LEGGE 13 aprile 1988, n. 117 - Art. 2. Responsabilita' per dolo o colpa grave (come modif. dalla L 18/2015)

1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia puo' agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali ((...)).

((2. Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove)).

((3. Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

3-bis. Fermo restando il giudizio di responsabilita' contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonche' dell'inescusabilita' e della gravita' dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonche' del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea)).

La vecchia legge poneva quale requisito già al livello d’illecito giudiziario di cui rispondeva lo Stato la negligenza inescusabile, sicché non era sufficiente accertare l’esistenza del nesso eziologico, ma si doveva anche compiere l’indagine relativa alla negligenza inescusabile.


In base alla nuova legge la negligenza inescusabile del magistrato è esclusivamente presupposto dell’azione di rivalsa ed il legislatore ha configurato quale ipotesi tipica di colpa grave, integrante il requisito soggettivo dell’illecito, la violazione manifesta della legge, oltre che il travisamento del fatto o delle prove, nonché l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento.

In base alla nuova legge lo Stato risponde del mero errore percettivo del magistrato, che sia stato causa o concausa del danno, salvo rivalersi su di lui se quell’errore percettivo sia stato determinato da negligenza inescusabile (o da dolo).

Quest’ultima formulazione della disposizione appare più coerente alla giurisprudenza della Cedu, di cui dà conto la stessa sentenza del tribunale di Messina sez. I, sentenza 30 maggio 2017 (Corte Edu 2 marzo 2017, Talpis c. Italia), che nel ritenere responsabile lo Stato guarda al dato obiettivo dell’inerzia dell’autorità.

 

Violazione manifesta della legge

riguarda la disposizione, non la norma, e corrisponde all’inosservanza del significato linguistico della disposizione. Non è attività interpretativa in senso proprio, ma percezione della portata semantica della disposizione (l’art. 2, comma 3 bis, sottolinea che ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la “violazione manifesta della legge” si deve tenere conto, fra l’altro, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate). La violazione di legge, rilevante dal punto di vista della responsabilità civile, è quindi il travisamento linguistico della disposizione.. Una volta che i giudici siano chiamati non solo ad applicare regole legislative, ma anche a bilanciare principi costituzionali, il problema del travisamento linguistico può porsi solo per la legge, la quale consta di enunciati linguistici, e non per la norma risultante dal bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso, la quale è in sé priva di disposizione.

Per l’Unione europea si adopera il termine “diritto” e non più “legge”

per la forza cogente con cui si impongono all’ordinamento interno non solo le regole, ma anche i principi unionali: ma qui interviene la specialità della responsabilità per violazione del diritto dell’Unione europea, vero e proprio corpo estraneo nell’ambito della l. n. 117 del 1988, trattandosi non di illecito dell’organo giudiziario, ma di illecito dello Stato nella sua unità quale membro dell’Unione europea.

travisamento del fatto o delle prove

è nozione distinta da quella di “valutazione delle prove”. Per la sua definizione può farsi riferimento alla giurisprudenza sull’art. 606 lett. e) cpp, la quale ha chiarito che il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio.

Sentenza del tribunale di Messina sez. I, sentenza 30 maggio 2017

La sentenza in commento (Tribunale di Messina, sez. I, sentenza 30 maggio 2017) afferma che sussiste la responsabilità civile dello Stato per grave violazione di legge da parte del Pubblico Ministero, anche nell’ipotesi in cui questi ometta per negligenza inescusabile di compiere un atto di indagine che, in forza di una valutazione probabilistica, se fosse stato compiuto sarebbe stato idoneo ad evitare l’omicidio della vittima, la quale aveva denunciato più volte le minacce gravi subito dall’indagato.

La vicenda in esame riguarda l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato per fatto colposo del magistrato, nella specie per aver omesso a causa di negligenza inescusabile di compiere le indagine necessarie in relazioni a plurime denunce presentate da una donna nei confronti del marito, la quale era stata poi uccisa dal coniuge utilizzando un coltello.

Il procedimento civile nei confronti dello Stato per la responsabilità derivante da condotte dolose o colpose del magistrato, ai sensi della legge n.117/1988 come novellata dalla legge n.18/2015), ha nel caso di specie come presupposto di fatto l’omicidio di una donna uccisa a coltellate dal marito, che era stato più volte denunciato dalla vittima per minacce, aggravate dal possesso di un coltello, maltrattamenti o lesioni, nell’ambito di una difficilissima separazione coniugale. Per alcuni fatti denunciati vi erano stati provvedimenti di archiviazione (anche per difetto di querela), per altri invece l’autorità giudiziaria aveva provveduto con l’applicazione per un breve periodo della misura cautelare dell’allontanamento del marito dalla casa familiare ai sensi dell’art. 282 bis cod. proc. pen., giungendo anche ad una sentenza di patteggiamento per alcuni reati.

Il ricorrente ( il tutore dei figli della donna) tuttavia lamentava che la Procura competente non aveva, a suo dire, disposto i seguenti atti :

1) l’interrogatorio dell’indagato; 2) sollecitato gli organi competenti ad emettere un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi dell’art. 73 c.p.p.; 3) disposto il ricovero presso una casa di cura o ospedale psichiatrico a titolo di misura di sicurezza personale ex art. 206 c.p.; 4) richiesto l’applicazione della misura di sicurezza ex art. 219, comma 3, c.p.

l Tribunale di Messina, investito del procedimento (a seguito peraltro di un annullamento con rinvio della Cassazione), con motivazione dettagliata escludeva che le lamentele del ricorrente circa gli atti giudiziari non compiuti dal P.M., nei termini sopra esposti, avessero un fondamento, non sussistendo i presupposti di legge per la loro emissione. Né peraltro si poteva procedere per reati che consentivano la richiesta di misura cautelare custodiale, dato che il reato di atti persecutori ( art. 612 bis c.p.) era stato introdotto solo successivamente ai fatti oggetto del procedimento, e la misura dell’allontanamento dalla casa familiare era stata revocata a seguito dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato.

I giudici messinesi hanno però ritenuto che per alcuni episodi denunciati nel mese di giugno 2007, configuranti astrattamente il reato di minaccia, aggravata per l’utilizzo di un coltello a scatto, non si era proceduto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato, né era stata eseguita una perquisizione locale o personale al fine di accertare la detenzione di armi da parte del futuro omicida, e che non erano stati compiuti atti di indagine o adottate misure al fine di neutralizzare la pericolosità dell’uomo, a fronte di denunce/querele dalle quali poteva razionalmente presagirsi un intento, se non omicida, quantomeno di violenza ai danni della donna. La negligenza del P.M. ad avviso del Tribunale integrava perciò un’ipotesi di grave violazione di legge, riconoscendo perciò la responsabilità civile dello Stato, ai sensi dell’art. 2, della L. n. 117/1988.

Il passaggio decisivo ai fini della condanna dello Stato è quello relativo al nesso di causalità tra l’omessa perquisizione ed il successivo omicidio, laddove il Tribunale ha sostenuto : “ Si può pertanto affermare che il rinvenimento del coltello ed il suo conseguente sequestro avrebbero, con valutazione probabilistica, impedito il verificarsi dell’evento omicida avvenuto il 3.10.2007. Tale valutazione ovviamente non consente di escludere, in assoluto, che la volontà omicida del reo sarebbe stata comunque portata a compimento in altro modo, ma è altamente probabile che l’evento del 3.10.2007, con quelle specifiche modalità esecutive – uccisione della donna con plurime coltellate all’addome ed al torace con quel coltello – sarebbe stato evitato.”

La sentenza ha concluso affermando che : “ ...è rinvenibile la fattispecie di cui all’art. 2, comma 3, lett. a), L. n. 117/1988 nella condotta dei magistrati della Procura della Repubblica, i quali, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati a decorrere dal mese di giugno 2007 e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità dell’uomo, hanno commesso una grave violazione di legge, con negligenza inescusabile.”

Certamente il pubblico ministero che aveva ricevuto la denuncia per fatti astrattamente configuranti il reato di minaccia, aggravata dal possesso di un coltello a scatto ai sensi dell’art. 612, comma 2, c.p. ( che richiama l’art. 339 c.p.), e successivamente non aveva provveduto a svolgere alcun atto di indagine, tra cui la perquisizione personale o domiciliare alla ricerca di armi, né aveva adottato misure per neutralizzare la pericolosità dell’indagato ( ove possibili), va senza dubbio censurato per essere incorso di una grave negligenza in termini generali, salvo poi vedere in concreto se quel magistrato era in grado, in ragione del numero di fascicoli a lui assegnati, di seguire con la dovuta diligenza anche i procedimenti penali meno gravi, come può essere quello relativo al reato di minaccia, per i quali non è prevista dalla legge neppure la possibilità di misure cautelari.

Ma al di là di un approccio suggestivo e generico, che addosserebbe al P.M. la colpa di “non aver fatto nulla” per evitare il possibile omicidio, nel momento in cui si affronta più nel dettaglio la vicenda ci si rende conto che l’evento omicida non può essere considerato quale conseguenza immediata e diretta della negligenza del pubblico ministero.

I giudici di merito, ricavano la responsabilità del magistrato in particolare per non aver egli effettuato la perquisizione personale o locale al fine di accertare la detenzione di armi, atto che, con valutazione del tutto probabilistica, avrebbe forse condotto al rinvenimento del coltello oggetto di denuncia da parte della vittima ed al suo conseguente sequestro, con la conseguenza che in tal caso sarebbe stato impedito al reo di uccidere la donna mediante un coltello a scatto, che si è presunto essere lo stesso che era stato descritto nella denuncia per le minacce gravi.

E’ facile osservare però che la perquisizione poteva facilmente avere esito negativo, perché l’indagato ad esempio poteva nascondere il coltello in altro luogo diverso dalla sua abitazione, ben sapendo di essere stato denunciato più volte dalla moglie. E se anche essa invece avesse avuto esito positivo con il sequestro di un coltello a scatto, non si ritiene che per ciò solo il proposito omicida trovasse seri ostacoli a realizzarsi con altri mezzi, considerato che anche un semplice coltello da cucina può a volta essere arma idonea ad uccidere, oppure anche un altro oggetto contundente che non sia un coltello o in qualunque altro modo. La effettiva forza impeditiva dell’atto di indagine omesso, appare perciò del tutto eventuale ed ipotetico.

Il punto debole della sentenza appare essere perciò l’affermazione in ordine alla sussistenza del nesso causalità tra l’omissione e l’evento morte. Infatti è noto che per accertare il nesso di causalità nelle condotte omissive sia in sede civile sia in sede penale, si deve procedere al cosiddetto giudizio controffattuale, ossia dimostrare attraverso una valutazione prognostica compiuta ex ante che, nell’ipotesi in cui la condotta omissiva fosse stata invece realizzata dall’agente, l’evento dannoso non si sarebbe verificato con certezza o ragionevole probabilità. Nel caso di specie poteva affermarsi che nell’ipotesi in cui il pubblico ministero avesse disposto la perquisizione a carico dell’indagato, si sarebbe evitato con ragionevole certezza o con alta probabilità il successivo omicidio della moglie ? Per le ragioni sopra esposte appare arduo poter sostenere questo reale effetto impeditivo tra la perquisizione e l’omicidio, anche in termini di mera probabilità come ritenuto dal Tribunale, considerato peraltro il notevole lasso di tempo trascorso tra la denuncia della minaccia subita con il coltello (giugno 2007) e l’aggressione mortale (ottobre 2007).

L’unico atto giudiziario che forse avrebbe avuto potuto ( momentaneamente) impedire l’evento era l’applicazione di una misura cautelare in carcere, che però nella specie non era possibile disporre in ragione dei limiti edittali del reato di minacce anche aggravate per il quale si procedeva, anche perché all’epoca non era ancora stato introdotto il reato di atti persecutori, ossia l’art. 612 bis cod. pen., fattispecie che ora consente invece l’applicazione di misure cautelari personali.

In generale va sottolineato che i casi più frequenti e che qui ci interessano, sono quelli in cui l’omissione del magistrato è riferibile a provvedimenti la cui emanazione è discrezionale ( come disporre una perquisizione o richiedere una misura cautelare), ipotesi che riguardano quasi esclusivamente l’attività inquirente e requirente del pubblico ministero, in quanto il giudice è invece tenuto a provvedere nei confronti di qualunque istanza gli venga presentata, anche se palesemente infondata o inammissibile. Come è noto però le scelte discrezionali del P.M. non possono essere sindacate in sede di azione di responsabilità civile contro lo Stato, perché ciò creerebbe un vulnus al principio di autonomia ed indipendenza della magistratura. Infatti, anche a seguito delle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n.18, la cosiddetta clausola di salvaguardia, contenuta nell’articolo 2, comma 2, della L. 117/1988, prevede che : “ Fatti salvi i commi 3 e 3 bis ed i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”, concetto che ricomprende certamente anche la scelta di quali atti di indagine compiere ed in quale momento compierli, non potendosi immaginare che di fronte ad una denuncia il P.M., titolare di centinaia o a volte migliaia di procedimenti, si attivi sempre con la tempestività necessaria.

In conclusione si può ritenere che le condotte inerti del pubblico ministero difficilmente possano integrare i presupposti per l’affermazione della responsabilità civile ex L. n. 117/1988, sia perché l’omissione di alcuni atti di indagine può essere frutto di una scelta discrezionale del magistrato inquirente coperta dalla clausola di salvaguardia, sia perché appare difficile provare il nesso di causalità immediato e diretto con l’evento criminale, tenuto conto che quasi tutti i provvedimenti del P.M. sono soggetti al controllo del giudice, per cui l’incidenza della sua omissione nella causazione del danno va verificata operando anche una prognosi sull’eventuale decisione del giudice (ad es. il P.M. non presenta richieste di misure cautelari ritenute poi necessarie ad evitare la commissione di ulteriori reati, richieste che in ogni caso sarebbero dovute essere emesse dal giudice in base ad una valutazione che di regola è difficilmente prevedibile, anche in ordine ai tempi di risposta del giudice investito della richiesta ).

 

 

 

 

»»»»»» »»»»» »»»»»» »»»»» 


Informazioni generali sul sito