad un semplice venir meno della causa rimane senza scopo l’intervento del giudice , che invece è un intervento importante.

La terza teoria sul fondamento è quella che possiamo definire “teoria della sanzione”.
Secondo questa tesi il contraente inadempiente viene sanzionato perdendo il diritto alla controprestazione. Tra gli effetti dello scioglimento del contratto vi è anche la liberazione del contraente adempiente dall’obbligo di effettuare la controprestazione.
Questa è la teoria che Di Majo ritiene essere la più convincente perché in effetti è una teoria che spiega per quale motivo nella risoluzione del contratto occorre guardare se vi è la colpa dell’inadempiente, cioè l’imputabilità dell’inadempimento dal punto di vista soggettivo al soggetto inadempiente..

 

3. Vi sono tre di fattispecie di risoluzione che però non sono ricondotte ad unità sul piano disciplinare:
- inadempimento (artt. 1453 / 1462 c.c..);
- impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 / 1466 c.c.);
- eccessiva onerosità sopravvenuta (artt. 1467 / 1469 c.c.)

 

3.A. L’inadempimento

La risoluzione per inadempimento può essere giudiziale (art. 1453), ossia pronunciata dal giudice con una sentenza costitutiva, oppure può operare automaticamente, di diritto, nei tre casi espressamente regolati dal c.c.

L’art. 1453: l’azione di adempimento e l’azione di risoluzione. L’azione di risarcimento danni
L’art. 1453 -la cui rubrica parla di “Risolubilità del contratto per inadempimento”- recita testualmente quanto segue:
<<Nei contratti con
prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione>>.

 

3.A.1 In caso di inadempimento del contratto a prestazioni corrispettive, la parte adempiente ha una doppia possibilità, può:
- agire per l'adempimento
- scegliere la risoluzione del contratto

Dalla lettura del detto articolo, si ricava che, nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può chiedere a sua scelta:

  • l’adempimento del contratto (azione di manutenzione),

oppure

  • la risoluzione del contratto: ossia che il contratto venga sciolto.

In entrambi i casi, il contraente non inadempiente ha il diritto di pretendere il risarcimento dei danni subiti.

Di fronte all’inadempimento di una delle parti, l’altra ha la possibilità di fare 2 scelta:
1)Se non ha ancora adempiuto può opporre l’eccezione di inadempimento e così rifiutarsi di adempiere a sua volta;
2)Se invece la parte ha adempiuto può costituire in mora la controparte debitrice in vista di un adempimento tardivo o per iniziare un giudizio volto ad ottenere la condanna ed agire, in caso di inosservanza della condanna,con l’esecuzione forzata; nel caso in cui però la parte possiede titolo esecutivo, come una cambiale, allora può agire senza aspettare la previa condanna;
Nel caso in cui la parte adempiente non abbia interesse all’adempimento tardivo o alla realizzazione coattiva del proprio credito potrà scegliere la strada della risoluzione del contratto.

Le due strade hanno in comune: l’obbligo risarcitorio che grava sulla parte inadempiente per l’illecito contrattuale commesso

3.A.2 Rapporto tra l’azione di risoluzione e quella di risarcimento

L'azione di risarcimento.
La parte non inadempiente, sia che abbia chiesto l’adempimento sia che abbia chiesto la risoluzione, ha il diritto di pretendere il risarcimento dei danni subiti.
A tale proposito la dottrina ritiene che la domanda di risarcimento possa essere chiesta anche autonomamente rispetto alla domanda di adempimento o di risoluzione. Pertanto la condanna a risarcire il danno può essere pronunciata a che se la domanda di risoluzione è,stata respinta.

La quantificazione del danno.
I danni vanno calcolati in modo diverso nelle due ipotesi.

Difatti, se egli insiste per la manutenzione del contratto, significa che l’adempimento della controparte è ancora possibile e che ci si trova di fronte ad un semplice ritardo: il contraente non inadempiente potrà pretendere sia l’esecuzione della prestazione originariamente spettantegli (es: il completamento dell’opera che l’appaltatore si era impegnato a realizzare), sia il risarcimento del danno per aver ricevuto l’adempimento in ritardo e sarà tenuto a ricevere la prestazione dell’altra parte e ad eseguire la controprestazione da lui dovuta.

Viceversa, quando, il contraente non inadempiente – di fronte all’inadempimento della controparte- chiede la risoluzione, non dovrà più eseguire la controprestazione, oppure, ove l’abbia già eseguita, avrà diritto di chiedere la restituzione (sent Cass. n°15461/2016). In questo caso il risarcimento non si aggiunge al diritto di ottenere la prestazione promessa, ma si sostituisce al pregiudizio che il contraente ha subito per non aver ricevuto la prestazione (inadempimento assoluto)
Il danno risarcibile è quello derivante dal c.d. interesse positivo, però nel caso di pronuncia di risoluzione per quantificare il danno risarcibile si dovrà tenere conto di ciò che il creditore lucra per non dover più adempiere la propria prestazione e della utilità che ha ricavato dall’operazione economica effettuata prima della risoluzione.

Per quanto riguarda l’onere della prova :
il creditore deve provare la fonte del suo diritto
al debitore spetta provare il fatto estintivo del ,diritto stesso.

Rapporto tra l’azione di risoluzione e quella di risarcimento
L'inadempimento di scarsa importanza impedisce la pronuncia di risoluzione del contratto ma non preclude la pronuncia di risarcimento del danno.
Il principio è pacifico in giurisprudenza e lo troviamo ribadito in Cass. 16/06/2016 n. 12466, la quale ribadisce che <<Il rigetto della domanda di risoluzione contrattuale determinato dalla scarsa importanza dell'inadempimento non comporta necessariamente il rigetto della contestuale domanda di risarcimento, giacché anche un inadempimento inidoneo ai fini risolutori può aver cagionato un danno risarcibile>>.

 

3.A.3 Il rapporto tra l’azione di adempimento e l’azione di risoluzione

 

Il rapporto tra l’azione di adempimento e l’azione di risoluzione: art. 1453, 2° comma.

L’Art. 1453 detta delle regole di tutela sia per la parte adempiente che per quella inadempiente in relazione sia all’adempimento che alla risoluzione.

1) L’azione di adempimento interrompe la prescrizione dell’azione di risoluzione , essendo entrambe rivolte a tutelare il diritto alla prestazione.
La risoluzione può essere chiesta anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, questo succede perché l’interesse del creditore all’adempimento può sempre venir meno con il tempo e dunque egli deve sempre poter avvalersi della risoluzione.
La giurisprudenza ammette questo mutamento di domanda in corso di giudizio che sopravvive anche alla sentenza di condanna ad adempiere (ovviamente fino al momento precedente all’adempimento).
In particolare, la giurisprudenza ammette pacificamente la proposizione contestuale, cioè in un’unica citazione, della domanda di adempimento, in via principale e della domanda di risoluzione, in via subordinata (Cass. ‘86/5235).

2) Non è possibile chiedere l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione perché la parte inadempiente può trovarsi nella condizione di non poter più adempiere alla propria obbligazione nemmeno volendo a causa della scelta della risoluzione.(Per questo è esclusa la preclusione ove il creditore dimostra che il debitore non ha interessi ad opporsi alla domanda di adempimento .E’ esclusa la preclusione ,secondo la giurisprudenza maggioritaria se viene meno , successivamente alla domanda ,l’interesse del creditore alla risoluzione. In tal modo però il debitore non può ritenersi libero dall’adempimento , pur se il creditore inizi il giudizio di risoluzione , ma ciò contraddice la ratio della norma).
La ratio del divieto è posta ben in evidenza da Cass. 16/06/2016 n. 12466, nella cui motivazione si legge testualmente quanto segue: <<non è consentito all'attore che abbia proposto domanda di risoluzione pretendere la prestazione, avendo dimostrato di non avere più interesse al relativo adempimento...>>.

Qual è il motivo di questa doppia regola e quindi di questa differenza?
Il motivo è che quando viene chiesta la risoluzione il sogg. dimostra di non avere più interesse a quel contratto ,tant’è vero che pur avendo la possibilità di chiedere l’adempimento in via coattiva , ha scelto di chiedere la risoluzione. Il contraente che è inadempiente prende atto di questa scelta e ha, ferma restando la sua responsabilità , la libertà di disporre diversamente della sua prestazione, la possibilità di dire: “d’accordo, lui mi ha chiesto la risoluzione del contratto. Sono inadempiente , ne pagherò le conseguenze, sarò tenuto al risarcimento del danno, però nel frattempo questo stesso bene me lo vendo ad un altro soggetto. ”
Abbiamo usato spesso l’esempio del valore di mercato del bene , soprattutto per qualificare il danno risarcibile contrattuale . Ora: l’ipotesi più banale è quella del sogg. che non adempie perché è negligente , però magari possiamo anche trovare dal punto di vista economico vere e proprie scelte di non adempiere e di subire la risoluzione quando magari il soggetto inadempiente ha ricevuto un offerta per quel bene molto più vantaggiosa, dunque in questo singolo caso è più conveniente subire la risoluzione e i suoi effetti.


3) Si disciplina l’ipotesi di adempimento successivo alla domanda di risoluzione; in linea di massima il debitore non può più adempiere, una volta iniziato il giudizio di risoluzione, perché il creditore ha manifestato di non aver interesse ad un adempimento tardivo.

Prima di iniziare l’azione di risoluzione , il creditore deve mettere in mora il debitore ?
La dottrina ritiene che il creditore non debba costituire in mora il debitore nell’ipotesi di inadempimento grave e definitivo, mentre diversa è la situazione nel caso in cui l’inadempimento è grave ma la prestazione è ancora possibile. Perché in tal caso la costituzione in mora prima del inizio del giudizio di risoluzione deriverebbe dal fatto che il mancato adempimento potrebbe generare nel debitore l’affidamento circa la tolleranza del ritardo. La messa in mora però non è dovuta poiché 1) perché la tolleranza presuppone circostanze ulteriori rispetto alla semplice inerzia , 2)perché anche se il debitore offrisse l’adempimento , il debitore potrebbe comunque rifiutarlo se è venuto meno il suo interesse e agire per risoluzione. Ecco perché la messa in mora è necessaria solo se la prestazione va eseguita la domicilio del debitore.

 

Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (Art. 1455). La dottrina è divisa per quanto riguarda l’individuazione dell’importanza dell’inadempimento:

  • interpretazione oggettiva: secondo la quale la norma ha riguardo alle prestazioni così come dedotte in contratto e dunque si tiene presente il profilo funzionale.
  • interpretazione soggettiva: secondo la quale si deve risalire alle volontà delle parti per valutare fino a che punto un certo inadempimento è da valutare importante.
  • La giurisprudenza ricerca una via intermedia: può rilevare anche l’inadempimento ad una prestazione accessoria se far venir meno l’utilità di quella principale e non sia dunque di scarsa importanza .Viceversa di scarsa importanza può essere un inadempimento parziale della prestazione principale.

Molto discusso è il fondamento giuridico della risoluzione per inadempimento e probabilmente è nel vero quella dottrina che non concede rilevanza al problema perché dice che è nella logica delle cose eliminare gli effetti di un contratto restato lettera morta ; quindi oggetto di discussione invece resta il modo con cui si perviene a tale risultato.

Al contrario la giurisprudenza si è posto il problema della qualificazione soggettiva dell’inadempimento, infatti ci si chiede se sia sufficiente un inadempimento come oggettivo comportamento del debitore o sia necessario un inadempimento colposo. La giurisprudenza risolve il problema in chiave soggettiva perché l’illecito è escluso se l’inadempimento è provocato da motivi apprezzabili oggettivi e dunque in questo modo la risoluzione diventa rimedio sanzionatorio, satisfattorio per il creditore e afflittivo per il debitore inadempiente.

 

3.A.4 Risoluzione giudiziale e Risoluzione volontaria (o di diritto)

Sul piano procedimentale quindi , i modi in cui si attua la risoluzione sono 2, a seconda che vi sia o non vi sia una sentenza, e si parla allora di risoluzione di diritto e di risoluzione giudiziale.

Nella risoluzione giudiziale è il giudice che produce l’effetto della risoluzione e dove quindi l’intervento del giudice è essenziale perché valuta l’esistenza dei presupposti della risoluzione stabilendo se quel contratto deve essere risolto o meno. Se la verifica ha esito positivo, solo la sentenza scioglie il contratto.
Questa è a risoluzione giudiziale.

Abbiamo poi la categoria delle risoluzioni volontarie , che vengono definite anche risoluzioni di diritto . Nella risoluzione volontaria o di diritto, in teoria, l’intervento del giudice non sarebbe nemmeno necessario

3.A.4.I Risoluzione volontaria (o di diritto):
- Clausola risolutiva espressa (art. 1456);
- Diffida ad adempiere (art. 1454);
- Termine essenziale (art. 1457).

 

  • DIFFIDA AD ADEMPIERE: la parte adempiente anziché chiedere la risoluzione, fissa al debitore un termine per adempiere trascorso il quale il contratto si intenderà risolto.

In presenza di una clausola risolutiva espressa, la risoluzione si verifica soltanto quando la parte non inadempiente comunichi all’altra parte che intende avvalersi di tale facoltà, risolvendo il contratto. Tale comunicazione produce gli stessi effetti della domanda giudiziale di risoluzione.
La clausola risolutiva espressa supera la necessità di una valutazione giudiziale della gravità del’inadempimento. Sono le parti stesse ad aver valutato ex ante, nel determinare il contenuto della clausola, le violazioni ritenute sufficientemente gravi da comportare la risoluzione.
Tuttavia, anche in presenza di una clausola risolutiva espressa potrà intervenire il giudice. Ciò potrebbe avvenire qualora tra le parti insorga una lite sull’operatività della clausola. In questo caso la sentenza del giudice ha natura dichiarativa e non costitutiva. Il giudice si limita ad accertare che la risoluzione si è già verificata o meno

La dichiarazione di diffida ad adempiere è un negozio unilaterale recettizio che pretende la forma scritta; deve contenere la fissazione di un termine per l’adempimento che sia di almeno 15 giorni, a meno che per la natura del contratto risulti congruo un tempo inferiore; il termine decorre dal momento della recezione della diffida. Inoltre la parte adempiente deve intimare l’adempimento e per questo motivo la legge vuole che la diffida contenga l’avvertenza espressa che, in caso di mancato adempimento entro il termine, il contratto si intenderà risolto.
In pendenza del termine di adempimento, il creditore non può chiedere né l’adempimento, né la risoluzione, né può procedere ad esecuzione forzata a meno che il debitore dichiari per iscritto di non voler adempiere.

Qualsiasi eventuale contestazione sarà decisa con una sentenza di accertamento.

  • CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA: I contraenti possono stabilire espressamente che il contratto si risolva qualora una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite; questa clausola risolutiva è parte del contratto, ma può anche essere pattuita con atto autonomo che però dovrà avere la stessa forma del contratto a cui si riferisce.

Le parti devono indicare quali obbligazioni devono essere adempiute a pena di risoluzione, ma se l’indicazione è generica allora il riferimento si riferisce al complesso delle pattuizioni e la clausola non avrà nessun valore; l’inadempimento deve essere imputabile sul piano della colpa al debitore ma non deve essere necessariamente grave ,per cui in questo caso non trova applicazione l’Art. 1455 circa l’importanza dell’inadempimento, ove appunto ci sia una clausola risolutiva espressa.

La risoluzione non è automatica, cioè non consegue de iure al mancato adempimento dell’obbligazione perché la parte interessata deve dichiarare all’altra parte che intende avvalersi della clausola risolutiva; infatti rispetto al momento in cui la clausola è sta pattuita potrebbe sopravvenire un interesse del creditore all’adempimento tardivo e questo interesse verrebbe frustrato se la risoluzione fosse automatica.
La dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva ha natura negoziale, cioè si tratta di un negozio unilaterale recettizio non formale che può essere contenuto in un atto di citazione con cui si chiede la condanna del debitore a restituire quanto ricevuto. E’ possibile che il creditore rinunzi alla facoltà di avvalersi della clausola e questa rinunzia può essere espressa ma anche conseguente ad un comportamento in equivoco incompatibile con la volontà di risolvere il contratto.

In presenza di una clausola risolutiva espressa potrà intervenire il giudice. Ciò potrebbe avvenire qualora tra le parti insorga una lite sull’operatività della clausola. In questo caso la sentenza del giudice ha natura dichiarativa e non costitutiva. Il giudice si limita ad accertare che la risoluzione si è già verificata o meno

  • TERMINE ESSENZIALE: se si considera essenziale il termine fissato per la prestazione di una delle parti, questa se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine deve darne notizia all’altra parte entro 3 giorni, in caso contrario il contratto si intende risolto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione (salvo patto o uso contrario).

Si pensi ai biglietti per una partita: se i biglietti mi vengono consegnati successivamente all’evento, è chiaro che quello era un termine essenziale. L’inadempimento della prestazione dopo la scadenza del termine essenziale è causa di risoluzione di diritto del contratto.

Questa terza ipotesi di risoluzione di diritto presenta analogie ma anche diversità con quella della clausola risolutiva espressa; in entrambi i casi la risoluzione consegue al modo con cui è stato fissato il regolamento contrattuale o perché c’è una clausola espressa o perché c’è un termine essenziale, ne consegue che anche nel caso del termine essenziale non si applica l’Art. 1455 cioè l’indagine sull’importanza dell’inadempimento purchè sia imputabile al debitore.
Il termine essenziale, a differenza della clausola, opera automaticamente ma l’effetto risolutorio può essere evitato da una espressa dichiarazione del creditore, che deve avere carattere negoziale e forma libera, con la quale il creditore dichiara, entro 3 giorni, di avere interesse ad un adempimento tardivo.

Circa il momento in cui il contratto deve ritenersi risolto ci sono due teorie :
1)secondo taluni allo scadere dei tre giorni successivi all’inadempimento
2)secondo altri al momento dell’inadempimento

Secondo la dottrina l’essenzialità del termine potrebbe desumersi dalla volontà dei contraenti (in questo caso si parla di essenzialità soggettiva che risulta da una dichiarazione espressa o tacita dei contraenti), o dalla natura del contratto o dalle modalità della prestazione. (in questo caso si parla di essenzialità oggettiva .Es. torta matrimoniale per il giorno del matrimonio )
Nell’essenzialità soggettiva il termine deve essere indicato in modo preciso e rigoroso e le dichiarazioni sulla inderogabilità devono essere inequivoche Anche in tal caso il termine essenziale può essere rinnovato dalla parte interessata.

Qualsiasi eventuale contestazione sarà decisa con una sentenza di accertamento

La risoluzione del contratto per scadenza del termine essenziale è oggetto della seguente sentenza (sent Cass. n°14426/2916).

Esame di casi giurisprudenziali.

  1. la non scarsa importanza dell’inadempimento della controparte ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento (sent Cass. n°12466/2016 e Tribunale di Massa n°681/2016);
  2. la domanda di restituzione delle prestazioni già eseguite (sent Cass. n°15461/2016 e Tribunale di Massa n°681/2016);
  3. la risoluzione di diritto per scadenza del termine essenziale (sent Cass. n°14426/2016).

 

Le risoluzioni volontarie appartengono al campo di quelli che Di Majo chiama rimedi consensuali. In questa categoria Di Majo vi fa rientrare tutte quelle forme che possiamo definire di autotutela: siamo sempre nell’ambito del contratto e sono quelle forme in cui la legge fornisce alle parti degli strumenti di tutela e da la possibilità alle parti di gestire privatamente e non attraverso l’autorità giudiziaria tali strumenti di tutela.
Diffida ad adempiere ,clausola risolutiva espressa e termine essenziale (ma soprattutto le prime due ) ,come rimedi consensuali hanno una funzione specifica che Di Majo ci definisce come “funzione coercitiva indiretta” insieme ad altri rimedi contrattuali di vario genere di cui i più importanti sono le caparre e la clausola penale.

Perche “consensuali coercitivi-indiretti” ?

Consensuali , perché è vero che tutti sono regolati dalla legge , tuttavia le parti sono libere di decidere se utilizzarle o meno.

Coercitivi, perchè hanno la funzione di esercitare una coercizione sulla volontà dell’altro contraente. E questo è chiaro perché se io (riprendendo l’esempio precedente delle rate sulla clausola risolutiva espressa) non pago la quarta rata, non posso pensare, portata dinanzi ad un giudice, questo stabilirà che quell’inadempimento non è tanto grave da giustificare la risoluzione del contratto. Io invece già so che quell’inadempimento porterà alla risoluzione del contratto, essendo stabilito a monte nella clausola risolutiva espressa.
Idem nella diffida ad adempiere: nel momento in cui la mia controparte mi avverte che se non adempio alla prestazione entro 15 giorni il contratto sarà risolto, io magari ho una spinta ad adempiere.
Nel caso della clausola penale, ovvero quella clausola che previamente determina l’ammontare del risarcimento , io già so che in caso di inadempimento , andrò incontro al pagamento di quel risarcimento.
Le caparre: io ho dato una somma di denaro che detiene la mia controparte e per non perdere questa somma di denaro sono indotta ad adempiere.

Indiretti, perché la coercizione diretta, che è quella che assoggetta il patrimonio in genere dei privati ai rimedi esecutivi dell’autorità giudiziaria è esclusivamente riservata allo stato. Ovviamente nel momento in cui il contratto si è risolto ed io dovrò tirare le fila di questa risoluzione chiedendo o il risarcimento del danno o l’adempimento della prestazione, non potrò farlo personalmente, ma solo adendo l’autorità giudiziaria. E questo per motivi ovvi di ordine pubblico e di tutela della controparte.

3.A.4.II Risoluzione giudiziale


Se il creditore vuole risolvere il contratto ma non ha pattuito una clausola risolutiva espressa o un termine essenziale oppure non vuole assegnare un termine per l’adempimento al debitore ,deve agire giudizialmente e la sentenza che concluderà il procedimento ha carattere costitutivo.

I caratteri dell'inadempimento Per ottenere la risoluzione giudiziale di un contratto occorre proporre una domanda giudiziale, anche in via riconvenzionale, e spetterà al giudice, in caso di contestazione, previo accertamento che l'inadempimento è colpevole e di non scarsa importanza, emettere sentenza costitutiva dell'effetto dello scioglimento del rapporto contrattuale.

L’importanza dell’inadempimento - L’art. 1455 Cod. civ. recita che <<il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra>>.
L’inadempimento di una parte, che permetta la risoluzione del contratto, deve presentare un requisito ulteriore rispetto al comune concetto di inadempimento dell’obbligazione. Si deve trattare di un inadempimento di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455): occorre, cioè, che l’inadempimento di una parte sia tale da rendere non più giustificata la controprestazione dell’altra.
L'importanza dell’inadempimento va valutata all’atto della domanda: <<ne consegue che il perdurare dell'inadempimento nel corso del giudizio non può riflettersi negativamente sulla valutazione della gravità del comportamento pregresso, trasformando un inadempimento inizialmente "non grave" in un inadempimento "grave" e, perciò, tale da legittimare l'accoglimento della domanda di risoluzione>>(così si legge in Tribunale di Massa n°681/2016, Cass. 16.06.2016 n. 12466, la quale si riporta espressamente a Cass. 14.5.2004, n. 9200; Cass. 6.4.2000, n. 4317).
La valutazione dell'importanza dell'inadempimento è rimessa al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o giuridici: il principio è pacifico in giurisprudenza e lo troviamo ribadito in Cass. 16/06/2016 n. 12466.

vediamo di trovare qualche indice sulla gravità. Quali sono le ipotesi pochissime in cui è la stessa legge che ci qualifica l’inadempimento come grave? Questo ce lo dice Galgano :
-art 1525cc in materia di vendita a rate: Nonostante patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, e il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive. Il primo inciso ci dice subito che nonostante patto contrario se un soggetto non ha pagato una rata, sempre che questa non superi l’ottava parte del prezzo, non dà mai luogo a risoluzione del contratto.
-legge speciale sulle locazioni: quando il conduttore è moroso o inadempiente nel pagamento dei canoni del contratto di locazione, il locatore può ottenere subito lo sfratto per morosità. Invece l’inadempimento degli oneri condominiali, degli oneri accessori, per poter dare diritto a proporre lo sfratto e quindi a risolvere il contratto devono essere almeno 2 mensilità. Quindi questo significa che la morosità di una mensilità nel pagamento degli oneri accessori condominiali non è inadempimento grave. Al di fuori di queste singole ipotesi, che sono casi particolari che non ci danno la possibilità di trovare dei criteri, quindi vediamo cosa ha fatto la giurisprudenza.
La giurisprudenza utilizza due tipi di criteri: sia soggettivi, che oggettivi, sia da soli sia combinati.
Tra i criteri soggettivi possiamo indicare il comportamento delle parti ecco vedete ci stiamo riagganciando a quel profilo che abbiamo trattato nell’imputabilità Di Majo dice che se il giudice nel valutare la gravità dell’inadempimento di fatto fa a guardare la colpevolezza l’atteggiamento vuol dire che comunque l’inadempimento deve essere imputabile. Quindi uno dei criteri soggettivi che il giudice considera per poter valutare la gravità dell’inadempimento è il comportamento delle parti. Altro criterio è l’interesse del creditore.
Criteri oggettivi: l’entità dell’inadempimento, come questo inadempimento va ad incidere sull’equilibrio del sinallagma, nel rapporto tra le due controprestazioni. La spiegazione di questi criteri viene fatta in maniera più o meno combinata, quello più sicuro e certo è questo criterio quando l’inadempimento è totale la gravità è in re ipsa. Un problema si pone nel caso dell’adempimento tardivo, quindi l’adempimento comunque c’è stato, può essere che il solo fatto del ritardo dia luogo ad una gravità tale da portare alla risoluzione del contratto? Questo si è chiesto la dottrina. Si sono fatte un po’ di distinzioni. Il debitore fino a quando può adempiere nella risoluzione del contratto? La domanda di risoluzione del contratto da la possibilità al debitore di adempiere? No! Quindi se il ritardo supera la domanda di risoluzione, il contraente non più adempiere art 1453 comma III, allora qui il problema è qualificato dalla stessa legge, è un ritardo tale che ha portato l’altra parte alla risoluzione, è la stessa legge quindi che qualifica l’inadempimento come grave da giustificare lo scioglimento del contratto.
Invece se supponiamo che è scaduto il termine della prestazione, però il contraente adempiente non ha proposto la domanda di risoluzione, qui ci troviamo in un tempo intermedio tra scadenza del termine per la prestazione e domanda di risoluzione. Adesso ricordiamo la differenza tra termine essenziale e non essenziale, quindi in questo caso è scaduto un termine non essenziale, il creditore può rifiutare l’adempimento e chiede la risoluzione del contratto, in questo caso sarà il giudice a valutare se quel ritardo ha raggiunto quel carattere di gravità che giustifica la risoluzione del contratto. La conclusione è che il ritardo dell’inadempimento può essere causa di risoluzione del contratto quando assume una certa gravità. Quindi il giudice quando valuta la gravità in base ai criteri soggettivi, quale comportamento delle parti, in questo caso andrà anche a vedere se l’offerta ritardata che ha fatto la parte inadempiente era tale da fare rientrare la gravità dell’inadempimento ed era tale da non giustificare la risoluzione del contratto. In questo caso il danno deve essere risarcito lo stesso? Si! Si applicheranno i principi generali dell’inadempimento. Verrà risarcito il danno da ritardo.
Soluzione finale (sia per Galgano sia per Di majo): bisogna operare un bilanciamento degli interessi in conflitto, andare a guardare il sinallagma, l’equilibrio tra le prestazioni, il comportamento delle parti, la combinazione di questi criteri soggettivi e oggettivi è una forma di bilanciamento degli interessi in conflitto, andando a valutare anche l’equilibrio tra le prestazioni, guardando anche un po’ l’interesse del creditore.
Abbiamo chiesto la risoluzione, abbiamo detto che c’è l’imputabilità, che c’è la gravità ed invece il giudice decide di rigettare la domanda. Che cosa succede in questo caso? Abbiamo vari casi:

  • Il convenuto è rimesso in termini per adempiere;
  • Galgano in poche righe ci da una conseguenza un po’ diversa, ad ex Rossi propone una domanda contro Tizio di risoluzione del contratto perché è inadempiente. Tizio può chiedere un termine di grazia? No, questo lo si può chiedere solo in Francia perché il code civil lo prevede. Tizio si può difendere in vario modo dicendo ad ex ho adempiuto, oppure è vero non ho adempiuto, ma l’inadempimento non è grave oppure può dire io ho non ho adempiuto perché Rossi non ha adempiuto e chiede a sua volta la risoluzione del contratto. Quindi si intrecciano le due domande di risoluzione. Il giudice dovrà valutare quale dei due inadempimenti è il più grave, se è quello di Tizio risolve il contratto in favore di Rossi con tutte le conseguenza che vedremo tra breve. Se invece l’inadempimento di Rossi è più grave, risolverà il contratto a favore di Tizio e dovrò effettuare delle attività. E se invece abbiamo torto tutti e due? Il giudice rigetta la domanda di entrambe le parti e scioglie il contratto per mutuo consenso la motivazione è perché nel momenti in cui le parti hanno fatto la loro scelta fra azione di adempimento e domanda di risoluzione hanno scelto di agire per la risoluzione, in questo modo hanno dimostrato entrambe di non avere più interesse in questo contratto e di volersi liberare di questo contratto, ed entrambe non possono più agire in adempimento nei confronti dell’altro. La figura giuridica di cui si serve il giudice in questo caso è il mutuo consenso.

L’onere della prova
In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.
Nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento.
L’aspetto dell’onere della prova viene esaminato dalla la sent del Tribunale di Massa n°681/2016

Natura costitutiva della sentenza
La sentenza che, ex art. 1453 c.c., accoglie la domanda di risoluzione ha natura costitutiva: essa produce l'effetto costitutivo dello scioglimento del rapporto che il contratto aveva prodotto.
Effetti della sentenza rispetto alle parti
Ai sensi del 1° comma dell’art. 1458, la cui rubrica parla di “effetti della risoluzione”, <<la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite>>.
La risoluzione, pertanto, ha efficacia retroattiva rispetto alle parti che conclusero il contratto. Gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della stipulazione del contratto. Ciò significa che non soltanto il contratto risolto non produce più effetti per l’avvenire e che le parti si sono liberate per il futuro dalle loro obbligazioni, ma che ne sono anche rimossi gli effetti traslativi e obbligatori già prodottosi. Pertanto le prestazioni già eseguite devono essere restituite.
Tale effetto opera in caso di risoluzione di contratti a prestazioni istantanee.
Al contrario, se vi sono contratti ad esecuzione continuata o periodica (es: contratto di somministrazione di merci), la risoluzione non ha efficacia retroattiva. La conseguenza è che le prestazioni già eseguite non devono essere restituite.
Gli effetti della sentenza nei confronti dei terzi
Ai sensi del 2° comma dell’art. 1458, <<La risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione>>
Pertanto, la regola della retroattività opera solo tra le parti.
Se la domanda di risoluzione è stata trascritta, la sentenza che accoglie quella domanda è opponibile ai terzi che, successivamente alla trascrizione, abbiano acquistato i diritti sull’immobile oggetto del contratto risolto.

Il giudice può anche essere chiamato a risolvere una controversia in ordine all’avvenuta risoluzione di diritto del contratto la sua sentenza sarà di mero accertamento dell’intervenuta risoluzione, esempio il debitore che contesta l’essenzialità del termine oppure la validità della clausola risolutiva.

Nel contratto con prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la prestazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, ameno che le parti abbiano stabilito termini diversi per l’adempimento .Il contrasto tra i contraenti può essere risolto con una sentenza che condanni il convenuto ad adempiere ,subordinatamente all’adempimento dell’attore.
Si tratta di una forma di autotutela definita eccezione di inadempimento, però può anche accadere che entrambe le parti oppongano l’eccezione sostenendo di non aver adempiuto in quanto la controparte a sua volta non ha adempiuto, in tal caso spetterà al giudice accertare quale dei due inadempimenti sia più grave e tale da legittimare l’eccezione.

Un esempio di tutela costitutiva è il divorzio. Io certo non posso decidere liberamente con un atto scritto a mio marito di divorziare senza l’intervento dell’autorità giudiziaria.
Rientrano nella tutela costitutiva tutte le ipotesi in cui la modificazione della sfera giuridica di un sogg. può avvenire solo con l’intervento del giudice. Ed è il caso della risoluzione giudiziale del contratto.


C’è però una tesi che risale a Chiovenda, che dice che anche nelle ipotesi di tutela costitutiva (quindi di necessario intervento del giudice) , a monte di questo intervento c’è sempre un atto di autonomia privata. Nel caso della risoluzione giudiziale, è vero che l’effetto della risoluzione del contratto è esclusivamente riservata al giudice, ma secondo questa teoria bisogna tener conto del fatto che io privato cmq ho deciso di iniziare questo procedimento per ottenere la risoluzione del contratto e anche quando vi è un intervento del giudice sarebbe un atto di autonomia privata che è prevalente , e quindi il giudice avrebbe soltanto una funzione di accertamento. Perché il giudice nella tutela costitutiva , e lo vediamo nell’art. 2908, interviene invasivamente , quando invece la tutela è di accertamento il giudice si limita a prendere atto di un qualcosa che si è già verificato.
Secondo questa tesi dunque anche nella tutela costitutiva il giudice si limiterebbe ad un mero accertamento, perché a monte ,alle origini del giudizio, vi sarebbe sempre la scelta del privato di dare corso a questo atto di autonomia .
DI MAJO NON E’ D’ACCORDO CON QUESTA TESI. Sostiene che è vero che è il privato che sceglie di dare inizio a questo giudizio, ma il risultato ca cui aspira non potrà mai ottenerlo da solo, quindi non possiamo far passare in secondo piano un intervento del giudice che è invece fondamentale. Questa è la teoria di cui si parla nel vostro libro, che è chiamata “teoria della funzione di controllo”.
Secondo questa teoria, si parte dal presupposto che effettivamente anche la tutela costitutiva e quindi anche la risoluzione giudiziale parte dalla scelta di autonomia privata perché è il sogg. che decide di fare qualcosa. A questo punto ,rispetto a questa premessa, il giudice svolge una funzione di controllo, cioè controlla il corretto esercizio dell’autonomia privata. Un controllo necessario perché la risoluzione giudiziale interviene nella sfera giuridica di un terzo ed è dunque necessario che un sogg. super partes ci sia controllare.

Abbiamo due forme di controllo :

- Controllo ex post : si verifica quando l’effetto deriva dalla dichiarazione delle parti e il giudice controlla che l’effetto collegato a questa dichiarazione sia stato correttamente esercitato.
In questa tipologia rientrano le risoluzioni volontarie, perché cosa fa il giudice in caso di una diffida ad adempiere o di una clausola risolutiva espressa?
Abbiamo detto che non può entrare nel merito, ma può controllare se il potere che viene dato dalla legge di utilizzare clausola e diffida è stato esercitato nelle forme previste dalla legge.

- Controllo ex prius: si verifica quando il giudice controlla a priori se ricorrono le condizioni per l’esercizio del potere.
Nella seconda ipotesi invece facciamo rientrare la risoluzione giudiziale, dove vi è un controllo preventivo del giudice che nel giudizio per ottenere lo scioglimento del contratto deve controllare secondo questa teoria se sussistono i presupposti. L’esercizio del potere della parte si è limitato a chiedere tutela. Dunque il giudice controlla “a priori”, controlla prima, se esistono le condizioni e produce l’effetto dello scioglimento del contratto.

DI MAJO ritiene che la teoria del controllo può essere convincente sulla base di alcune argomentazioni a favore e non convincente sulla base di altre.

Negli argomenti favorevoli ,si dice che effettivamente nel sistema delle risoluzioni volontarie è logico pensare ad un controllo quando ci troviamo di fronte ad una risoluzione di diritto e poi (fate attenzione perché nel vostro libro risulta due o tre volte questo concetto) a favore sempre di questa tesi c’è il fatto che durante il giudizio per dichiarare lo scioglimento del contratto, a diff. del codice civile francese (le comparazioni piacciono tanto a DI MAJO) ,il giudice non può concedere un termine per adempiere alla parte inadempiente. Se il giudice accerta l’inadempimento e i presupposti per la risoluzione giudiziale, deve sciogliere il contratto non può concedere proroghe per adempiere. E questo confermerebbe che la funzione del giudice non è una funzione di gestione diretta di questo tipo di cause, ma sarebbe solo una funzione di controllo. Una volta controllato che sussistono i presupposti che integrano la risoluzione il giudice non può fare altro che sciogliere il contratto e non ha altre possibilità di scelta.

Venendo agli argomenti contrari, DI MAJO ritiene che questa tesi abbia un difetto : appiattire la differenza tra risoluzioni volontarie e giudiziali perchè si da al giudice un ruolo secondario anche nella risoluzione giudiziale .Soltanto le risoluzioni volontarie sono effettivamente l’esito di un atto di autonomia privata, ma non possiamo limitare il ruolo del giudice ad una funzione di controllo anche nella risoluzione giudiziale ,perché vedremo proprio nel momento in cui bisognerà andare a stabilire concretamente se un inadempimento è tale da provocare lo scioglimento del contratto il giudice ha ampio potere!
Un altro argomento contrario è individuato in quella regola iniziale che , scelta la risoluzione del contratto , non si può più chiedere l’adempimento, perché significa dare il via ad un meccanismo con cui il giudice in maniera autonoma scioglie il contratto e dove le parti non possono intervenire. In altri termini: se fosse rilevante l’autonomia delle parti anche nella risoluzione giudiziale e il ruolo del giudice dovrebbe essere limitato solo ad una funzione di controllo, allora le parti dovrebbero avere anche la possibilità di cambiare la domanda da risoluzione ad adempimento perché o gli si riconosce autonomia a 360 gradi non la si riconosce.

Vediamo le tre teorie sul fondamento della risoluzione come si conciliano con il ruolo del giudice nella risoluzione.
Nella tesi della condizione risolutiva tacita, il giudice avrebbe una funzione soltanto dichiarativa, di accertamento perché non potrebbe fare altro che accertare il mancato verificarsi della condizione.
Nella teoria del venir meno della causa accade la stessa cosa, perché se noi riteniamo rilevante ai fini dello scioglimento del contratto il venir meno della causa il giudice non deve far altro che accertare che,appunto, la causa sia venuta meno.
Invece , la teoria della sanzione (che poi è quella che ritiene essere la più corretta Di Majo), oltre ad avere il pregio di spiegare la sussistenza dell’elemento della colpevolezza , ha anche il vantaggio di dare al giudice la facoltà di irrogare la sanzione, una volta vagliato l’esistenza dei presupposti di legge, e quindi parliamo in questo caso di una tutela costitutiva. Anche sotto questo punto di vista la teoria della sanzione sembra la più convincente perché è più rispondente all’inquadramento più corretto della risoluzione giudiziale nell’ambito della tutela costitutiva.

3.A.4.III Rapporti tra risoluzione giudiziale e volontaria

Abbiamo detto che non possiamo pensare che i due tipi di risoluzione siano una cosa sola, però a questo punto dice DI MAJO, poniamoci questo problema:
è la risoluzione giudiziale che segue il modello della risoluzione volontaria o viceversa? E si tratta di un problema la cui soluzione ha un notevole risvolto pratico.

Abbiamo quindi due tesi.

La prima tesi, secondo la quale il modello principale è la risoluzione volontaria , pone diversi argomenti a supporto.
Un argomento di tipo storico : nel codice civile del 1865 era previsto che “la risoluzione del contratto deve domandarsi giudizialmente” ed era previsto anche quel potere del giudice secondo il quale quest’ultimo può concedere una dilazione a seconda delle circostanze,quindi un potere di proroga che (come abbiamo visto precedentemente) attualmente non c’è. Dunque analizzando questa norma e analizzando i cambiamenti del codice vigente si è pensato che :

-essendo stata tolta questa norma che prevedeva soltanto la risoluzione giudiziale,
-essendo stato tolto il potere del giudice di concedere la proroga,
-essendo state introdotte le ipotesi di risoluzione volontaria ,

è chiaro che il legislatore del ’42 ha mostrato una preferenza per il modello della risoluzione volontaria di diritto e dunque quello rappresenta il modello principale.

La seconda tesi, secondo cui il modello principale di risoluzione è quella giudiziale ha come argomento a supporto un argomento incentrato sui poteri del giudice ,in quanto il giudice ha un ruolo fondamentale nell’importanza dell’inadempimento e nella colpevolezza e quindi questo ci fa ritenere che la risoluzione giudiziale sia il modello principale.

Perché è importante stabilire quale sia il modello di riferimento, quale sia il modello principale?
E perché scegliamo la seconda tesi?
Perché se il modello principale di risoluzione è il modello giudiziale ,dove conta l’inadempimento grave e soprattutto conta la colpevolezza, questo significa che anche le risoluzioni volontarie richiedono tra i loro presupposti la colpevolezza.
Vi anticipo, ma poi lo riprenderemo, che il problema fondamentale è proprio questo: nei sistemi, dice DI MAJO, dove sono preferite le risoluzioni volontarie non c’è spazio per la colpevolezza perché in teoria potrebbe non esserci nessuno ,potrebbe non arrivarsi al processo e chi è poi che deve valutare questa colpevolezza?
Il requisito della colpevolezza è invece richiesto dalla risoluzione giudiziale.
E se la risoluzione volontaria deve guardare alla risoluzione giudiziale, questo significa che nella risoluzione volontaria o di diritto occorre l’imputabilità.

Ad es.
Parliamo della clausola risolutiva espressa .
Voi rispondete bene e cioè che l’inadempimento è stato già stabilito dalle parti e quindi il giudice non può sindacare il metro dell’inadempimento.

Ma nella clausola risolutiva espressa occorre l’imputabilità?
Questo è il punto! Il requisito soggettivo occorre anche nella clausola risolutiva espressa.

Dunque la risoluzione giudiziale è il modello principale, la colpevolezza va guardata anche nelle risoluzioni volontarie.
Di ciò abbiamo una conferma di questo,e cioè che cmq esiste la possibilità di avere un controllo del giudice . Le risoluzioni volontarie non è che sono fuori dal processo , abbiamo visto che il giudice anche nelle risoluzioni volontarie controlla il corretto uso delle prescrizioni in tema di risoluzioni volontarie, e dunque il giudice controllerà anche l’imputabilità.
Qual è la conclusione?
E’ che la risoluzione si fonda sull’inadempimento e non sulla dichiarazione delle parti di voler sciogliere il contratto.
Cosa significa?
Abbiamo prima sottolineato lo scontro che c’è nella risoluzione tra autonomia delle parti e intervento del giudice. Questo scontro lo risolviamo a favore del giudice . Lo risolviamo perché diamo atto della prevalenza delle forme della risoluzione giudiziale rispetto all’esercizio dell’autonomia privata.
Quindi qual è la conseguenza?
Che alla fine si ha risoluzione del contratto (e questo è conforme con la definizione stessa di risoluzione ) quando c’è inadempimento grave e non quando c’è dichiarazione delle parti, perché se io attribuisco maggior importanza alla risoluzione volontaria ,dovrei concludere che la risoluzione è un istituto fondato sulla dichiarazione delle parti di voler sciogliere un contratto.
Invece la giusta collocazione della risoluzione nell’ambito di un rimedio giudiziale mi da la risposta logica che in realtà posso ottenere la risoluzione del contratto non quando faccio la dichiarazione di volontà di sciogliere il contratto , ma quando vi è un inadempimento di notevole importanza.

ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO


L’eccezione di inadempimento può anche paralizzare una domanda di risoluzione,che può essere giudiziale o stragiudiziale, tuttavia il contraente non può rifiutare l’esecuzione se il rifiuto è contrario alla buona fede, e questa impone che la fondatezza dell’eccezione vada valutata secondo un criterio di equivalenza e di proporzionalità tra l’adempimento che viene richiesto e quello che non è stato eseguito.

L’eccezione di inadempimento è disciplinata dall’art.1460c.c: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie  o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede [1375] ”. E’ un rimedio cd manutentivo del contratto che consente la simultaneità degli adempimenti, in particolar modo nei contratti a prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente, salvo che siano stati stabiliti dei termini diversi per l’adempimento, l’esecuzione non può essere rifiutata se il rifiuto è contrario alla buona fede. L’eccezione di inadempimento, si badi, non produce l’estinzione dell’obbligazione ma la sola dilazione del termine di adempimento.

Devono ricorrere 2 presupposti fondamentali per sollevare esecuzione di inadempimento:

1)LA ESIGIBILITA’ DELLA PRESTAZIONE RICHIESTA: la non scadenza del termine per l’inadempimento legittima il debitore a paralizzare la pretesa del creditore con una eccezione di inesigibilità della prestazione, la legge presume la contemporaneità di esecuzione delle prestazioni.
2) deve trattarsi di PRESTAZIONI INTERDIPENDENTI e non subordinate perché in caso contrario viene rideterminato un meccanismo di sfalsamento dei termini di adempimento. Il rifiuto dell’adempimento trova fondamento nell’inadempimento della controparte, per configurare ciò è fondamentale che l’invocato inadempimento sia imputabile al debitore e non sia di scarsa importanza in relazione all’interesse proprio. Può accadere che entrambe le parti deducano l’eccezione di inadempimento e in tal caso bisognerà valutare quale inadempimento abbia rivestito efficienza causale nella lesione del sinallagma contrattuale. E’ presa in considerazione anche l’eccezione per l’inesatto adempimento che è molto efficace per la tutela degli acquirenti per cui il compratore può evitare il pagamento del prezzo quando la merce consegnata presenta difetti di conformità col contratto di vendita.

Il codice (art.1461) prevede inoltre la possibilità che il contraente sospenda l’esecuzione della propria prestazione se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione a meno che non sia presentata idonea garanzia. La sospensione può invocarsi quando la controparte deve eseguire la propria prestazione in un secondo momento mentre l’eccezione di inadempimento può opporsi quando le prestazioni devono essere eseguite meno contro mano. Questa diversità non impedisce l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento anche quando la prestazione va eseguita in un secondo momento.
9 La sospensione può essere invocata se le prestazioni devono essere eseguite mano contro mano ma non possono essere contemporanee da un punto di vista concreto.

Le parti possono stabilire l’inopponibilità di eccezioni per evitare o ritardare la prestazione dovuta; questa clausola, detta solve et repete, non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto come sancito dall’Art. 1462 che al secondo comma stabilisce anche che se concorrono gravi motivi il giudice può decidere di sospendere la condanna all’adempimento imponendo, se del caso, una cauzione.
La giurisprudenza limita notevolmente la portata della clausola ,negando che possa bloccare l’eccezione di inadempimento

 

3.B L’impossibilità sopravvenuta è un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento.

L’obbligazione si estingue quando la prestazione diventa oggettivamente impossibile per causa non imputabile al debitore; lo scioglimento del contratto opera di diritto.
Nel caso di impossibilità totale la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione non imputabile non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto; però si ha estinzione anche nel caso di impossibilità temporanea quando il creditore non ha più interesse a ricevere la prestazione.
Al contrario nell’impossibilità parziale, l’obbligazione non si estingue e il debitore è liberato se esegue la prestazione per la parte che è rimasta possibile.
In caso di contratto a prestazioni corrispettive non si può applicare questa disciplina perché creerebbe un grave squilibrio del sinallagma e quindi l’Art. 1464 introduce un correttivo legittimando la controparte o a pretendere una riduzione della propria prestazione o a recedere dal contratto se non ha interesse all’adempimento parziale.

In caso di impossibilità totale della prestazione di una delle parti di un contratto plurilaterale non si ha scioglimento del contratto a meno che la prestazione mancata sia da considerarsi essenziale. (art.1466 c.c.)

L’Art. 1465 detta una disciplina particolare per l’impossibilità sopravvenuta nei contratti che trasferiscono o costituiscono diritti reali (contratto traslativo)( è una norma derogabile):
“1) se l’impossibilità sopravviene al trasferimento l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione anche se la cosa non gli è stata consegnata ( questo vuol dire dunque che la custodia della cosa non costituisce una controprestazione e non fa parte del sinallagma);
2) La stessa disposizione si applica nel caso in cui l'effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine;
3) se il trasferimento ha ad oggetto una cosa generica l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione se l’alienante ha operato la consegna o la cosa è stata individuata (applicazione del principio res perit domino);
4) Comunque l’acquirente è liberato dalla propria obbligazione se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l’impossibilità è sopravvenuta prima che si verifichi la condizione”.

 

3.C L’eccessiva onerosità sopravvenuta (art.1467)

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa, e sempre che questa onerosità non rientri nell’alea del contratto, per il verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili la parte che deve tale prestazione può chiedere la risoluzione del contratto (e questo succede perché si crea uno squilibrio patrimoniale che comporta un’alterazione del rapporto di valore tra le due prestazioni). In questo modo il legislatore ha voluto porre rimedio ad una situazione non prevista al momento della conclusione del contratto e appunto per ciò il rimedio si applica ai contratti corrispettivi la cui esecuzione non sia immediata ma protratta nel tempo, mentre non si applica ai contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti.

Come si evince dal testo della legge, e come ha anche precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 22396 del 2006, affinchè il giudice accerti l'eccessiva onerosità sopravvenuta è necessario che ricorrano taluni requisiti fondamentali, nella fattispecie:

-
una delle prestazioni deve essere divenuta eccessivamente onerosa per la parte che deve eseguirla;
-
l'evento che rende la prestazione eccessivamente onerosa deve essere straordinario e imprevedibile.

Con riguardo al primo punto è necessario tuttavia precisare che non si può chiedere la risoluzione ogni qual volta vi sia un aggravamento della posizione di una delle parti, in quanto il co. 2 dell'art. 1467 dispone che “la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto”; in altre parole, la nozione in parola deve avere carattere oggettivo, e non ha dunque rilievo un eventuale maggior costo peculiare solo a chi è in concreto obbligato.

Relativamente al secondo punto, invece, bisogna evidenziare come il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi suscettibili di misurazioni (e quindi tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza.

 

La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto.

La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. A quest’ultimo riguardo, la Corte di Cassazione, nella sentenza del 1989, n. 4023, ha così statuito: “Con il termine equamente, usato nel comma 3 dell'art. 1467 c.c., si richiede, perché sia evitata la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, che la parte contro la quale la domanda è rivolta offra di così modificare le condizioni del contratto in modo che questo sia riportato ad un giusto rapporto di scambio, con la conseguenza che il corrispettivo deve essere uniformato, in quanto possibile, ai valori di mercato, così che venga eliminato lo squilibrio economico e le prestazioni siano ricondotte ad una piena equivalenza obiettiva, l'indagine del giudice deve, pertanto, essere condotta attenendosi a criteri estimativi oggettivi di carattere tecnico, e non soltanto con un mero criterio di equità

Questo rimedio dunque serve per tutelare l’equilibrio delle prestazioni e dunque il sinallagma e può essere applicato quando la prestazione è differita nel tempo, cioè anche in caso di contratto ad esecuzione immediata dove però le parti hanno rinviato l’adempimento della prestazione con accordo tacito o quando la prestazione è divenuta temporaneamente impossibile e l’obbligazione non si estingue.

Natura e fondamento
Si tratta di un rimedio contrattuale che, secondo alcuni autori, si fonderebbe su uno squilibrio della causa. Il prezzo, da questo punto di vista, sarebbe sempre un elemento fondamentale della causa del contratto (si pensi alla compravendita, ove tradizionalmente la causa viene ravvisata nello scambio di cosa contro prezzo); nel momento in cui una delle due prestazioni cambia il suo valore e la sua esecuzione risulta improvvisamente troppo svantaggiosa per il debitore, l’alterazione va ad incidere sulla causa, e quindi sulla funzione economico sociale dell’accordo.
Secondo un’altra visione, invece, la causa come elemento del contratto non può mai mancare successivamente, se è presente nel momento della formazione. Ciò che viene meno, e che permette all’ordinamento di reagire sull’assetto contrattuale, è la volontà (ovviamente presunta) della parte. Se la prestazione diventa eccessivamente onerosa, infatti, ciò che viene meno non è tanto la causa, quanto l’accordo delle parti, in quanto i presupposti originariamente previsti per l’esecuzione del contratto sono venuti meno. Da questo punto di vista alcuni autori sostengono che tale norma sarebbe un’espressione particolare del più generale principio della presupposizione. 
Alla risoluzione per eccessiva onerosità, parte della dottrina ha ricondotto l’istituto della presupposizione e, cioè, il presupposto, non esplicitato nell’accordo, ma tenuto presente dalle parti al momento della conclusione del contratto. Il venir meno (o il mancato verificarsi) del fatto presupposto, in questa prospettiva, darebbe luogo ad un’ipotesi di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto (in senso contrario, è stato osservato che, mentre l’eccessiva onerosità riguarda la persistenza della base negoziale oggettiva del contratto, la presupposizione attiene, invece, alla base negoziale soggettiva). 

ECCESSIVA ONEROSITA' SOPRAVVENUTA

Per quanto riguarda l’eccessiva onerosità sopravvenuta, che, ai sensi dell’art. 1467 c.c., determina la risoluzione del contratto, la Corte di Cassazione, nella sentenza del 2006, n. 22396, ha così statuito: “L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell'art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto richiede la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, dall'altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale. Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l'intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza. L'accertamento del giudice di merito circa la sussistenza dei caratteri evidenziati è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi”.

Il concetto di eccessiva onerosità
Lo squilibrio delle prestazioni, afferma la norma, deve dipendere da un evento straordinario (cioè un evento che statisticamente è poco frequente, con carattere di eccezionalità) e imprevedibile (deve essere cioè tale che i contraenti non lo avessero messo in conto, in base alle loro conoscenze ed esperienze).
La norma precisa poi – a rafforzare il concetto ove ce ne fosse ulteriormente bisogno - che non deve essere considerato straordinario e imprevedibile ciò che rientra nella normale alea del contratto. In ogni contratto infatti è insito un certo grado di alea, nel senso che è assolutamente normale che il prezzo delle merci, o dei materiali, vari nel corso del tempo. Ciò che si vuole evitare è che il contratto vincoli anche quando l’alea ha superato il livello di normale tollerabilità, come può accadere ad esempio a seguito di un evento atmosferico eccezionale, di una sommossa che impedisca il rifornimento di determinati beni, ecc.

ALEA NORMALE

Riguardo all’alea normale di contratto che, ai sensi dell’art. 1467, comma 2, c.c., non legittima la risoluzione dello stesso per eccessiva onerosità sopravvenuta, nella sentenza del 1983, n. 1, è possibile leggere quanto segue: “L'alea normale di un contratto che a norma dell'art. 1467, comma 2 c.c. non legittima la risoluzione per sopravvenuta onerosità comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni che possono ritenersi originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato, senza che tale alea possa confondersi con quell'elemento intrinseco che definisce ed individua i cosiddetti contratti aleatori. Infatti in questi ultimi l'alea si pone come momento originario ed essenziale che colora e qualifica lo schema causale del contratto, mentre l'alea normale, che si può dire esista sempre nel momento in cui si perfeziona un contratto, non potendosi mai escludere che vicende economiche sopravvenute possano alterare quella situazione di equilibrio che le parti avevano ritenuto concordemente di porre in essere, rimane un momento del tutto intrinseco al meccanismo ed al contenuto del contratto”.

Sul punto si veda Cass 22808/2013 per la quale "Deve essere esclusa la configurabilità di un’eccessiva onerosità sopravvenuta già solo in astratto nel caso di mutuo riferito, pure solo in parte, a valuta non nazionale, quand’anche dalle peculiari caratteristiche dell’ECU: in tal caso, l’alea di un contratto che, a norma dell’art 1467 c.c., secondo comma, non legittima la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, comprende anche oscillazioni di valore delle prestazioni originate delle regolari e normale fluttuazioni del mercato; in simile ipotesi, infatti, le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, hanno assunto un rischio futuro, estraneo al tipo contrattuale prescelto, rendendo il contratto di mutuo, sotto tale profilo, aleatorio, in senso giuridico, e non solo economico, sotto il (mero) profilo della convenienza" (Conforme: Ordinanza Cassazione n.09263 del 22 Febbraio 2011)

Sentenza del Tribunale di Perugia, n. 88 del 27/03/2009 “Non è circostanza idonea a fondare la domanda di risoluzione per impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta, qualora
con riferimento alla impossibilità sopravvenuta, non venga in considerazione quella impossibilità assoluta ed oggettiva che costituisce causa di estinzione della obbligazione e, conseguentemente, di risoluzione del contratto. Nel caso di specie emerge semplicemente una impossibilità soggettiva o, più propriamente, una mera difficoltà di adempiere alla quale l'attore può ovviare attingendo ad altre risorse economiche diverse dal reddito da lavoro che ha subìto un decremento.
con riferimento alla eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, non venga in rilievo un mutamento di valore della prestazione stessa dovuto a cause straordinarie ed imprevedibili e non certo alle mutate condizioni economiche del debitore. L'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni, deve essere apprezzata con riferimento non alle mutate condizioni economiche del debitore ma al mutamento di valore della prestazione stessa dovuto a cause straordinarie ed imprevedibili.”

 

Secondo la dottrina tale norma si applica anche al contratto preliminare e questo perché le conseguenze negative che comporta la stipula del contratto definitivo divenuto eccessivamente oneroso sono già insite nelle conseguenze negative del preliminare, per lo stesso motivo è impugnabile per eccessiva onerosità sopravvenuta anche il contratto di opzione.

La norma però non si applica nei casi in cui esiste una speciale disciplina normativa (come per l’appalto) o pattizia per porre rimedio alle conseguenze negative derivanti da variazione di valore sopravvenute alla conclusione del contratto; tuttavia la giurisprudenza ritiene che anche in questi casi si possa applicare la norma dell’Art. 1467 se gli eventi imprevedibili e straordinari sono stati tali da porre nel nulla i rimedi previsti dalla legge o dai privati.

Il debitore obbligato ad una prestazione eccessivamente onerosa non può liberarsi con una dichiarazione stragiudiziale , ma deve agire in giudizio , senza potersi limitare ove convenuto in giudizio a proporre una mera eccezione (per l’eccessiva onerosità) . L’eccessiva onerosità deve essere dedotta e accertata giudizialmente .
La parte alla quale è chiesta la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. In tal modo il contratto va ricondotto a quell’ equilibrio sinallagmatico sussistente al momento della stipula.

In caso di contratto con obbligazioni a carico di una sola parte questa può chiedere una riduzione della sua prestazione sufficiente per ricondurre il contratto ad equità (la norma non si applica alle obbligazioni che nascono da atto mortis causa). In quest’ ultimo caso la riconduzione ad equità del contratto è opera del giudice che userà un criterio discrezionale e non oggettivo in quanto manca l’offerta della parte contro interessata perché stiamo parlando di un contratto unilaterale.

Art 1458: La risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti , salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite. 
Riguardo alle prestazioni “già eseguite” di cui sopra si pensi al conduttore di un immobile che smette di versare il canone dovuto periodicamente (1587 c.c.); il locatore non è tenuto a restituire i canoni ricevuti in precedenza.

 

5 Gli effetti

L’Art. 1458 (effetti della risoluzione)oltre che all’ipotesi dell’inadempimento è applicabile anche nel caso di impossibilità sopravvenuta e di eccessiva onerosità sopravvenuta.

La risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti, (tranne per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, si parla in tal caso di risoluzione parziale); essa non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione. Questo vuol dire che il terzo sarà salvo solo se avrà trascritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda di risoluzione o della domanda che mira ad accertare l’avvenuta risoluzione di diritto.

La risoluzione deve essere annotata ai fini della continuità a margine della trascrizione del contratto risolto anche quando è il frutto di un atto che accerti il fatto risolutorio (come nel caso della clausola risolutiva espressa).
Come conseguenza della risoluzione, i contraenti hanno l’obbligo di restituire quanto hanno ricevuto secondo le regole fissate per la ripetizione dell’indebito , salvo i contratti di durata.

 

6 Lo scioglimento volontario

I privati possono sciogliere il contratto per mutuo consenso o per meglio dire per mutuo dissenso.

Se il contratto traslativo o costitutivo non ha ancora prodotto i suoi effetti è possibile scioglierlo con mutuo dissenso,
in caso contrario si dovrà stipulare un contratto uguale e contrario a quello che si intende eliminare.
In caso di contratti ad effetti obbligatori il mutuo dissenso ha efficacia ex nunc perché opera sulle prestazioni non ancora eseguite, però la dottrina sostiene anche la tesi dell’efficacia ex tunc del mutuo dissenso come negozio eliminativo.

Secondo la giurisprudenza il contratto risolutorio deve avere la stessa forma del contratto che viene sciolto, mentre se la forma si considera libera lo scioglimento può anche conseguire ad un comportamento concludente.
L’Art. 1373 prevede la possibilità che il contratto sia sciolto ad iniziativa di una delle parti; il recesso unilaterale è possibile se questo potere è stato attribuito in sede di contratto con fissazione di un termine e può essere esercitato solo se il contratto non ha avuto un principio di esecuzione e comunque deve intervenire dopo la conclusione del contratto.
9 La dottrina ritiene che il recesso non è possibile in caso di contratti traslativi quando l’effetto reale si sia prodotto, perché in questo caso non vale nemmeno il patto contrario che è ammissibile solo per i contratti obbligatori.

Nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, il recesso può essere esercitato anche dopo l’inizio dell’esecuzione, però sono fatte salve le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione: in questo caso il recesso opera ex nunc.

I contraenti possono stabilire un corrispettivo per il recesso che se viene versato anticipatamente si chiama caparra penitenziale mentre se viene versato al momento del recesso prende il nome di multa penitenziale: entrambi non hanno nulla a che vedere con la clausola penale perché sono corrispettivi del recesso, mentre la clausola penale presuppone un inadempimento (il quale in questo caso è da escludere perché recedendo si esercita un diritto potestativo).

La legge a volte attribuisce il recesso ad entrambi i contraenti mentre in altri casi lo attribuisce ad uno solo dei contraenti. La legge inoltre tutela la posizione dell’altro contraente e quindi prevede un preavviso, il cui difetto può condizionare l’efficacia stessa del recesso, cioè può obbligare al pagamento di un’indennità o ad un risarcimento.
Chi recede infatti per il principio di buona fede deve preavvisare l’altro contraente con un congruo anticipo di tempo, e il più delle volte la legge collega il recesso alla presenza di una giusta causa ovvero un grave motivo, il cui difetto è insuperabile e non sostituibile con il pagamento di un’indennità.
Per il contratto a tempo indeterminato ex art.1375 si può recedere sempre con preavviso , a causa della necessaria temporaneità dei vincoli obbligatori.

 

7 Diritto di pentimento per i contratti conclusi fuori dei locali commerciali

La legge detta una disciplina particolare del diritto di recesso nel caso in cui tra un consumatore ed un operatore commerciale sia stato concluso, fuori dai locali commerciali di costui, un contratto di fornitura di beni o di prestazione di servizi; la negoziazione del contratto può anche avvenire sulla base di offerte effettuate al pubblico o mediante mezzi televisivi. La tutela del consumatore consiste nel fatto che l’operatore deve informare per iscritto del suo diritto a recedere dal contratto indicando termini, modalità ed eventuali condizioni per il relativo esercizio, nonché l’indirizzo del soggetto contro cui va esercitato il recesso.La dichiarazione di recesso deve essere spedita nel termine non inferiore di 10 giorni per lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In caso di vendita di beni, condizione essenziale per l’esercizio del diritto di recesso è l’integrità della merce da restituire entro il termine minimo di 10 giorni e quindi anche del diritto di riavere entro i successivi 30 giorni il rimborso delle somme pagate comprese quelle versate a titolo di caparra.Il diritto di recesso è irrinunciabile e il foro competente per le controversie civili insorte tra le parti è quello del giudice del luogo di residenza del consumatore. Secondo gazzoni questo recesso è avveramento di condizione risolutiva o mancato avveramento di condizione sospensiva.

 

incompatibilità tra azione di risoluzione e diritto di recesso


Con sentenza 14 Gennaio 2009, n. 553, la Cassazione, a Sezioni Unite, definisce l'annosa e controversa questione sul rapporto tra azione di risoluzione e risarcimento integrale, da una parte, e azione di recesso e ritenzione della caparra confirmatoria, dall'altra. Riportando la massima, queste "si pongono in un rapporto di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione, volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione della caparra perchè (...) verrebbe così a vanificarsi la funzione della caparra, quella di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammisibilmente alla parte non inadempiente di "scommettere" puramente sul processo, senza rischi di sorta".

 

effetti della risoluzione

  1. La liberazione dall’obbligo. Entrambe le parti sono liberate dall’obbligo di prestare e ricevere la prestazione. Giuridicamente c’è un piccolo problema senza soluzione: qual è l’istituto giuridico che si applica? Ci sono due tesi. Secondo la prima tesi la liberazione dall’obbligazione è dovuta all’estinzione dell’obbligazione, il contratto si scioglie e l’obbligazione si estingue. Secondo un’altra tesi in questo caso vi è una liberazione dall’esecuzione del contratto, quindi non si estingue l’obbligazione, ma io non sono più tenuto ad eseguirla. Dice Di Majo è inutile perdere la testa su questo perché l’effetto è lo stesso. Nell’ordinamento italiano come si pone la questione? Art 1453 e ss non parlano di liberazione dall’obbligazione, perché dice sempre l’autore, è una regola superflua, questo noi la ricaviamo da un’altra regola contenuta nell’art 1458 (effetto retroattivo della risoluzione del contratto). Quindi la liberazione dall’obbligo della prestazione del contratto per Di Majo è conseguenza dell’effetto retroattivo della risoluzione del contratto.
  2. Effetto retroattivo della risoluzione del contratto. A questo punto Di Majo fa una panoramica europea per esaminare negli altri ordinamenti che cosa avviene dopo la risoluzione del contratto. Lui distingue due tipi di possibilità, abbiamo quelli che lui chiama sistemi retrospettivi nei quali la risoluzione del contratto ha un effetto retroattivo per cui il contratto è come se non fosse mai esistito. Invece, nei sistemi prospettivi,il fatto che sia rimasto in vita il contratto fino al suo scioglimento, fa si che nascano a seguito dello scioglimento del contratto delle obbligazione restitutorie che, come qualsiasi forma di tutela restitutoria, sono dirette a ripristinare lo status quo ante. Di Majo qui dice, sulla situazione di fatto non c’è differenza perché entrambi i casi o perché è retroattiva o perché configuriamo delle obbligazioni restitutorie bisogna ritornare alla situazione iniziale, a quella che c’era prima della nascita del contratto. Un problema molto importante è quello che riguarda l’opponibilità ai terzi, perché nei sistemi retrospettivi la retroattività travolge i diritti acquistati medio tempore dai terzi. Invece nei sistemi prospettivi, le obbligazioni restitutorie che nascono affinché possa essere ripristinato lo status quo ante, sono obbligazioni che valgono solo inter partes, cioè solo tra le parti del contratto, quindi in questi sistemi dovrebbero essere fatti salvi i diritti dei terzi. La regola italiana che cosa dice? La risoluzione anche se è stata espressamente pattuita non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione. Quindi non si sfugge dai principi della trascrizione. Altra conseguenza diversa a seconda della scelta tra i due sistemi, è che se il sistema è retrospettivo, torna tutto allo stato di partenza e non c’è posto per il risarcimento. In tutti gli altri sistemi, anche nel nostro, è fatto salvo il risarcimento del danno.
  3. LE RESTITUZIONI. Soffermiamoci sulla problematica che Di Majo affronta in materia di restituzioni. E’ il caso in cui una parte ha effettuato la prestazione. Essendosi sciolto il contratto con effetto retroattivo, la parte che ha ricevuto la prestazione, ha ricevuto un arricchimento indebito, allora questa situazione a Di Majo ha ricordato il danno da affidamento. Perché il contraente, che per primo aveva eseguito la prestazione, aveva confidato nel fatto che la controparte avrebbe fatto lo stesso, e quindi a questo punto qual è l’interesse del soggetto che ha effettuato la prestazione, che ha visto leso il suo affidamento rispetto ad un contratto che non c’è più? Quello di essere ricollocato nella posizione iniziale, cioè prima di concludere il contratto. L’interesse qui non è quello di essere tenuto indenne dalle spese sopportate e occasioni perdute, quanto quello di ottenere la restituzione di quello che è stato corrisposto in esecuzione della propria obbligazione. Come viene risolto questo problema? In alcuni ordinamenti le restituzioni presuppongo che il contratto si è sciolto e allora rientrano nella disciplina delle restituzioni da indebito. Invece, in altri ordinamenti, la restituzione viene ad essere inserita nel risarcimento del danno, spesso questo procedimento viene fatto dalla giurisprudenza italiana. Qual è la differenza tra scegliere tra l’uno e l’altro? C’è una differenza pratica molto importante: in entrambi i casi il contratto non c’è più, ma la restituzione da indebito è un debito di valuta. La restituzione nel risarcimento è un debito di valore. Qual è la differenza economicamente parlando tra debito di valuta e debito di valore? Il debito di valore viene attualizzato al momento della sua liquidazione, per il debito di valuta prevale il principio nominalistico.

DANNO DA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO

Il danno da risoluzione del contratto deve essere riallacciato al danno contrattuale. Infatti si ricollega a dei principi e a delle regole che abbiamo già trovato nel danno contrattuale.

Secondo una prima teoria, il danno da risoluzione del contratto è il danno da affidamento. Nell’ambito del danno contrattuale, Di Majo parla anche del fatto che in teoria possiamo anche immaginare di risarcire il danno da affidamento in un contratto che è stato validamente concluso, quindi al di fuori delle ipotesi tradizionali del danno da affidamento, perché innanzitutto dobbiamo tenere conto del contratto come fatto storico, e quella che lui chiama l’anima tortius(?) del contratto, cioè che il contratto di per sé può generare un danno, al di fuori anche dello stretto rapporto giuridico contrattuale, per cui nasce l’esigenza tipica del danno aquiliano che è quella di essere tenuti indenni dal peso del danno.
Nel paragrafo in cui lui tiene conto di questo problema, l’autore effettua delle specificazioni in cui è possibile combinare il danno contrattuale con il danno da affidamento e certe volte ricorrere al danno di affidamento quando non è possibile ottenere un risultato applicando i criteri del danno contrattuale. Se noi guardiamo al risarcimento contrattuale come un risarcimento globale, dove possiamo combinare i vari criteri, vediamo che anche in quel caso il danno da affidamento se lo dobbiamo invocare per ottenere un risarcimento di danno contrattuale è un danno da affidamento che ancor una volta si allontana dalle componenti dell’interesse negativo e diventa il danno che il soggetto ha subito per aver confidato nel ricevere la prestazione, quindi è un danno che potrebbe essere più ampio dell’interesse negativo. Questa teoria è la teoria di Gorla ed è rimasta un po’ isolata. Per tutti gli altri autori, anche per Di Majo, dopo la risoluzione del contratto vi è diritto ad ottenere il risarcimento del danno commisurato all’interesse positivo. Perché si preferisce questa tesi? Perché si parte dal presupposto che il contraente che agisce per la risoluzione non si deve trovare in una situazione peggiore di chi agisce per l’adempimento. Cioè chi agisce per l’adempimento vuole la prestazione?chi agisce per la risoluzione deve avere la tutela dell’aspettativa della prestazione, quella che sta alla base dell’interesse positivo. A conferma di ciò, il danno da risoluzione è un danno da inadempimento e quindi questo ci conferma che il risarcimento deve essere guardato dal punto di vista dell’interesse positivo. Poi, il contratto si scioglie, il soggetto che deve ancora eseguire la prestazione è liberato dalla prestazione, ma l’inadempimento come situazione di responsabilità resta e quindi questo ci porta a concludere che nonostante il contratto sia stato sciolto, anche se vi è stata la liberazione dalle prestazioni, vi è compatibilità tra risoluzione e risarcimento. Questo risarcimento è l’interesse alla prestazione e quindi è interesse positivo.

Adesso però diamo delle precisazioni che differenziano il danno da risoluzione dal danno contrattuale. Come si calcola in concreto questo risarcimento? Bisogna tener conto di questi criteri: del vantaggio che la parte inadempiente ha dalla possibilità di disporre della prestazione a far data dalla risoluzione. Allora ricordiamo una cosa, la domanda di risoluzione ha due effetti:
1) il debitore non può più adempiere,
2) il creditore non può più chiedere l’adempimento. Quindi io so che quella prestazione non devo più darla e bisognerà tenere conto del risparmio della prestazione. Altro punto il danno non coincide esattamente con l’aspettativa non realizzata perché è vero che bisogna tutelare chi ha chiesto la risoluzione non ponendola in una situazione peggiore di chi ha chiesto l’adempimento, ma è anche vero che bisogna tener conto che questo soggetto poteva scegliere l’adempimento quindi il suo mancato interesse all’adempimento e alla vita del contratto che lo ha portato a chiedere la risoluzione sarà un elemento di valutazione. In realtà se volessimo applicare rigidamente queste regole, noi dovremmo trovare che il danno emergente non dovrebbe più aversi, non devo più dare non devo più avere, non c’è danno emergente, cambia proprio il sinallagma. Invece c’è lucro cessante, il contratto si scioglie, e prestazioni non dobbiamo darle più, ma rimane l’inadempimento, e l’inadempimento sta fuori dal sinallagma. L’inadempimento come fonte di responsabilità resta, e quindi resta il diritto al lucro cessante. Quindi cosa diamo al signore del danno contrattuale? Non gli diamo il danno emergente, diamo il lucro cessante, diamo qualcos’altro? I danni consequenziali! Perché si pongono al di fuori della prestazione inadempiuta, quindi quel sinallagma che ha segnato la sorte del danno emergente, di fatto non estende la conseguenza della sua esistenza, poi dello scioglimento e quindi dell’inesistenza né al lucro cessante né ai danni consequenziali perché entrambi sono conseguenza diretta dell’inadempimento che lo scioglimento del contratto e la liberazione della prestazioni non fa venire meno.

 

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