Il decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97, è stato il primo tra gli undici provvedimenti di attuazione della c.d. riforma Madia a tagliare il traguardo.
Con tale normativa viene simbolicamente portato a compimento un cammino lungo, iniziato con i fallimentari tentativi della Commissione Forti del 1945, dell’Assemblea Costituente del 1947 e della Commissione Bozzi del 1983, di affermare il diritto del cittadino ad avere visione e copia degli atti amministrativi, combattendo il malvezzo esistente nell’amministrazione, di ostacolare tale conoscenza; e proseguito con la legge 241/990 che, agli articoli 10 e 22, ha affermato il diritto, costituente bene autonomo della vita, dei soggetti portatori di interessi qualificati a conoscere, nel corso del procedimento e a valle di esso, gli atti che li riguardano; e coronato, infine, con l’accesso civico e, ora, con l’accesso universale.

Il decreto n. 97/2016, in questo quadro di valori, ha l’ambizione di realizzare un cambiamento comune a tutte le Pubbliche Amministrazioni, con l’introduzione di una nuova forma di accesso civico equivalente al Freedom of information act (FOIA), per riconoscere ai cittadini, in nome di una total disclosure tipica del mondo anglosassone, la possibilità di accedere anche ai dati e ai documenti per i quali non sussista l’obbligo espresso di pubblicazio- ne. La strada verso i primi risultati concreti è ancora lunga, ma la direzione è senza dubbio quella giusta e la mappa legale dei controlli e delle sanzioni avrà un notevole rilievo.

In ogni caso, nella prospettiva dell’accessibilità totale, la novità più significativa, è il diritto di accesso civico “libero”, secondo la definizione del nuovo istituto da parte del Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema di decreto8, fermo restando l’originario diritto di accesso civico introdotto dal codice della trasparenza e concernente i dati, le informazioni ed i provvedi- menti per i quali esiste l’obbligo di pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni.

Il parere del Consiglio di Stato ha rilevato come, d’altronde, la piena, effettiva, efficace affermazione del valore della trasparenza richieda di coniugarlo con la semplicità. A volte, in passato, evidenzia il detto Consiglio, l’esigenza di trasparenza è stata, infatti, collegata a oneri – regolatori, amministrativi, economici –“non necessari” al perseguimento dello scopo. Ciò ha indebolito, di fatto, il perseguimento dello scopo medesimo, creando, piuttosto, una sorta di “burocrazia della trasparenza” che si è andata soprapponendo alla burocrazia già esistente, con risultati poco rile- vanti per la tutela di questo valore fondamentale, ma con importanti effetti collaterali negativi, dall’incremento di oneri all’incentivazione degli stessi fenomeni corruttivi che si intendeva contrastare. Inoltre, la stessa copiosi- tà (e talvolta occasionalità) degli interventi normativi ha, il più delle volte, rischiato di compromettere un approccio sistemico e, con esso, una più me- ditata comprensione del fenomeno della trasparenza, con il paradosso che l’eccesso incontrollato di informazioni può provocare quella “opacità per confusione” che di essa costituisce l’esatto contrario.

Anche il Garante per la protezione dei dati personali, nell’audizione presso le Commissioni congiunte Affari costituzionali del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati del 6 aprile 2016 sullo schema di decreto legislativo correttivo della disciplina in materia di trasparenza, ha evidenziato come la detta «disciplina, che possiede grandi potenzialità quale strumento di partecipazione, di responsabilità e legittimazione, dovrebbe essere preservata dagli effetti distorsivi di una concezione meramente burocratica e da quella «opacità per confusione» che rischia di caratterizzarla se degenera in un’indiscriminata bulimia di pubblicità». Il Garante ha aggiunto che «se priva di adeguati criteri discretivi, la divulgazione di un patrimonio informativo immenso e sempre crescente (quale quello delle pubbliche amministrazioni) rischia, infatti, di mettere in piazza spaccati di vita individuale la cui conoscenza è inutile ai fini del controllo sull’esercizio del potere ma, per l’interessato, può essere estremamente dannosa. Un eccesso indiscriminato di pubblicità rischia, peraltro, di occultare informazioni realmente significative con altre del tutto inutili, così ostacolando, anziché agevolare, il controllo diffuso sull’esercizio del potere e degenerando in una forma di sorveglianza massiva». Conseguentemente, il Garante ha ripreso la considerazione diffusa che per la trasparenza c’è bisogno di un approccio qualitativo e non meramente quantitativo, ovvero meno dati ma più qualificati, e occorre superare un approccio indifferenziato degli obblighi di pubblicità che impone una applicazione, con analogo contenuto, ad enti e realtà profondamente diversi tra loro, senza distinguerne la portata in ragione del grado di esposizione dell’organo al rischio di corruzione, dell’ambito di esercizio della relativa azione o, comunque, delle risorse pubbliche assegna- te, della cui gestione l’ente debba quindi rispondere.

 

 

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