Una società per azioni a partecipazione pubblica non perde la sua qualità di soggetto privato - e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile. La scelta di consentire all'ente pubblico di svolgere determinate attività tramite società di capitali - e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico - comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato - Presidente -
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Consigliere -
Dott. CRISTIANO Magda - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 559/2012 proposto da:
omissis in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, omissis - ricorrente -
contro
omissis .;
- intimati -
avverso la sentenza n. 119/2011 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/05/2013 dal Consigliere Dott. MAGDA CRISTIANO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
La Corte d'Appello di Napoli, con sentenza del 25.10.2011, ha respinto il reclamo proposto da omissis contro la sentenza del tribunale di Avellino dichiarativa del suo fallimento.
Per quanto nella presente sede ancora rileva, la corte territoriale ha ritenuto che omissis detenuta per una quota di partecipazione pari al 51% del capitale dall'ente pubblico omissis di Avellino cui il prefetto di Napoli aveva affidato, in regime di concessione, la realizzazione e la gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della provincia, fosse assoggettabile a fallimento, ai sensi della L. Fall., art. 1, dovendosi escludere, nonostante il carattere pubblico dell'attività svolta ed il connesso interesse pubblico alla continuità del servizio che ne era oggetto, la sua natura di società strumentale di un ente pubblico. Ha osservato a riguardo che nè il dato formale, della partecipazione dell’ al capitale, nè il perseguimento del fine pubblico costituivano elementi sufficienti a qualificare omissis come soggetto pubblico e che, per contro, la sua natura privatistica emergeva con chiarezza sia dalla struttura societaria, caratterizzata dalla piena autonomia negoziale, finanziaria e patrimoniale del consiglio di amministrazione, le cui scelte gestionali non erano soggette ai poteri autoritativi del socio di maggioranza, sia dall'ampiezza dell'oggetto sociale, comprensivo di attività di gestione, progettazione e commerciali della più varia natura, non limitate all'ambito locale e svolte in regime di libero mercato. Ha, ancora, escluso che omissis rivestisse carattere necessario per la prefettura, che avrebbe potuto revocare la concessione per motivi di pubblico interesse (quali, ad. es., la sopravvenuta mancanza in capo al concessionario dei requisiti finanziari, tecnici e organizzativi richiesti per la gestione dell'opera) ed ha, infine, affermato che la società non possedeva i requisiti dimensionali e di indebitamento che ne avrebbero consentito la sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria.
La sentenza è stata impugnata da omissis con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo, ed illustrato da memoria. La creditrice istante, omissis , ed il curatore del fallimento non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con l'unico motivo di ricorso omissis contesta di essere assoggettabile a fallimento.
Sostiene che l'errore interpretativo compiuto dalla corte territoriale nel pervenire alla contraria soluzione deriva dall'altrettanto errato utilizzo del criterio "tipologico", che risolve il problema dell'assoggettabilità a fallimento della società partecipata da un ente pubblico in base all'accertamento, indipendente dalla veste giuridica formale da essa assunta, della sua effettiva natura (pubblica o privata), anzichè del diverso e più corretto criterio "funzionale" o "sostanzialistico" che, rinunciando alla pretesa di qualificazione della società , si propone di individuare il regime giuridico applicabile attraverso una valutazione di compatibilità della disciplina di diritto privato con le specifiche normative di settore dettate dal legislatore per l'attività di impresa da essa svolta.
Per illustrare l'inutilità del tentativo di individuare uno "statuto" unitario delle società a prevalente (o totalitaria) partecipazione pubblica, la ricorrente rileva che dette società , ancorchè soggette ad una serie di normative pubblicistiche, sono disciplinate dal diritto privato per altri profili ed, in particolare, per ciò che riguarda le controversie interne fra organi sociali e fra questi ultimi e i soci, spettanti alla giurisdizione del giudice ordinario.
Proseguendo nel ragionamento, omissis osserva, ancora, che le condizioni richieste per l'applicazione delle diverse normative non sono omogenee, con la conseguenza che alcune società in mano pubblica sono soggette all'applicazione dell'intera disciplina richiamata, mentre ad altre possono essere applicati solo "spezzoni" di disciplina e che la natura e l'intensità del collegamento fra l'ente pubblico e la società da questo partecipata, necessari ai fini dell'applicazione della disciplina di settore pubblicistica, sono estremamente variabili, spaziando dal "controllo analogo" richiesto per la legittimità degli affidamenti in house, alla qualifica di "organismo di diritto pubblico" ai fini dell'assoggettamento alle norme dettate per gli appalti di opere pubbliche, alla mera natura di "attività di pubblico interesse" per l'applicazione della normativa sul diritto di accesso. Rileva, infine, a suggello della tesi dell'inutilità dell'indagine concernente la natura giuridica pubblica o privata delle societàin mano pubblica ai fini dell'individuazione della normativa loro applicabile, che l'assoggettamento delle stesse alla disciplina pubblicistica non discende da tale natura ed è prevista solo quando il legislatore (o la giurisprudenza) la reputino necessaria per la tutela di interessi di natura pubblicistica o collettiva che presiedono all'agire della P.A. che, in ragione della loro veste privatistica, esse potrebbero legittimamente ignorare.
A dire della ricorrente, abbandonata la strada percorsa dalla corte di merito, per stabilire se determinate discipline pubblicistiche possano applicarsi a soggetti formalmente privati occorre piuttosto guardare, di volta in volta, agli interessi protetti da quelle discipline; con la precisazione che la scelta (ad es. in materia di appalti) è stata talvolta già compiuta dal legislatore, mentre altre volte è rimessa alla valutazione degli interpreti (come nel caso della giurisdizione amministrativa sugli atti).
Secondo omissis questo criterio può essere utilmente seguito anche nell'affrontare il tema dell'assoggettamento delle società in mano pubblica al fallimento . In proposito la ricorrente deduce che la ragione per la quale la L. Fall., art. 1, prevede la non fallibilità degli enti pubblici risiede nell'incompatibilità della procedura, avente carattere di esecuzione generale e fine di tutela dell'intero ceto creditorio, rispetto all'ordinaria attività dell'ente pubblico, che ne resterebbe paralizzata, con conseguente impedimento per l'ente di perseguire l'interesse pubblico in vista del quale è stato istituito; aggiunge che gli organi della procedura concorsuale non potrebbero mai sostituirsi agli organi politici di gestione, non essendo ammissibile un'interferenza di tipo giudiziario nella sovranità dell'ente.
Ciò premesso, omissis sottolinea come il fallimento di alcune società a partecipazione pubblica non pregiudicherebbe alcuno degli interessi tutelati dall'art. 1 cit., laddove, per altre società , la lesione sarebbe in re ipsa.
Le società appartenenti a questa seconda categoria sono individuate dalla ricorrente nelle partecipate che presentano il carattere della necessità, nel senso che la loro esistenza e la loro operatività sono considerate necessarie dall'ente territoriale, che intrattiene con le stesse rapporti connessi a tale valutazione ed affida loro lo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (quale è, per l'appunto, il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti); nè, a dire della ricorrente, il carattere necessario della società sarebbe escluso dalla possibilità per l'ente di revocare la concessione, posto che la necessità può essere anche temporanea e perciò permanere fino a quando la concessione non venga affidata ad un altro soggetto.
Gli effetti immediati del fallimento, che sono lo spossessamento del debitore e la cessazione dell'attività di impresa, pregiudicherebbero, secondo omissis , l'interesse pubblico all'esecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico essenziale svolto dalla partecipata e il pregiudizio non potrebbe essere evitato neppure disponendo l'esercizio provvisorio, che è istituto volto alla tutela esclusiva dei creditori concorsuali.
Sotto altro profilo, la ricorrente rileva come, per effetto del fallimento, verrebbe ad essere attribuito al giudice il potere di decidere in ordine all'eventuale prosecuzione dell'attività di impresa da parte della società nonchè in ordine al possibile affidamento a terzi (attraverso l'affitto d'azienda) del servizio pubblico essenziale, e si verificherebbe una inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria ordinaria all'autorità amministrativa nell'esercizio di poteri e facoltà di carattere tipicamente pubblicistico, di dubbia compatibilità con i principi costituzionali che regolano l'agire della P.A. e che riservano agli enti pubblici la titolarità delle funzioni amministrative. Sulla scorta di tali considerazioni, omissis assume di non essere assoggettabile a fallimento in ragione della sua natura di ente necessario e strumentale della P.A., cui sono stati affidati precisi compiti e doveri in funzione della migliore tutela della salute pubblica, minacciata dall'emergenza rifiuti verificatasi nella Regione Campania. Richiama, a conferma del proprio assunto, il testo della convenzione stipulata con il Prefetto di Napoli con la quale le sono state affidate, in regime di concessione, la realizzazione e la gestione di un impianto di trattamento dei rifiuti solidi urbani ubicato nel territorio del Comune di omissis , in località (OMISSIS), ed osserva ulteriormente: 1) che, secondo quanto espressamente indicato nelle premesse dell'atto, la convenzione è stata stipulata sul presupposto "della necessità, dell'urgenza e dell'opportunità dell'opera... al fine di fronteggiare la grave situazione di pericolo determinatasi nel territorio della Regione Campania nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani"; 2) che, a mente del comb. disp. degli artt. 4 ed 8 del contratto, essa non aveva libertà di scegliere il proprio cliente nè di negoziare il prezzo del servizio reso; 3) che dunque erano previste precise limitazioni della sua libertà contrattuale non altrimenti motivate che dal suo asservimento all'interesse pubblico; 4) che la sua attività successiva alla stipula è stata dettata, in modo analitico e vincolante, dalle varie ordinanze emesse dal Commissario Straordinario di Governo per l'emergenza rifiuti in Campania; 5) che anche la chiusura della discarica, così come le sue periodiche e temporanee riaperture, sono state disposte con ordinanze del Commissario Straordinario, tutte fondate sui presupposti della necessità ed urgenza ed ai fini della tutela della salute pubblica, 6) che, ai sensi del D.Lgs. n. 36 del 2003, art. 12 comma 3, anche dopo la chiusura essa, quale gestore, è rimasta responsabile della manutenzione, della sorveglianza e del controllo nella fase post- operativa (che dura per tutto il tempo durante il quale la discarica può comportare rischi per l'ambiente) ed ha puntualmente assolto a tale compito, sostenendo elevati costi di gestione il cui accollo non avrebbe alcuna spiegazione se non si riconoscesse il suo asservimento all'interesse pubblico. Conclude ribadendo che le società a partecipazione pubblica che rivestono carattere necessario per l'ente pubblico in ragione dell'attività svolta non possono essere dichiarate fallite perchè sussiste un'oggettiva incompatibilità fra la tutela dell'interesse pubblico e la normativa fallimentare.
Ad avviso di questo giudice, la complessa censura sin qui sintetizzata non merita accoglimento.
Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo nel nostro ordinamento: il codice civile del 1942 già dettava, agli artt. 2458, 2459 e 2460 c.c., le disposizioni applicabili, in tema di nomina e revoca degli amministratori e dei sindaci, alle "società con partecipazione dello Stato o di altri enti pubblici (ed a quelle il cui atto costitutivo prevedesse, pur in mancanza di una partecipazione azionaria, che la nomina di uno o più amministratori e sindaci spettasse alla P.A.) ma, per lungo tempo, non si è dubitato che si trattasse di società di diritto comune, interamente soggette alla disciplina civilistica (e perciò anche alla legge fallimentare), distinte dagli enti pubblici (economici) aventi ad oggetto esclusivo o principale un'attività di impresa (art. 2201 c.c.), ma non fallibili ai sensi dell'art. 2221 c.c. ed L. Fall., art. 1, comma 1.
A partire quantomeno dall'ultimo decennio del secolo scorso, il contesto politico-economico di riferimento ha però subito un innegabile mutamento: il progressivo assottigliarsi della linea di confine fra l'agire pubblico e l'agire privato, l'abbandono di una concezione autoritativa della P.A. in favore di una sua concezione funzionale, nella quale i poteri di cui essa è dotata sono intesi come meramente strumentali alla tutela dell'interesse pubblico, il convincimento diffuso che tale interesse possa essere maggiormente garantito attraverso il ricorso ad istituti di diritto comune, indubbiamente più snelli di quelli usualmente a disposizione dell'apparato burocratico, la fiducia nelle capacità del "mercato" di stimolare la competitività, e quindi di regolamentare al meglio anche attività di contenuto economico tipicamente riservate alla pubblica amministrazione, hanno dato luogo alla sempre più diffusa costituzione (al vero e proprio proliferare) di società c.d. pubbliche, a partecipazione integralmente pubblica o mista, pubblica- privata, o sottoposte ad una particolare influenza da parte di enti pubblici, aventi ad oggetto la gestione non solo di beni proprietà pubblica, ma di servizi di interesse pubblico, in precedenza erogati dallo Stato o dagli enti territoriali attraverso aziende municipalizzate.
Non è invece mutato il quadro normativo generale: il legislatore ha ribadito la scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto comune sia con il D.Lgs. n. 3 del 2003, di riforma del diritto societario, che ha sostituito agli artt. 2458/60 gli artt. 2449 e 2450 c.c. (quest'ultimo, fra l'altro - relativo all'attribuzione allo Stato o ad altri enti pubblici privi di partecipazione azionaria della facoltà di nomina di amministratori e sindaci - abrogato, a seguito dell'avvio di una procedura d'infrazione da parte della Commissione europea, dal D.L. n. 10 del 2007, art. 3, comma 1, convenuto nella L. n. 46 del 2007), sia col D.Lgs. n. 5 del 2006 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato il R.D. n. 267 del 1942, art. 1, comma 1.
E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche , costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica.
La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel contempo, condotto all'emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti, società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall'agire in settori di pubblico interesse: in questa sede, a mero titolo esemplificativo, si possono citare il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, comma 26 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), che definisce organismo pubblico, cui è imposto il rispetto delle norme dettate per gli appalti pubblici, qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale e dotato di personalità giuridica, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico" e la L. n. 241 del 1990, art. 22, come modificato dalla L. n. 15 del 2005, art. 15, che prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse e che, alla lettera e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione "tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".
Tuttavia, è proprio dall'esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
In altre occasioni è stata la giurisprudenza a ritenere applicabili alle società pubbliche o, comunque, attive in settori di pubblico interesse, determinate discipline pubblicistiche: Cass. S.U. n. 9096/05 ha affermato che la qualificazione di un ente come società di capitali non è di per sè sufficiente ad escluderne la natura di istituzione pubblica e quindi ad impedire l'iscrizione nell'apposito albo speciale dell'avvocato operante presso il suo ufficio legale;
Cass. S.U. n. 4511/06 (seguita da altre pronunce conformi) ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti in relazione a fattispecie di danno erariale cagionato da società beneficiane dell'erogazione di fondi pubblici, attraverso i quali erano state chiamate a partecipare alla realizzazione di un programma imposto dalla P.A.;
Cass. S.U. n. 26806/09 ha ritenuto che l'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori spetta alla giurisdizione della Corte dei conti ogni qualvolta trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche e implicante l'utilizzo di risorse pubbliche, o da arrecare pregiudizio al suo patrimonio (con la precisazione che, in quest'ultimo caso, l'azione erariale concorre con l'azione civile di responsabilità).
Le sentenze citate, nel prevedere l'applicabilità a società di capitali di norme pubblicistiche solo a specifici fini, non si pongono però in contrasto con il principio giurisprudenziale costantemente enunciato, a partire da Cass. n. 58/79 (proprio in una fattispecie in cui si discuteva della fattibilità di una s.p.a.concessionaria dello stato e partecipata da enti pubblici), secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perchè un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale; le numerose pronunce che ribadiscono tale principio (per tutte, Cass. S.U. n. 7799/05) trovano fondamento nell'incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia, posto che l'ente può incidere sul funzionamento e sull'attività della società non già attraverso l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina. In materia fallimentare, proprio in questa logica, ancor di recente la Suprema corte ha avuto occasione di affermare che una società per azioni il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza ed ingerenza dell'azionista pubblico, ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto societario, ed il cui oggetto sociale non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la sua qualità di soggetto privato - e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile - per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest'ultimo (Cass. n. 21991/012).
Nel contesto frammentario e multiforme di cui si è cercato sommariamente di dar conto si è tuttavia fatta strada la tesi, di recente avanzata anche nella giurisprudenza di merito, che vi sono società partecipate aventi sostanziale natura giuridica pubblica, desumibile in via interpretativa da taluni indici (in linea di massima, e di volta in volta, ravvisati in -
limitazioni statutarie all'autonomia degli organi societari,
nell'esclusiva titolarità pubblica del capitale,
nell'ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti dallo stato,
nell'erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo),
le quali vanno equiparate ad ogni effetto (e dunque anche ai fini della loro esenzione dal fallimento) agli enti pubblici.Va subito detto che la tesi mal si concilia con la perdurante vigenza del principio generale stabilito dalla L. n. 70 del 1975, art. 4, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco.
Essa, peraltro, non può essere condivisa alla luce di un'analisi del fenomeno societario nelle diverse fasi che lo caratterizzano.
E ciò vale anche nel caso in cui norme legislative o statutarie pongano limiti alla autonomia degli organi deliberativi, posto che la volontà negoziale della società pubblica, pur se determinata da atti propedeutici dell'amministrazione, si forma e si manifesta secondo le regole del diritto privato.
Ad analoga conclusione deve giungersi avuto riguardo al piano dell'attività, cioè dei rapporti che la società, in quanto soggetto riconosciuto dall'ordinamento come dotato di una propria capacità giuridica e di agire, instaura con i terzi. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono, infatti, sul modo in cui essa opera nel mercato nè possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica.
Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla L. n. 91 del 1981), l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, si può, in definitiva, concordare con l'assunto della ricorrente, secondo cui non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell'interesse perseguito, da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene l'appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società- ente, sottratto in foto al diritto comune.
Ciò che non può condividersi è invece il corollario che da tale premessa omissis intende trarre, che si sostanzia nell'affermazione che la verifica dell'applicabilità alle società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di specifiche disposizioni normative, va compiuta di volta in volta, a seconda della materia di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore. In tale ottica, per venire al tema che in questa sede interessa, secondo la ricorrente non potrebbero essere dichiarate fallite le società partecipate (fra le quali essa si annovera) aventi carattere necessario per l'ente territoriale, ovvero quelle che svolgono un servizio pubblico essenziale, la cui esecuzione continuativa e regolare verrebbe ad essere pregiudicata dalla dichiarazione di fallimento.
La prima, facile, obiezione che può muoversi a tale assunto è che ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale non è il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento.
Neppure è persuasivo l'argomento che, dalla necessità del servizio pubblico gestito, vorrebbe far derivare la necessità del soggetto privato che lo eroga, con conseguente sua esenzione dal fallimento.
Va intanto ricordato che il D.L. n. 134 del 2008, convertito dalla L. n. 166 del 2008, detta norme specifiche in materia di ristrutturazione industriale di grandi imprese in crisi che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, proprio al fine di assicurare che questi non subiscano interruzioni, ma non esclude che tali imprese siano sottoposte alla procedura di amministrazione straordinaria.
Risulterebbe pertanto privo di coerenza un sistema che, per contro, esonera dalla procedura concorsuale ordinaria i gestori di servizi pubblici essenziali che non raggiungono le soglie dimensionali necessarie per accedere a quella di amministrazione straordinaria.l D.Lgs. n. 267 del 2008, artt. 112 e 118 (T.U.E.L.) e dalle successive leggi di modifica e/o di integrazione mantiene fermo il principio della separatezza fra titolarità degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all'esercizio dei servizi pubblici (che devono restare di proprietà degli enti, salvo che questi non li conferiscano a società a capitale interamente pubblico e incedibile) e attività di erogazione dei servizi, che può essere affidata anche a soggetti privati (L. n. 138 del 2011, art. 4, comma 28).
, la complessa disciplina ricavabile da
Il fallimento della partecipata, ancorchè, in ipotesi, costituta all'unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude dunque all'ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto.
Infine, il pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio, per il tempo necessario all'ente locale ad affidarlo ad un nuovo gestore, può essere evitato attraverso il ricorso all'istituto dell'esercizio provvisorio, previsto dalla L. Fall., art. 104. Va condivisa sul punto la tesi, avanzata in dottrina e seguita anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l'esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell'interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall'impresa fallita.
Nè si comprende sotto quale profilo l'autorizzazione alla continuazione temporanea dell'esercizio dovrebbe comportare una inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria ordinaria all'autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell'esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento.
Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali - e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico - comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.
Le considerazioni sin qui svolte rendono superfluo l'esame delle questioni di fatto illustrate dalla ricorrente al fine di dimostrare la sua qualità di ente strumentale e necessario per la P.A..
Poichè le parti intimate non hanno svolto attività difensiva, non v'è luogo alla liquidazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2013
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