Rodotà è il padre di una vera e propria “rivoluzione Copernicana” nella materia dell’interpretazione del contratto, la sua riflessione, trasfusa nell’opera “le fonti di integrazione del contratto”(1969), porterà al “tramonto del mito ottocentesco della onnipotenza della volontà e dell’intangibilità delle convenzioni” cambiando in maniera irreversibile il modo di concepire e ricostruire il contenuto della volontà negoziale.
L’impostazione dottrinale imperante all’epoca delle innovazioni apportate dal giurista cosentino, ricalcava, nell’integrazione del contratto, i procedimenti logici e analogici elaborati per l’integrazione della legge che, coerenti con il dogma dell’onnipotenza del legislatore, affermavano l’attitudine dell’ordinamento ad autocompletarsi. Si affiancava poi a quella del legislatore, l’onnipotenza delle parti: le lacune dovute ad una carente regolamentazione contrattuale potevano essere colmate solo grazie la forza espansiva della stessa. Queste le parole dell’Autore a tal proposito: “una costruzione siffatta era in grado di soddisfare ad una duplice esigenza: da un canto giustificare la netta separazione dei due mondi, quello della legge e quello retto dalla volontà dei privati, ciascuno dei quali non abbisognava di alcun intervento esterno per il suo integrale funzionamento; dall’altro, e come specificazione del precedente, ribadire il principio che la natura stessa dei rapporti interprivati (contrattuali), escludendo la necessità di interventi esterni che ne consentissero il pieno svolgimento, si opponeva ad ogni forma di eterointegrazione (sì che i casi in cui ciò avveniva non potevano non ritenersi anomali; o almeno eccezionali)” . Ciò che Rodotà più critica di questa teoria è l’errata concezione della funzione delle fonti di integrazione del contratto, queste infatti non postulano necessariamente una lacuna nel programma negoziale, come era invece ritenuto dalla prevalente dottrina del tempo, ma dovendo agire indipendentemente da questa e anzi al di là della volontà espressa o presunta delle parti cui è preclusa la possibilità di inibire il meccanismo integrativo. Adottando quest’ottica la formazione del regolamento contrattuale viene a caratterizzarsi per la concorrenza paritetica delle fonti di integrazione, elencate dall’art 1374 c.c., con la volontà dei contraenti: le parti perdono quindi il ruolo di “legislatori” indisturbati del rapporto contrattuale. Superare la vecchia concezione non vuol dire solo mettere in discussione il monopolio della disciplina negoziale detenuto dalle parti, ma anche e soprattutto, superare la vecchia immagine del contratto come sistema autonomo, completo ed isolato rispetto all’ordinamento in generale: per la prima volta questo viene inserito in un determinato contesto economico e sociale e diviene permeabile ai valori espressi dall’ordinamento giuridico e tra questi, in particolare, a quelli di rango costituzionale: si garantisce così coerenza interna al sistema giuridico.
Con questa innovativa funzione di coordinamento generale entrano finalmente nel regolamento contrattuale “legge, usi e l’equità” secondo il dettato dell’art 1374 e clausole generali come il 1175 c.c comportando una innovazione nel modo di concepire il contratto senza precedenti. Rodotà in particolare sottolinea che: Chi imposti correttamente il problema della coerenza interna del sistema, può avvedersi che l’armonia tra specifici complessi normativi (quale certamente è un codice) e tendenze generali della legislazione è questione che si ripropone continuamente nella vicenda storica, e che può appunto essere risolta grazie a strumenti che, per la loro elasticità, consentano un adeguamento continuo delle norme ai principi.[....] In tal senso, è esatto ritenere che l’art. 1175 vale appunto a tenere avvertito il giudice della necessità che egli operi, nel caso concreto, l’indispensabile collegamento della disposizione particolare di legge con i fondamenti etico-sociali di tutto l’ordinamento. Dev’essere chiaro, però, che l’interprete, così operando, non può attingere ad un generico humus etico-sociale: la sua attività dovrà svolgersi nell’ambito segnato dalle norme positive, senza la pretesa di sostituire a queste ultime valutazioni che non hanno trovato consacrazione legislativa, ma pure senza arbitrarie discriminazioni tra le norme che concorrono a costituire l’ordinamento legislativo”. Si apre così una nuova epoca sia per la buona fede, che andrà ad occupare un nuovo ruolo di primaria importanza nella determinazione della condotta negoziale ed in generale nella disciplina del contratto, sia per il giudice chiamato a garantire l’effettività di questa nuova veste di clausola generale inderogabile dalla volontà dei privati attribuita alla concorrenza.
Autonomia significa facoltà di autoregolamentare i propri interessi. È autonomo chi può decidere sul se e sul come perseguire e raggiungere un certo scopo. In termini giuridici, il problema è quello di verificare il rapporto che sussiste tra autonomia ed ordinamento, cioè a dire tra volontà del privato e volontà della legge, (nel senso di accertare come ed a quali condizioni i privati possono giuridicizzare una data operazione economica e far si che essa assuma rilevanza sul piano giuridico).
Bisogna inoltre individuare se gli effetti giuridici sono effetto della volontà delle parti o si producono soltanto in seguito al comando normativo.
►►► Secondo una prima impostazione ottocentesca, non c'è dialettica tra volontà della legge e la volontà del privato, è la volontà privata a dar vita agli effetti giuridici. Il ruolo svolto dall'ordinamento è unicamente quello di porre dei limiti esterni all'autonomia contrattuale, limiti costituiti dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubbliche o buon costume. All'interno del perimetro delineato dall'ordinamento, la volontà del privato può spaziare, dando vita, essa stessa, ad effetti pienamente vincolanti, che l'ordinamento si incarica di proteggere e tutelare.
Tale impostazione confonde, però, un'idea naturalistica di volontà con il concetto giuridico dell'autonomia contrattuale . La volontà è la causa psichica dell'atto ma in tal modo non si dimostra che essa sia anche la causa giuridica dell'effetto .Tale dottrina proposta nel secondo dopoguerra risate dell'impostazione liberista che propendeva per una netta separazione tra pubblico e privato .secondo tale impostazione l'economia era riservata esclusivamente all'iniziativa dei privati , mentre invece lo stato aveva il compito di perseguire e regolare le vicende di interesse collettivo.
►►► In tale prospettiva altre dottrine hanno tentato di dimostrare la medesima tesi ricorrendo ad una più complessa costruzione che investe gli stessi rapporti esistenti tra l'area del diritto privato e la posizione ed il ruolo assunto dallo Stato.
► a) Teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. Costruisce il contratto come un ordinamento a sé stante, disciplinato dalla regola posta dai contraenti. Tale ordinamento è caratterizzato da elementi propri ed autonomi, ma cede all'ordinamento statuale attraverso la potestà giurisdizionale e sanzionatorie di pertinenza esclusiva di quest'ultima. Tutto ciò implica che l'esistenza dell'ordinamento costituito dal contratto e l'efficacia della regola privata possono essere affermate solo prescindendo dal momento autoritativo, proprio dell'ordinamento statuale. All'ordinamento statuale è, quindi, affidato il compito precipuo di tutelare l'accordo e finisce così per dettare, esso stesso, le condizioni alle quali una data operazione economica può divenire giuridica.
► b) Teoria della costruzione per gradi. L'ordinamento risulterebbe la risultante di una sorta di scala costruita in ordine decrescente dalla Costituzione, dalle leggi, dalla giurisdizione etc. con il contratto, le parti pongono norme concrete per regolare il comportamento reciproco in attuazione delle regole statuali con attuazione del diritto di grado superiore e creazione di una nuova regola atta, però, a disciplinare il solo rapporto intersoggettivo. Il giudice dovrà accertare l'osservanza o l'infrazione ed in tal caso c'è l'esecuzione forzata. Tale concezione risente di una impostazione filosofica pessimistica (kelsen) in quanto vede la coazione un male necessario per indurre l'uomo ad un comportamento corretto e dunque considerare il diritto soggettivo come diritto di azione in giudizio ,al fine di mettere in moto la sanzione.
► c) Altre teorie, invece, attribuiscono all'ordinamento giuridico in via esclusiva il potere di fissare gli effetti negoziali. L'iniziativa privata viene ridotta ad un mero schema di fatto. Il contatto apparterrebbe al privato solo per il tempo della sua realizzazione, ma una volta raggiunto il necessario sviluppo, esso rientrerebbe nel dominio della legge a cui spetterebbe di fissare, in via esclusiva, gli effetti giuridici.
Tra queste teorie la più accreditata è la Teoria precettiva (Betti):secondo cui è l'ordinamento che fissa gli effetti del contratto ma all'autonomia privata spetta il ruolo di fissare il regolamento vincolante. Si assiste, così, ad una netta separazione tra i due momenti sociale e giuridico. Il primo è caratterizzato dal fatto che il vincolo tra i privati già nasce ed è riconosciuto come rilevante ed è l'ordinamento statale a divenire ordinamento giuridico, in quanto conforme al dettato della socialità. Si ribalta cioè l'ottica della precedente teoria .
L'autoregolamento dei privati è in grado di dar vita ad un precetto, cioè ad un ordine, il quale, però sarebbe originario ed indipendente rispetto alla statualità, non si porrebbe in alternativa ai poteri ed alle funzioni statali, né darebbe vita ad un ordinamento in senso tecnico. È, quindi, dato un valore sociale all'autoregolamento. Solo l'ordinamento stabilisce quali effetti, nel campo giuridico, possono essere prodotti dall'autoregolamento.
Art. 1374: Il contratto obbliga le parti, non a quanto nel medesimo è espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, gli usi e l'equità.
La tesi tradizionale ritiene che dal contratto non possono derivare conseguenze che non si riallacciano alla volontà delle parti, salvo che sia presente nella pattuizione privata una lacuna che la legge, gli usi e l'equità hanno la funzione di colmare con un intervento, dunque, di carattere esclusivamente suppletivo; tipico il caso di mancata previsione del luogo o del tempo dell'adempimento (Art. 1182-1183 c.c.), ovvero di attribuzione ad un terzo del potere di determinare l'oggetto del contratto (Art. 1349 c.c.).
Si riafferma così il principio secondo cui il contenuto del contratto non potrebbe che essere frutto della volontà dei privati, mentre la legge e le altre fonti di integrazione, operando solo in presenza di pattuizioni lacunose, non potrebbero giammai porsi in contrasto con l'autoregolamento, fissato in base al solo consenso .Si spiega cosi perché la norma sarebbe destinata ,in questa visione ad operare solo sugli effetti del contratto.
E'però errato relegare l'intervento della legge e degli usi nella zona degli effetti ,infatti molte norme positive dimostrano che spesso il contenuto del contratto è frutto anche dell'intervento normativo. (Es. contratto di locazione e contratti agrari).
Da questo punto di vista l'Art. 1374 assume un diverso significato: quello di indicare quali sono nel nostro ordinamento le fonti che disciplinano il regolamento contrattuale, intendendo con tale espressione l'insieme dei precetti che vincolano i contraenti, non solo in base a ciò che essi hanno pattuito, ma anche in base a ciò che detta la legge o, se del caso, l'usi o l'equità. Accanto alla fonte autonoma si pongono dunque le fonti eteronome .Da ciò consegue che è stato sottratto alla volontà dei privati il monopolio nella costruzione della regola contrattuale. Il fatto che il contratto non esprime più l'esclusiva volontà privata non significa che il contratto non sia più un atto di autonomia .Significa infatti che il contratto ha più funzioni , dunque non solo di autonomia privata e di autoregolamentazione ma anche la funzione di mezzo per perseguire interessi superindividuali.
Sul piano concreto, l'autonomia contrattuale ha modo di esplicarsi pienamente da più punti di vista:
1. libertà di concludere o meno il contratto;
2. libertà di fissarne il contenuto;
3. libertà di scegliere la persona del contraente;
4. libertà di dar vita a contratti atipici.
A fronte di queste libertà, il legislatore ha posto delle limitazioni:
a) Libertà di concludere o meno il contratto
Talvolta il soggetto è OBBLIGATO A CONTRARRE o per legge o per stessa volontà privata.
In caso di inadempimento all'obbligo di contrarre per volontà privata (es. contratto preliminare )consegue non il mero obbligo di risarcire il danno, ma la possibilità per la parte adempiente di ottenere una sentenza costitutiva che sostituisca il contratto non concluso.
Mentre in caso di inadempimento dell'obbligo di contrarre per legge, la questione è più complicata:
1) es. nell'ipotesi di obbligo posto a carico di chi esercita un'impresa in condizione di monopolio legale, l'imprenditore è obbligato a contrarre con chiunque richieda le prestazioni tipiche della sua impresa, esercitando la parità di trattamento. La ratio della limitazione normativa è quella di garantire e tutelare il consumatore di fronte al monopolista.
2) es. possono essere i pubblici servizi di linea come Alitalia .
3) es. è l'assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli e natanti a motore
4) es. Obbligato a contrarre è anche il proprietario di un immobile locato per uso diverso da quello abitativo dopo che è scaduto il primo periodo di 6 anni di locazione .Qui il diniego di rinnovo è consentito solo nei casi stabiliti dalla legge.
5)es. Quando per legge il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù (es.passaggio) ,questa servitù in mancanza di contratto è costituita con sentenza. Qui forse non sussite obbligo ma quanto meno un onere , inadempiuto il quale c'è la sentenza costitutiva.
b) Libertà del contenuto
L'Art. 1322 c.c. stabilisce che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. I contraenti possono utilizzare uno schema tipico, recependo i contenuti normativi, ma nel contempo, ampliandone la portata, ovvero, se la disciplina è derogabile, stringendone la portata .Così in caso di fideiussione i contraenti possono fissare condizioni o termini o clausole sulle modalità con cui il pagamento deve essere richiesto ed effettuato o altre pattuizioni che non fanno parte della disciplina tipica del contratto detta dall'art.1936 ss. Ma essi possono anche escludere che operi la disciplina legale non imperativa ad es. per gli art.1942 e 1944 c.c.
La libertà di determinare il contenuto è tutelata a tal punto che la legge permette anche di attribuire a terzi il potere di determinare la prestazione prevista nel contratto.
La libertà di modellare il contenuto da parte dei privati si rileva particolarmente nei c.d. contratti misti, atipici ed anche collegati
Misti: Il contratto misto si caratterizza per la presenza di clausole riferibili ad un determinato tipo contrattuale e di clausole riferibili ad un altro e si distingue dalla diversa fattispecie del collegamento negoziale che si caratterizza, invece, per la combinazione di più contratti dotati di autonoma causa funzionalizzati al perseguimento di un interesse unitario. La differenza tra contratto misto e collegamento negoziale risiede, dunque, nella sussistenza di un'unica causa complessa nel contratto misto e di una pluralità di autonome cause nel collegamento negoziale. Atipici: libertà massima di contenuto. Infatti per contratti atipici (detti anche contratti innominati) si intendono quei contratti non espressamente disciplinati dal codice civile ma creati ad hoc dalle parti, in base alle loro specifiche esigenze di negoziazione.
Limitazioni:
Giudizio di liceità: L'autonomia contrattuale può anche scontrarsi con l'ordinamento giuridico, quando i privati travalichino i limiti di confine posti a tutela degli interessi collettivi, limiti costituiti dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume. In tal caso non c'è garanzia giurisdizionale in caso di inadempimento cioè c'è la nullità .Nei casi previsti dall'Art. 1339 c.c., a favore dei privati è prevista la sostituzione di clausole difformi inserite dalle parti ,con quelle previste dalla legge. Ciò consente di mantenere in vita il contratto evitando la sua nullità.
Ulteriori ipotesi di ampliamento del contenuto del contratto a prescindere dall'accordo sono le clausole d'uso le quali ex art.1340 si intendono inserite nel contratto se non risulta che sono state non volute dalle parti .
Condizioni generali di contratto e Moduli e formulari.
Le condizioni generali di contratto sono clausole previste unilateralmente da una parte contrattuale, e generalmente dirette a regolare uniformemente i suoi rapporti contrattuali. Trovano disciplina nell'art. 1341 c.c., il quale dispone che esse hanno efficacia nei confronti dell'altra parte contrattuale se questi, nel momento della conclusione del contratto, le conosceva o avrebbe dovuto conoscerle usando la normale diligenza.
L'Art 1342 prevede i contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali .In tal caso dunque viene meno la fase delle trattative che è garanzia di autodeterminazione .
Ciò fa comprendere perché a tutela del consumatore sia prevista una particolare disciplina ,qualora le condizioni generali o i moduli e formulari predisposti dall'imprenditore contengano clausole vessatorie.
c) Libertà di scelta del contraente
La legge, talvolta, interviene, non già obbligando il soggetto a contrarre, ma obbligandolo qualora intenda addivenire al contratto, a stipulare con una data persona.
Es. prelazione legale: il coerede che vuole alienare la sua quota di eredità è tenuto prima a notificare la proposta nei confronti degl'altri coeredi e poi eventualmente può alienare a terzi .
Es. assicurazione obbligatoria: la legge indica una serie di soggetti con cui il proprietario del veicolo può contrarre, ma questi dovrà scegliere una sola delle compagnie con cui concludere il contratto.
d) Libertà di contrarre per schemi atipici
Le limitazioni a tale libertà non derivano da norme puntuali, ma da ricostruzioni dell'intero sistema ad opera della giurisprudenza e dottrina.
Clauosole vessatorie e codice del consumo
L'autonomia contrattuale è tutelata, rispetto ai limiti posti dalla legge, dalla costituzione. In tale ottica consideriamo gli art.41 e 42 cost. , infatti l'autonomia privata è uno strumento dell'iniziativa economica ,e da ciò consegue che ogni limite imposto dal legislatore all'autonomia contrattuale determina anche un limita alla iniziativa economica e quest'ultimo limite è legittimo solo se in armonia con quanto previsto dall'art.41 commma 2 e 3 cost.. I limiti imposti dalla legge devono rispondere a ben precise esigenze di carattere contingente e non arbitrario e devono essere finalizzati al raggiungimento degli scopi costituzionali in particolare l'utilità sociale.
L'interesse individuale (autonomia contrattuale) dunque può essere limitata per tutelare e garantire interessi più vasti e rendere possibile l'adempimento di quella funzione sociale da cui non ci si può discostare nell'esercizio di ogni attività produttiva , sempre che la limitazione risponda al principio di ragionevolezza cioè sia congrua e proporzionata allao scopo e sia posta con legge (principio riserva di legge).
Art. 1374 Integrazione del contratto
:Il contratto obbliga le parti non solo a quanto e nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità.
L'art.1374 c.c. espressamente richiama gli usi, e potrebbe apparire come una inutile ripetizione dell'art.8 delle disposizioni preliminari del codice civile il quale afferma che gli usi hanno efficacia nelle materie regolate da leggi e regolamenti solo in quanto da essi richiamati.
Scindiamo due aspetti del problema:
1. Efficacia dell'uso normativo. Non è l'Art. 1374 c.c. che attribuisce agli usi un valore vincolante, che gli deriva dall'essere previsti tra le fonti del diritto. (Ex art.1 disp.prel. cod. civ.)
2. Ambito di tale efficacia. Se si prescindesse dall'Art. 1374 c.c., si dovrebbe affermare che l'efficacia degli usi in materia contrattuale sarebbe limitata ai singoli richiami agli usi operati da singole. La parola in "mancanza"dimostra invece che il legislatore ha voluto attribuire all'uso un ruolo di fonte generale di regolamentazione del contratto ma conforme all'art.8 disp.prel.cod.civ. il quale subordina l'efficacia dell'uso ad un espresso richiamo della legge .Un richiamo è proprio l'art.1374 , pertanto se l'art.1374 non avesse richiamato gli usi , l'integrazione del contratto sarebbe potuta avvenire solo
secondo legge o equità ,in presenza del richiamo è invece possibile anche una integrazione secondo gli usi pur in difetto di una legge puntuale che ad essi rinvii.
L'art.1374 assolve anche ad un'altra funzione quella di affiancare all'uso negoziale (art.1340) e a quello interpretativo (art.1368) ,l'uso normativo (art.1374)
(Gli usi negoziali sono previsti dall'Art. 1340 c.c., essi si intendono inseriti in modo automatico nel contratto "se non risulta che non sono stati voluti dalle parti". L'uso negoziale ha una funzione integrativa dell'accordo e dovrebbe prevalere sulle disposizioni legali suppletive e derogare alle norme di legge dispositive, nonostante la giurisprudenza sia contraria. La differenza rispetto agli usi normativi è che essi non hanno carattere generale ed obbligatorio, di conseguenza integrano il contenuto del contratto solo quando siano esplicitamente o implicitamente richiamati dalle parti.)
È possibile dunque l'applicazione di usi normativi anche là dove la legge non dispone il rinvio, purché non siano contra legem. I singoli usi possono non essere applicati dalla volontà dei privati in concreto perché gli usi sono regole sociali di comportamento non scritte , anche se in astratto l'art.1374 che è una norma imperativa inderogabile prevede tra le fonti di integrazione del contratto anche gli usi normativi.
Nel contratto concluso tra professionisti e consumatori la clausola che recepisce usi vessatori è inefficacie salvo trattativa individuale.
Il richiamo all'equità, secondo alcuni sarebbe possibile solo in funzione suppletiva, cioè come ausilio dell'autonomia privata allo scopo di ricercare la volontà dei contraenti. Per questo motivo,l'intervento del giudice sembra avere una funzione del tutto marginale ed eventuale.
Quindi il problema è comprendere se e come può intervenire il giudice.
►►► Ci sono casi in cui il giudice è autorizzato espressamente dalla legge pensiamo ad esempi, agli Art. 1384 che impone al giudice di ridurre ad equità la clausola penale manifestamente eccessiva.
►►► Altre volte, invece, non è previsto dalla legge, indi per cui bisogna procedere con cautela visto che si tratta di ampliare il potere giudiziale al di là del mero intervento di tipo residuale o suppletivo. È possibile tale apertura, ad esempio, nel caso in cui il giudice debba intervenire al fine di determinare l'oggetto della prestazione, sempre che le parti abbiano indicato i criteri per la determinazione o sussistano dei criteri obiettivi di mercato.
La definizione dei criteri è necessaria perché non può esserci un intervento del giudice autonomo così come il giudice non potrà prevedere un assetto regolamentare diverso da quello delle parti, sostituendo clausole che appaiono inique con clausole eque allo scopo di garantire la parità nello scambio , in quanto il contratto giusto è quello frutto della libertà delle parti. In realtà, l'intervento del giudice di questo tipo è ammesso in alcuni casi dalla legge solo quando si tratta di eliminare le condizioni più svantaggiose per una parte, dovute a discriminazioni razziali, religiose, etniche.
Gazzoni, esponente di una dottrina isolata, ha da tempo posto il problema del se il giudice possa comminare la nullità ex Art. 1374 di una singola clausola o dell'interno contratto quando una singola operazione economica appaia contraria al principio d'equità. Qui è evidente la differenza con la precedente ipotesi, infatti in caso di nullità i privati , invece di dover adempiere un regolamento contrattuale frutto anche della volontà del giudice (ipotesi da escludere) , non devono adempiere il contratto iniquo .
Se così fosse, l'equità si porrebbe al pari del buon costume e dell'ordine pubblico e delle norme imperative a presidio di principi superindividuali anche se, non opererebbe a priori , cioè in ogni caso ma, a posteriori solo quando il giudice, anche d'ufficio, ritenga esserci in concreto un grave squilibrio regolamentare a danno di una parte.
Quindi mentre l'illiceità consegue a violazioni di regole predeterminate ed opera in astratto , l'iniquità dipenderebbe dal regolamento contrattuale e da come questo regolamento, seppure di per sé lecito, è costruito ed opera in concreto . Di conseguenza, l'iniquità non può considerarsi come clausola generale.
Quindi, sia l'illiceità che l'iniquità comportano la caducazione dell'elemento illecito o iniquo ma, la differenza è proprio nella concretezza della iniquità e astrattezza dell'illiceità.
Questa tecnica cioè la nullità come conseguenza della iniquità è prevista nel caso di clausole abusive che determinano uno squilibrio significativo a danno del consumatore, il cd. contraente debole. Anche in questo caso, però, la loro nullità non è comminata in astratto cioè con riguardo a qualsiasi contratto ma, in concreto dipendendo dalle condizioni esistenti al momento della conclusione del contratto o delle altre clausole del contratto.
In realtà secondo la giurisprudenza e dottrina maggioritaria la violazione della equità ex art.1375 cc comporta la risoluzione del contratto o il risarcimento del danno e non l'invalidità (nullità).
L'equità ex art.1374 c.c. deve essere intesa comunque non come richiamo a norme extragiuridiche su cui basare un giudizio libero ed alternativo al giudizio di stretto diritti (stricti iuris), ma come criterio da applicare in un giudizio di diritto. La decisione va dunque motivata nel rispetto dei principi costituzionali e comunitari in special modo.
La “buona fede” è un istituto che appare diverse volte nel codice, pur designando istituti che rispondono a ratio profondamente diverse. A tal fine occorre distinguere in primis tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva.
BUONE FEDE SOGGETTIVA
La prima è definita quale stato di coscienza che esclude la malafede; applicazioni se ne possono vedere in tema di apparentia iuris come nel caso di ignoranza di ledere l’altrui diritto.
BUONA FEDE OGGETTIVA
La seconda, invece, viene intesa quale regola di condotta tra le parti del contratto, capace di avvolgere tutte le fasi di esso; è canone generale di condotta (art 1175) che opera sia nella fase precontrattuale (art 1337) che in quella esecutiva (art 1375).
Inizialmente la buona fede non era una nozione valorizzata: si pensava che le fonti di integrazione del contratto fossero solo quelle enunciate dall’art. 1374 cc, (legge, usi ed equità), mentre l’art. 1375 c.c. rilevasse esclusivamente nella fase dell’esecuzione la quale doveva avvenire secondo buona fede. Questa idea è venuta meno negli anni successivi, che hanno portato a una lunga evoluzione del concetto di buona fede, valorizzandone l’importanza fino a giungere alle più recenti pronunce giurisprudenziale.
In un primo momento, la buona fede venne intesa come mero strumento di integrazione suppletiva del contratto sennonché questo modo di intenderla si svelò certamente riduttivo. Infatti, superata questa fase, la buona fede ha acquisito un valore cogente quale appunto regola precettiva e quindi come fonte dei c.d. obblighi di protezione. Tali obblighi possono essere definiti come quelli il cui contenuto va individuato nel generale dovere di salvaguardare la sfera giuridica dei soggetti con i quali venga instaurato un rapporto, in modo tale da evitare che dal proprio comportamento derivi un pregiudizio per questi ultimi. In definitiva si può quindi affermare che il principio di buona fede assume il ruolo di simbolo del nuovo volto del contratto nella società moderna e va considerato come regola di responsabilità del singolo contraente e di governo del rapporto, il cui contenuto deve indurre a optare per l’equilibrio contrattuale.
L’ultima fase dell’evoluzione del principio di buona fede è quella nella quale ci si è interrogati circa la possibilità che la stessa assurga a regola di validità del contratto, la cui violazione avrebbe comportato la nullità del contratto. L’impostazione tradizionale era nel senso di escludere che la buona fede potesse essere considerata una regola di validità. A tal fine, le Sezioni Unite hanno chiaramente affermato il principio della sostanziale differenza tra norme di validità e norme di comportamento, queste ultime idonee a integrare solo il risarcimento del danno e mai la nullità del contratto (Cfr. Sez. U n. 19 dicembre 2007, n. 26725). A questa tesi, si opponeva parte della dottrina che riteneva di dover considerare la buona fede come strumento di controllo dell’autonomia contrattuale e quindi di sindacato sulla conformità del contratto al principio in esame. Aderendo a questa concezione, la violazione della buona fede avrebbe comportato la nullità virtuale della stipulazione ex art. 1418 c.c. per violazione della norma imperativa che impone condotte corrette tra le parti. Tuttavia, secondo la Corte, questo fenomeno di trascinamento delle regole di comportamento nelle regole di validità va arrestato: è una mera tendenza non un’acquisizione. Infatti, le regole di validità ci sono sull’atto e non sul rapporto mentre le regole di comportamento attengono al sinallagma (intervengono proprio sul rapporto). Le regole di buona fede, dunque, sono troppo immancabilmente legate alle circostanze del caso concreto per poter assurgere a requisiti di validità; validità che va invece verificata secondo regole predefinite (ex ante).
Secondo la dottrina tedesca, la buona fede esecutiva sarebbe un'ulteriore fonte di integrazione del contratto occupando il posto dell'equità. Invece, secondo il diritto romano, che la distacca dall'equità, la buona fede esecutiva è un criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti al momento dell'adempimento .
La differenza tra equità e buona fede esiste ed è anche netta:
a) Equità → attiene al profilo regolamentare e obbiettivo e si rivolge alla regola come tale;
b) Buona fede → attiene al profilo attuativo e comportamentale, e si rivolge ai soggetti che hanno concorso a porre in essere tale regola, in modo esclusivo o determinato
Di sicuro però è necessario un nesso tra attuazione del rapporto obbligatorio e principio di buona fede dal momento che nel dare attuazione al rapporto obbligatorio bisogna rispettare il principio di buona fede , il quale è essenziale per adeguare ,in sede esecutiva, il rapporto obbligatorio alle circostanze mutevoli dell'attuazione, nel rispetto di ciò che è stato pattuito.
Ad esempio, l'abuso del diritto è collegato alla buona fede dal momento che è sanzionata con l'inammissibilità la domanda del creditore di una somma di denaro da parte del debitore, nel caso in cui sia stato egli stesso con il proprio comportamento a determinare indirettamente l'insolvenza del debitore.
Non è però, contrario a buona fede l'ipotesi in cui il soggetto decida di stipulare rapporti di lavoro con trattamento retributivo migliore rispetto ad altri all'interno di un'impresa perché l'Art. 1375 opera nell'ambito dei rapporto singoli e non in relazione a comportamenti esterni.
In base all'Art. 1375 si teorizza l'exceptio doli generalis che, oggi si ritiene essere consistente in un comportamento malizioso e scorretto. Es. escussione dolosa della garanzia a prima vista .Tale exceptio paralizza l'efficacia del''atto o giustifica il rigetto della domanda di escussione.
Si ricollega alla buona fede anche il principio secondo cui non si può esercitare il diritto in contrasto con un precedente comportamento affidante.
La buona fede è dunque un criterio di controllo dell'attività dei contraenti e quindi anche del creditore , distinguendosi così dalla diligenza che è il criterio per valutare il comportamento del solo debitore in sede di adempimento.
Dalla buona fede esecutiva nascono doversi ed obblighi di protezione, i quali non sono integrativi della regola contrattuale perché non la arrochiscono ma, servono solo ad attuarla correttamente e a preservare la sfera giuridica dei contraenti da fatti lesivi. Spesso, tali doveri sono previsti dalla legge ma, possono anche considerarsi inseriti di volta in volta a seconda delle circostanze nei singoli contratti tipici. (es,obblighi di informazione e di avviso etc...)
Secondo quanto disposto dall'Art. 1343 la regola contrattuale è illecita se contraria a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume. L'ordine pubblico ed il buon costume sono contenuti oggettivamente desumibili, a differenza di quanto accade con riguardo ad equità e buona fede, dove, invece il margine discrezionale del giudice è piuttosto ampio. Nel caso in cui il giudice ritenga che una determinata norma sia contraria all'ordine pubblico ed al buon costume, il giudice seppure sempre obbligato a motivare, non dovrà esprimere opinioni ma dovrà limitarsi semplicemente ad applicare i principi e le clausole al riguardo.
Un'altra differenza che esiste tra ordine pubblico, buon costume ed equità è che l'ordine pubblico e buon costume prescindono dal giudizio concreto, invece l'equità lo presuppone.
La nozione di ordine pubblico compare la prima volta, nel codice Napoleonico. Inizialmente, esso si configurava come manifestazione della volontà della classe dirigente di assicurare la stabilità del regime contro ogni attività condotta sul piano giuridico e diretta a porre in discussione le fondamenta su cui la società si basa. L'ordine pubblico opera come ultima ratio quando una determinata operazione non è vietata di per sé da specifiche norme imperativa, ma si presenta in opposizione o è reputata eversiva rispetto alle strutture sociali.
Il pericolo, però, insito in questa definizione tendente a legittimare ogni soluzione politica, ha condotto la dottrina a ridimensionare l'ampiezza di tale nozione fino ad identificarla direttamente con le norme imperative o con i principi da essa deducibili. Ma, questa soluzione non è apparsa convincente ed è per questo che si è optato per una soluzione del problema alla luce dell'ingresso nel nostro ordinamento di una costituzione che indicasse in modo chiaro le direttive, i principi, i valori da seguire e da difendere. Infatti, la funzione attuale dell'ordine pubblico non è più politica ma, è quella di impedire che i provati possano darsi un assetto di interessi non conforme a quelle direttive e a veri principi costituzionali.
Si pensi ad esempio al patto di buona entrata ,al pagamento cioè di una somma di denaro, al fine di poter concludere un contratto di locazione o di lavoro dipendente , patti questi in contrasto con il diritto all'abitazione costituzionalmente tutelato e con il diritto al lavoro tutelato ex art.4 e più in generale 3 della costituzione . Ovviamente è necessario che il contratto non risulti già nullo per violazione di norme imperative .Infatti anche se l'art.1343 c.c. nel enunciare la triade (norma imperative ,ordine pubblico e buon costume ) non detta una gerarchia , è ovvio che laddove intervenga la legge in modo espresso è escluso un intervento del giudice diverso dalla applicazione della singola regola.
Il campo di applicazione dell'ordine pubblico riguarda le libertà personali e collettive ,ma anche il settore economico. Es. è vietato ogni patto che mira dietro corrispettivo a obbligarsi a sposarsi o a non sposarsi (tutela libertà personale ).
Obbligo di non votare o di non iscriversi un certo partito(tutela libertà collettive)
Si puo anche utilizzare lo strumento dell'ordine pubblico per sancire la nullità di quelle pattuizioni che mirano a discriminare (in violazione art. 3 /41 cost.) alcuni soggetti rispetto ad altri nel campo dell'iniziativa economica o anche al di fuori dell'attività di impresa. (es. accordo tra più proprietari immobiliari che ha ad oggetto l'obbligo di non locare detti immobili agli ebrei o neri) .
La nozione di buon costume appare per la prima volta nel diritto romano come boni mores.
Il buon costume, a differenza dell'ordine pubblico è un criterio di giudizio che si pone dalla parte della realtà sociale e non dell'ordinamento giuridico. Quindi, la sua nozione non può essere desunta da una analisi della legislazione positiva seppure solo lo Stato, tramite le norme giuridiche, potrebbe dettare regole di buon costume valide per tutti.
Infatti, se da una parte è impossibile prescindere dalla natura sociale del criterio, per identificare le pratiche immorali, al tempo stesso, non può negarsi un ruolo negativo dell'ordinamento , nel senso che non potrà essere accolta quella nozione che risultasse essere contraria a precise statuizioni normative. Quindi, il giudice è legittimato ad applicare il criterio del buon costume solo in assenza di una contraria disposizione di legge. E sempre più spesso l'immoralità ha ceduto il passo all'illegalità,nel senso che quelli che prima erano dei precetti di ordine morale sono poi stati positivizzati ed entrati a far parte dell'ordine pubblico.Si pensi ai contratti di maternità e a quelli per il commercio di organi e sangue ora vietati dalla legge. Ciò vuol dire che più si amplia l'interesse dello stato più si restringe quello dei boni mores che, ad oggi ricomprendono quasi esclusivamente le prestazioni sessuali dove c'è corrispettività (ed il gioco).
Proprio a causa di questa tendenziale osmosi tra ordine pubblico e buon costume, ci si è chiesti in alcuni casi se alcune pratiche debbano configurarsi come immorali o come illegali per violazione dell'ordine pubblico. Pensiamo, ad esempio, alle convenzioni elettorali, con cui alcuni candidati alle elezioni politiche si impegnano a far convergere i voti dea lori espressi, su un altro candidato della stessa lista in cambio di denaro. Risulta immorale il contratto di claque se, ha ad soggetto la programmata denigrazione di un artista (es. fischi su commissione ,organizzati da un artista nei confronti di un concorrente).
La differente configurazione di una pratica come illegale o immorale è però importantissima perché comporta una diversa disciplina da applicare.
Infatti secondo l'art.2035 c.c. chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che costituisce una offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato .ES. se A paga B,C,D per fischiare E alla fine del suo spettacolo se questi non fischiano ,A non potrà pretendere la restituzione del denaro. Tale norma che sancisce il principio che in PARI CAUSA TURPITUDINIS MELIOR EST CONDICIO POSSIDENTIS, è dunque un'eccezione all'art. 2033 cioè alla regola generale della ripetibilità dell'indebito oggettivo .Il 2035 costituisce dunque un invito specialmente per la giurisprudenza ad inquadrare una fattispecie nell'illegalità o nell'immoralità a seconda che si voglia tutelare il solvens o l'accipiens .
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