LE ASIMMETRIE CONTRATTUALI: RAPPORTI VERTICALI TRA IMPRESE (IL TERZO CONTRATTO).
la disciplina da invocare quando il contraente debole sia un’impresa, deve essere necessariamente diversa da quella che si applica al consumatore. Del resto, la debolezza dell’imprenditore consiste nell’assenza di reali alternative sul mercato e non si arresta al solo momento genetico del rapporto, ma si riflette anche sullo svolgimento dello stesso
L’autonomia negoziale delle imprese trova limitazioni nella misura in cui è in grado di influenzare l’andamento del mercato. Così è per la normativa trust (legge 267/1990) che vieta:
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le intese restrittive della libertà di concorrenza,
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l’abuso di posizione dominante;
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le operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza.
Di carattere diverso, invece, sono quelle limitazioni e quei controlli che hanno per oggetto l’operatività di un regolamento contrattuale (Business to Business, spesso indicato con l’acronimo B2B) stipulato tra imprenditori, nel quale una parte abusa della condizione di dipendenza economica dell’altra. Siffatta problematica è ben diversa a quella relativa al contratto concluso dal consumatore col professionista; perché in quest’ultimo caso la protezione del consumatore è caratterizzata dalla presenza di una asimmetria informativa, mentre nei contratti B2B è presente un’asimmetria di capacità economica e potere contrattuale.
La protezione dell’imprenditore debole ha origine con l’introduzione nel nostro sistema della figura dell’abuso di dipendenza economica introdotta, in materia di subfornitura, dall’articolo 9 della legge 192/1998. L’abuso di dipendenza economica è quella situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. L’abuso può essere costituito dal rifiuto di vendere o di comprare; dalla imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie; dalla interruzione arbitraria delle relazioni commerciali. Si può parlare di dipendenza economica solo nel caso in cui manchi una reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. La disciplina, quindi, è applicabile in presenza di queste 2 condizioni e comporta una tutela invalidante, salvo quanto disposto dal comma 3 bis dell’articolo 9.
[Si differenzia dall’abuso di dipendenza economica, l’abuso di posizione dominante, il quale si riferisce a un mercato di concorrenza imperfetta nel quale è presente una posizione di supremazia di un’impresa rispetto ad altre. Il giudice, pertanto, sarà tenuto ad accertare la posizione di potere dell’impresa nel mercato di riferimento. L’abuso di dipendenza economica, invece, rileva nel rapporto tra le parti. In pratica, nell’abuso di posizione dominante si cerca di impedire che un operatore economico agisca per ridurre la concorrenza esistente sul mercato, determinando un danno alla pluralità dei consumatori; nell’altro caso si vuole impedire che un soggetto economico agisca in danno di un altro, avvalendosi della propria posizione di vantaggio relazionale, al fine di imporre unilateralmente condizioni contrattuali particolarmente gravose.]
Partendo proprio dall’articolo 9 della legge 192/1998 sulla subfornitura si è ipotizzata l’esistenza di un terzo contratto, e cioè di un modello di contratto, avente uno statuto autonomo che si colloca quale terra di mezzo tra il contratto di diritto comune e il contratto del consumatore. Questa nuova categoria è caratterizzata dall’esistenza di una asimmetria di potere contrattuale tra le parti e di una mancanza di alternative sul mercato: caratteristiche in grado di consentire al giudice un controllo sull’equilibrio contrattuale. È stata, inoltre, proposta un’applicazione generalizzata dell’articolo 9 legge cit. quale norma collocata tra “contratto e mercato”. Infatti, la nozione di dipendenza economica consentirebbe di valutare il rapporto tra condizioni di mercato ed equilibrio contrattuale realizzatosi in fattispecie concrete, in modo tale che ove venisse rilevato un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi si sarebbe in presenza di un’anomalia del meccanismo concorrenziale. Allora, sembrerebbe lecito dedurre che anche l’abuso di dipendenza economica è frutto di un vizio strutturale del mercato, in quanto l’impresa in posizione di dominio relativo potrebbe imporre al proprio partner obbligato condizioni peggiori di quelle praticate in un mercato virtuoso. L’esigenza di evitare l’abuso di una posizione di monopolio è alla base non solo della legge antitrust ma anche del divieto di abuso di dipendenza economica. Il secondo comma dell’articolo 10 dello Statuto delle Imprese (legge 180/2011) ha aggiunto al comma 3 bis dell’art. 9 della legge sulla subfornitura il seguente periodo: “in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al d.lgs. 231/2002, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica.” Il legislatore, quindi, ha esteso la disciplina sanzionatoria prevista per i casi di abuso di dipendenza economica alle ipotesi di violazione diffusa e reiterata. Questa disposizione sembra dare ingresso ad una nozione di impresa contrattualmente svantaggiata molto ampia e tale da farla coincidere con la piccola e media impresa. In base a queste interpretazioni è possibile affermare che il divieto di dipendenza economica opererebbe in tutti i casi in cui sarebbe presente un vantaggio relazionale nei rapporti commerciali di tipo verticale tra imprese: disparità delle posizioni contrattuali che è connaturale all’appartenenza delle parti a diversi stadi del ciclo di commercializzazione di un prodotto. In realtà, l’idea di un monopolio relazionale fa sorgere dei dubbi in quanto riguarda la relazione tra imprenditori connotata da un diverso potere economico di una parte rispetto all’altra. Ciò comporta che l’abuso di dipendenza economica è diverso dall’abuso di posizione dominante che presuppone la definizione di un mercato di riferimento. I due abusi possono anche sovrapporsi ma resta il fatto che l’abuso di dipendenza economica non presuppone alcuna valutazione dell’impatto anticoncorrenziale della condotta vietata.Va osservato che il nostro codice all’articolo 2359, comma 3 (dettato in tema di società controllate e collegate) riconosce il controllo contrattuale (c.d. controllo esterno) che comporta una posizione di dipendenza economica di una società nei confronti di un’altra e tali sono i vincoli conseguenti a contratti di agenzia o fornitura di merci in esclusiva e in genere a rapporti contrattuale le cui prestazioni siano essenziali per l’attività di una delle due società. Queste ipotesi sono caratterizzate dallo stato di soggezione economica in cui versa la società controllata, la cui stessa esistenza e la vita dipendono dalla società controllante [E’ noto che nel nostro ordinamento non esistono contratti tipici cui fare riferimento quali i c.d. “contratti di dominio o dominazione” ad esempio previsti nell’ordinamento tedesco con cui espressamente una società si assoggetta alle direttive di un’altra. In assenza di una tipizzazione normativa si può affermare che di regola qualsiasi contratto ordinario possa essere posto a fondamento di un rapporto di controllo esterno, essendo necessario che attribuisca ad uno dei contraenti una situazione di predominio contrattuale e che crei nella controparte una dipendenza economica] . I contratti che presentano questo controllo societario sono quelli tipici dell’impresa destinati a stabilire rapporti di verticalità rispetto ai quali opera il controllo della legge sulla subfornitura sull’abuso della dipendenza economica (fornitura, distribuzione, agenzia, somministrazione, licenza di segni distintivi). Ci si chiede, allora, se il controllo esterno generi e in quale misura dipendenza economica, ai sensi della legge sulla subfornitura. Si afferma che nel nostro sistema si sia costituita una duplice categoria di contratti: quella del contratto tout court e quella dei contratti asimmetrici (in quest’ultima verrebbe a confluire la tutela del consumatore, quelle dell’impresa in posizione di dipendenza economica da altre imprese, del risparmiatore etc.). Si è, però, giustamente osservato che una unitaria figura di contratto asimmetrico non darebbe rilievo al fatto che nei contratti con i consumatori lo squilibrio economico è valutato in base a un criterio di proporzionalità; mentre nei contratti tra imprese lo squilibrio economico è misurato sulla base di una coerenza interna al rapporto, di guisa che l’esistenza di un eccessivo squilibrio è il frutto del comportamento in mala fede di una parte. In quest’ambito, la tutela solo invalidante non appare molto soddisfacente per l’imprenditore in posizione di dipendenza economica se non si accompagna a una soluzione correttiva giudiziale che dovrebbe investire la stessa fase precontrattuale, ove caratterizzata da oggettiva iniquità e approfittamento (es. rifiuto di vendere). In tale prospettiva, la tutela inibitoria (ex art. 9, comma 3 della legge sulla subfornitura) potrebbe generalizzare la possibilità dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre a fronte del rifiuto illecito dell’imprenditore forte. In ordine all’abuso di dipendenza economica si discute se sia sindacabile non solo la proporzionalità tra diritti e doveri discendenti dal contratto, ma anche l’equivalente tra il valore delle prestazioni corrispettive, misurata in relazione ai valori di mercato, cioè alla pratica commerciale leale. La legge sulla subfornitura, nella prospettiva del riequilibrio economico ci fornisce qualche spunto: l’articolo 6, ult. co. Prevede la nulità della clausola con la quale il subfornitore disponga al favore del committente e senza congruo corrispettivo di diritti di privativa industriale o intellettuale; l’art. 9 al comma 2 parla di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose. Altra indicazione proviene dal d.lgs. 231/2002 relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali che sottopone al limite della grave iniquità in danno al creditore le eventuali deroghe sulla data di pagamento sul saggio di interesse in tal modo colpite da nullità. Sul punto va richiamata la Direttiva 2011/7/UE che contiene una norma rivolta ad una più agevole identificazione delle clausole contrattuali e delle prassi inique. Ci riferiamo all’articolo 7, secondo cui: 1) deve considerarsi ex lege iniqua ogni clausola contrattuale o prassi che escluda l’applicazione di interessi di mora; 2) deve presumersi iniqua quella che esclude il risarcimento per i costi di recupero; 3) per determinare se una clausola contrattuale o una prassi sia gravemente iniqua per il creditore, ai sensi del comma 1, si tiene conto di tutte le circostanze del caso, tra cui: a) qualsiasi grave scostamento dalla corretta prassi commerciale, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza; b) la natura del prodotto o del servizio; c) se il debitore abbia qualche motivo oggettivo per derogare al tasso d’interesse di mora legale, 54 al periodo di pagamento di cui all’articolo 3, all’art.4 . Tali disposizioni hanno come obiettivo quello di proibire l’abuso della libertà contrattuale a danno del creditore. La norma comunitaria pone l’iniquità come scostamento dalla corretta prassi commerciale e come abuso della libertà contrattuale. Par lecito ritenere, quindi, che l’abuso di dipendenza economica comporta la necessità di un riequilibrio tra diritti e obblighi discendenti dal contratto; invece, l’iniquità del rapporto tra le prestazioni, cioè le condizioni ingiustificatamente gravose, comporta un riequilibrio rispetto all’abuso della libertà contrattuale da parte dell’impresa forte, nella prospettiva dell’equità, della correttezza e della buona fede [è interessante l’osservazione di Pagliantini che pone come riferimento di ogni valutazione la coerenza del rapporto rispetto alla quale va misurato il comportamento abusivo di una parte rispetto all’altra. Orientamenti della giurisprudenza sulla possibilità di rimuovere o riequilibrare un regolamento contrattuale iniquo sulla base delle clausole generali presenti nel nostro codice (buona fede, correttezza, equità) con lo scopo di mantenere il rapporto giuridico in sede di esecuzione nei binari dell’equilibrio e della proporzione.
L’angolo visuale coltivato dalla giurisprudenza è quello dell’abuso del diritto che rappresenta un modo di essere della buona fede. Per la giurisprudenza gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono:
1) la titolarità di un diritto soggettivo;
2) la possibilità che il concreto esercizio di questo diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;
3) la circostanza che tale esercizio sia in concreto, seppure formalmente rispettoso della sua cornice attributiva, svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico o extragiuridico;
4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. L’abuso del diritto, quindi, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. In questo contesto si legge che le locuzioni abuso del diritto e contrarietà a buona fede sono sinonimi in quanto i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata,e prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Questa prospettazione costituisce la ratio decidendi di quell’orientamento giurisprudenziale definito governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, la cui funzione è quella di ristabilire l’equilibrio contrattuale alterato dalla posizione di potere di cui un contraente forte si avvale a danno di quello debole.
Nella nostra esperienza giuridica, l’adozione di una clausola generale sull’abuso del diritto ha sempre suscitato delle preoccupazioni in quanto potrebbe attribuire al giudice un potere discrezionale tanto ampio da contrastare con l’esigenza di certezza del diritto [La figura dell’abuso del diritto trova suoi precedenti nel diritto romano ove era prevista sia la exceptio doli generalis seu praesentis (con la quale veniva paralizzato l’esercizio di un diritto in contrasto con l’equità) sia la exceptio dolo praeteriti (con la quale si invalidava un negozio concluso a seguito di artifici e raggiri a danno di uno dei contraenti). Un importante contributo alla teoria dell’abuso del diritto è stato dato dalla dottrina francese: Plainol affronta il problema sul piano sistematico e del diritto positivo sostenendo la non configurabilità dell’abuso di diritto per il fatto che la condotta di un soggetto è qualificabile o come esercizio di un diritto o come illecito: tertium non datur. Al sistema delle regole morali allude Rand che sostiene che l’abuso del diritto vada distinto dall’illecito in quanto
riguarda non la violazione della lettere della legge, ma la sua ragion d’essere. Savatier vede nell’abuso del diritto un contrasto tra una determinata condotta di esercizio di una prerogativa attribuita dalla legge e i dettami della morale; l’abuso rileva se provoca un danno anormale.] La clausola generale sull’abuso del diritto fu prevista nel progetto preliminare al codice civile- nel quale l’art.7 proclamava che nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto- ma non fu poi trasfusa nella stesura definitiva del codice, ove si preferì adottare norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti, com’è per l’articolo 833. Nel nostro ordinamento, inoltre, non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto sia come sviamento dell’interesse sotteso all’iscrizione del diritto; sia come criterio riconducibile allo schema della valutazione comparativa di due interessi [Si ritiene che il divieto sia stato riconosciuto dall’art.54 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dal’articolo 17 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU)]. Bisogna, ora, chiedersi se nel nostro sistema sia presente una implicita clausola generale sull’abuso del diritto in grado di incidere sulla disciplina delle situazioni giuridiche generalmente riportate ad un contrasto tra esercizio del diritto e direttiva etica. La questione,però, pone diversi problemi tra i quali quello di separare il riconoscimento del diritto dal suo esercizio in quanto non è l’esercizio il mezzo per realizzare il diritto, ma il diritto il mezzo per realizzare l ‘esercizio. Da questo punto di vista il problema dell’abuso del diritto finirebbe per coincidere con un problema di definizione de contenuto del diritto. Il concetto di abuso del diritto potrebbe essere ancorato al dato testuale di cui all’articolo 833 c.c., dettato in tema di rapporti proprietari, sul divieto degli atti emulativi. Non sembra, tuttavia, che tale norma consenta di selezionare i modi di esercizio del diritto di proprietà e di collocare all’interno di questi modi di esercizio, l’atto emulativo che,per definizione essendo privo di utilità economica (cioè non costituendo una modalità di godimento del bene), non è esercizio del diritto di proprietà. L’art. 833 prevede il requisito dell’animus nocendi che per essere tale deve tradursi in un danno ingiusto prodotto nella sfera giuridica altrui [La Cassazione nel 1995 ha affermato che la sussistenza di un atto di emulazione postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il proprietario e di un elemento soggettivo, costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri]. Lo schema dell’art. 833 è di scarsa utilità pratica in quanto non prevede alcun vantaggio per il proprietario che pone in essere l’atto emulativo se non quello di arrecare ad altri un pregiudizio: di fatto serve a sanzionare una condotta dolosa [In realtà sia l’abuso del diritto che la buona fede implicano sempre, anche al di fuori dei rapporti contrattuali, un giudizio relazionale].
Uno spunto per la ricerca di un fondamento normativo all’abuso del diritto potrebbe essere ritrovato nella disciplina dell’abuso di dipendenza economica [(art. 9 della legge 192/1998) la norma ha avuto scarsa applicazione nella pratica. In materia, vi sono stati vari interventi successivi in materia di interventi di rimedi collettivi di ritardi nei pagamenti commerciali e di rapporti tra gestori e titolari di impianti di distribuzione del carburante ovvero fornitori di carburante, per il rifiuto di contrarre] che incide sull’autonomia contrattuale e sembra riguardare tutte le ipotesi di rapporti verticali tra imprese [Scarso ritiene che la disposizione abbia carattere eccezionale; Lipari ritiene che l‘estensione della norma si riconnette alla necessaria circolarità del processo interpretativo del diritto; la recente Cassazione nel 2011 ha affermato che l’ambito di applicazione oggettivo del divieto, nonostante la sua collocazione in una legge di settore, si estende in principio a tutti i rapporti verticali tra imprese]Siffatta disposizione non si presta, tuttavia, ad una generalizzazione in grado di 56 rappresentare una sistemazione della disciplina dei rapporti contrattuali tra imprese. Vi sono fattispecie, infatti, nelle quali il legislatore: a)richiama la qualità soggettiva dei contraenti (come nel caso delle norme antitrus e delle disposizioni a tutela dei consumatori); b) fa riferimento al solo contenuto della pattuizione oggettivamente intesa (come nel caso dell’usura e della normativa contro i ritardi di pagamento); c) individua infine un criterio che si avvale di elementi oggettivi (settore o ambito contrattuale) combinati a elementi soggettivi (imprenditore debole) (come nell’ipotesi della subfornitura). Il dato testuale più prossimo è quello costituito dalle norme sulla buona fede; a tal proposito in dottrina si è affermato che “il divieto di abuso del diritto non costituisce un’autonoma clausola generale e che altro non esprime che una delle finalità della buona fede in senso oggettivo. La giurisprudenza sovente ricorre alla figura dell’abuso de diritto sulla base di un iter argomentativo che è stato proposto in una decisione della Cassazione del 2009. In questa decisione di afferma che in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed accompagnarlo in ogni sua fase. La clausola generale di buona fede e correttezza opera sia nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio per quanto concerne i comportamenti del debitore e del creditore e sia nell’ambito del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto. Il principio costituisce strumento per il giudice, atto a controllare lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto che , come già accennato precedentemente, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Come conseguenza dell’eventuale abuso l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti, e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E proprio nella mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti attraverso atti di per sé idonei ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Dalla lettura della motivazione della sentenza riportata si ha l’impressione che i giudici abbiano utilizzato le locuzioni abuso del diritto e contrarietà a buona fede come sinonimi. Al di là delle perplessità che possono emergere, resta il fatto che la figura dell’abuso del diritto finisce per essere uno strumento di controllo degli equilibri contrattuali.
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