CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 giugno 2017, n. 3005. Il passaggio di proprietà in capo all’amministrazione può avvenire, tramite un accordo transattivo, un’usucapione (in presenza dei relativi presupposti) ovvero unicamente in due casi: qualora il privato agisca contro l’amministrazione non per la restituzione del bene ma soltanto per la condanna all’equivalente in denaro, allorché si può ricavare un'implicita rinuncia abdicativa al diritto;
qualora l'amministrazione disponga un'acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis delT.U. 327/2001, attraverso una procedura espropriativa abbreviata, con onere rafforzato di motivazione.Nella vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe, l’amministrazione, per effetto delle opere realizzate, trasformava irreversibilmente un terreno privato ad uso pubblico, senza che fosse stata perfezionata alcuna procedura di esproprio.
Ad avviso della VI Sezione, l’orientamento riportato dalla difesa dell’amministrazione, ricavato in via interpretativa dall’art. 940 c.c., e per il quale nell’istituto della specificazione “se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera”, va disatteso. E’ infatti evidente, da una semplice lettura della norma, che l’art. 940 c.c. presuppone la trasformazione di una cosa mobile, e quindi non contempla il caso di attività compiute su un fondo.
E’ del tutto noto che in passato la fattispecie descritta comportava l’acquisto della proprietà del bene così trasformato in capo all’amministrazione, tenuta soltanto al risarcimento del danno, in base ad un istituto di creazione giurisprudenziale, denominato per tal motivo “occupazione acquisitiva” ovvero “espropriazione di fatto”,
E’ però altrettanto noto che, a partire dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia, causa n.31524/96 e 11 dicembre 2003 Carbonara e Ventura contro Italia causa n.24638/94, tale istituto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - CEDU, che stabilisce: “(Protezione della proprietà) Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni (comma 1). Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale (comma2). Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende (comma 3).”
Il passaggio di proprietà in capo all’amministrazione può infatti avvenire - escluse le ipotesi particolari, nella specie nemmeno allegate, di un accordo transattivo o di un’usucapione di cui effettivamente ricorrano tutti i presupposti - solo in due casi.
Il primo è quello in cui il privato agisca contro l’amministrazione non per la restituzione del bene - come invece qui è avvenuto - ma soltanto per la condanna all’equivalente in denaro, domanda in cui si ritiene implicita una rinuncia abdicativa al diritto.
Il secondo è quello in cui l’amministrazione emetta un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del citato T.U. 327/2001, norma che è stata introdotta dall'art. 34, comma 1, d.l. 6 luglio 2011 n.98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011 n.111, prevede in estrema sintesi una procedura espropriativa abbreviata, con onere rafforzato di motivazione, ed è stata giudicata conforme a Costituzione, anche sotto il profilo del rispetto della CEDU, da C. cost. 30 aprile 2015 n.71.
Tuttavia, nel caso in esame non si è verificata alcuna delle predette ipotesi, sicché, per ragioni ignote, del citato art. 42 bis l’amministrazione non ha ritenuto di fare uso. Ne è derivato il rigetto del ricorso e la condanna alle spese di giudizio dell’amministrazione
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - SENTENZA 21 giugno 2017, n.3005 -Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5577 del 2011, proposto dal Ministero per i beni e le attivita' culturali, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
i signori Alfonso De Martino, Anna De Martino, Daniele De Martino, Gennaro De Martino e Maria Immacolata De Martino, rappresentati e difesi dagli avvocati Fausta Sorrentino, Giuseppe Ceceri e Domenico Sorrentino, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Sorrentino in Roma, via Oslavia 30;
per la riforma ovvero l’annullamento
previa sospensione
della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, sezione V, 29 marzo 2011 n.1824, resa fra le parti, con la quale si è pronunciato sui ricorsi nn.7012/1999 e 8415/2001, proposti per l’annullamento rispettivamente dei decreti 18 maggio 1999 e 16 maggio 2001 del Ministero per i beni e le attività culturali – MIBAC, di proroga dell’occupazione temporanea dei terreni di proprietà dei ricorrenti, e in entrambi i casi per la condanna dell’amministrazione intimata al risarcimento del danno e al rilascio dei terreni stessi.
In particolare, la sentenza, previa loro riunione, ha accolto i ricorsi, annullato i provvedimenti impugnati e dichiarato gli obblighi di restituzione dei fondi ai privati e di risarcimento del danno;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Alfonso De Martino, Anna De Martino, Daniele De Martino, Gennaro De Martino e Maria Immacolata De Martino;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 maggio 2017 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Marco Stigliano Messuti e l’avvocato Alessio Petretti per delega dell'avv. Giuseppe Ceceri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I ricorrenti appellati sono proprietari di un terreno di circa 59 mila metri quadri situato a Castellamare di Stabia, nella via vicinale Grotta San Biagio, distinto al catasto di quel Comune al foglio 6, particella 335, partita 10797, che è stato interessato da una procedura espropriativa da parte del Ministero per i beni e le attività culturali – MIBAC, iniziatasi con una dichiarazione di pubblica utilità del 18 maggio 1986.
Più precisamente, il terreno è compreso nell’area sottoposta a vincolo archeologico adiacente ai reperti della Villa Arianna, di epoca romana, ed è stato interessato dalla procedura in questione allo scopo di realizzarvi lavori di consolidamento della sovrastante collina di Varano, resi necessari da periodici smottamenti (per tutto ciò, si veda la sentenza impugnata alle pp. 2 e 9; si tratta comunque di fatti incontestati).
In primo grado, essi hanno impugnato, con due distinti ricorsi rubricati rispettivamente ai numeri 7102/1999 e 8415/2001, due dei decreti ministeriali di proroga dell’occupazione temporanea dei terreni in questione, e in entrambi i ricorsi hanno contestualmente proposto domanda di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno e al rilascio dei terreni stessi.
Con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il TAR ha riunito i ricorsi, ha ritenuto che il terreno in questione sia stato irreversibilmente trasformato in opera pubblica, ha annullato per conseguenza i provvedimenti impugnati ed ha dichiarato a carico dell’amministrazione gli obblighi di restituzione dei fondi ai privati e di risarcimento del danno, liquidato quest’ultimo nella somma di € 14,32 al metro quadro, da maggiorare di interessi e rivalutazione monetaria dalla data di proposizione del ricorso a quella di deposito della sentenza e da diminuire di eventuali somme già percepite a titolo indennitario o risarcitorio.
Il MIBAC impugna questa sentenza con appello contenente due motivi:
- con il primo di essi, sostiene che il TAR avrebbe errato nel disporre la restituzione ai ricorrenti appellati del bene, che dovrebbe ritenersi divenuto di proprietà dell’amministrazione stessa per specificazione ai sensi dell’art. 940 c.c.;
- con il secondo motivo, sostiene che sarebbe errato il criterio di liquidazione del danno, che si dovrebbe invece liquidare in misura pari agli interessi moratori sul valore del bene, assumendo come capitale di riferimento il valore di mercato in ciascun anno del periodo di occupazione, con gli incrementi e le decurtazioni di cui si è detto.
Resistono i ricorrenti appellati, con memoria 26 agosto 2011, in cui chiedono che l’appello sia respinto; osservano che l’amministrazione non potrebbe in realtà acquistare la proprietà del bene attraverso un illegittimo esproprio; osservano poi che il secondo motivo di appello, comunque infondato nel merito, sarebbe anche inammissibile per difetto di interesse, non avendo l’amministrazione provato che esso condurrebbe ad una liquidazione a lei più favorevole.
La Sezione, con ordinanza 30 agosto 2011 n.3657, accoglieva la domanda cautelare limitatamente all’obbligo di restituire il bene, che sospendeva.
All’udienza del giorno 04 maggio 2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito precisate.
2. Il primo motivo di appello, che critica la sentenza del TAR nella parte in cui ha imposto la restituzione del bene, è infondato.
3. Come si ricorda per chiarezza, la sentenza di primo grado ha accertato che il terreno di proprietà dei ricorrenti appellati è stato trasformato irreversibilmente ad uso pubblico per effetto delle opere ivi realizzate dall’amministrazione, senza che sia stata perfezionata la relativa procedura di esproprio.
In mancanza di appello sul punto specifico, il relativo accertamento deve quindi ritenersi coperto da giudicato.
4. Ciò posto, l’amministrazione sostiene che tale fattispecie concreta avrebbe prodotto l’acquisto a suo favore della proprietà del bene immobile così trasformato, per effetto di una norma ricavata in via interpretativa dall’art. 940 c.c., che prevede in generale l’istituto della specificazione: “Se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera. In quest’ultimo caso la cosa spetta al proprietario della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera.”.
5. In proposito, va subito detto che tale ordine di idee si richiama in modo espresso all’orientamento di parte della giurisprudenza di primo grado, per tutte di TAR Puglia Lecce sez. I 29 aprile 2011 n.785, e che tale orientamento, sorto all’epoca in cui l’appello fu proposto, non ha avuto seguito nella giurisprudenza di questo Giudice, e risulta ad oggi abbandonato.
E’ infatti evidente, a semplice lettura della norma, che l’art. 940 presuppone la trasformazione di una cosa mobile, e quindi non contempla il caso di attività compiute su un fondo.
6. Le ragioni dell’inapplicabilità della norma al caso in esame sono però altre, e implicano considerazioni di principio.
E’ del tutto noto che in passato la fattispecie descritta comportava l’acquisto della proprietà del bene così trasformato in capo all’amministrazione, tenuta soltanto al risarcimento del danno, in base ad un istituto di creazione giurisprudenziale, denominato per tal motivo “occupazione acquisitiva” ovvero “espropriazione di fatto”,
E’ però altrettanto noto che, a partire dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia, causa n.31524/96 e 11 dicembre 2003 Carbonara e Ventura contro Italia causa n.24638/94, tale istituto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - CEDU, che stabilisce: “(Protezione della proprietà) Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni (comma 1). Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale (comma2). Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende (comma 3).”
La Corte ha infatti ritenuto che l’espropriazione di fatto contrastasse con tale principio, fondamentalmente perché consentiva all’amministrazione di trarre beneficio da un illecito, lasciando il privato senza tutela di fronte ad un fatto compiuto.
7. Parimenti è noto che nel nostro ordinamento alle norme della CEDU, resa esecutiva con una legge ordinaria, la l. 4 agosto 1955 n°848, si riconosce ormai valore di norme costituzionali.
Si argomenta infatti dall’art. 117 Cost nel suo testo attuale, che prescrive in modo espresso al legislatore ordinario il rispetto degli obblighi internazionali, e quindi eleva al rango di norme interposte tutte le norme di recepimento di un trattato, ancorché formalmente esse siano di rango soltanto legislativo; così in modo esplicito la Corte costituzionale, nelle sentenze 24 ottobre 2007 n°348 e n°349 nonché 12 marzo 2010 n°93.
8. Per conseguenza, qualsiasi norma, comunque introdotta nel nostro ordinamento, la quale pervenisse allo stesso risultato di un’espropriazione di fatto, sarebbe da ritenere senz’altro incostituzionale.
In tal senso, si è espressa C. cost. 8 ottobre 2010 n.293, la quale ha dichiarato illegittimo l’art. 43 del T.U. espropriazioni 8 giugno 2001 n°327, norma che consentiva comunque di realizzare l’espropriazione di fatto in parola, se pure con l’espediente formale di un provvedimento in tal senso. Come si ricorda per completezza, in motivazione la Corte fa centro su un eccesso di delega; in via incidentale, però, non manca di ritenere la norma per sé sospetta di incostituzionalità, in quanto volta a perseguire un risultato non consentito dall’ordinamento.
A maggior ragione, deve allora escludersi, in base al principio dell’interpretazione costituzionalmente orientata, che identico risultato si possa raggiungere appunto per via di interpretazione delle norme già vigenti, nel caso dell’art. 940 c.c.
9. Ciò posto, la giurisprudenza di questo Consiglio, per tutte sez. IV 13 aprile 2016 n.1466 e 23 settembre 2016 n.3929, è orientata nel senso che l’occupazione del terreno di un privato seguita dalla sua irreversibile trasformazione ad uso pubblico comporti in linea di principio l’obbligo dell’amministrazione responsabile di restituire il bene e di risarcire il danno, così come correttamente deciso dal Giudice di primo grado,
Il passaggio di proprietà in capo all’amministrazione può infatti avvenire, escluse le ipotesi particolari, nella specie nemmeno allegate, di un accordo transattivo o di un’usucapione di cui effettivamente ricorrano tutti i presupposti, solo in due casi, nessuno dei quali qui si è verificato.
Il primo è quello in cui il privato agisca contro l’amministrazione non per la restituzione del bene, come invece qui è avvenuto, ma soltanto per la condanna all’equivalente in denaro, domanda in cui si ritiene implicita una rinuncia abdicativa al diritto.
Il secondo è quello in cui l’amministrazione emetta un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del citato T.U. 327/2001, norma che è stata introdotta dall'art. 34, comma 1, d.l. 6 luglio 2011 n.98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011 n.111, prevede in estrema sintesi una procedura espropriativa abbreviata, con onere rafforzato di motivazione, ed è stata giudicata conforme a Costituzione, anche sotto il profilo del rispetto della CEDU, da C. cost. 30 aprile 2015 n.71.
Dell’art. 42 bis, peraltro, per ragioni che non si conoscono, nella vicenda in esame l’amministrazione non ha ritenuto di fare uso.
10. Il secondo motivo di appello è invece inammissibile per difetto di interesse, come correttamente eccepito dai ricorrenti appellati. L’atto di appello dell’amministrazione, infatti, non spiega in alcun modo quali sarebbero le conseguenze per essa più favorevoli del diverso criterio risarcitorio di cui reclama l’applicazione, e quindi non dà conto del vantaggio che ne ricaverebbe.
11. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
12. Va altresì disposta, sempre come da dispositivo, la trasmissione di copia di questa sentenza alla Procura regionale della Corte dei conti per il Lazio, da ritenere competente dato che si tratta di atti di un’amministrazione centrale, perché valuti eventuali profili di responsabilità ravvisabili nelle condotte dei funzionari preposti alla gestione della pratica.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n.5577/2011), lo respinge.
Condanna l’amministrazione appellante a rifondere agli appellati le spese del presente grado di giudizio, spese che liquida in € 7.000 (settemila/00), oltre accessori di legge, se dovuti.
Dispone che la Segreteria trasmetta copia di questa sentenza alla Procura regionale della Corte dei conti per il Lazio, per quanto di eventuale competenza.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa
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