ASPETTI DELLA PARTE GENERALE DEL CONTRATTO.
PREMESSA.
L’art. 1321 del nostro codice civile definisce il contratto come “l’accordo di due o più parti per costituire,regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico di carattere patrimoniale”. Tale articolo ci fornisce un concetto sintetico col quale il legislatore ha inteso regolarizzare l’insieme delle situazioni mediante le quali i privati regolano i loro rapporti patrimoniali. Questa definizione apre la parte generale del contratto (titolo II, libro IV, artt 1321 a 1469 bis) alla quale è affidato il compito di ridurre ad unità la molteplicità dei contratti aventi una disciplina particolare (titolo III, libro IV, artt. 1470 a 1986, nonché la varia legislazione speciale) fornendo loro le regole di cui sono manchevoli.
Le disposizioni richiamate riguardano la parte generale dei contratti che è caratterizzata soprattutto dallo schema dello scambio.
A queste disposizioni vanno aggiunti per la loro ampia portata gli artt. 769 che disciplinano la donazione. Questo contratto rappresenta una sorta di modello generale che informa gli atti dando vita ad attribuzioni patrimoniali senza corrispettivo (nei quali non è formalmente presente l’adempimento di un obbligo). In realtà, la possibilità di attribuzioni patrimoniali senza corrispettivo diviene possibile in ragione del controllo operato dal legislatore attraverso l’impiego di un penetrante formalismo (art.792) che finisce per oscurare il ruolo generalmente affidato alla causa del contratto, valorizzando il ruolo dell’autonomia privata. Da questo punto di vista la disposizione contenuta nell’art. 787 (in virtù della quale il donante può impugnare la donazione se è incorso in un errore su di un motivo determinante), consente di far emergere una pluralità di motivi apprezzabili il cui significato economico va oltre la volontà “di far bene”. Si pensi, ad esempio, alle ipotesi nelle quali l’attribuzione gratuita abbia una funzione strumentale (donazione rimuneratoria, donazione modale, donazione mista).
In altri libri del codice, poi, sono regolati il contratto di lavoro (libro V,art. 2094), il contratto di società (libro V,art. 2247), il trasferimento d’azienda.Quella di cui all’articolo 1321 è una definizione sintetica e al tempo stessa un concetto astratto, cioè è una sorta di modello che dovrebbe servire all’illustrazione e all’interpretazione di singoli schemi concreti. Definizione e concetto sono alla base della disciplina generale del contratto e conseguentemente il contratto non indica più o solo l’accordo (cioè la fattispecie intesa come complesso di atti necessari per la stipulazione di un accordo giuridicamente vincolante) ma anche il regolamento divenuto vincolante tra le parti per effetto dell’avvenuta stipulazione; nonché il risultato perseguito dai contraenti. È bene fare una breve digressione sulla fattispecie: essa sta ad indicare l’evento della realtà materiale a cui corrisponde un evento della realtà giuridica, rappresentato dall’effetto. La nozione di fattispecie non è limpida perché con essa s’intende – a volte in modo descrittivo, altre volte in modo costruttivo- riferirsi sia al fatto storico (fattispecie reale), che al fatto tipico (fattispecie concreta), ovvero allo schema di qualificazione (fattispecie astratta). Il ritrovare un nesso di causalità tra fatto materiale ed effetto giuridico asseconda una collocazione della fattispecie come problema attinente alla dinamica della realtà giuridica.
In Italia lo studio di maggiore importanza sul concetto di fattispecie è quello del Rubino che pone la figura della fattispecie al centro di una importante ricostruzione sistematica;
il Falzea, invece, definisce la fattispecie come “situazione di fatto, 8 normativamente qualificata, ed avente l’attitudine a valere come punto di collegamento di conseguenze giuridiche” in modo tale da rompere il nesso di circolarità che esiste tra fattispecie e produzione degli effetti giuridici, per coglierne il senso giuridico nella rilevanza.Nel codice non mancano disposizioni che allargano la figura del contratto oltre l’accordo: come nell’ipotesi dell’articolo 1333, nella quale il procedimento formativo si perfezione con la volontà del solo proponente, mentre il destinatario può solo rifiutare la proposta; ancora l’articolo 1339 laddove si corrode la libertà di determinare il contenuto del contratto con l’inserzione automatica di clausole non pattuite e il mantenimento del contratto così modificato (art 1419,comma 2 ). Tutto questo in contrasto con la regola della immodificabilità delle clausole negoziali liberamente pattuite. Al di là di queste discordanze, oggi, la definizione di cui all’articolo 1321 non è più in grado di riassumere struttura e funzione con riferimento all’insieme delle fattispecie reali che si moltiplicano, rendendosi così necessario l’ingresso a nuove regole e a nuovi tipi contrattuali. La verità, infatti, è la definizione in esame ha carattere relativo in quanto a essa si aggiungono generazioni successive di regole e di contratti, collegate alla complessità socio-economica della realtà che ci circonda. Se si mette da parte l’assunto della disgregazione del concetto resta la prospettiva della differenziazione nella quale l’ipotesi costruttiva si avvale di un modello teorico semplificato (lo schema della vendita ne è l’asse portante) e della nascita di sottosistemi (contratto col consumatore, terzo contratto ecc.). Questa scelta consentirebbe un processo di autoconservazione delle proprie radici e di riadattamento dei propri istituti giuridici. Significativo è il movimento accademico, che a partire dalla fine del secolo scorso, ha proposto l’unificazione del diritto contrattuale europeo attraverso il richiamo all’esperienza dei codici; ma questo movimento giunse a scarsi risultati dovuti al carattere ideologico dei suoi postulati, a tenore dei quali non si possono pensare i fatti giuridici al di fuori degli schemi concettuali e della problematica teorica dei due secoli precedenti. Schemi e problematica riconciliati col tentativo di riequilibrare e diseguaglianze prodotte dal mercato. È questo il tema costante di chi si occupa della protezione del consumatore, senza tener conto che l’ideale della giustizia sociale (contrattuale) altro non è che un miraggio. Probabilmente, si rende necessaria: a) Una scelta di policy che è quella di domandarsi se abbia ancora senso il weberiano “diritto calcolabile”, misurato attraverso la corrispondenza dell’operazione economica (soprattutto quella posta in essere dal consumatore) al consenso individuale: o se sia, invece, necessario ricostruire su altre premesse una teoria di diritti e delle libertà personali. b) una scelta di metodo che guardi prima ai singoli processi di formazione dei modelli contrattuali (in particolare alla vendita dove resta implicatala realtà e l’idea della circolazione delle ricchezze, senza preoccupazione alcuna di violare una coerenza interna del sistema. Irti a riguardo delle discipline “sistematiche” dice che l’asistematicità sembra non significare contrapposizione col sistema semmai mancato coordinamento con questo. Posto queste premesse, tuttavia, il codice rappresenta il modello descrittivo nel quale è presente (un laboratorio ideale) nel quale è presente un’accumulazione teorica che consente di pensare per gradi e rappresenta la premessa per un’analisi della variegata composizione della realtà. E ,infatti, il codice civile resta l’unico corpo di norme “generali” e ciò spiega, dal punto di vista strutturale, la sua primizia.
LA DEFINIZIONE. CONTRATTO BILATERALE E CONTRATTO PLURILATERALE.
La definizione di contratto, di cui all’art.1321, racchiude in sé le due principali componenti: il profilo strutturale (l’accordo di due o più parti), rappresentato dagli elementi necessari a comporre l’atto (art. 1325) e quello funzionale (costituire, regolare o estinguere .. un rapporto giuridico patrimoniale) rappresentato dallo scopo perseguito e dagli (effetti obbligatori o reali) che l’atto è chiamato a produrre.
Il codice all’art.1325 indica gli elementi necessari per attribuire a un accadimento storico la qualifica di contratto. Questi elementi sono l’accordo, la causa e l’oggetto; nonché la forma ma solo se richiesta dalla legge sotto pena di nullità.Da tale regola si ricava l’esistenza di un principio generale di libertà di forma valevole in tutti i casi in cui la legge non la prescriva. La forma vincolata s’inserisce nel sistema delle nullità negoziali (art.1428,comma 2) che possono essere fatte valere in qualunque tempo e da chiunque vi abbia interesse, possono essere rilevate d’ufficio dal giudice e non consentono la convalida ( 1421-1423). L’articolo 1352 prevede che le parti possano adottare la forma scritta ad substantiam per regolamentare future vicende del contratto. Si discute se l’accordo sulla forma possa essere tacitamente o verbalmente revocato. Recente orientamento giurisprudenziale ritiene che il patto di adottare la forma scritta per un determinato atto può essere revocato anche mediante comportamenti incompatibili con il suo mantenimento, in quanto nel sistema contrattuale vige la libertà della forma, per cui, al di fuori dei casi tassativi di forma legale, i contraenti sono liberi di eleggere una forma e poi rinunciarvi. Secondo altro orientamento una volta riconosciuta all’autonomia privata la facoltà di determinare la forma di un contratto futuro e anche le modalità delle future negoziazioni, ne scaturirebbe che tale facoltà verrebbe frustrata qualora fosse consentito alle parti, successivamente alla conclusione del contratto, di derogare, revocare o porre nel nulla la scelta della forma fatta in precedenza. Dottrina recente ritiene che il principio della libertà di forma sia in realtà una norma (assente) che il legislatore non ha mai formulato.
La causa del contratto è argomento molto controverso. Nella relazione al codice civile la causa è definita come la funzione economico sociale del contratto. Essa , infatti, appare come l’elemento che dà coesione agli altri elementi (essenziali e accidentali) che compongono la struttura del contratto. L’idea della funzione socialmente riconoscibile del regolamento negoziale apre il problema del rapporto tra funzione e struttura del contratto. Da un lato, la causa si pone al di fuori degli elementi di struttura del contratto in quanto serve ad assicurare, riflettendo astrattamente il tipo negoziale, la rispondenza dell’atto ai valori espressi nell’ordinamento (si pensi all’art. 1322, comma 2 sugli interessi meritevoli di tutela, o all’articolo 1343 sulla causa illecita); dall’altro lato, funge da criterio di valutazione complessiva dell’assetto di interessi in concreto operato dalle parti (causa concreta), in modo tale da far parlare di una funzione economico-individuale della causa. Nel definire il concetto di causa si collocano teorie che discutono in termini di controllo della giusta causa dell’attribuzione operata anche per mezzo di negozi formalmente perfetti. Il punto di vista della causa, tuttavia, non è quello dell’operazione economica che il contratto si propone di realizzare se si tiene conto che spesso il contratto costituisce il frammento di una complessa operazione economica che ha trovato altrove i principi di regolazione. Da questo punto di vista la prospettiva della causa concreta tende a separare il concetto di causa come elemento di struttura del contratto, dall’assetto patrimoniale che si è concretamente realizzato. Una indicazione in tal senso viene dall’articolo 1418 che, riferendosi all’atto, sancisce la nullità del contratto se la causa contrasti con norme imperative e dall’articolo 1339 che, riferendosi al rapporto, interviene sull’assetto patrimoniale concretamente realizzato (disponendo l’inserzione automatica di clausole, prezzi..).
L’oggetto del contratto si distingue dall’oggetto dell’obbligazione e della prestazione, intese alternativamente come risultato utile che soddisfa il creditore e come comportamento strumentale del debitore. Secondo dottrina accreditata l’oggetto del contratto viene a coincidere con il contenuto del contratto nella misura in cui questo lo descrive. Ciò consente di operare un riscontro tra quanto descritto e quanto è stato trasferito o consegnato: riscontro la cui utilità non sfugge ad esempio nella vendita nelle ipotesi vendita di cosa viziata; vendita delle cose mancanti delle qualità promosse. Tornando alla definizione del contratto il primo profilo (quello strutturale) agisce, quale elemento materiale, e funge da presupposto e causa dell’effetto giuridico (inteso come modificazione delle rispettive sfere giuridiche dei contraenti come risultato ultimo del contratto), anche se per la produzione di quest’ultimo occorrerà la mediazione della norma, che renderà, previo giudizio di validità, rilevante il contratto nel mondo dei rapporti giuridici. L’ordinamento, infatti, concorre con la volontà delle parti alla produzione dell’effetto finale attribuendo rilevanza all’atto ma anche attraverso l’integrazione del contenuto del contratto, se carente; ovvero la rettifica per l’ipotesi di contrarietà a norme imperative allorchè questo sia possibile in relazione al regime delle nullità di cui agli articoli 1418, 1419, comma 1, 1424. Tale ambito è segnato dall’operare della regola della buona fede che consente di rendere rilevante sia la condotto delle parti come criterio valutativo; sia la possibilità di integrare l’assetto complessivo degli interessi.Facendo un breve accenno alla buona fede bisogna dire che essa è richiamata da numerose disposizioni del codice che finiscono per scandire l’intero svolgersi dell’attività contrattuale: l’articolo 1337 il quale dispone che le parti nelle trattative e nella formazione del contratto “devono comportarsi secondo buona fede”; l’art. 1366 a tenore del quale “ il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”; ‘art. 1375 “ il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”, e con riguardo all’obbligazione l’art. 1175 il quale prescrive che “il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”.
Contigua all’area della buona fede è quella dell’equità, che sarebbe chiamata ad integrare il regolamento contrattuale, così come espressamente richiamato dall’art. 1374, là dove la buona fede servirebbe a determinare le modalità esecutive delle singole prestazioni. Franzoni osserva, tuttavia, che la buona fede ha “finito per occupare uno spazio che avrebbe potuto essere dell’equità”. Il concorso di queste fonti costituisce il regolamento contrattuale che ne rappresenta la sintesi; da questo punto di vista il contenuto del contratto potrà non coincidere col regolamento contrattuale proprio per il fatto che questo è il frutto di una pluralità di fonti. Nel contratto,quindi, non tutto risulta riconducibile alla volontà delle parti (accordo); ciò nonostante nella prospettiva del codice “ anche quando s’incontrano deviazioni, la ratio della disciplina legale è quella di dare corso al precetto negoziale secondo la logica espressa dai suoi autori. L’articolo 1321 con la formula “accordo di due o più parti” fornisce una nozione unitaria del contratto bilaterale (nel quale la combinazione dei contegni dichiarativi è indirizzata a risolvere un conflitto d’interessi) e quello plurilaterale (nel quale l’intento socialmente riconoscibile è diretto al perseguimento di uno scopo comune). Allo “scopo comune” (concetto che è proprio dell’esperienza tedesca, ove nel BGB il paragrafo 705 definisce il contratto di società come quello nei quali i soci si obbligano reciprocamente a perseguire il raggiungimento di uno scopo comune) allude l’art. 1420 dettato in tema di nullità del contratto plurilaterale. Questa disposizione attribuisce allo scopo comune una funzione tipizzante il contratto plurilaterale. La categoria di questi contratti non comprende esclusivamente i soli contratti associativi (associazioni, società, mutue,consorzi con attività esterna) – la cui peculiarità è quella di dare vita ad un altro dato tipizzante quale è quello dell’organizzazione – ma si estende ai contratti normativi, a quelli di divisione, ai sindacati azionari etc. La differenza che esiste tra i contratti bilaterali (tra questi quelli di scambio) e quelli associativi non sembra inficiare la definizione generale, contenuta nell’art. 1321, con la quale il legislatore ha inteso designare un’ampia categoria di atti tra vivi, a rilievo bi o plurilaterale, destinata a regolare gli atti patrimoniali privati. Le due figure divergono sul piano degli effetti: si pensi ad esempio alle società di capitale dove l’atto costitutivo e lo statuto fungono anche da presupposto per l’attribuzione della personalità giuridica; ovvero alle conseguenze giuridiche dell’esercizio in comune di un’attività economica che si concreta nel compimento di un’attività, intesa quale insieme di atti di diritto privato coordinati e unificati sul piano funzionale dall’unicità dello scopo, di certo non coincidente con l’adempimento dell’obbligazione quale effetto dei contratti di scambio. La definizione dettata nell’art. 1321 per i contratti bilaterali sembra fondarsi sullo schema dello scambio. L’accordo, infatti, è costruito sulla coppia proposta-accettazione che evoca lo scambio di beni. La corrispettività, infatti, più che una caratteristica del contratto sembra essere un modo di atteggiarsi del nesso tra le prestazioni (interdipendenza, reciprocità) così come analogamente vale per il carattere della onerosità-gratuità o aleatorietà-commutatività. Lo stesso carattere dell’onerosità, spesso fatto coincidere con quello di corrispettività, dovrebbe assumere il ruolo di ulteriore tratto caratterizzante del contratto bilaterale. In realtà l’onerosità è un concetto che non concorre a definire il contratto in quanto rileva nell’ambito della tutela del terzo acquirente in buona fede di fronte alle pretese che si fondano sulla mancanza di legittimazione dell’alienante; sulla valutazione della responsabilità e della garanzia tra le parti ovvero sui criteri di interpretazione. In conclusione possiamo dire che la nozione di contratto di cui all’art. 1321 ha portata generale in quanto si limita a fissare gli aspetti caratterizzanti della figura (rappresentati dall’accordo e dalla funzione) prescindendo dal fatto che altri possono concorrere a delinearla, nonché dal tipo di affare in concreto regolato. Conseguenza di quanto detto è il fatto che nella nozione di contratto ex art.1321 finiscono per rientrare fattispecie tra le più varie, purchè appartenenti nel novero degli atti patrimoniali. Ciò spiega ad es. perché nel nostro ordinamento anche la donazione è fatta rientrare nella nozione di contratto.
IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DEL CONTRATTO: L’ACCORDO.
Il ciclo formativo del contratto è regolato dagli articoli 1326 e seguenti del codice.
Ai contratti fondati sul solo consenso di aggiungono quelli reali (mutuo, comodato, deposito) caratterizzati dal fatto che per il perfezionamento del loro ciclo formativo è necessario oltre l’accordo anche la traditio, o consegna. Tali contratti (mutuo, comodato) sono caratterizzati dall’operare della coppia consegna-restituzione. Ciò ha portato il loro inquadramento nell’ambito della categoria dei contratti restitutori in senso stretto che pone l’accento sull’obbligo di restituzione. Tale inquadramento finisce per trascurare lo scopo di fondo (mera detenzione, detenzione conservativa, godimento, credito, garanzia) che le parti intendono raggiungere. Secondo una linea di pensiero, sorta sulle radice pandettisti che, la restituzione si colloca al di fuori degli effetti imputabili di una ingiustificata detenzione di cosa altrui che si produce una volta che l’effetto qualificatore del regolamento di interessi si sia realizzato. La restituzione rappresenta il limite cronologico di tale effetto.
L’evoluzione giurisprudenziale ha portato a ritenere equivalente alla traditio la messa a disposizione del bene. In proposito si veda la sentenza Cass. N.14270 del 2011 laddove si dice che il contratto di mutuo è un contratto reale che si perfeziona con la consegna della somma data a mutuo, elemento costitutivo del contratto; consegna, intesa come giuridica disponibilità della somma data a mutuo, come equipollente della traditio, nel caso in cui il mutuante crei un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, determinando così l’uscita della somma dal proprio patrimonio e l’acquisizione della stessa al patrimonio di quest’ultimo, ovvero quando, nello stesso contratto di mutuo, le parti abbiano inserito specifiche pattuizioni, consistenti nell’incarico che il mutuatario da al mutuante di impiegare la somma mutuata per soddisfare un interesse del primo.
Il congegno proposta-accettazione ha diverse varianti:
per alcune ipotesi l’art. 1327 prevede che non sia necessaria la preventiva accettazione (cioè una manifestazione mediante comportamento dichiarativo) e che il contratto si perfeziona con l’inizio dell’esecuzione, che rappresenta una manifestazione mediante comportamento esecutivo. La peculiarità sta nel fatto che il procedimento non suppone l’accettazione e che è esclusa la revocabilità, ex art. 1328, sia della proposta che dell’accettazione.All’inizio dell’esecuzione non è ragguagliabile il silenzio che non è un atto del procedimento di formazione del contratto ma solo un contegno meramente omissivo. Per qualcuno esso va inteso alla stregua di una manifestazione tacita di volontà.
Bisogna segnalare, tuttavia, che nel nostro codice non mancano ipotesi nelle quali il silenzio rileva. Si pensi al silenzio- consenso di cui agli art. 1712, comma 2 (Il mandatario deve senza ritardo comunicare al mandante l'esecuzione del mandato. Il ritardo del mandante a rispondere dopo aver ricevuto tale comunicazione, per un tempo superiore a quello richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi, importa approvazione, anche se il mandatario si è discostato dalle istruzioni o ha ecceduto i limiti del mandato); 1832, comma 1; alle ipotesi di silenzio-diniego, nelle quali il silenzio può atteggiarsi come silenzio-rifiuto (art. 702, comma 3 e 1399, comma 4) o come silenzio-rigetto (art. 1326, comma 2). In queste ipotesi se è vero che da un lato la legge attribuisce all’inerzia un significato espressivo predeterminato; ciò non vuol dire, dall’altro lato, che si è in presenza di un dovere di agire o reagire imposto al soggetto e rimasto inosservato.
Nei casi in questione l’attribuzione legale di effetti tipici e predeterminati al contegno (inerzia) avviene o in vista del programma d’interessi che il contegno normalmente manifesta (tipizzazioni legali relative) oppure in funzione del carattere di atto immediatamente realizzativo di interessi che il contegno assume in concreto (tipizzazioni legali assolute). In entrambi i casi nessun dovere di agire o reagire del soggetto viene in considerazione.L’art. 1329 prevede un tipo di procedimento di formazione del contratto nel quale il proponente si obbliga a mantenere ferma la proposta per un certo periodo di tempo (elemento essenziale di questa figura è il termine) concedendo all’oblato il potere di perfezionare il contratto senza potersi in alcun modo sottrarre. La giurisprudenza afferma che l’irrevocabilità della proposta contrattuale ( c.d. ferma), ex art.1329, consiste nella temporanea privazione degli effetti di una eventuale revoca voluta dal proponente ed ha lo scopo di accordare al destinatario per l’accettazione della proposta uno “spatium deliberandi” maggiore di quello necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. Elemento normativo richiesto per la irrevocabilità è la determinazione del tempo per il quale il proponente è obbligato a mantenere ferma la proposta e l’essenzialità e la funzione del termine escludono che la limitazione della facoltà di revoca della proposta, riconosciuta al proponente sino alla sua accettazione ex art. 1328, possa risolversi nella negazione di tale facoltà e nella subordinazione dell’efficacia della proposta alla volontà del suo destinatario. Laddove il tempo di irrevocabilità venga fatto cessare o con la sottoscrizione del contratto preliminare, come nel caso di specie, o in difetto di questa, con il rogito notarile di trasferimento della proprietà, che con la creazione di un vincolo contrattuale esauriscono la funzione della proposta, deve negarsi che all’irrevocabilità sia stato previsto un termine, poiché la necessaria temporaneità della stessa presuppone che alla scadenza di esso il proponente riacquisti la possibilità di esercitare la facoltà di revoca.
L’art. 1332 prevede l’ipotesi che terzi possano aderire ad un contratto, se previsto, in un momento successivo a quello della sua conclusione (clausola di adesione). La norma presuppone che il procedimento formativo del contratto sia idoneo a produrre i suoi effetti e che l’ambito di riferimento sia rappresentato dai contratti plurilaterali ( es. società, consorzi) nei quali è presente una finalità (scopo comune) non ragguagliabile a quella, implicita nella dialettica proposta-accettazione dello scambio. L’adesione del terzo deve essere ricercata sul piano della situazione creata dal contratto in una prospettiva procedimentale che rappresenta una sorta di ampliamento degli effetti del contratto.
L’articolo 1333 prevede lo schema del negozio unilaterale soggetto a rifiuto rappresentato da un atto da cui derivano obbligazioni per il solo proponente in favore di un destinatario che ne risulta avvantaggiato rimanendone al tempo stesso vincolato. Questi può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso, ex art. 1333, comma 2. Per la giurisprudenza nel contratto con obbligazioni del solo proponente, di cui all’articolo 1333 , non rileva l’avvenuta sottoscrizione ad opera di una o di più parti, ma l’unilateralità dell’obbligazione in esso prevista, che è posta a carico di una sola parte obbligata ad adempiere. Mentre l’oblato ha facoltà di adempiere. Fondandosi l’impegno sull’unica dichiarazione proveniente dall’obbligato, la sottoscrizione dell’atto che lo contiene da parte del beneficiario della prestazione su cui grava l’onere del rifiuto, non incide sullo schema tipico, né sul contenuto, valendo solo quale espressa accettazione dell’altrui obbligazione, pur non necessaria, dal momento che il contratto si perfeziona per il sol fatto del mancato rifiuto. La dottrina attribuisce al mancato rifiuto un valore giuridica diverso: - Per alcuni (Tesi contrattualistica) il mancato rifiuto ha un significato dichiarativo nel senso che è ragguagliabile all’accettazione; ovvero rappresenta, in ogni caso, un comportamento omissivo concludente con effetti negoziali. Ciò significa che lo schema di formazione del contratto resta composto dall’incontro tra proposta e accettazione (mancato rifiuto) con la particolarità che la proposta è irrevocabile appena giunge a conoscenza dell’oblato. Al contratto unilaterale saranno applicabili le norme generali sull’incapacità delle parti e sui vizi del consenso. - Per altri il rifiuto è incompatibile con l’accettazione in quanto serve a respingere un effetto già prodotto. Alla tutela dell’oblato provvederebbe l’art. 1324 che estende le norme dei contratti agli atti unilaterali e l’art. 1337 che, richiamando il comportamento secondo buona fede nella fase precontrattuale, consentirebbe di sanzionare l’invalidità del contratto ove all’oblato fosse impedito il dissenso con inganno o minaccia. L’ipotesi più nota è quella del contratto a favore del terzo ( art.1411); ma lo schema è anche quello della donazione obnuziale (art.785) che si perfeziona senza bisogno che sia accettata; della proposta di fideiussione.
IL CONTRATTO SENZA ACCORDO.
Irti sostiene che i contratti di massa si svolgono senza accordi e che ad essi si applica la disciplina del contratto con esclusione delle norme dettate in materia di consenso.
Questa posizione è criticata da Bianca il quale sostiene che anche nello scambio di massa si incontrano offerta e accettazione e che il vero pericolo della posizione criticata,relativamente all’esclusione delle norme sul consenso, è proprio quello di far rimanere senza tutela il contraente esposto a offerte ambigue, oscure etc.. L’essenza del contratto risiede nell’accordo la cui mancanza è causa di nullità (ex art. 1418, comma 2) come rammenta il brocardo secondo il quale “nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem” . Questa affermazione va ridimensionata in relazione alla diversa graduazione di rilevanza che ha la volontà di una parte nei confronti dell’atto.Analizziamo ora due ipotesi caratterizzate da una peculiare strutture e da un particolare scopo:
- la prima può essere racchiusa intorno alle ipotesi nelle quali il contratto si perfeziona indipendentemente dall’esistenza di un accordo o al di fuori dello schema regolato dall’articolo 1326.
- la secondo riguarda quei casi nei quali, pur rilevando una formale volontarietà del comportamento, il contenuto del contratto è unilateralmente predisposto. In entrambe le ipotesi il carattere contrattuale dell’atto sta nel fatto di essere diretto al conseguimento di uno scopo la cui realizzazione abbisogna di una situazione ulteriore.
Le fattispecie che rientrano in questa prospettiva sono:
l’art. 1236 (dichiarazione di remissione del debito) a tenore del quale “ la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione” salvo che il debitore “non dichiari.. di non volerne profittare”;
l’art.1327 (esecuzione prima della risposta dell’accettante);
art. 1333 (contratto con obbligazioni del solo proponente) secondo cui il contratto deve ritenersi concluso nel caso in cui il destinatario di una proposta, da cui derivano obbligazioni solo per il proponente, non la rifiuti (si ascrivono in questa categoria, di solito, il mutuo senza interessi, il comodato, il deposito non retribuito, il pegno, il mandato gratuito. Si tratta di contratti reali dai quali scaturisce la sola obbligazione restitutoria o di atti che implicano il compimento di un atto giuridico o la prestazione di garanzia senza richiedere un corrispettivo);
art. 1395 (contratto con se stesso) che allude al contratto concluso dal rappresentante con se stesso.
Un problema analogo lo si intravede nel contratto a favore di un terzo in quanto l’effetto attributivo si produce nella sfera patrimoniale di un soggetto che non partecipa al contratto, ma che ne resta legato sia nell’ipotesi di cui all’art. 1413 (eccezioni opponibili dal promittente al terzo) sia nel caso, ad es., in cui l’interesse dello stipulante si dovesse risolvere nella causa donandi, in modo tale da consentire l’imposizione di obblighi modali.
Anche nel contratto per persona da nominare il nominato non partecipa alla formazione dell’accordo, limitandosi solo ad accettare la dichiarazione di nomina e subentrando ex lege nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto. Si pensi anche al contratto di assicurazione in nome altrui e al contratto di assicurazione per conto altrui o per contro di chi spetta.
Tutte queste ipotesi sono accomunate dal fatto che vi sono effetti che incidono sulla situazione patrimoniale di un soggetto (terzo) che non partecipa all’accordo, cioè alla definizione del regolamento contrattuale.
La dottrina ha difficoltà a spiegare questa circostanza in quanto la deve conciliare , da un lato, con il principio della relatività del contratto ( art. 1372 in base al quale il contratto ha forza di legge tra le parti) e ,dall’altro lato, con la regola dell’intangibilità della sfera giuridica altrui (art. 1372, comma 2 secondo cui il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge).
Per risolvere questo problema sovente si cerca di qualificare il rifiuto col ricorso all’espediente della finzione, cioè alla stregua di un’accettazione tacita.
Tra le vicende interpretative che hanno interessato l’art. 1333 assume particolare rilievo l’orientamento che riconduce il contratto con prestazioni del solo proponente allo schema del negozio unilaterale. Questa tesi s’innesta in una linea di pensiero che pone in discussione il postulato della tipicità dei negozi unilaterali (secondo Giorgianni l’operatività delle promesse unilaterali è generalmente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge in quanto si ritiene che esse non sono in grado di dare conto delle ragioni che sostengono spostamenti patrimoniali col rischio di introdurre surrettiziamente fenomeni di astrazione negoziale). Problema diverso, invece, si pone relativamente ai contratti nei quali si assiste ad una formazione eteronoma del rapporto per la presenza di un obbligo a contrarre. Anche in questo caso ci si chiede se siamo o meno in presenza di un accordo. Bisogna dire che: a) anche là dove le soluzioni sono più drastiche (ad es. l’art. 1679) permane, sia pure in misura modesta, una sfera residua di libertà di chi subisce l’imposizione del rapporto; b) sovente il richiamo al contratto non riguarda tanto il momento costitutivo (l’accordo) quanto un profilo finalistico, quale è la produzione di un quid novi (costituire, regolare o estinguere) nei rapporti patrimoniali, e l’esigenza di sottoporre determinate vicende alle regole civilistiche dell’equilibrio contrattuale. Da questo punto di vista il contratto si afferma come un istituto che, all’interno di una nozione generale ex art. 1321, presenta una fisionomia che in quanto capace di adeguarsi a mutevoli contenuti ha un notevole grado di flessibilità e neutralità.IL RAPPORTO.
L’articolo 1321 richiama espressamente il concetto di rapporto giuridico patrimoniale. Il termine rapporto presenta una certa ambiguità in quanto con esso si può intendere
a)sia il rapporto obbligatorio in sè considerato (ci si riferisce alla nozione di obbligazione vista come vincolo in virtù del quale il debitore è tenuto a una prestazione in grado di soddisfare l’interesse del creditore (art.1174) a cui accede una responsabilità da inadempimento, fatta salva l’ipotesi della impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore (art.1218). Tale nozione elementare di obbligazione viene posta in una dimensione più ampia (c.d. programma obbligatorio) dove si collocano i doveri e obblighi di protezione, teleologicamente raccordati al principio di buona fede, a cui è legata l’ulteriore funzione di tutelare interessi non immediatamente legati a quello rappresentato dalla prestazione dovuta. È estranea ai doveri di protezione la obbligazione senza prestazione, la cui fonte è rintracciabile nel principio di buona fede, il cui contenuto è ravvisabile ogni qual volta, in relazione ad una determinata e preesistente relazione sociale, sussista un preciso dovere di comportamento volto a tutelare l’altrui sfera giuridica (ricorrente, ad es. è il riferimento alla responsabilità medica).
B) sia la sintesi o il collegamento dei singoli rapporti obbligatori (e cioè sia l’obbligazione della parte che quella della controparte) al fine della produzione dell’effetto finale.
In realtà il rapporto potrebbe anche mancare del tutto come capita, ad esempio, nell’ipotesi della permuta di cose già in possesso dei rispettivi acquirenti che è un contratto a soli effetti traslativi (art. 1376), oppure si può pensare al rapporto come insieme delle conseguenze giuridiche necessarie a realizzare il “precetto negoziale”. Il contratto : 1) ai sensi dell’art. 1372, comma 1, col perfezionarsi è impegnativo per le parti (effetto fondamentale); 2) ai sensi dell’articolo 1173 è fonte di rapporti obbligatori; 3) ovvero ai sensi degli articoli 922 e 1376 è fonte di trasferimento dei diritti reali. Analizziamo ora queste ipotesi. 1)La dottrina del contratto ritiene che il concorso del profilo strutturale con quello funzionale dia vita medio tempore ad una situazione giuridica complessa (il rapporto fondamentale), la cui misura interna è rappresentata dal sinallagma funzionale -inteso come proiezione e sintesi del regolamento prefigurato nell’atto (sinallagma genetico)- da cui dipartono i singoli rapporti elementari, il cui combinarsi ed intrecciarsi è strumentale al raggiungimento dell’effetto finale o alla conclusione dell’intero ciclo contrattuale ed al conseguimento degli interessi che le parti hanno inteso realizzare. (il rapporto diviene un quid medium tra il contratto come fatto e i suoi effetti finali). Il rapporto non va confuso con la rilevanza (o effetto fondamentale) che segna l’ingresso del contratto nel sistema dei valori giuridici, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 1372, comma 1 “il contratto ha forza di legge tra le parti”; questo effetto , infatti, si produce senza alcuna necessità di essere intermediato dal rapporto. 2)In dottrina si è parlato di una situazione giuridica mezzo strumentale alla produzione di una situazione giuridica risultato e questo binomio mette in evidenza il fatto che il contratto tende alla creazione di un quid novi nelle rispettive sfere giuridiche dei contraenti (la definitività del risultato finale). Attraverso il rapporto, il contratto si salda con la disciplina delle obbligazioni, ex art. 1173, che, ne rappresenta il tramite generale della sua esecuzione; o il mezzo (obbligazioni di dare, fare, non fare) attraverso cui si produce l’effetto finale al quale tende il regolamento contrattuale (costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale). È bene soffermarsi sulla distinzione delle obbligazioni: questa distinzione è presente nel codice all’art. 1316, dettato in tema di obbligazioni indivisibili, allorchè indica come oggetto della prestazione la cosa (prestazione di trasferire la proprietà) , il fatto o il non fatto. Per prestazione di fare s’intende il compimento di qualsiasi attività materiale da parte del debitore che sia diversa da quella del dare o del consegnare (es. eseguire un’opera, custodire). Con riguardo a queste obbligazioni si parla di obbligazioni di mezzi quando la condotta del debitore ha attitudine a essere strumento di soddisfazione dell’interesse (bisogno) del creditore; mentre si parla di obbligazioni di risultato quando la soddisfazione dell’interesse finale del creditore va oltre e non si risolve nella condotta del debitore. Questo binomio costituisce uno spunto importante per la classificazione di quei contratti nei quali la personalità dell’adempimento (contratti di lavoro ad es.) svolge un significativo ruolo tipologico. L’importanza della funzione tipologica della personalità dell’adempimento dipende in concreto dall’oggetto della prestazione (si pensi all’obbligazione del professionista) rispetto alla quale si pone la propensione a parlare, a volte, di essenzialità dell’intuitus (nel senso di escludere l’adempimento diretto del terzo ex art. 1180) e a misurarne l‘adempimento con il metro della diligenza. Il profilo dell’intuitus è inerente anche a obbligazioni di dare (si pensi alle operazioni di credito nelle quali la personalità patrimoniale dell’accreditato gioca un ruolo fondamentale) anche se il rischio dell’incapienza è generalmente neutralizzato dalla richiesta di garanzie patrimoniali. Per prestazione di non fare s’intende un’astensione, un pati; essa si distingue dai doveri inerenti a un diritto reale che rappresentano doveri inerenti ad una situazione giuridica finale (sono inerenti all’esercizio di un diritto) e non rappresentano il tramite per la realizzazione di detta situazione. L’obbligazione di dare ha un contenuto vario: riguarda il trasferire la proprietà o altro diritto, ma riguarda anche l’ipotesi nella quale il venditore deve consentire, nelle varie ipotesi di vendita, l’effetto traslativo della proprietà in favore del compratore; l’obbligazione di trasferire è presente nel mandato che abbia avuto per oggetto beni immobili o preliminari. Se l’obbligazione di dare è predisposta per consentire il trasferimento di un diritto; quella di consegnare serve a fare acquistare al creditore il possesso o la detenzione della cosa. Gli obblighi di consegna (rilascio, restituzione) presentano un rilevante interesse- ad es. nelle ipotesi di risoluzione del contratto- in quanto, comportando la restituzione della cosa al precedente titolare, hanno il compito di ristabilire la situazione anteriore rispetto alla cosa ed hanno titolo nella mancanza di causa del possesso nel compratore. Diversa è poi l’ipotesi nella quale la consegna si appartiene alla fase perfezionativa del contratto , come avviene ad es. nel mutuo. 3) Costituisce un’eccezione l’effetto traslativo della proprietà (art.922) che non transita per l’obbligazione stante la sufficienza del “consenso delle parti legittimamente manifestato” (1376). L’effetto traslativo (cioè il passaggio da un soggetto all’altro della proprietà) prescinde dalla nozione di rapporto; il contratto non è mai un fatto costitutivo della proprietà (in quanto essa ha fonte esclusiva in fatti originari) ma vale solo a modificare la titolarità del diritto, se questa già esisteva, in capo al dante causa oppure è fattispecie costitutiva del diritto di proprietà nelle ipotesi previste dalla legge (1153, 1159, 1159 bis) dove concorre con altri elementi essenziali (es. il possesso, la trascrizione).
Il rapporto diviene oggetto di autonoma considerazione quando si interseca, per un verso, con la cessione del credito (1260) e ,per altro verso, con la delegazione, l’espromissione e l‘accollo (è bene chiarire che la cessione del credito è un effetto che viene prodotto mediante i contratti traslativi tipici, onerosi o gratuiti (compravendita,donazione,permuta).
L’accollo è una modalità di un contratto sia nominato che innominato. È il caso di richiamare la distinzione tra contratto tipico (contratto avente un particolare contenuto economico giuridicamente rilevante e dotato di una propria causa, ad es. vendita, trasporto) e fattispecie tipica (priva di un peculiare contenuto economico e di una propria causa). In quest’ultima è presente una struttura del rapporto disciplina la direzione dell’effetto mediante, ad es., l’impiego dei c.d. elementi accidentali del contratto, es, contratto condizionale, contratto per persona da nominare etc.). Questi contratti (cessione del credito, accollo, delegazione ed espromissione) operano sul rapporto obbligatorio modificandone o la posizione soggettiva attiva(quella del creditore) o la posizione soggettiva passiva (quella del debitore). Tali mutamenti si realizzano attraverso la novazione (estinzione dell’obbligazione e costituzione di una nuova obbligazione diversa sia per oggetto che per titolo, la quale prende il posto della precedente) o attraverso la successione nel debito (che si ha quando un debitore subentra ad un altro nello stesso rapporto obbligatorio con la conseguenza che il rapporto rimane invariato, giacchè laddove dovesse cambiare si cadrebbe nello schema della novazione con estinzione del rapporto esistente e costituzione di un nuovo rapporto). Nel testo ci si riferisce alla novazione oggettiva, ma accanto a questa è prevista, ex art. 1235 c.c., la novazione soggettiva passiva disciplinata con un rinvio alle norme relative alla delegazione, espromissione e accollo: contratti che possono provocare sia l’effetto della novazione soggettiva passiva che l’effetto della successione del debito. Il codice non contempla la novazione soggettiva attiva in quanto il mutamento della posizione attiva del rapporto obbligatorio si attua attraverso la cessione del credito. La diversità tra novazione e successione non è di scarso rilievo. Si pensi ad esempio che nel meccanismo della successione i soggetto che subentra può opporre al creditore (restando invariato il rapporto) tutte le eccezioni che poteva opporre il debitore originario. Ciò vale anche per la prescrizione che resta quella che valeva per il debito preesistente. Nella novazione, invece, vi è estinzione del rapporto originario.IL PRINCIPIO DI RELATIVITA’ DEI CONTRATTI. CONFLITTI DERIVANTI DALLA PATOLOGIA DEL CONTRATTO (LA POSIZIONE DEL TERZO).
L’art. 1372 al comma 2 (il contratto non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge) enuncia il principio della relatività dei contratti di carattere generale in base al quale il contratto, mentre ha forza di legge tra le parti, non può arrecare né pregiudizio né giovamento ai terzi estranei (res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest). La regola, tuttavia, fa salve le ipotesi (e cioè nei casi previsti dalla legge) nelle quali i terzi si pongano, soggettivamente e/o oggettivamente, in relazione con le parti.
Bisogna, però, sottolineare che la categoria dei terzi e molto ampia; ciò significa che non tutti i terzi sono parimenti indifferenti rispetto alle vicende di un dato rapporto contrattuale potendone essere coinvolti. Bisogna distinguere, infatti, tra:
a) i terzi subentrati nello stesso rapporto in luogo del loro dante causa;
b) i terzi subentrati in un rapporto diverso da quello da cui giuridicamente lo stesso dipende (tra le varie ipotesi può includersi quella di cui all’art. 1916 che dispone una surrogazione nella titolarità di un diritto altrui (cessio legis) quale quella dell’assicuratore che subentra nella titolarità del diritto di credito dell’assicurato nei confronti del terzo responsabile).Occorre tener presente che esiste una categoria di terzi qualificati, alla quale allude, ad es. in tema di cosa giudicata, l’art. 2909 -allorchè statuisce che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”- fissando la non estraneità di questi terzi ad una vicenda intervenuta tra altri.
Nel nostro sistema normativo la figura del terzo trova una speciale tutela nel principio dell’affidamento che indica una regola “secondo cui, rispettivamente, una certa situazione di fatto o di diritto è inoperante se non è nota a un determinato soggetto, o se è contrastata da un’opposta apparenza, o dalle risultanze degli indici di pubblicità; e, reciprocamente, tutto procede come se la situazione di fatto o di diritto fosse quella erroneamante ritenuta da un certo soggetto, o quella apparente, o quella risultante dall’indice di pubblicità.” Il sacrificio che deriva al titolare del diritto dell’operatività di tale principio è solo un effetto riflesso della tutela accordata al terzo. Tale principio introduce una serie di deroghe all’altro principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis che espone i terzi al pericolo che venga meno il titolo del loro dante causa. Si pensi ad esempio: all’art. 1415, in tema di simulazione; art.1445 in tema di annullamento non dipendente da incapacità legale; art. 1452 in tema di rescissione; art. 1458, comma 2 in tema di risoluzione per inadempimento; art. 2901, comma 4 in tema di revocatoria ordinaria (queste fattispecie mettono in evidenza come l’inopponibilità delle vicende relative all’esistenza o al modo di essere del titolo nei confronti del terzo avente causa dipenda dal concorso di ulteriori requisiti come la buona fede, l’onerosità, il trascorrere del tempo). Queste fattispecie- fatti salvi gli effetti dell’iscrizione nei pubblici registri di una prenotazione (la domanda giudiziale) che avverta i terzi dell’esistenza di una contestazione circa il titolo del diritto trascritto- finiscono per far ritenere che il principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis sia divenuto un’eccezione. La nullità assoluta e l’annullamento per incapacità legale, la cui disciplina è accomunata alla prima, estendono i loro effetti anche ai terzi sub acquirenti (art 1445,563 e 792). (Nel nostro ordinamento, stante il principio del trasferimento consensuale, la trascrizione dell’acquisto ha funzione dichiarativa ai fini della prova del diritto nei confronti dei terzi. La trascrizione ha valore costitutivo nell’ipotesi di cui all’art. 2644, comma 2 che concerne l’acquisto del secondo acquirente che abbia per primo trascritto. La parola titolo indica il fatto o l’atto in base al quale un soggetto può pretendersi titolare; nonché il contenuto del diritto. Esso è generalmente usato per indicare gli atti di acquisto dei diritti reali. In particolare modo, con frequenza si parla di titolo nel libro III del codice per indicare la conformazione del diritto in dipendenza di un atto o fatto.)
LE LIBERTA’ CONTRATTUALI E LE LIMITAZIONI LEGALI.
La libertà di contrarre ha nel nostro ordinamento concreti e numerosi riferimenti testuali:
l’articolo 1322 che fonda la regola contrattuale, riservando ai privati la competenza a comporre il contenuto del contratto, nei limiti imposti dalle legge e di selezionare funzioni contrattuali non tipizzate, fatto salvo il controllo sulla meritevolezza dell’interesse perseguito;
l’articolo 1341, comma 2 che richiede una speciale approvazione della parte non predisponente le condizioni generali di contratto;
l’articolo 1372, comma 1 che sancisce la regola della risolubilità per mutuo consenso del contratto;
l’articolo 1373 che disciplina il recesso unilaterale.Per quanto concerne la descrizione del contenuto della libertà contrattuale possiamo far riferimento alla dottrina tedesca la quale ritiene che la libertà di contrarre sia costituita da quattro fondamentali poteri: 1) la scelta del “se” e “ con chi” di vuole contrarre; 2) la manifestazione della libera determinazione del contenuto del contratto compreso il ricorso a figure non tipizzate; 3) la libertà di modificare, nei contratti di durata, il rapporto; 4) la libertà di sciogliere il rapporto. Questi poteri hanno una loro frontiere intrinseca nelle limitazioni legali che riflettono la rilevanza d’interessi generali, primari rispetto a quelli delle parti. Questa descrizione ci è utile perché consente di dare ordine alla fitta rete di limitazioni legali. Queste ultime per un verso derivano dalla legge (predeterminazione del contenuto del contratto o di parti di esso; scelta del contraente etc); per altro verso possono essere il frutto di complessi processi formativi del mercato (contratti di massa, produzione globalizzata ecc.) che evidenziano delle vere e proprie disparità di potere contrattuale, di carattere sia economico che informativo, tra la parte che predispone il contratto e quella costretta ad aderirvi.
L’articolo 1322, al primo comma riconosce la libertà contrattuale “nei limiti imposti dalla legge”. Questi limiti riguardano: i requisiti del contratto e in modo particolare: l’illiceità della causa, perché contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (1343); l’elusione di norme imperative; il motivo illecito comune ad entrambe le parti (art,1345); la illiceità dell’oggetto (1346) e nonché le nullità contrattuali di cui agli articoli 1418, 1419, 1420;
gli elementi accidentali del contratto (gli elementi accidentali rappresentano clasuole volte a far emergere sul piano contrattuale singoli motivi individuali, svolgendo in tal modo l’ufficio di collegare il contratto: a) ad un piano di interessi esterno, come la condizione; b) ad un tempo utile per la realizzazione dell’interesse programmato, come il termine (art. 1183 con riguardo al tempo dell’obbligazione e per i contratti traslativi l’art. 1465 che distingue a seconda che l’effetto traslativo o costitutivo sia differito sino alla scadenza del termine; c) ad una certa modalità (modo o obbligo non corrispettivo) con la quale si attua un’attribuzione a titolo gratuito. Tali ragioni impongono che, una volta che su di essi si sia perfezionato l’accordo, non è lecito estraniarli da contenuto del contratto.
Altro modello di regolamentazione degli interessi, non ricollegabile al termine o alla condizione, è quello rappresentato dalla presupposizione con cui le parti collegano gli effetti del contratto al verificarsi di un evento, obiettivamente incerto, dedotto come certo. In tale ipotesi si è in presenza di una lacuna del regolamento negoziale in quanto le parti non hanno regolato la circostanza che l’evento si possa non verificare. La lacuna va colmata in sede interpretativa come indicativa alternativamente di un termine o di una condizione a secondo se l’evento futuro sia considerato dalle parti come certo (termine) o come incerto nell’an (condizione) e segnatamente : la condizione illecita o impossibile; l’onere illecito o impossibile posto all’istituzione d’erede o al legato.
Di particolare interesse è la formula dell’”abuso del tipo contrattuale” che sta ad indicare l’ipotesi di uno schema contrattuale che pur avendo una causa tipica possa, da solo o in collegamento con altro, essere utilizzato per il conseguimento di un risultato in “frode alla legge”.
In ordine ai contratti atipici (art.1322, comma 2) la prima questione che si pone è quella del significato da attribuire all’espressione purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Il controllo di meritevolezza deve essere necessariamente destinato ad identificare il modo in cui sia stato in concreto utilizzato il contratto (condizioni, motivi, clausole etc..). si tratta dello stesso controllo di cui si parla agli art. 1343 e seguenti a cui deve essere sottoposto sia il contratto tipico che quello atipico. Possiamo, quindi, dire che il comma 2 art 1322 è un’applicazione più ampia del primo comma. Questa prospettiva che finisce con il far coincidere la liceità con la meritevolezza dà rilievo alla valutazione del fatto contrattuale in quanto tale ma non ci dice nulla sulla natura del controllo previsto dall’art. 1322, comma 2.
E allora più convicente è l’opinione secondo la quale l’atipicità riguarda la funzione del regolamento contrattuale e il controllo dell’interesse finale che persegue con i principi dell’ordinamento (derogabilità, inderogabilità..). Senonchè si è rilevato che il medesimo schema contrattuale può assolvere a più funzioni, o che più schemi possono assolvere alla medesima funzione; d’altro canto le norme che traducono elementi essenziali del tipo non sono sempre inderogabili. Per tale motivo , allora, appare preferibile condividere l’idea seconda la quale il legislatore individua i tipi contrattuali sulla base di criteri eterogenei e discontinui, tutti, però, rispondenti ad unico requisito: quello cioè di rappresentare un elemento essenziale del tipo, in modo tale che la loro assenza non consente di sussumure il contratto nel tipo legale. Questa pluralità di tratti distintivi può essere di volta in volta ritrovata nella qualità delle parti; in dati attinenti il processo di formazione del contratto (la realità) ; nella natura e nel ruolo della prestazione; nel rapporto tra le prestazioni allorchè questo pone in luce aspetti finalistici, scopi o motivi (è il caso di ricordare in quale misura il criterio tipologico apporta guadagni interpretativi allorchè s’intenda selezionare gli elementi costitutivi del contratto secondo il criterio della loro idoneità a realizzare un certo interesse.
Il metodo interpretativo della sussunzione assume, come criterio ordinante, il concetto, cioè uno schema fondato sulla identificazione della fattispecie in base alla compresenza di tutti gli elementi ritenuti caratteristici e necessari: ciò significa che il quesito sulla sussumibilità del caso concreto alla fattispecie astratta si risolve in termini di appartenenza o di non appartenenza.
Il metodo tipologico, invece, prende consapevolezza dell’insufficienza del sistema logico-formale fondato sul concetto astratto, individua i dati caratteristici in funzione di un maggiore o minore grado di similitudine di un evento in un quadro significante senza perdere di vista la necessità della presenza di un centro significativo quale fattore di coesione dei tratti strutturali-effettuali. Ciò consente una risposta graduale in funzione della corrispondenza al quadro generale selezionandone i singoli elementi costitutivi secondo il principio dell’idoneità a realizzare un certo interesse. Ciò introduce una componente finalistica nella valutazione, orientata in senso teleologico più che sillogistico e permetti di legittimare situazioni operative molto frequenti nella prassi, che pur non essendo identiche, sono accomunate da somiglianze di fondo). De nova sottolinea che ipotesi diversa dal contratto atipico o innominato dovrebbe essere quella del contratto misto, risultante dalla combinazione di più tipi nominati.
Per quanto riguarda la disciplina applicabile vi sono 3 teorie:
quella dell’assorbimento, a tenore della quale la normativa applicabile è quella corrispondente al tipo proprio dell’elemento prevalente;
quella della combinazione, che individua la disciplina applicabile in quella corrispondete ai vati tipi commisti;
quella dell’applicazione analogica che pone un problema di compatibilità tra i vari effetti dei tipi commisti.Si pone, poi, la necessità di verificare la corrispondenza della fattispecie concreta ad un tipo legale astratto e si potrà parlare di atipicità quando sia assente un tratto distintivo di un certo tipo legale o vi sia il concorso di tratti tipologici distintivi appartenenti a tipi legali diversi (mistione contrattuale). Questa questione pone il problema di individuare la disciplina applicabile alla fattispecie atipica con riguardo agli effetti che le parti intendono realizzare e in questa prospettiva si colloca il controllo di meritevolezza (ex art. 1322, comma 2) che si risolve, da un lato, in termini di compatibilità tra loro dell’intero novero degli effetti previsti; dall’altro lato, nella misura dei poteri e dei limiti che l’ordinamento attribuisce ai privati per realizzare determinati effetti.
Recenti studi hanno rilevato l’utilità concettuale di una nuova categoria ordinante i contratti, fondata sul concetto di “operazione economica”: attraverso questa categoria si può superare la categoria del tipo, fatta coincidere con una determinata fattispecie legale, e delineare figure contrattuali molto più ampie nelle quali far convergere una pluralità di fattispecie caratterizzate da identità di fondo. In questo modo prende vita la figura del gruppo di contratti: si pensi alla vendita dalla quale derivano una pluralità di altri contratti (vendita a distanza, vendita fuori dai locali commerciali..) il cui tratto distintivo si colloca in fattispecie complesse strutturate grazie alla correlazione di più prestazioni ( ad es. viaggi vacanze tutto compreso) o al collegamento di più contratti (ad es. la vendita collegata ad un contratto di credito al consumo). È stato rilevato come sia fuorviante l’idea di verificare se tali diversi contratti corrispondano o meno al tipo codicistico della vendita, in quanto il concetto di operazione economica è in grado di ricostruirne unitariamente l’identità e la funzione di queste figure. E proprio l’articolo 1323 (“tutti i contratti, ancorchè non appartenenti ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali”) apre il problema rappresentato dalla centralità della figura generale del contratto e del suo raccordarsi alla disciplina dei singoli contratti (tipici o atipici). La ratio della norma non è chiara in quanto sembra evidente al’interprete che vi debba essere una relazione dialogica tra la parte generale e quella speciale di un istituto giuridico. La circostanza che la parte speciale (i singoli contratti nominati) possa prevedere l’esclusione di alcune disposizioni della disciplina generale non è in contraddizione con l’adozione di una sorta di paradigma di riferimento che ammette esclusioni ed eccezioni. Per altro verso va rilevato che esiste uno scompenso tra la potenziale comprensività della parte generale del contratto e l’eterogeneità di singole discipline, per cui può apparire una soluzione imperfetta il richiamo ad uno schema ordinante di carattere generale. Questo scompenso trova spiegazione nel fatto che mentre, da un lato, la nozione di contratto (1321) aspira a comprendere in sé l’intera esperienza contrattuale; dall’altro lato, la conseguente disciplina appare modellata sull’operazione di scambio, in modo tale da non essere sempre aderente a qualsivoglia fattispecie concreta. Se si aderisce a questa constatazione, allora, si deve affermare che nel nostro ordinamento, a differenza di quello tedesco, non esiste una nozione di negozio giuridico, e così l’intera categoria degli atti tra vivi, bi o plurilaterali a contenuto patrimoniale viene racchiusa nella parte generale del contratto che finisce per dar vita a una nozione flessibile di contratto privilegiando ora l’elemento strutturale ora quello funzionale, dalla cui combinazione possono modellarsi le varie categorie dell’operazione economica. Da questo punto di vista, l’articolo 1323 c.c. indica la necessità di una corrispondenza tra gli elementi della fattispecie concreta e quelli, strutturali o funzionali, di cui allo schema generale. De nova ha osservato che il legislatore ha ormai abbandonato la classificazione tipologica del codice del 1942 preferendo disciplinare più i soggetti che i contratti (imprese di assicurazione, mediatori..) o, alternativamente, i raggruppamenti di contratti (si pensi alle disposizioni in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali che fanno riferimento alla fornitura di beni o alla prestazione di servizi “in qualunque forma conclusi”). E il risultato è che la valutazione in termini giuridico- formali è stata sostituita da una valutazione in termini economici-pratici (cioè l’operazione economica diviene la nuova categoria ordinante dei contratti). E in questi ambiti il legislatore è intervenuto per porre dei limiti all’autonomia privata attraverso norme imperative a contenuto indeterminato che si sono dimostrate, dice De Nova, inefficienti perché “per volere sanzionare tutto si finisce per non sanzionare nulla (il fallimento della legge sulla subfornitura è emblematico”.
LE LIMITAZIONI CONVENZIONALI (GLI ACCORDI PREPARATORI ALLA STIPULAZIONE DEL CONTRATTO).
Le limitazioni convenzionali scaturiscono dalla volontà delle parti ed esse sono:
a) la prelazione;
b) l’opzione (art. 1331);
c) il contratto preliminare (art. 1351 e 2932).A)Prelazione.
Si pensi alle varie ipotesi di prelazione legale (art.732, ma anche in materia di circolazione dei beni culturali; di locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quell abitativo ecc..) la cui efficaci obbligatoria consiste nel vincolare il promittente ad una scelta doverosa – a parità di condizioni rispetto ad altri- lasciandolo libero di decidere il “se contrarre” (si è ritenuto che la prelazione, fissando l’elemento soggettivo di un futuro contratto, rappresenti un tipico accordo normativo. In Italia parte della dottrina ritiene che la prelazione si risolvi in un preliminare unilaterale se il promittente non abbia ricevuto un corrispettivo. Da ciò dovrebbe conseguire una sorta di diritto al contratto del prelazionario a seguito dell’inadempimento dell’obbligo di preferire che giustificherebbe l’applicazione dell’art.2932. ma contro questa tesi si muove larga parte della dottrina e la stessa giurisprudenza). Mentre le prelazioni legali si accompagnano a una tutela reali, rappresentata dal diritto di riscatto; nella prelazione volontaria si applicheranno, invece, nel caso di violazione, i principi generali che regolano la responsabilità per inadempimento (art.1218). La prelazione volontaria si risolve in un patto (inter vivos o mortis causa) che avrà effetto esclusivamente tra le parti, a tenore del quale una parte concede, a titolo oneroso o gratuito, al prelazionario il diritto di essere preferito a terzi nella conclusione di un determinato contratto.Al funzionamento della prelazione è essenziale la possibilità del confronto con la proposta del terzo e proprio la denutiatio è il meccanismo tecnico che consente questo confronto. Si parla di prelazione impropria (diffusa nella redazione degli statuti societari) allorchè la determinazione del prezzo è affidata a diversi meccanismi tra i quali, ad es, quello della determinazione del prezzo rimessa a un terzo arbitratore che opererà sulla base dei criteri fissati dall’art. 2437 ter, dettato in tema di recesso. Nel diritto societario la prelazione convenzionale è utilizzata come strumento di controllo della circolazione delle partecipazioni secondo la previsione contenuta negli art. 2469 (per le s.r.l.) e 2355 bis (per le s.p.a.). Questo tipo di prelazione presenta la particolarità di poter essere inserita nello Statuto o nell’atto costitutivo di società, in modo tale da divenire opponibile ai terzi (la clausola avrebbe effetto reale); non vi è rilevanza reale, invece, nel caso in cui la clausola risulti inserita in un patto parasociale. La giurisprudenza assegna alla clausola statutaria di prelazione la funzione di regola del gruppo organizzato. Si dice al riguardo che la clausola di prelazione a favore dei soci, nel caso di trasferimento della quota, una volta inserita nell’atto costitutivo, contiene una disposizione che attiene all’assetto societario e condivide perciò la natura di ogni altra norma societaria. Sicchè la sua modificazione o soppressione rientrano nei poteri di revisione statutaria rimessi all’assemblea straordinaria e alle speciali sue maggioranze statutariamente previste. Per questo motivo sono legittime le delibere, modificative e/o estintive della clausola di prelazione, quando siano adottate a maggioranza anziché all’unanimità e si ritiene, inoltre, che la clausola di prelazione inserita nell’atto costitutivo o nello statuto, acquisti efficacia reale. Secondo un orientamento minoritario, invece, la clausola di prel. , nonostante sia inserita nello statuto, conserva mera efficacia obbligatoria in quanto destinata a dare rilievo all’interesse dei soci. Con riguardo alle conseguenze di una alienazione avvenuta in violazione della clausola di prel. , si ritiene che essa non abbia alcuna validità sia nei confronti dei soci, sia nei riguardi della società. Atri, invece, ritengono che il trasferimento sia non opponibile esclusivamente alla società, la quale può rifiutare l’iscrizione del nuovo acquirente nel libro dei soci e chiedere giudizialmente l’inefficacia del trasferimento.
B) OPZIONE.
L’opzione è il contratto che attribuisce all’opzionario il diritto di costituire il rapporto contrattuale finale con una propria dichiarazione di volontà. Rare sono le ipotesi di opzione legale (è interessante segnalare una massima del tribunale di Genova del 2012 che indica un caso di opzione legale distinta per contenuto dalla prelazione legale: in tema di compravendita di immobili, il d.lgs. 104/1996, definisce il diritto spettante ai conduttori delle unità immobiliari a uso residenziale degli enti pubblici previdenziale, sia come prelazione, sia come opzione. Trattasi in sostanza di due istituti giuridici diversi in quanto, il diritto nascente ai conduttori nel piano di dismissione ordinaria è da definirsi come opzione legale, condizionata all’inserimento dell’unità immobiliare nei suddetti piani e alla definizione delle principali clausole contrattuali da comunicare ai conduttori per l’esercizio dell’opzione stessa e da perfezionare con l’accettazione scritta del conduttore. Secondo il piano di dismissione previsto dalla legge 140/1997 invece l’attribuzione in sede convenzionale di un diritto speciale alla maggioranza dei conduttori, è da ritenersi un diritto di prelazione legale, essendo i beni alienabili solo attraverso procedure competitive che prevedono per i conduttori una preferenza rispetto ai terzi. L’opzione è un figura a cavallo tra proposta irrevocabile e contratto preliminare. In comune con la proposta irrevocabile ha il fatto che in entrambi i casi è attribuito all’oblato un diritto potestativo alla conclusione del contratto; ma a differenza delle proposta irrevocabile che appartiene al momento formativo dell’accordo, l’opzione è un vero e proprio contratto con funzione preparatoria. E questa funzione consente di distinguerla dalle ipotesi (ex ert.1333) dove è disciplinato il contratto da cui scaturiscono obbligazioni per il solo proponente. Secondo la giurisprudenza la causa del patto d’opzione consiste nel rendere ferma per il tempo pattuito la proposta relativa alla conclusione di un ulteriore contratto, con la correlativa attribuzione all’altra parte del diritto di decidere circa la conclusione di quel contratto entro quel medesimo tempo. Per il disposto di cui all’art. 1331 che non prevede il pagamento di alcun corrispettivo, l’opzione può essere offerta a titolo gratuito o oneroso. Negli statuti societari è presente una clausola, di derivazione anglosassone, detta drag along che pone a carico dei soci di minoranza un obbligo di co-vendita per l’ipotesi in cui il socio di maggioranza riceva da un terzo una proposta di acquisto avente ad oggetto la totalità del capitale sociale. Questa clausola è controbilanciata da un’altra detta tag along che tutela la posizione del socio di minoranza riconoscendogli un diritto di co-vendita allorchè il socio di maggioranza intenda alienare ad un terzo la sua partecipazione. Sul piano della qualificazione tale clausola è ragguagliabile alla promessa del fatto del terzo, cioè del socio di maggioranza che promette l’acquisto del terzo delle partecipazioni dei soci titolari di un tag-along right. La clausola di drag along secondo la giurisprudenza è ricostruibile come la concessione da parte del socio di minoranza al socio di maggioranza di una opzione call a favore di terzo sulla partecipazione di minoranza, sospensivamente condizionata dal fatto che il socio di maggioranza riceva un’offerta di acquisto dell’intero capitale sociale e che il socio di minoranza non intenda esercitare il diritto di prelazione sulla quota di maggioranza (diritto di prelazione se garantito da clausola statutaria). In un’ordinanza del tribunale di milano del 2008 di afferma che la validità della clausola di drag-along presuppone che la sua applicazione non comporti un effetto espropriativo della differenza tra il valore effettivo delle azioni cedute e il valore convenzionalmente fissato per il loro trasferimento. Per ovviare ciò, è necessario che il corrispettivo offerto al socio vincolato alla cessione delle proprie azioni non sia inferiore a quanto spetterebbe allo stesso nell’ipotesi di recesso. Si ritiene che le clausole statutarie - che prevedono (nel caso di vendita di partecipazioni in s.p.a. o in s.r.l.) il diritto e/o l’obbligo dei soci diversi dall’alienante di vendere , a loro volta, le partecipazioni possedute – sono soggette alle disposizioni relative ai limiti alla circolazione delle partecipazioni, proprie dei rispettivi tipi sociali e , ove prevedano l’obbligo di vendita, devono essere compatibili con il principio di un’equa valorizzazione della partecipazione obbligatoriamente dismessa. In mancanza di altre indicazioni normative, per determinare il valore della partecipazione ci si fa riferimento in via analogica alla disciplina delle azioni riscattabili che a sua volta richiama la disciplina del recesso. Con la riforma delle società di capitali, il legislatore ha introdotto una norma dedicata alle azione riscattabili che rappresentano una frazione del capitale sociale. L’articolo 2437 sexies, infatti, stabilisce la possibilità di emettere azioni o categorie di azioni in relazione alle quali può essere attribuito dallo statuto un diritto di acquisto in capo alla società o ai soci: facoltà di riscatto ragguagliabile al diritto di opzione. La figura dell’opzione è richiamata anche nell’ipotesi di o.p.a. prevista dalla legge e nell’ambito dei contratti relativi a strumenti finanziari (le opzioni nei contratti finanziari danno al compratore il diritto, ma non il dovere di compiere, nel caso di opzioni call, o di vendere, nel caso di opzioni put, una quantità determinata di uno strumento finanziario o reale sottostante (titoli azionari e obbligazionari, indici azionari, tassi d’interesse..) ad un prezzo determinato, ad una data specifica.
C)CONTRATTO PRELIMINARE.
Il contratto preliminare è il contratto col quale le parti (preliminare bilaterale) o una parte (contratto unilaterale) assumono l’obbligo di concludere, in un momento successivo, un determinato contratto (contratto definitivo). L’articolo 1351 richiede che il contratto preliminare rivesta la stessa forma necessaria per il definitivo; mentre l’art. 2932 assicura il rimedio dell’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre quando questo resta inadempiuto, nel senso che la parte adempiente o che intenda adempiere può chiedere al giudice una sentenza costitutiva che produca gli stessi effetti del contratto non concluso. Secondo autorevole dottrina l’applicabilità dell’articolo 2932 sarebbe circoscritta al solo obbligo di trasferire o costituire diritti reali. Le domande dirette ad ottenere il rimedio ex art. 2932 sono trascrivibili, se relative a beni immobili, e la sentenza che accoglie la domanda prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto (promittente-venditore) successivamente alla trascrizione della domanda (art. 2652, comma 1, sub n.2).
Complessa è la costruzione sistematica del contratto preliminare e in modo particolare ci si pone la questione di individuare la funzione pratica della stipulazione definitiva che deve recepire la soluzione del conflitto d’interessi già delineata dal preliminare:
a) vi è un primo gruppo di opinioni che attribuisce al contratto preliminare una funzione primaria (di fonte e di titolo degli effetti finali)e relega la funzione del definitivo in un ruolo di mera conseguenza, del tutto privo di autonoma espressività;
b) secondo un diverso gruppo di opinioni la sequenza preliminare/definitivo risponde ad esigenze diverse, di guisa che la funzione assorbente del preliminare rispetto alla identità negativa del definitivo non ne asseconderebbe il disegno.Al primo ordine concettuale possiamo ascrivere una tesi nota (che proviene dalla scuola dei processualcivilisti) in base alla quale il contratto preliminare è di per sé idoneo a trasferire la proprietà e la produzione dell’effetto traslativo è solo condizionata ad una successiva documentazione di ciò che è stato già stabilito tra le parti. Per altri la conclusione del contratto definitivo in adempimento del contratto preliminare è un atto dovuto non meno del pagamento (salvo l’ipotesi nella quale i contraenti innovino la disciplina dettata nel contratto preliminare). Da non confondere con questa posizione è la tesi di chi afferma che un idoneo riferimento causale assiste il trasferimento attuato dichiaratamente per adempiere ad una obbligazione preesistente (si allude alla causa solvendi). Di recente - a seguito della novella introdotta dalla legge 28 febbraio 1997, numero 30 – è stata riproposta l’idea che il preliminare configura una vendita obbligatoria nella quale l’effetto traslativo è prodotto dal definitivo. La vendita obbligatoria non va confusa con la vendita a effetti obbligatori: in quest’ultima, infatti, l’effetto traslativo si produce automaticamente (quando la cosa viene ad esistenza; quando è procurata dall’alienante; quando è avvenuta la specificazione) senza la necessità di un ulteriore atto traslativo.
In definitiva non è possibile favorire una tra queste tesi precedentemente prospettate ma è possibile fare alcune considerazioni:
in primo luogo non possiamo condividere la tesi secondo la quale che il definitivo sia privo di qualsiasi ruolo in quanto a un medesimo risultato conduce la sentenza di cui all’art.2932 (che è l’effetto dell’esercizio del diritto potestativo riconosciuto al contraente in bonis). Non possiamo condividere questa tesi in quanto non è possibile racchiudere il rapporto preliminare/definitivo nell’art. 2932 che assicura rimedi contro l’inadempimento e soprattutto per il fatto che essa non riguarda solo il preliminare, infatti, è una norma di carattere generale che riguarda tutte le ipotesi di inadempimento di obblighi a contrarre di origine convenzionale o legale.
In secondo luogo dobbiamo osservare che se per un verso è vero che col preliminare le parti regolano in egual misura gli interessi in contrasto, di guisa che potrebbe apparire superfluo il contratto definitivo; per altro verso è vero che sul piano interpretativo si è in presenza di un accordo che dà vita a una complessa posizione obbligatoria nella quale si struttura un interesse che è quello del diritto di ottenere la proprietà della res. E ,quindi, proprio l’idea della fattispecie a formazione progressiva nella quale il completamento di una fase corrisponde a un certo grado di maturazione che sarà l’interesse finale rende bene l’idea della funzione svolta dall’accordo preparatorio.Partendo da queste considerazioni, è ora possibile esaminare altre tesi che ritroviamo in materia. Verso la fine degli anni ’60 si è affermato che nel preliminare sono previsti contenuti negoziali che hanno un grado di completezza finito e di tal modo non si può fondare la definizione sull’esistenza di lacune del contenuto contrattuale: la sostituzione del contratto preliminare con quello definitivo non può essere giustificata da una diversità degli interessi perché essi sono identici. La funzione del preliminare, quindi, deve essere individuata nel fatto che tale figura offre, rispetto al contratto definitivo, una forma giuridica mediata di realizzazione degli interessi: resta così confermato il carattere strumentale e preparatorio del preliminare e l’idea di un costante piano di interessi sul quale si avvicendano fattispecie diverse in modo da giungere per gradi al risultato finale degli effetti necessari. Ne deriva che la funzione caratteristica del contratto definitivo (quella di sostituire gli effetti propri di un certo regolamento a quelli strumentali del relativo preliminare) può essere distinta con l’attributo di novativa. L’articolo 3 della legge 30/1997 ha suscitato in dottrina un dibattito in tema della configurazione del contratto preliminare. L’innovazione legislativa non consente di preferire l’una tesi all’altra ma è stato evidenziato che essa pone in evidenza un legame tra due atti di autonomia (contratto preliminare e quello definitivo), la cui considerazione appartiene solo alla specifica tradizione culturale del diritto civile.. e che la prassi contrattuale tende a nascondere non solo per motivi tributari ma anche per la preoccupazione delle difficoltà e degli equivoci che il doppio testo contrattuale può poi provocare.
LA MANCANZA DI UN RISULTATO COERENTE COL PROGRAMMA CONTRATTUALE. LA TUTELA DI CONDANNA, LA TUTELA COSTITUTIVA, LE TECNICHE DI COERCIZIONE ALL’ADEMPIMENTO.
L’essenza del contratto (ex art. 1321) è racchiusa nell’accordo (espressione della volontà regolamentare delle parti) e nel fine (espressione del bene e/o utilità che le parti intendono conseguire. L’attuazione del contratto si ha con l’esatto adempimento delle reciproche obbligazioni o prestazioni corrispettive che compongono lo schema del rapporto.
Quando uno dei contraenti non adempie, l’altro può domandare al giudice l’adempimento coattivo o chiedere la risoluzione del contratto; in entrambi i casi spetta il risarcimento del danno (art. 1453) e nella risoluzione questo trasforma l’interesse primario in debito dell’equivalente.
L’articolo 1453 presuppone l’inadempimento dell’obbligazione e consente al creditore di conseguire, attraverso la tutela di condanna e la tecnica dell’esecuzione forzata, un titolo idoneo a fargli ottenere la stessa utilità pratica prevista nel contratto o, a sua scelta, la risoluzione con la richiesta di utilità pratiche equivalenti.
Le due fattispecie presentano una diversità: la domanda di esecuzione dell’obbligo previsto dal contratto presuppone come fatto costitutivo il contratto; invece, la domanda di risoluzione presuppone non solo l’esistenza del contratto ma anche l’inadempimento, in quanto senza di esso non si produce l’effetto risolutivo. Questa distinzione può avere rilievo sul piano probatorio.Merita poi considerazione il fatto che con l’adempimento coattivo il comportamento dovuto dal debitore rappresenta un effetto non solo del contratto ma anche della sentenza (la sentenza che “porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione.. ex art 2818” non ha solo funzione di accertamento dell’obbligazione inadempiuta ma ha anche funzione costitutiva sia nel senso che il credito subisce una modifica rafforzativa e sia nel senso che ,permanendo l’inadempimento, nonostante l’ordine del giudice, si apre per il creditore la possibilità della soddisfazione coattiva in attuazione della responsabilità patrimoniale ex art. 2740-2741. Da questo punto di vista non si avrà un’esecuzione in forma specifica dell’obbligazione ma una liquidazione giudiziale del danno causato dall’inadempimento mediante reintegrazione specifica), circostanza che induce a supporre l’inadempimento o l’inesatto adempimento (per la giurisprudenza l’art.1453 prevede 2 distinte fattispecie che seppur presentano gli stessi fatti costitutivi (obbligazione e inadempimento) si differenziano in ragione delle diverse utilità che assicurano).
L’art. 1453 apre diversi scenari:
a) per un verso, l’adempimento coattivo si attua mediante il processo di cui agli articoli 2931-2933; 612-614 bis del codice di rito;
b) per un altro verso, mediante il diverso meccanismo del risarcimento in forma specifica, ex art. 2058. L’articolo 2058, pur dettato in materia di fatti illeciti extracontrattuali, ma applicabile all’inadempimento di ogni altra obbligazione in quanto l’art. 1218 pone una regola che assoggetta l’inadempimento al risarcimento del danno, prevede che il risarcimento del danno possa essere attuato mediante reintegrazione in forma specifica “qualora sia in tutto o in parte possibile” (comma 1); ovvero, per equivalente allorchè la reintegrazione in forma specifica “risulta eccessivamente onerosa per il debitore” (comma 2).All’adempimento coattivo si provvede mediante i processi di cui agli art. 2931-2933 e 612- 614 che indicano che gli obblighi suscettibili di attuazione coattiva sono gli obblighi di fare o disfare fungibili; ne deriva che questa tutela è inidonea ad assicurare l’attuazione: 1) degli obblighi di fare materialmente infungibili (cioè che non si possono conseguire senza la cooperazione dell’obbligato); 2) degli obblighi di fare, che seppur fungibili, presentano particolari difficoltà per essere eseguiti in via surrogatoria da un terzo; degli obblighi di fare, non fare o dare a carattere continuativo o periodico, al fine di assicurare l’adempimento futuro di tali obblighi, in quanto l’esecuzione forzata non svolge alcuna funzione di tutela preventiva. In tutti questi casi la tutela per equivalente monetario rappresenta una risposta adeguata al ristoro di una situazione di vantaggio a carattere esclusivamente patrimoniale.
Su un piano diverso si colloca la tutela costitutiva, limitata alle sole ipotesi espressamente previste dal legislatore (art. 2908) che consente l’attuazione di obblighi di fare a contenuto giuridico strumentale alla realizzazione di una situazione giuridica finale. In queste ipotesi è la stessa sentenza che produce l’utilità pratica che sarebbe conseguita dall’adempimento dell’obbligazione: si pensi, ad es., alla formazione del titolo definitivo prodotta dalla sentenza ex art. 2932.
L’adempimento coattivo che si attua mediante esecuzione forzata è inadeguato a garantire l’attuazione di una serie numerosa di obbligazioni; in quanto, esso si limita:
- all’adempimento di obbligazioni a carattere pecuniario;
- agli obblighi di rilascio di cosa immobile o mobile determinata;
- all’adempimento di un obbligo di fare materialmente e giuridicamente fungibile.Per superare quest’impasse dottrina e giurisprudenza hanno cercato di individuare, in luogo dell’esecuzione forzata, delle misure coercitive, specie preventive, dirette a provocare l’adempimento spontaneo dell’obbligato. La nullità, l’annullamento, la rescissione, la risoluzione del contratto determinano in relazione alle cose consegnate un obbligo di restituzione ex art. 2037 in base al quale dalla consegna indebita sorge un rapporto obbligatorio di restituzione (art. 1173, l’azione di ripetizione ha lo scopo di rimuovere il risultato materiale di uno spostamento di ricchezza prodotto in mancanza di idoneo titolo giustificativo che non va identificato con la causa del contratto ma con quella dell’attribuzione patrimoniale). Dovrà, perciò, essere provata la consegna e l’assenza dell’obbligo di consegnare mentre non si dovrà provare, trattandosi di azione personale e cioè che si fonda su un diritto obbligatorio, di essere proprietario della cosa. Diversa è, invece, la disciplina ex art. 2038 che prevede l’ipotesi nella quale chi ha ricevuto indebitamente la cosa l’abbia poi alienata. La disposizione pone una disciplina articolata che non prevede un obbligo di restituzione da parte dell’avente causa, di modo tale che il proprietario per recuperare il bene dovrà esercitare in luogo dell’azione di restituzione ex art. 2037, quella di rivendica.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE.
La costruzione teorica del contratto come fattispecie produttiva di effetti, di tradizione pandettistica è ritenuta, oggi, inadeguata nella misura in cui collega il regolamento contrattuale all’attività delle parti, ha il merito di aver dato rilievo (attraverso le figure del diritto soggettivo e dell’obbligo) all’agire del soggetto. La dimensione soggettiva ha rilievo sia con riguardo alla conclusione del contratto (si pensi ai temi della capacità, la legittimazione..) sia con riguardo alla fase successiva in quanto, una volta avvenuto il riconoscimento del contratto da parte dell’ordinamento, al soggetto è rimesso un giudizio di corrispondenza (funzionale) tra il contenuto del contratto (l’interesse regolato) e quanto da lui giuridicamente voluto. Con riguardo ai regime protettivi (quelli cioè che attribuiscono rilevanza alla posizione di fatto delle varie categorie sociali rintracciabili nella realtà, es. prestatore d’opera, consumatore, impresa dipendente) la dimensione soggettiva diviene presupposto di applicazione di una speciale tutela. Si assiste in tal caso alla predisposizione di strumenti di tutela che trascende il singolo contratto (cioè l’interesse concreto del singolo contraente) per esprimere una regola generale inerente alla razionalità economica del mercato. La relazione tra l’atto e l’effetto viene a modificarsi nel caso in cui vi siano effetti legali che concorrono con quelli negoziali (1374 e 1339). Essa può affievolirsi, con maggiore intensità o meno, nelle ipotesi in cui la costituzione del rapporto non è direttamente riferibile al comportamento privato, ma rappresenta l’attuazione di un comando legale. In queste ipotesi si potrebbe escludere l’inquadramento della richiamata fattispecie nell’ambito dei contratti. Ma ciò non tiene conto del fatto che la dottrina ha da tempo convenuto sul fatto che il termine contratto se, per un verso significa accordo delle parti, per altro verso indica anche il regolamento divenuto vincolante tra le parti per effetto dell’intervenuta stipulazione e che tra le due accezioni vi è semmai un rapporto di consequenzialità. Tenendo distinto l‘accordo dal regolamento vincolante, si è ritenuto possibile applicare, in quanto compatibili, i rimedi posti nello scambio a tutela dell’equilibrio contrattuale (risoluzione, per inadempimento, per impossibilità..); là dove sarebbero da escludere quelle norme che hanno per oggetto la disciplina del contenuto negoziale perché finalizzate allo scopo di fissarne l’ambito di rilevanza dell’atto rispetto agli effetti. La prospettiva del regolamento vincolante e la sua proiezione nel rapporto contrattuale rappresenta un significativo indice della scelta metodica di selezionare regimi differenziati nella disciplina delle operazioni contrattuali tenendo distinte le regole che riguardano il meccanismo di formazione dell’accordo da quelle relative all’equilibrio tra le prestazioni. Il principio consensualistico che storicamente retto la teoria del contratto, attenua di molto il suo valore teorico-sistematico, allorchè lo si ponga a confronto con le soluzioni offerte dalla pratica. In questo ambito, esso può cedere il passo al principio causalistico che fornisce una più adeguata spiegazione del vincolo giuridico in relazione a quella serie di eventi che ne determinano la nascita.
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
L’INTERPRETAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO. LA GIURISPRUDENZA.
L’interpretazione è il primo pilastro della scienza giuridica: scienza pratica in quanto ha il compito di risolvere gli innumerevoli casi che la vita concreta propone, alla luce di regole fissate dal legislatore e dei principi che ne innervano l’essenza; la scienza giuridica ha, inoltre, carattere dinamico e cioè si evolve continuamente. [le regole sono norme che connettono precise conseguenze giuridiche a date fattispecie; mentre i principi sono norme, prive di fattispecie, desunti da una ratio comune a una molteplicità di regole e in grado di caratterizzare o l’intero ordinamento o un particolare sotto settore di questo. I principi possono essere espressi (si pensi al principio di eguaglianza, art. 3 Cost.) o inespressi (si pensi al principio di tutela dell’affidamento ricavato dalle disposizioni sull’errore quale causa di annullamento del contratto –art-1428- dalle disposizioni sugli effetti della simulazione rispetto ai terzi e ai creditori – art. 1415 e 1416; dalle disposizioni che limitano la opponibilità ai terzi della modificazione o revoca della procura- art.1396)].
La teoria dell’interpretazione del diritto presuppone l’esistenza di un ordinamento giuridico, cioè di un insieme di fonti del diritto gerarchicamente (il principio gerarchico è quel principio in base al quale in caso di conflitto tra norme gerarchicamente ordinate quella di grado inferiore deve considerarsi invalida) e coerentemente (il principio di coerenza presuppone modelli di risoluzione delle antinomie normative. Si ha antinomia normativa ogni qualvolta 2 diverse norme connettono ad una stessa fattispecie singolare e concreta 2 conseguenze giuridiche tra loro incompatibili. I metodi più noti di risoluzione delle antinomie sono: il criterio si specialità; il criterio cronologico; il criterio gerarchico) organizzato (art.1 Preleggi). La giurisprudenza, potendo contribuire alla formazione del diritto, deve essere annoverata tra le fonti del diritto? ( la nozione di fonte del diritto evoca problemi teorici di rilevante portata perché legati al modello di organizzazione e struttura di un dato ordinamento e alla capacità di individuare fattori in grado di dar vita a regole precettive destinate alla generale osservanza). Nel nostro ordinamento al giudice è demandato il compito di amministrare la giustizia (art. 101 cost.), compito che svolge attraverso l’interpretazione della legge (art. 12 preleggi); il giudice è soggetto solo alla legge e nel pronunciare sulla causa deve seguire le norme di diritto salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità (art 113, comma 1 Cost.). Tuttavia, l’equità non equivale a mero arbitrio. Secondo alcuni autori, ciò non vuol dire che la giurisprudenza contribuisce alla formazione del diritto oggettivo, essendo questa una competenza demandata, nel nostro sistema, alle assemblee elettive e,infatti, nel nostro ordinamento la giurisprudenza non rientra formalmente nel sistema delle fonti del diritto. La realtà, però, è diversa in quanto il significato effettivo di una data disposizione è quello reso, in sede di applicazione, dall’interpretazione fattane dal giudice. Da questo punto di vista, vi sono una serie di ipotesi nelle quali i criteri applicativi non sono determinati dal legislatore e così l’interpretazione giurisprudenziale svolge una vera e propria funzione normativa: si pensi, nel c.c. alla diligenza del buon padre di famiglia (art.1176); al buon costume (art.1343); alla buona fede (1376); alla giusta causa di recesso (2119). In realtà, attraverso le c.d. clausole generali il legislatore delega al giudice la formazione della norma da applicare al caso concreto e ciò impedisce di considerare presente nel sistema, in mancanza di una norma specifica, una lacuna. Nel nostro sistema manca, poi, la regola dello stare decisis che caratterizza il sistema anglosassone e nel nostro ordinamento la sentenza non ha effetti ultra partes, nel senso che non è vincolante per giudici diversi da quelli che l’hanno emessa. Il mero fatto che una data questione giuridica sia stata già risolta in un certo modo non offre alcuna garanzia che, se riproposta, sia risolta negli stessi termini.
Tuttavia, non è vero che il precedente giurisprudenziale abbia solo un valore persuasivo e sia privo di autorità. Si pensi: all’articolo 65 dell’ord. Giud. che attribuisce il potere-dovere di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale; all’art. 111, comma 6 Cost. in base al quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati: regola che impone ai giudici il dovere di conoscere la giurisprudenza (a tali principi si raccordano una serie di norme del ricorso per cassazione e l’art. 68 che prevede la massimazione ufficiale delle sent. della cassazione).
In altri termini, l’interpretazione è un atto del giudice che ha un contenuto conoscitivo strumentale alla risoluzione di un conflitto giuridico tra gli interessi delle parti che si contrappongono nel processo, quale luogo proprio in cui questa attività viene svolta. L’interpretazione del giudice, in generale, non è un atto di mero arbitrio e infatti da un lato ha un limite oggettivo, rappresentato dalle argomentazioni tecniche delle parti che si confrontano nel processo e rispetto alle quali il giudice deve prendere posizione; dall’altro lato, si muove all’interno di un sistema composto da definizioni legali, regole operative, precedenti giurisprudenziali.. La scelta interpretativa del giudice, in materia di contratti, invece, non è condizionata dalle prospettazioni fatte dalle parti in conflitto. L’autonomia del giudice (c.d. principio dispositivo) deriva dal fatto che a lui spetta la qualificazione giuridica della fattispecie da cui scaturisce sia l’individuazione dell’oggetto su cui cade il giudizio (bene della vita assicurato dall’ordinamento) che le posizioni giuridiche delle parti. Va, però, aggiunto che il sindacato del giudice si muove (essendo la struttura del processo a carattere partecipativo) all’interno delle componenti di fatto sottoposte dalle parti in lite e dalla loro condotta processuale e ciò significa che il giudizio sulle componenti di fatto appartiene sì al procedimento interpretativo per il fatto che la qualificazione della fattispecie avviene con l’accertamento del fatto e la successiva verifica della sua sussunzione all’interno dello schema-tipo descritto dalla norma, giacchè gli effetti dell’atto di autonomia si producono solo attraverso la mediazione di una fattispecie legislativamente prevista. Va rilevato, però, che se si lascia al giudice un ampio margine di controllo delle condizioni di esercizio del potere contrattuale, può determinarsi una instabilità nei rapporti tra soggetti che saranno portati a non ritenere sufficiente la corrispondenza del contratto agli schemi normativi che ne determinano struttura e funzione.
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO E L’INDAGINE SULLA “COMUNE INTENZIONE DELLE PARTI”.
Nella teoria generale dell’interpretazione della legge si colloca quella dell’interpretazione del contratto. Il codice detta agli articoli da 1362 a 1371 la disciplina sull’interpretazione del contratto [il legislatore ha fissato in questi articoli un vero e proprio procedimento interpretativo scandito dal succedersi di passaggi che possiamo così sintetizzare:
a)determinazione dell’ampiezza e dell’effettivo contenuto della dichiarazione da interpretare (risultante dal testo contrattuale);
b) ricostruzione della fattispecie totale:comprensiva delle trattative e dei comportamenti tenuti dalle parti in sede di esecuzione;
c) successiva qualificazione giuridica della fattispecie (principio di adeguatezza funzionale o di qualificazione);
d) conseguenza che discendono dalla natura del contratto in ordine alla validità, all’efficacia e agli effetti.
Il primo presupposto per l’interpretazione è che essa sia necessaria; quando non è necessaria (come nel caso in cui il contenuto della dichiarazione è univoco) vale la regola in claris non fit interpretatio. Va osservato che questo principio (cioè l’accertamento stesso dell’univocità e della chiarezza di una dichiarazione) costituisce già di per sé un giudizio interpretativo. Ciò rende discutibile il valore di questa regola interpretativa. Il secondo presupposto è quello della possibilità dell’interpretazione. Con ciò si allude al fatto che non vi può essere interpretazione quando non è ravvisabile alcun senso della dichiarazione; mentre vi è spazio per l’interpretazione quando la dichiarazione appare contraddittoria]. Si è soliti distinguere le diposizioni che indagano sull’intento delle parti (interpretazione soggettiva) da quelle la cui applicazione discende dal permanere di dubbi sui quali sia stata la comune volontà delle parti (interpretazione oggettiva). (nei sistemi di common law l’interpretazione del contratto è stata a lungo caratterizzata dalla priorità del criterio della letteralità. Negli ultimi anni, nella ricostruzione della volontà contrattuale si tende a differenziare la interpretazione,intesa come esegesi della volontà espressa, dalla construction, diretta a ricostruire la volontà secondo criteri oggettivi. Una funzione correttiva è svolta dalla Golden Rule, secondo la quale l’interpretazione della volontà delle parti di un contratto deve evitare risultati assurdi).
L’articolo 1362 definisce l’interpretazione come indagine volta a ricercare la comune intenzione delle parti al momento della conclusione del contratto. La comune intenzione delle parti va intesa come valore giuridico espresso dal contratto, nel senso che proprio attraverso il contratto il legislatore attribuisce alle parti il potere di regolare i loro interessi. La prima regola del procedimento interpretativo riguarda la decifrazione del senso letterale delle parole alla luce degli altri fatti che valgono a svelare la comune intenzione. Il comma 2 dell’art. 1362 fornisce un sussidio a questa prima fase dell’operazione ermeneutica attribuendo rilevanza, per determinare la comune intenzione delle parti, al comportamento delle stesse, anteriore e successivo, alla conclusione del contratto (elementi extratestuali).
Hanno funzione sussidiaria al principio ex art.1362 le 3 regole contenute negli articoli:
1) 1363, secondo cui le clausole contenute in un testo complesso vanno interpretate anche con il metodo sistematico, cioè tenendo conto della posizione della clausola nel testo e della relazione tra la clausola oggetto dell’interpretazione e le altre clausole;
2) 1364, che impone di restringere il significato del contratto agli oggetti che risultano dall’indagine effettuata sullo stesso;
3) 1365, che consente di allargare il significato del contratto a casi a cui si può estendere secondo ragione.Principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni del contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, escludendo, ove esse indichino un contenuto preciso, che l’interprete possa ricercare un significato diverso da quello letterale in base ad altri criteri ermeneutici, il ricorso ai quali presuppone la dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale (per Irti va tenuto distinto l’accordo che è il contenuto del contratto, oggetto dell’interpretazione, dalla comune intenzione che è il comportamento complessivo delle parti e il loro contegno anche al di fuori del contratto). Il significato prescelto dal giudice nella controversia interpretativa deve essere il più conforme non solo alle previsioni normative (interpretazione oggettiva) ma anche al criterio della buona fede dettato dall’art. 1366.
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO E I CRITERI SUSSIDIARI.
Il criterio di valutazione secondo buona fede, ex art. 1366, esprime un dovere di comportamento esterno alla struttura contrattuale e rappresenta l’insieme degli obblighi specifici che scaturiscono di volta in volta da fattispecie determinate: detta, cioè, una regola di comportamento all’interprete.
L’articolo 1371, che rimette all’equità del giudice il compito di contemperare gli interessi delle parti ogni qual volta il senso del contratto resta oscuro, è una norma che ha funzione sussidiaria non distante alla regola di cui all’art. 1366 nella misura in cui lascia intravedere il fine avuto di mira dal legislatore nel dettare la disciplina del contratto: fine che è quello di ricercare una soluzione giusta del conflitto d’interessi, garantendo un oggettivo equilibrio nelle sfere patrimoniali dei contraenti. Secondo un orientamento della giurisprudenza il criterio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede ha carattere sussidiario rispetto a quello dell’interpretazione letterale: ciò significa che laddove alla luce di una interpretazione letterale del contratto risultasse già chiara l’intenzione delle parti, non sarebbe possibile fare ricordo a criteri di interpretazione oggettiva come quello della buona fede (in claris non fit interpretatio) ; in giurisprudenza affermano il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi riferimento a criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all’individuazione del comune intento dei contraenti. Verso la fine degli anni ’90 dello scorso secolo comincia a prende corpo l’idea secondo la quale la clausola della buona fede (1366) abbia carattere principale e non sussidiario e che, quindi, andrebbe applicata anche quando il contratto sia chiaro, correggendo in tal modo la volontà delle parti e in tal senso la buona fede è esterna alla struttura del contratto (ad esempio la sent. Cass. 2992/2004 ha dichiarato che la clausola secondo la quale il promittente alienante deve provvedere alla cancellazione dei vincoli sull’immobile al più tardi alla data del rogito deve essere intesa, perché sia conforme a buona fede, nel modo seguente: in tempo utile affinchè il promissario acquirente possa ottenere dalla banca la concessione di un mutuo ipotecario. Il contratto, benché chiaro sul piano letterale, è apparso incroguo in quanto lesivo dell’interesse del promissario acquirente a che il bene oggetto della promessa di vendita venisse liberato dal mutuo ipotecario in tempo utile per consentirgli di poter costituire egli stesso un’ipoteca su quel bene a garanzia del mutuo bancario indispensabile al pagamento del corrispettivo).
In sede di interpretazione, un ruolo importante è svolta dal principio di conservazione, ex art. 1367, per il quale il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. Questa norma è ritenuta di completamento di quanto disposto dall’art. 1362 in quanto tendente ad attribuire al contratto una portata conforme all’effettiva volontà delle parti.
Se l’interpretazione del contratto rappresenta lo strumento per commisurare il contenuto della determinazione volitiva alla situazione effettuale, non si può ignorare la partecipazione alla stessa situazione di altre fonti attraverso cui il legislatore protegge interessi collegati a situazioni soggettive che preesistono o precedono la conclusione del contratto (ad es. l’interesse della p.a; quello del lavoratore dipendente o del consumatore). Il dato problematico che sorge è quello della compatibilità tra i criteri interpretativi della volontà delle parti e quelli che presiedono l’interpretazione di effetti direttamente regolati dal legislatore.
Si pensi, ad esempio, ai contratti pubblici (quelli individuabili per il fatto che una parte è la pubblica amministrazione) nei quali la comune intenzione delle parti si sostanzia nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che ne funzionalizzano l’attività, finalizzata al perseguimento di interessi pubblici. In dottrina al fatto che le norme (articolo 2 e 6 ) dettate nel codice dei contratti pubblici richiamano il principio di correttezza che altro non sarebbe che una manifestazione della buona fede, da porre a base del’interpretazione del contratto pubblico. Ma quest’argomentazione è criticabile in quanto le norme richiamate riguardano le modalità e le condizioni di esercizio dei poteri pubblici e non condizionano la conformazione strutturale dell’atto. È allora il richiamo alla buona fede potrebbe richiamarsi non sulle norme citate ma in base alla regola, ex art. 1366, che riguarda la posizione dell’interprete rispetto al contratto. L’eventuale posizione della p.a. delle norme di correttezza e di buona fede non incidono sulla validità del contratto ma troverebbe rilievo sul piano delle invalidità dei provvedimenti amministrativi o del risarcimento del danno.
Rispetto alle norme codicistiche sull’interpretazione vi sono delicate questioni in materia di contratti di lavoro; vi è chi sostiene che il tema dell’interpretazione del contratto collettivo vada collocata nel diritto comune dei contratti (al riguardo ricordiamo la metafora di Carnelutti seconda la quale il contratto collettivo ha “il corpo del contratto e l’anima della legge); e chi sostiene il carattere di atto normativo del contratto collettivo con l’applicazione del canone interpretativo della legge. Se è indubbio che il contratto collettivo rientra nella nozione di contratto ex art. 1321 c.c., altrettanto vero è che esso è in grado di realizzare gli effetti tipici di un atto normativo, fungendo da fonte di regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro. All’interpretazione del contratto collettivo, allora, si applicano i criteri ex art. 12 delle preleggi (riferiti alla legge, atto normativo generale) o quelli ex art. 1362 e seguenti (riferiti al contratto, atto di autonomia privata)? La dottrina, difendendo la natura privatistica del contratto collettivo, ha affermato l’applicabilità dei criteri codicistici di ermeneutica contrattuale, ponendo l’accento sui criteri oggettivi, di cui agli articolo 1367-1371, in quanto più idonei a guidare l’interpretazione di un atto, quale il contratto collettivo, dalla rilevante attitudine regolativa. La giurisprudenza, invece, ha considerato il contratto collettivo alla stregua di una legge di categoria, stante la sua funzione di regolazione uniforme dei rapporti di lavoro, e ciò significa prospettare una interpretazione della norma di legge. Gli sviluppi legislativi più recenti (2006) hanno finito per sganciare sempre più l’inquadramento formale dei negozi di autonomia collettiva nel diritto comune dei contratti anche se non mancano interpretazioni dottrinali che cercano di dimostrare la compatibilità tra la qualificazione negoziale del contratto collettivo e il suo atteggiarsi quale atto normativo, soprattutto se si condivide la prospettiva dell’allargamento della nozione di norma, che può ricomprendere anche quelle poste da negozi giuridici privati. In questa prospettiva è stato rilevato che l’affievolimento delle distanze tra autonomia negoziale e legge sarebbe visibile proprio nel caso del contratto collettivo di lavoro. Gli articoli 34 e 35 del codice del consumo rappresentano le norme fondamentali d’interpretazione del contratto del consumo. Il richiamo alle norme del codice civile si ha solo in caso di lacune e nel caso in cui il contratto si è concluso sulla base di una trattativa individuale; l’articolo 34 dà rilievo alle clausole di un altro contratto collegato o dipendente e alle circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto. Non sembra che la comune intenzione delle parti possa essere strumento utile di indagine conoscitiva; l’articolo 35 cod.cons. impone che il contratto sia redatto in modo chiaro e comprensibile; ove ciò non fosse prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore.
PLURALITA’ DI CONTRATTI E PLURALITA’ DI CONTRAENTI.
LA CRISI DEL CONSENSUALISMO.
Da qualche decennio si assiste a un passaggio d’epoca che qualcuno ha definito come il passaggio dalla modernità alla post-modernità. Questi cambiamenti hanno investito numerosi settori, tra cui anche la scienza del diritto e la teoria del contratto. Le revisioni della teoria del contratto riguardano il consenso: elemento su cui si fonda lo schema costruttivo del contratto. Quando si parla di tramonto del consensualismo si fa riferimento all’impiego del contratto in un dato settore della nostra società (che copre la materia del contratto di lavoro, dei contratti con la p.a, degli obblighi legali a contrarre e dei contratti di massa, dei consumatori e dell’imprenditore debole) sulla base di regole che non possono essere trasposte in altri settori. Pur tuttavia, le differenze non significano esclusione di un piano dall’altro; come dimostra, infatti, la riforma dei primi due libri del codice civile tedesco dove regole maturate nella disciplina dei contratti tra professionista e consumatore sembrano interessare la parte generale della disciplina del contratto. In realtà, al contratto definito dall’art. 1321 c.c., se ne sono aggiunti altri, diversi nel procedimento formativo e nella loro struttura in ragione sia dell’oggetto, che della qualità dei soggetti. Si è parlato di polimorfismo del contratto.
Ai primi decenni della seconda metà del secolo scorso, appartiene il tema degli obblighi legali a contrarre e del contratto dettato, che rispecchia il crescente interventismo pubblico in materia economico sociale, ormai privo di quel carattere di eccezionalità proprio della legislazione emanata nel corso dei due conflitti mondiali. Il dilemma è stato quello di valutare la compatibilità con la qualifica negoziale della produzione di effetti caratterizzati da uno scarso margine di libera determinazione del contenuto del contratto. Lo strumento concettuale per risolvere questo dilemma è quello di dare alla nozione di contratto una definizione molto ampia nel senso che alcuni aspetti dei rapporti economici non sono disciplinati esclusivamente in funzione del rilievo accordato in questo campo dell’autonomia contrattuale e di conseguenza nulla impedisce il ricorso a tali norme per regolamentare operazioni economiche che non assumono la veste di atto di autonomia privata. Le figure che si affacciano in questo ambito sono quelle ascritte alla categoria dei contratti atipici. Sempre in quegli anni, la dottrina italiana avvia una prima sistemazione teorica del concetto di potere privato, ritenuto omologo a quello di autorità privata, la cui manifestazione tradizionale era trovata nel campo della famiglia, dei gruppi organizzati e nei rapporti di lavoro, dove si era già affacciata da tempo la figura del contraente debole. Al di fuori del contratto di lavoro, di potere contrattuale si iniziò a parlare in relazione alla contrattazione standardizzata, rispetto alla quale veniva posto in luce come l’erogazione su larga scala di beni e di servizi finiva per dar vita ad un centro di forza idoneo a mettere in crisi la libertà di contrarre ed a imporre condizioni di guisa che finivano col configurarsi pratiche abusive di massa con l’introduzione di clausole vessatorie. Da questo punto di vista si riteneva che il potere privato non si sostanzia, con la predisposizione del regolamento contrattuale, attraverso la produzione di effetti nella sfera giuridica altrui; semmai mediante forme di limitazione di altrui libertà e poteri. Emerge così quel concetto di potere o forza contrattuale quale fonte potenziale di supremazia giuridica: concetto che induce la consapevolezza che per potere garantire lo sviluppo della personalità umana occorra riequilibrare le disparità esistenti tra le parti. Alle basi di questo concetto si collocava la concezione marxiana del diritto moderno inteso come trattamento uguale di condizioni materiali diseguali e il correlato invito a lottare contro l’appropriazione privata del prodotto del lavoro sociale. Questa prospettiva, basata sulla proprietà dei mezzi di produzione, è divenuta col trascorrere del tempo obsoleta in quanto hanno assunto sempre più rilievo causale delle diseguaglianze altre variabili: si pensi ai nuovi modelli di distribuzione dell’autorità e del potere; al ruolo dell’informazione nella scelta delle condotte economiche; all’uso appropriato e consapevole delle tecnologie etc. il concetto di forza contrattuale ha manifestato una capacità espansiva tanto da essere richiamato ogni qual volta sia presente un interesse collettivo o di gruppo (consumatori, risparmiatori, investitori, piccoli imprenditori) riconosciuto o meno dallo stesso legislatore. Da questo punto di vista, la valorizzazione del criterio soggettivo, appartenenza o status, pone in ombra quel criterio di identificazione dello scambio che si basa sul metodo oggettivo di dare rilievo solo al reciproco trasferimento di beni o servizi, a cui è connaturato il giudizio sulla scelta dell’iniziativa contrattuale che rappresenta un giudizio di adeguatezza o di inadeguatezza che il bene rappresenta nell’economia individuale di ciascun contraente, senza porre alcun problema di riconciliazione, in chiave di utilità finali delle contrapposte aspettative dei contraenti. Con riguardo alla figura dell’imprenditore, l’idea del rischio (economico) si rileva capace di completare la descrizione del fenomeno definito come attività economica (art.2082) nel senso che questo può essere configurato positivamente come attività produttiva di ricchezza e negativamente come attività che espone al rischio di perdere l precedente ricchezza. In questo modo, il rischio dell’impresa capitalistica è quello di perdere il capitale investito; mentre, il rischio della piccola impresa (fondata sul lavoro personale dell’imprenditore) è quello di aver lavorato senza remunerazione. Rispetto a queste prospettiva, si assiste, oggi, a un suo mutamento che pone problemi di riequilibrio di disparità contrattuali attraverso l’istanza di una giustizia contrattuale affermata attraverso un generale sindacato del giudice in funzione correttiva, vincolato dalla regola di equità e dalla clausola di buona fede.
CONTRATTO, MERCATO E NEGOZIO GIURIDICO.
Una parte della cultura civilistica pone in rapporto dialogico mercato e contratto. Il mercato organizza le relazioni economiche disponendole –per interessi coinvolti, modelli adoperati e composizione di conflitti- su strati successivi che rispecchiano altrettanti segmenti del diritto contrattuale, oscillanti da una contrattualità che, per il valore economico di ciascuna singola operazione, possiamo definire minore (destinata all’approvvigionamento di beni e servizi di massa) a una contrattualità che per valori economici è sempre più alta tanto da influenzare lo stesso mercato o determinati settori di esso. Queste differenze incidono sulla struttura del contratto conformandola variamente e infatti oggi non è più possibile parlarne come figura unitaria. Se per un verso, i luoghi del mercato assicurano alla teoria del contratto la dimensione razionale dello scambio; per altro verso, e pratiche del mercato e la normativa che lo regola introducono sovente limitazioni e meccanismi standardizzati e predefiniti che regolano la circolazione delle ricchezze, contrassegnati da una doverosità di comportamenti, disposti lungo l’arco che va dalla formazione del contratto sino alla sua esecuzione, non sempre mediati dallo schema dell’accordo e di difficile delimitazione concettuale. La dimensione razionale del mercato presuppone nell’impiego del contratto l’operare del principio di proporzionalità ed equilibrio tra le prestazioni; quando ciò non avviene spetterà agli ordinamenti statali riequilibrare squilibri e disvalori. Nel nostro codice non esiste una disposizione di carattere generale che consenta di dare rilievo allo squilibrio economico tra le prestazioni (fatta salva la rescissione o la risoluzione per eccessiva onerosità) in quanto il controllo è rivolto soprattutto agli aspetti procedimentali della formazione del contratto (es. vizi della volontà) e al funzionamento del rapporto in executivis, al fine di assicurare il risultato del regolamento. Maggiore attenzione all’equilibrio delle prestazioni, oltre alla legislazione nazionale e quella europea, è prestata dalla legislazione speciale (ad es. quella in materia di contratto di lavoro, di locazione) che ha privato la parte generale del contratto, con una serie di discipline peculiari, del suo originario ruolo di collante dell’intero sistema e ha dato vita ad una serie di sottosistemi. Si tratta di una realtà che non si può estendere senza discriminazioni e infatti la legge pone delle limitazioni all’autonomia privata: limitazioni che si giustificano col fatto che emerge un principio generale operante nel nostro ordinamento: si pensi, ad es., all’invalidità di una clausola che non appare funzionale alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ord. giuridico; ovvero, all’abuso commesso da una delle parti della propria maggiore forza contrattuale, integrante la violazione del principio della buona fede nella formazione del contratto (art.1337). In tale ambito, un posto particolare occupa il diritto dei consumatori, avente il fine specifico di proteggere il consumatore nei suoi rapporti con i professionisti (le imprese), che investe tutti i rapporti negoziali tra consumatore e professionista e che ha attuato una profonda modificazione strutturale del contratto. Per molto tempo la dottrina del contratto è rimasta ancorata alla parte generale (art. 1321- 1469 bis c.c.) che rappresenta un elemento unificante, in assenza di altri riferimenti, della varietà dei tipi contrattuali secondo la direttiva, ex art. 1323, secondo la quale: tutti i contratti, ancorchè non appartengono ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo. L’elaborazione della parte generale ha segnato il passaggio dalle singole figure di contratti con separate discipline a una dimensione ricostruttiva che nella ricerca dei legami comuni ha fondato una nozione di contratto preordinata a dare rilievo a un procedimento formativo unitario e alla valorizzazione della volontà dei partecipanti al vincolo contrattuale. E in questa prospettiva la funzione causale del contratto è data dalla coesione degli elementi che lo compongono in funzione del risultato economico perseguito dalle parti. La categoria generale del contratto, inoltre, rappresenta lo schema base che ha consentito la costruzione della teoria del negozio giuridico. Questa teoria è una categoria astratta creata dalla dottrina tedesca del ‘700 e dell’800 al fine di unificare vari tipi di atti che per diversi profili presentano delle caratteristiche comuni. Il negozio giuridico si compone di una o più dichiarazioni di volontà –che assieme con altri requisiti- portano alla conseguenza giuridica voluta dai dichiaranti ovvero dal dichiarante. In relazione alla struttura soggettiva distinguiamo i negozi unilaterali da quelli bilaterali. Per negozio unilaterale si intendono quei negozi in cui la manifestazione di volontà proviene da un soggetto solo; esso può essere recettizio, come la proposta contrattuale o l’accettazione della proposta, o non recettizio, come il testamento. Per negozio bilaterale si intendono quei negozi che risultano da dichiarazioni di volontà provenienti da due soggetti e che producono effetti per entrambi i soggetti, ad es. la compravendita.
La ricerca del fondamento sul quale fanno perno validità ed efficacia giuridica del negozio evoca una questione che si manifesta in due indirizzi dottrinali:
a) la teoria della volontà che ritiene decisivo il reale intento soggettivo del dichiarante e che quindi in mancanza di una volontà di fare una dichiarazione non può sussistere una dichiarazione di volontà fondata su quello che oggi definiamo l’autonomia privata;
b) la teoria della dichiarazione sottolinea il principio della tutela dell’affidamento e ritiene cruciale quel significato che il destinatario può attribuire al comportamento del dichiarante. E sostiene di conseguenza che la mancanza di una volontà di fare una dichiarazione non comporta l’inesistenza della dichiarazione di volontà.
Di pari passo allo sviluppo della teoria del negozio vi è stata la costruzione della categoria universale dei diritti soggettivi che rappresenta una precondizione per legittimare l’esercizio dei poteri e delle facoltà connesse all’autonomia privata. Questa è stata il postulato fondamentale della teoria del negozio, che si esprime in una figura generale in grado di compendiare tutti gli atti creati dalla volontà dei singoli: il contratto, gli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale e non patrimoniale, gli atti unilaterali mortis causa e gli atti di famiglia. La teoria del negozio giuridico è recepita in Germania nel codice come comportamento dichiarativo, mentre in Italia si è soliti trovare un riferimento normativo nell’art. 1324, in base al quale le norme sui contratti sono applicabili, salve diverse disposizioni di legge e nei limiti della compatibilità, agli atti unilaterali tra vivi avente contenuto patrimoniale.Una specificazione strutturale dell’autonomia privata è prevista dall’art. 1322, che tratta di autonomia contrattuale. I postulati della teoria del contratto sono stati il dogma della volontà e il principio di uguaglianza formale delle parti. Essi col tempo hanno subito una profonda erosione e quest’ultima è il prodotto di vari fattori che hanno determinato il tramonto della concezione ottocentesca del diritto dei contratti, soprattutto con riguardo al suo modo astratto e generale di essere sistema. Da questo punto di vista il contratto si libera da quella sovrastruttura dottrinale che è rappresentata dal negozio giuridico. Le logiche e le dinamiche del mercato sono divenute altre prospettive da cui è possibile contemplare la fenomenologia dell’autonomia privata, i cui atteggiamenti strutturali sono il contratto ma anche quei contegni che inducono affidamento nei terzi e conseguente responsabilità. E ad alcuni è sembrato intravedere in questo ambito la figura del quasi contratto. L’idea di un diritto contrattuale (inteso come proiezione esclusiva dell’autonomia del privato sul terreno dell’economia) è entrata in crisi con il primo conflitto mondiale che, proprio per esigenze belliche, introduce gravi limitazioni alla libertà contrattuale e alla forza obbligatoria del contratto. Il diritto privato acquista in tale prospettiva una dimensione sociale. E così il contratto viene a collocarsi all’interno di un contesto che attribuisce rilevanza ad interessi e valori un tempo ritenuti estranei all’area della contrattualità, come, ad es., quelli legati al valore della persona e alle sue possibili proiezioni.
L’EFFETTIVITA’ DELLA TUTELA E LA DOTTRINA DEI RIMEDI.
Tra le principali lacune dell’intero sistema di tutela giurisdizionale si collocava l’assenza (fatta salva la previsione di forme di esecuzione legate a specifici ambiti, come quelle in tema di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro o di tutela dei diritti di proprietà industriale e intellettuale) di una efficace disciplina dell’esecuzione indiretta capace di assicurare l’attuazione delle sentenze, ma anche degli altri provvedimenti, di condanna ad obblighi di fare infungibili; e in tale mancanza, la dottrina da sempre ravvisava un vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale, residuando al più il risarcimento del danno sofferto.
È bene ricordare che con l’introduzione nel codice civile dell’art. 614 bis è stato sancito l’ingresso nell’ordinamento di una forma di esecuzione indiretta modellata sulla tecnica delle astreintes.
Tale norma stabilisce che il giudice con la sentenza di condanna a un obbligo di fare infungibile o di non fare, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento; questo provvedimento, per espressa disposizione di legge, costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute.
Sono stati introdotti anche provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori dall’art. 140, comma 7 del codice del consumo, congegnati in modo da determinare una sorta di coercizione indiretta secondo il modello rappresentato dalle Zwangsstrafen tedesche. Diversamente indicava, invece, l’esperienza europea delle Zwangsstrafen tedesche (misure coartazione della volontà del debitore che trovano applicazione nel caso di inadempimento di obblighi di fare infungibili o di obblighi di non fare e quindi per loro natura non suscettibili di esecuzione forzata. Questa misura può essere disposta solo su istanza di parte e consiste nella condanna al pagamento di una somma di denaro nel limite massimo stabilito dalle norme e, nel caso in cui la somma non possa essere riscossa, in una misura limitativa della libertà personale, vale a dire l’arresto del debitore. La pena pecuniaria non è pagata al creditore, ma allo stato.); il contempt of court anglo- americano (istituto del common law di antiche origini che viene suddiviso in civil contempt e criminal contempo. Il primo tipo è una misura coercitiva nei confronti dell’inadempimento degli obblighi scaturenti da qualsiasi provvedimento giudiziale a carattere interinale quanto definitivo. Il giudice può irrogare a carico del debitore una sanzione di natura patrimoniale o detentiva nel caso in cui egli non adempia l’obbligazione scaturente dal provvedimento giurisdizionale. Tale potere è esercitato su istanza del creditore e nel suo interesse, ma al giudice è attribuita la discrezionalità non solo nel decidere la misura, ma altresì nel determinare quale sanzione irrogare e in che misura); e le astreintes francesi (condanna del debitore al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione. Essa si risolve in un provvedimento di condanna accessoria rispetto a quella principale ed è suscettibile, una volta liquidato, di esecuzione forzata nelle ordinarie forme previste per i provvedimenti che dispongono il pagamento di una somma di danaro. L’astreinte può essere provvisoria o definitiva, può essere pronunciata da qualsiasi giudice e anche d’ufficio e accede sia ad obbligazioni di fare e di non fare, sia di consegna o rilascio, sia di pagamento di una somma di danaro. La sua misura è determinata dal giudice a suo discrezione e può essere modificata. La competenza esclusiva sulla liquidazione dell’astreinte è attribuita di regola al giudice dell’esecuzione). Sul tema dell’effettività della tutela vi è stato un ampio dialogo da parte dei civilisti. Ricordiamo alcune tappe del dialogo. - nell’ambito della tutela di condanna l’ampliamento dell’applicabilità dell’art. 2818 in modo da ricomprendervi qualsiasi comportamento, positivo o negativo, imposto al soccombente. Si colloca in tale ambito una rilettura dell’art. 2908 che scevera le ipotesi di azioni costitutive dirette a produrre effetti sostanziali che non sarebbero conseguibili in via di autonomia privata; da quelle in cui gli effetti sostanziali sarebbero conseguibili attraverso la cooperazione tra le parti e che trovano il loro archetipo nell’art. 2932. Si sviluppa una nuova categoria di sentenze costitutivo-determinative di specificazione dell’oggetto dell’obbligazione ex art. 1176 secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta usando la diligenza del buon padre di famiglia; 1375, in base al quale le obbligazioni nascenti da contratto devono essere adempiute secondo buona fede, ecc. - nell’ambito della tutela cautelare con riguardo a quella inibitoria, il superamento della sua tipicità e dell’idea che la sentenza non avrebbe altro effetto determinativo che quello di accertare l’applicabilità di una norma sostanziale (un diritto soggettivo assoluto), in modo che la condanna (prestazione negativa imposta dal giudice) ripete quanto già espresso dalla legge. Si osserva, per contro, che il rimedio inibitorio, pur comportando un’obbligazione negativa, in alcune ipotesi è eseguibile parzialmente mediante la rimozione o distruzione delle cose poste in essere con la violazione dell’obbligo. Si pensi all’inibitoria, ex art. 700 c.p.c., sia pure provvisoria e strumentale perché agganciata a un mezzo di tutela definitivo; ovvero se lo si riporta all’interno del sistema della responsabilità civile- dove è ammesso che il giudice possa liquidare i danni futuri e liquidarli e oltre le conseguenze per fatti già avvenuti- l’ordine inibitorio può essere rafforzato con la condanna al pagamento di una somma di denaro intesa come liquidazione anticipata di danni . - nell’ambito della tutela risarcitoria attraverso la valorizzazione della riparazione in natura dei danni rispetto a quella per equivalente monetario (l’articolo 2058 dispone che il danneggiato può chiedere la reintegrazione del danno in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore. La reintegrazione del danno in forma specifica si risolve nell’obbligazione del responsabile di ricostruire la situazione di fatto antecedente al procurato danno, consentendo all’attore pregiudicato di attuare il proprio concreto interesse vantato senza doversi accontentare del mero equivalente monetario. Il limite dell’eccessiva onerosità sembra spiegarsi col fatto che la reintegrazione non può mai costituire un arricchimento per il danneggiato. Sin dal 1980, la giurisprudenza ha affermato il carattere generale della reintegrazione in forma specifica, dettata in tema di responsabilità aquiliana, di carattere diverso dalla tutela risarcitoria ex art. 2043 e con funzione atipica in quanto esperibile a tutela di quelle situazioni per le quali non sia stato previsto uno specifico rimedio processuale). Il fenomeno va messo in rapporto con l’affacciarsi alla ribalta della tutela giurisdizionale di beni non monetizzabili (ad es. art. 18 dello statuto dei lavoratori) rispetto ai quali un ristoro solo pecuniario, quale è quello assicurato dalla disciplina dell’illecito aquiliano (se la lesione presenta i caratteri del danno extracontrattuale) o della esecuzione per espropriazione (se la lesione presenta i caratteri dell’inadempimento imputabile) appare del tutto insufficiente. - nell’ambito dell’onere della prova:dove emerge in via legislativa lo spostamento della prova a carico di chi esercita un potere privato (ad esempio in tema di licenziamenti individuali ove spetta al datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo; in tema di discriminazioni per sesso ove l’onere della prova è invertito, spettando al datore dimostrarne l’insussistenza quando il ricorrente fornisca elementi presuntivi di tale discriminazione. Meritevole di attenzione è la c.d. inversione giurisprudenziale dell’onere della prova che in tema di ripartizione tra le parti dell’onere probatorio attenua l’applicazione del principio ex art. 2697, ponendo a volte un’inversione dell’onus probandi a carico del soggetto convenuto. La giustificazione di tale tendenza è rinvenibile in varie ragioni, legate alla vicinanza della prova e all’esigenza di tutela del soggetto economicamente e socialmente più debole. Nell’ambito della disciplina consumeristica le ipotesi dell’onere della prova riguardano : la prova del danno da prodotti difettosi; la prova del danno cagionato al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento finanziario posta a carico delle società di intermediazione mobiliare, le banche e gli intermediari finanziari che devono assolvere l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta nell’esercizio della loro professione; la prova di cui parlano gli artt. 33 e 34 cod. cons. che prevedono una presunzione di vessatori età delle clausole normativamente previste e pongono a carico del professionista, che abbia predisposto le clausole dei moduli o formulari, l’onere di dimostrare che queste clausole, ancorchè unilateralmente predisposte, avessero costituito oggetto di una specifica trattativa con il consumatore. Sotto l’influenza del diritto anglosassone si affaccia nel dibattito dottrinale di questo periodo il richiamo al sistema dei rimedi in luogo del sistema dei diritti e delle azioni. L’uso del termine rimedio, inteso genericamente come mezzo offerto dal legislatore per l’attuazione coattiva di una pretesa, è di uso corrente; tuttavia, non mancano perplessità se a esso si ricorre per dar vita ad una operazione sistematica quale può essere quella di rompere la tradizionale corrispondenza tra diritto e azione in favore di strumenti sganciati dalla correlazione con specifiche situazioni soggettive. In realtà, la categoria del rimedio dovrebbe essere utile ogni qual volta risulta di difficile applicazione lo schema diritto- azione, e cioè quando si è in presenza di lacune legislative. Autorevole dottrina utilizza il concetto di rimedio, in senso lato, descrivendo indirizzi del legislatore comunitario che contemplano correttivi che non alterano la struttura della fattispecie ma incidono sulla sua dinamica effettuale (si pensi alle inibitorie dell’efficacia, al recesso di pentimento o alle nullità relative alle clausole abusive) o comportano correttivi esterni (si pensi agli ordini inibitori o al risarcimento del danno). La normativa comunitaria, in realtà, ha arricchito la cornice contrattuale di nuove posizioni, attive e passive, giuridicamente azionabili. Quest’idea del rimedio, si riallaccia forse a quell’idea della pandettistica di estrapolare dal concetto processuale di azione quello sostanziale di pretesa con l’ufficio di descrivere posizioni soggettive complesse entro le quali ricadono poteri latenti di attuazione, sovente con una semplice determinazione volitiva, di diritti e obblighi, aventi funzione strumentale rispetto al risultato da raggiungere, che trovano fondamento nella convenzione o nella legge. Questa tesi resta nel sottofondo di una sistematica di poteri e facoltà connessi a posizioni soggettive il cui esercizio è funzionale alla produzione di effetti che la successiva eventuale azione ha solo funzione di conferma. In questa prospettiva può apparire lecito collocare, ad esempio, la complessità della posizione spettante al consumatore per la realizzazione del risultato contrattuale da raggiungere e delle connesse tecniche rimediali.IL CONTROLLO DEGLI EQUILIBRI CONTRATTUALI.
La nozione di equilibrio contrattuale riguarda sia il profilo normativo del contratto, inteso come assetto contrattuale definito di diritti, obbligazioni, oneri, responsabilità e rischi; sia il profilo economico, inteso come valore economico delle prestazioni oggetto di scambio, considerate nel complesso dell’operazione economica cui accedono. L’equilibrio contrattuale avrebbe la funzione di determinare un assetto equo e giusto. Alcuni autori hanno affermato che la nozione di equilibrio contrattuale e quella di giustizia contrattuale siano coincidenti, ma Di Majo osserva che non possono coincidere; in quanto la nozione di equilibrio si colloca nell’ottica dello scambio (di merci e/o prestazioni) mentre la nozione di giustizia contrattuale riguarda esiti o risultati che siano conformi ai parametri oggettivi della giustizia, ove per giustizia si intendono esiti conformi ai dettami della morale sociale, il che coinvolge un giudizio etico, non solo mercantilistico. Frequente è il richiamo della normativa comunitaria alla giustizia contrattuale attraverso il richiamo alle clausole vessatorie, nei contratti dei consumatori, all’abuso di dipendenza economica nei contratti tra imprese; ai termini di pagamento dei corrispettivi contrattuali. Di particolare delicatezza è il problema del controllo degli equilibri contrattuali. Si assiste a un superamento del carattere eccezionale che nel nostro codice ha il controllo affidato agli articoli 1447, 1448 (dettati in tema di tutela rescissoria) e 1467 (dettato in tema di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità). Questo mutamento di prospettiva corre lungo un percorso segnato da importanti innovazioni legislative.
Prendiamo come iniziale punto di riferimento l’indirizzo giurisprudenziale che, formatosi sul tema della riducibilità ex officio della clausola penale (art. 1384), persegue un vero e proprio disegno sistematico sulla misura e sui limiti del riconoscimento dell’autonomia privata. In questa sentenza si afferma che il potere di controllo è attribuito ai giudici non nell’interesse della parte ma nell’interesse dell’ordinamento, per evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l’interesse della parte venga alla fine tutelato, anche se solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma. In questa sentenza la Cassazione ha affermato la nullità della penale manifestamente eccessiva in quanto non rispondente ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e dunque affetta da nullità parziale secondo un criterio quantitativo (quanto alla parte eccessiva). Questa pronuncia rappresenta una vera rivoluzione in quanto innova sia la regola espressa dal principio iudex ne procedat ex officio; sia la regola in base alla quale è possibile configurare un’equità correttiva della determinazione pattizia solo nei casi espressamente previsti dalla legge.
Altro richiamo alla meritevolezza degli interessi (ex art. 1322, comma 2) come strumento di controllo degli equilibri contrattuali è presente in una risalente sentenza in tema di contratto autonomo di garanzia. Questo contratto, di derivazione tedesca, deroga a due principi fondamentali, affermati dal nostro ordinamento in tema di fideiussione: 1) quello di accessorietà, ex art. 1939; 2)quello del regime delle eccezioni, ex art. 1945. Nonostante i molteplici dubbi derivanti dal carattere astratto di questo contratto (la sussistenza della clausola del pagamento a prima richiesta senza eccezioni comporta che il garante rimanga sempre vincolato alla garanzia anche in caso di nullità della fonte dell’obbligazione garantita o di già avvenuto adempimento di quest’ultima) la Cassazione, constatando che il diritto deve fare i conti anche con l’economia, ha ritenuto meritevole di tutela tale contratto atipico per il fatto che la sua dichiarazione di nullità avrebbe in sé creato un danno notevole agli operatori economici italiani, che, laddove non avessero potuto utilizzarne i meccanismi, si sarebbero trovati svantaggiati a concorrere con gli operatori giuridici stranieri nel mercato internazionale.
Nello stesso quadro di controllo dell’equilibrio contrattuale si colloca l’art. 1815, comma 2, novellato dall’ art. 4 della legge 108/1996 (disposizioni in materia di usura) in base al quale la clausola con cui sono convenuti interessi usurai è nulla e per l’effetto non sono dovuti interessi alcuni. La disposizione è dettata in tema di mutuo, ma la si ritiene di carattere generale per cui risulta applicabile in tutte le ipotesi in cui sono convenuti interessi. La legge 108/1996 rimodella la fattispecie criminosa dell’usura prevista dall’art. 644 c. p. che coordina col codice civile e con le disposizioni del t.u bancario e creditizio. L’illiceità penale sembrerebbe essere presupposto della sanzione civile, anche se è stato rilevato che l’unico presupposto richiesto per l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c. sia la pattuizione di un interesse usuraio. La prima applicazione di codesta disciplina ha sollevato una serie di problematiche, tra le quali quella della sua applicazione ai rapporti non ancora esauriti alla data del 2 aprile 1997 (data nella quale è divenuta applicabile la legge 108/1996). In proposito la giurisprudenza ha ritenuto che là dove vi sia un concorso tra autoregolamentazione pattizia e eteroregolamentazione normativa questo deve essere risolto a favore di quest’ultima dovendosi tener conto del maggiore spessore della etero regolamentazione nell’ambito della contrapposizione tra autonomia e imperatività della legge. A tanto si presta la dizione di cui agli articoli 1339 e 1419, comma 2, c.c. che consente non solo la sostituzione automatica di clausole con altre volute dall’ordinamento, ma anche la semplice eliminazione di clausole nulle senza alcuna sostituzione (la giurisprudenza ha affermato che nei contratti di mutuo è rilevabile d’ufficio la nullità della clausola relativa agli interessi divenuti usurari ope legis, anche se la pattuizione è stata convenuta antecedentemente alla legge 108/1996. L’obbligazione degli interessi, infatti, non si esaurisce in una sola prestazione, ma si concretizza in una serie di prestazioni successive che sono eseguite, per suddetti contratti, dopo l’entrata in vigore della legge 108/1996. Di qui la rilevanza del momento del pagamento degli interessi e non della 40 regolamentazione pattizia iniziale, per determinare il carattere usurario degli stessi ai sensi della legge 108/1996). La legge 24/2001 ha poi precisato, in sede di interpretazione autentica, che debbono intendersi usurai quegli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.
LE ASIMMETRIE CONTRATTUALI: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL CONSUMATORE COL PROFESSIONISTA; IL SIGNIFICATIVO SQUILIBRIO E LE TECNICHE RIMEDIALI.
La normativa comunitaria ha introdotto importanti novità in materia di contratti in larga misura recepite dal legislatore italiano col codice del consumo (d.lgs. 206/2005). I principali obiettivi dell’Unione Europea in materia di regolamentazione del mercato sono: 1) di contrastare sia le intese che modificano il regime della concorrenza sia lo sfruttamento abusivo di posizioni dominanti sul mercato; 2) di proteggere il consumatore dallo strapotere della controparte (il professionista, l’impresa). Per dare attuazione all’obiettivo di proteggere il consumatore il legislatore comunitario interviene con norme che disciplinano sia aspetti precontrattuali (es. direttive sulla pubblicità ingannevole, sulle pratiche commerciali sleali ecc) che contrattuali (es. divieto dell’inserzione di clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, facoltà per il consumatore di risolvere il contratto durante il periodo di ripensamento ecc). I primi investo la regolamentazione dell’attività del professionista che deve essere conforme a determinati standards imposti dalla legge ed essi si riflettono sul contratto, investendo diritti fondamentali del consumatore (quale quello alla salute, alla sicurezza, all’informazione ecc) di difficile tutelabilità sul piano di una possibile inibitoria preventiva, salvo il risarcimento del danno in via ordinaria (es. danno da prodotti difettosi). Su un piano diverso si pone la problematica riguardante il contratto concluso dal consumatore. Il legislatore del codice del consumo ha introdotto una peculiare disciplina degli squilibri contrattuali. Si tratta di una disciplina inderogabile che non può essere elusa anche nell’ipotesi in cui le parti dovessero scegliere una diversa legge applicabile (art. 5 Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali). [La convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali ha rango di diritto comunitario e introduce importanti elementi di valorizzazione della libertà contrattuale quanto alla legge applicabile, col solo limite del rispetto dell’ordine pubblico internazionale e con l’adozione di poche norme di applicazione necessaria in materia di contratti di lavoro e di tutela del consumatore. Da questo punto di vista la Convenzione dà rilievo a norme di protezione sociale e l’importanza della Conv., dal punto di vista della disciplina delle obbligazioni contrattuali, risiede nell’affermazione di un principio generale in base al quale le parti sono libere di scegliere le regole con le quali intendono regolare il contratto (art.3). il richiamo alla legge applicabile al contratto dovrebbe intendersi in senso ampio: non ridotto nei limiti della sola legge in senso formale ma esteso anche alla possibilità del rinvio ad un corpo di norme precostituito, anche se di provenienza non formale. D’altro canto, la prassi del commercio internazionale già si avvale di fonti non formali come i principi generali del diritto e la lex mercatoria]. In sintesi, il codice del consumo: a) riconosce il diritto del consumatore e dell’utente alla correttezza, alla trasparenza e alla equità nei rapporti contrattuali e in particolare il diritto all’informazione, che assume un ruolo centrale nella formazione di un consenso informato e consapevole ed è oggetto di puntuali obblighi dalla cui violazione scaturiscono meccanismi integrativi e/o sostitutivi; [questione dibattuta è stata quella dell’assimilazione dell’investitore al consumatore, ex art. 3 cod.cons. In Germania molti ritengono che 41 all’investitore non possa applicarsi la disciplina del consumatore per il fatto che l’investimento finanziario sia cosa ben diversa da operazioni destinate a soddisfare interessi personali o familiari. Sta di fatto che il risparmiatore è sovente un soggetto scarsamente informato sull’andamento dei mercati finanziari e quindi debole come il consumatore. Nel quadro della ratio che ha ispirato la legge 154/1992 sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, si colloca l’introduzione dell’art. 32 bis nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria che attribuisce alle associazioni dei consumatori il potere di agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori,connessi alla prestazione di servizi, attività di investimento, servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio. Con la legge 221/2007 è stata introdotta un’apposita sezione all’interno del codice del consumo, la IV bis (comprendenti gli artt 76 bis a 67 vicies bis), dedicata alla disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari. Sulla base di queste disposizioni deve ritenersi che la figura dell’investitore- risparmiatore è nella sostanza assimilata a quella di consumatore]. b) introduce, attraverso il divieto delle clausole vessatorie, un controllo generalizzato sul contenuto del contratto al fine di verificare che non ci vi sia un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi in pregiudizio del consumatore; controllo non riguardante la determinazione e l’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purchè indicati in modo chiaro e comprensibile; c) sancisce una seria di rimedi finalizzati a garantire la realizzazione dei diritti contrattuali dei consumatori e a rimuovere le conseguenze della loro in attuazione. Tra questi ricordiamo la c.d. nullità di protezione, strumento inedito rispetto alla disciplina di cui all’art. 1418 c.c., che colpisce la clausola ritenuta vessatoria ma non la validità del contratto. Il controllo dell’economia contrattuale in funzione della tutela dell’affidamento incolpevole della parte debole concerne i mercati di massa (caratterizzati dalla molteplicità degli scambi) e si manifesta attraverso una profonda modificazione dei modi e delle forme delle transazioni, secondo lo schema dello standard form contract. In tale ambito il contratto diventa un’autentica normativa d’impresa, imposta dalle industrie e dalla distribuzione commerciale ai consumatori. È bene sottolineare che il riequilibrio del contratto non pone i contraenti su un piano di parità sostanziale- nel senso che il maggior potere contrattuale del professionista e la debolezza del consumatore non sono rimosse né attraverso regole correttive, né attraverso la sottoposizione del testo contrattuale a un sindacato preventivo- ma consente solo di evitare eccessive sperequazioni nei limiti indicati dal legislatore o dall’intervento del giudice. In realtà, non sembra possibile rintracciare nell’ordinamento di settore, regole testuali che consentano con immediatezza di configurare un riequilibrio informato a principi di giustizia commutativa. Quel che rileva è la presenza di clausole vessatorie che malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Si parla di una asimmetria regolamentare o normativa, alla quale si aggiunge l’asimmetria informativa che riguarda la conoscibilità del contenuto del contratto; nonché la chiarezza e comprensibilità della forma di tutte le clausole o di talune di esse. Al giudice non è dato il potere di riscrivere il contratto rendendolo strumento di giustizia commutativa o distributiva. Pertanto, la protezione del contraente non professionista ha per scopo il ripristino di condizioni efficienti del mercato, impedendo la pattuizione di clausole che determinano un regolamento contrattuale ab origine sperequato. Sovente l’aspetto normativo del contratto finisce per coinvolgere gli aspetti economici dello scambio. Bisogna chiedersi allora se il consumatore ha qualche rimedio per reagire all’imposizione di prezzi eccessivamente gravosi. Una risposta ci è data dalla disciplina generale che definisce la posizione del consumatore e il contenuto dei suoi diritti. Indicazioni rilevanti sono fornite: dal diritto del consumatore all’equità nei rapporti contrattuali; dal diritto del consumatore alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; dal diritto del consumatore di vedere che l’esercizio delle pratiche commerciali sia svolto secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà. Il richiamo alle pratiche commerciali costituisce un importante parametro valutativo nella misura in cui rinvia al mercato la valutazione dello squilibrio tra le prestazioni. Per dare contenuto a questo rinvio soccorre l’articolo 3 della legge antitrust (287/1990) che fornisce un dato oggettivo allorchè indica tra gli abusi di posizione dominante l’imposizione diretta o indiretta nel mercato di riferimento di prezzi di acquisto e di vendita ingiustificatamente gravosi. Il prezzo ingiustificatamente gravoso è un prezzo iniquo che, cioè, viola il diritto all’equità nei rapporti contrattuale che spetta al consumatore [occorre ricordare che non è principio del nostro sistema quello per cui i contratti devono essere equi, cioè avere contenuti equilibrati e conformi a giustizia: in regime di libertà contrattuale, la giustizia e l’equilibrio del contratto sono decisi dalle parti stesse. Nella disciplina del contratto vi può essere un controllo da parte del giudice sull’equità del singolo scambio contrattuale ma solo in presenza di una condizione: quando l’accettazione del regolamento iniquo dipende da circostanze oppressive, le quali tolgono alla parte che subisce l’iniquità la possibilità di autodeterminarsi in modo libero: è la disciplina della rescissione. In generale i giudici non possono, in nome dell’equità, distruggere o correggere i contratti iniqui. Secondo Gazzoni l’iniquità opererebbe, quale causa di invalidità del contratto o di sue singole clausole, non a priori (come la illiceità) bensì a posteriori, poiché dipenderebbe non dalla violazione di regola predeterminate ma dal concreto atteggiarsi di un regolamento contrattuale di per sé lecito. Una tecnica sanzionatoria analoga viene ravvisata da Gazzoni nella disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore e a sostegno della sua teoria richiama la legge 281/1998 che menziona espressamente, tra i diritti fondamentali del consumatore, quello alla equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi]. Partendo dai diritti del consumatore, ancorati all’equità e al leale svolgimento delle pratiche commerciali, può dirsi che ogni qualvolta è presente uno squilibrio economico appare congruo il richiamo all’intervento integrativo del giudice, di cui parla l’articolo 1374 richiamando l’equità, sulla base di una valutazione dello squilibrio non rimessa al libero apprezzamento di questi, ma oggettivamente ancorata al parametro delle pratiche commerciali. La prassi comunitaria di regolare singoli tipi contrattuali o settori specifici del mercato (compravendita, contratti turistici, contratti di lavoro..) pone un problema di raccordo con la parte generale del contratto, presente nei codici continentali. Ogni qual volta non è possibile questo raccordo si ha l’ impressione di vivere in un doppio regime contrattuale: l’uno di provenienza comunitaria; l’altro proveniente dai codici domestici il cui impianto segue lo schema della coppia “parte generale del contratto- disciplina dei tipi legali”. Solo in Germania si è cercata una risposta organica a questo problema che assilla il giurista europeo che si trova nella necessità di dover elaborare una dimensione teorica e sistematica più ampia in un contesto operativo che ha necessità di armonizzarsi con la dimensione sovranazionale della normativa comunitaria. In quest’ambito occorre trovare un punto di coesione tra sistemi che hanno avuto storicamente sviluppi diversi (civil law dell’Europa continentale e common law dell’area anglosassone) e che stentano a trovare momenti unificanti. 5.a. Vi sono elementi che fanno propendere in favore di una nuova contrattualità segnata: 1) dal superamento- nell’ambito dei contratti stipulati dal consumatore col professionista- del requisito dell’accordo in favore della sola riferibilità dell’atto a un soggetto non più individuato come parte contraente, bensì come appartenente a una determinata categoria di soggetti (consumatore, risparmiatore,ecc [bisogna precisare che le norme a tutela del consumatore sono distinte da quelle a tutela dell’imprenditore debole non perché eccezionali, essendo entrambe espressione di principi quali quelli ex art.2,3,e 43 de’art.41 della Cost. , ma perché hanno una diversa ratio che ne impedisce lo’applicazione in via analogica. Il consumatore è un soggetto che viene tutelato perché non agisce professionalmente; l’imprenditore debole è un soggetto che opera nel mercato col criterio della diligenza qualificata e dalla perizia ex art. 1176, comma 2 e la cui professionalità è insita nella definizione di imprenditore ex art. 2082. Già la sent. 468/2002 aveva affermato la diversità tra le due figura negando la possibilità di applicare in via analogica all’imprenditore debole la normativa a tutela del consumatore in tema di clausole abusive] rispetto ad altro soggetto (professionista) [Alessi afferma che la posizione del consumatore non può ragguagliarsi a quella del contraente debole in quanto quello di consumatore è una posizione occasionale e mutevole che si definisce in relazione ala natura dello scambio e delle singole vicende contrattuali e l’autore ritiene che vada segnalata più che la figura del consumatore lo scopo dello scambio e quindi individuata la causa del contratto nella causa di consumo], non solo di posizione di vantaggio economico, ma anche in grado di disciplinare il contenuto del contratto [Santoro Passarelli afferma che l’intervento dello stato finisce per regolare variamente l’autonomia di ciascuna delle due parti del contratto. È evidente allora che l’autonomia del professionista, seppur vincolata, è molto più ampia di quella del consumatore che di fatto finisce per accettare un programma negoziale da lui non predisposto] . Si avverte un’assonanza con la categoria di estrazione tedesca dei rapporti di fatto, rispetto ai quali eventuali vizi della volontà contrattuale assumevano rilevanza negativa. Del resto, il limitato rilievo degli stati soggettivi sul terreno del contratto intercorso tra consumatore e professionista, trova sul piano teorico, un aggancio nell’esistenza di un generale nesso di interdipendenza tra i vizi della volontà e la libertà nella formazione del contratto (in modo particolare nella determinazione del contenuto del contratto). Il carattere volontario dell’atto non assume una rilevanza sulla determinazione degli effetti che questo produce; ciò vuol dire che l’attuazione dell’interesse affidata o rimessa alla valutazione dell’operato (comune intenzione) delle parti circa la determinazione del contenuto e degli effetti del contratto. In tal senso l’articolo 1362 cede il posto ai principi normativi di favore del consumatore su di un orizzonte il cui collante sistematico è quella della buona fede ex art. 1366 (norma di ingresso della interpretazione oggettiva). Il consumatore ha il diritto di liberarsi dagli obblighi nascenti da un contratto concluso con un professionista senza alcun bisogno che ricorra un vizio o altra anomalia nella fasi di formazione del contratto(art.64,comma 1 cod.cons.).
Il recesso (diritto di ripensamento o diritto di pentirsi) [il recesso da pentimento, con modalità diverse è previsto:
- per i contratti e le proposte contrattuali a distanza;
- per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali;
- per i contratti conclusi o negoziati con gli investitori;
- per il credito ai consumatori;
- per commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori;
- per contratti di assicurazione sulla vita;
- per i contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili]sembra trascriversi in un complesso di bilanciamento della posizione del consumatore rispetto a un regolamento contrattuale il cui contenuto è fissato esclusivamente dal professionista.
[Il diritto di recesso è variamente definito:
- come diritto di sciogliere unilateralmente con effetto ex nunc un rapporto contrattuale già validamente instaurato;
- come diritto esercitabile solo posteriormente alla formazione del relativo accordo;
- come diritto di porre fine ad un vincolo contrattuale validamente sorto con effetto ex tunc;
- infine come diritto del consumatore di revocare la dichiarazione (proposta o accettazione) emessa in vista della stipulazione del contratto, evitando la stessa conclusione dell’accordo, fattispecie a formazione progressiva da considerarsi in itinere fino alla scadenza del termine concesso al consumatore per l’esercizio dello ius poenitandi. La Corte Europea di Giustizia nella sentenza Heiningere, 481/99, stabilisce che un limite del termine del diritto di recesso da parte di una legislazione nazionale è incompatibile con il diritto comunitario e quindi esso dovrà essere riconosciuto sine die al consumatore sino all’integrale attuazione del programma contrattuale. Sulle conseguenze della violazione dell’obbligo di informare il consumatore sul suo diritto di recedere da contratto, la corte europea di giustizia ha affermato che il recesso non può esaurire la tutela accordata al consumatore in quanto negli ordinamenti nazionali devono essere previste anche misure idonee a sollevare il consumatore recedente dalla conseguenze dannose subite e a farle ricadere in capo al contraente che ha omesso l’informazione.]L’articolo 33, comma 1 cod. cons., dettato in tema di clausole vessatorie, alludendo al significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivante dal contratto ha attribuito al giudice poteri inediti rispetto a quelli che aveva di valutazione dell’operazione contrattuale, consentendogli di prendere in considerazione sia l’equilibrio regolamentare del contratto, sia la congruità dello scambio, ogni qual volta questo non sia individuato in modo chiaro e comprensibile (art.34 cod.cons.). Nella valutazione del significativo squilibrio la giurisprudenza è ricorsa sovente ai principi di trasparenza e buona fede per riequilibrare le asimmetrie informative presenti in questi contratti. 5.b. 2) dal ricorso a taluni mezzi tecnici –il più delle volte declinati dal legislatore in chiave di principi [Nel diritto comunitario si riscontra un uso legislativo della nozione di principi generali, definiti anche norme o regole. Si parla ad esempio di un principio di trasparenza nei rapporti contrattuali coinvolgenti i consumatori; principio di informazione adeguata dei consumatori; principio di buona fede nei contratti con i consumatori etc.. Questi principi generali traggono la loro origine dai diritti positivi nazionali. Si sostiene infatti, che il metodo per la rilevazione dei principi generali debba essere quello comparatistico di tipo funzionale, in grado di valorizzare le soluzioni idi analoghi problemi di volta in volta incontrati nell’ambito dei vari ordinamenti statali, privilegiando un approccio attento alla pratica applicativa. La giurisprudenza arbitrale ritiene applicabile gli International trade usages: questi principi sono validi in quanto propri del diritto internazionale del commercio, purchè il diritto internazionale del foro consenta questo rinvio. Tra questi principi ricordiamo quello dell’estoppel, dell’ingiustificato arricchiamento, della forza maggiore, di buona fede; il principio rebus sic stanti bus e la regola pacta non servenda. Sovente la giurisprudenza arbitrale applica questi principi facendoli derivare dai sistemi nazionali. La lex mercatoria è una fonte di autoformazione degli operatori del commercio internazionale che assume le vesti di un sistema autonomo. Secondo alcuni autori che alla base della lex mercatoria vi sono i principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili. Secondo altri autori, contrari ad ammettere la figura del contratto senza legge, ritengono che le regole oggettive del commercio internazionale possono trovare applicazione solo se ritenute rilevanti dagli ordinamenti statali.] e/o clausole generali [il problema di queste clausole è tra quelli di maggiore complessità. Per lungo tempo di è ritenuto che esse fossero mere norme in bianco; ma col tempo questa presunta indeterminatezza è venuta meno. Si deve in Italia a Rodotà il promuovimento dell’idea di una legislazione per principi che si sarebbero espressi in clausole generali. Velluzzi afferma che la clausola generale è un termine di natura volitiva caratterizzato da indeterminatezza, per cui il significato di tali termini non è determinabile se non facendo ricorso a parametri di giudizio, interni o esterni ai diritti tra loro potenzialmente concorrenti.]- come, ad esempio, quello della buona fede e correttezza, della trasparenza, della ragionevolezza- concepiti quali strumenti in grado di verificare la consapevole adesione al programma contrattuale e la sua corretta esecuzione. Si afferma a tal proposito che i principi di trasparenza, consenso informato e buona fede si presentano come l’attuazione del modello di scambio immaginato dal legislatore moderno del contratto e posto a base dei principi che regolano l’autonomia privata nei codici moderni (Barcellona). 5.b. a) Il tema della buona fede e della correttezza è divenuto un importante pezzo anatomico della teoria del contratto e di quei rapporti in cui è presente un intenso contatto sociale. Parliamo della buona fede contrattuale, cioè della buona fede in senso oggettivo; là dove la buona fede in senso oggettivo rileva in tema di acquisto di diritti e di possesso. In ordine alle questioni relative alle obbligazioni derivanti da contratto sociale, si sostiene che quando una norma giuridica (art.1337)assoggetta lo svolgimento di una relazione sociale alla disciplina della buona fede, ciò è indice sicuro che questa relazione si è trasformata sul piano giuridico in un rapporto obbligatorio, il cui contenuto si precisa attraverso una valutazione di buona fede. Ora se l’articolo 1337 costituisce un’estensione della buona fede contrattuale alla fase delle trattative, appare coerente attribuire identica natura alla responsabilità per violazione della buona fede, a prescindere che si manifesti nell’ambito del rapporto contrattuale o del rapporto precontrattuale. Questa operazione di generalizzazione del modello normativo disciplinato dall’art. 1337 finisce per distinguere gli obblighi di protezione dall’obbligo di prestazione, consentendo ai primi autonomia strutturale e giuridica. Si parla a tal proposito di obbligazione senza obbligo primario di prestazione per qualificare vicende diverse da quella precontrattuale, ma suscettibili di essere risolte nella stessa forma giuridica, trovando collocazione nella terza categoria atipica delle fonti dell’obbligazione. Il modello del rapporto obbligatorio senza prestazione può trovare valido impiego ogni qualvolta vi sia un contatto sociale tra soggetti non legati da un preesistente rapporto contrattuale, che sia caratterizzato dall’affidamento di una parte nei confronti dell’altra, affidamento fondato sulla professionalità in funzione della quale si determinano obblighi di correttezza o di protezione verso chi ha riposto nello status una ragionevole fiducia.
Inoltre, numerose sono le norme che nelle direttive europee contengono la clausola generale della buona fede (si pensi alla direttiva sulle clausole abusive). Mengoni afferma che la clausola della correttezza e della buona fede (della correttezza ne parla l’art. 1175 in base al quale creditore e debitore devono comportarsi secondo correttezza; l’art. 1375 impone di eseguire il contratto secondo buona fede.) si concreta in obblighi autonomi ordinati alla protezione di ciascun contraente a preservare la propria persona e i propri beni da danni prodotti da comportamenti scorretti (sleali o negligenti) dell’altra. La riflessione dottrinale e l’intervento dei giudici hanno delineato il contenuto della clausola generale della buona fede e da un lato vi è chi (Rodotà) riconosce la funzione della buona fede alla stregua di una fonte integrativa del contenuto contrattuale che si estrinseca attraverso obblighi accessori aventi carattere strumentale; e dall’altro lato vi è chi (Di Majo) afferma che la buona fede assolve il compito di controllo delle facoltà e di poteri derivanti dalla norma pattizia attraverso il diniego di effetti al comportamento ritenuto scorretto e/o attraverso ad es. il congelamento di regole del diritto o attraverso eccezioni riconosciute alla parte in bonis.
Nel nostro codice vi sono una seria di norme che nell’ambito della disciplina generale dei contratti fanno riferimento alla buona fede:
- l’art. 1337, il quale dispone che le parti nelle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede;
- l’art. 1375 secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede;
- l’art.1358 che dispone che colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte;
- l’articolo 1460, comma 2 che esclude la proponibilità dell’eccezione di inadempimento di cui al primo comma, allorchè avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede;
- l’art. 1366 in base al quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede;
- l’art. 1175 che prescrive che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezzaDottrina autorevole ritiene che la correttezza è un concetto analogo a quello della buona fede, la quale opera come criterio complessivo di valutazione della condotta delle parti anche alla luce del principio costituzionale di solidarietà. In relazione al criterio della diligenza, ex art. 1176, che in quanto dovrebbe personale di prestare trova la sua giustificazione nella struttura interna dell’obbligazione, il criterio della buona fede è adoperato dalla giurisprudenza, con argomentazione implicita in ordine alle conseguenze della inesigibilità della prestazione con l’obiettivo di mitigare la responsabilità del debitore,ex art. 1218, in presenza, ad es. di prestazioni anomale il cui adempimento va oltre la diligenza ex art. 1176; ovvero per valutare l’esigibilità o meno della prestazione in dipendenza, ad es. del comportamento del creditore.
Alla stessa esigenza di commisurare l’esercizio concreto di un diritto al parametro della lealtà appartiene l’exceptio doli generalis. Questa figura, nota nel diritto romano, è stata ricostruita dalla giurisprudenza proprio nell’ambito della clausola generale di correttezza e buona fede e nella prospettiva dell’abuso del diritto. La clausola della buona fede si manifesta all’interno dell’attività interpretativa che è attività valutativa diretta alla produzione di effetti. Essa si colloca, unitamente all’accordo, alla legge e all’opera del giudice, tra le fonti di determinazione del regolamento contrattuale col compito di integrarlo.
Anche l’equità è chiamata ad integrare il regolamento contrattuale; essa acquista rilievo sul terreno dei principi, nella misura in cui lascia intravedere che il fine avuto di mira dal legislatore è quello di un equo contemporaneo degli interessi in conflitto. Il principio sembra trovare conferma nell’art. 428, dettato in tema di incapacità naturale, che esclude l’esistenza di un pregiudizio allorchè sia garantito un oggettivo equilibrio delle sfere patrimoniali dei contraenti. Rescigno osserva che in applicazione del principio di conservazione, l’interprete accerta, con riferimento al contratto la compatibilità del regolamento di interessi con la causa di nullità (art.1424) o la possibilità di mantenere in vigore la regola pur limitando la materia disciplinata (art.1419) o la partecipazione dei soggetti (artt. 1420, 1446, 1459, 1466). [È bene fare un breve accenno sulla clausola generale di buona fede (individuata dai § 157 e 242 del BGB) in Germania. Nel sistema tedesco la clausola della buona fede presenta 3 principali funzioni: limitare le ipotesi di abuso del diritto; imporre un adeguamento del contratto in caso si eventi sopravvenuti; imporre un’integrazione del contratto in base alle circostanze concrete. La letteratura e la giurisprudenza tedesca ha dato rilievo alla comune rappresentazione delle parti circa le circostanze sulle quali è fondato il consenso. L’insussistenza di queste circostanze o il venir meno di esse giustificherebbe la revisione o il recesso dal contratto. Il legislatore tedesco, in realtà, recepisce nel § 313 del BGB una prassi giurisprudenziale che ha lontane origini nel saggio di Oertmann che ha costituito il punto di partenza di una complessa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del concetto di fondamento del contratto che serve a controllare dal punto di vista soggettivo, la comune rappresentazione delle parti circa uno stato di fatto attuale; nonché sul piano oggettivo, il rapporto originario di equivalenza tra le prestazioni e la sua evoluzione nel futuro in relazione allo scopo contrattuale. La giurisprudenza tedesca, dal canto suo, ha riconosciuto al giudice, a partire da una sentenza del 1920, la possibilità di revisione del corrispettivo per ricondurre ad equità il regolamento contrattuale voluto dalle parti. Si è così portati a riconoscere in capo al giudice il potere di pronunciare sia la risoluzione del contratto; sia, in alternativa, la revisione del corrispettivo, ove con ciò fosse possibile condurre ad equità il regolamento contrattuale, in presenza di un persistente interesse delle parti. La successiva giurisprudenza ha poi individuato una seria di ipotesi rilevanti ai fini del rimedio della revisione del contratto, ovvero della risoluzione, tra queste: l’errore comune; la frustrazione della comune aspettativa; la rottura del rapporti di equivalenza tra le prestazioni; l’irraggiungibilità dello scopo. Già nel 1920 la giurisprudenza tedesca ha riconosciuto la possibilità da parte del giudice di poter apprezzare circostanze incompatibili con i presupposti del contratto, in modo tale da rendere necessario l’accertamento della inesigibilità della prestazione ove questa dovesse condurre alla rovina economica del contraente tenuto all’adempimento ovvero una inadeguatezza tra le prestazioni. Secondo la ratio decidendi dei giudici tedeschi la tecnica di distribuire rischi e danni deve essere informata a principi di onestà e correttezza, di guisa che diviene possibile, attraverso il ricorso alla buona fede, un giudizio di equità. Nell’ordinamento inglese, invece, alla good faith è attribuito uno spazio molto limitato e questo è dovuto alla resistenza del giurista inglese ad utilizzare un concetto generale di buona fede e alla tendenza ad impiegare al suo posto soluzioni più specifiche. Bisogna, infine, osservare che il canone della buona fede, inteso come criterio correttivo del testo contrattuale, appartiene ormai anche al novero delle clausole generali che vivono nell’ambito della comunità internazionale degli operatori economici retta dalla Lex mercatoria. In questo ambito tra i principi dell’UNIDROIT (principi dei contratti commerciali internazionali) la buona fede riveste un posto di rilievo e nonché anche il principio sull’eccessivo squilibrio. Si pensi al rilievo accordato all’Hardship, riguardante una sproporzione tra le prestazioni dovuta a circostanze sopraggiunte, e che consente al giudice di riequilibrare le posizioni del contratto laddove le parti non siano riuscite a rinegoziare e a rimediare alla sproporzione sopravvenuta. La particolarità dei principi UNIDROIT è data dal fatto che essi non si applicano a rapporti che si instaurino tra soggetti appartenenti a categorie diverse, reputata l’una più debole dell’altra (ad es. quella dei consumatori rispetto a quella dei professionisti /imprese), bensì a tutti i rapporti contrattuali i cui protagonisti siano in posizione squilibrata l’uno rispetto all’altro.] 5.b. b) La trasparenza – di cui gli obblighi informativi ne rappresentano uno strumento di attuazione, unitamente alla forma chiara e comprensibile- assicura al consumatore la conoscibilità del regolamento contrattuale, favorendo la formazione di un consenso consapevole. La sua funzione è quella tipica di protezione del consumatore. il principio di trasparenza è ormai presente in tutta la normativa destinata a riequilibrare asimmetrie informative. Esso è ascrivibile a un dovere di comportamento secondo buona fede la cui violazione farebbe sorgere responsabilità per culpa in contraendo, ovvero nullità se si dovesse convenire sul fatto che la trasparenza rende vessatorio il testo o la clausola contrattuale [Il problema del controllo delle condizioni generali di contratto investe non solo il contenuto delle clausole predisposte ma anche la loro conoscenza al momento dell’inserimento nel contratto. Quanto detto non emerge con chiarezza dal testo della direttiva guida in materia (93/13/CEE), laddove si è preferito concentrarsi sul contratto del contenuto sostanziale del contratto con riguardo all’equilibrio dello scambio, senza stabilire in modo espresso la necessità della preventiva conoscenza delle clausole predisposte unilateralmente. Parimenti la normativa italiana di recepimento non contiene una disposizione che tuteli la conoscibilità delle condizioni generali negoziali nei contratti con i consumatori; una certa tutela della consapevole formazione del consenso nella fase precontrattuale è data dall’art. 1337 e dall’art. 2 del codice del consumo che tra i diritti del consumatore cita quello ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità. Per il resto il dovere di informazione precontrattuale, come nella direttiva comunitaria, è regolato in via indiretta attraverso il controllo di vessatori età delle clausole contrattuali a garanzia della congruità dello scambio. Per cui il parametro di rilevanza del difetto di informazione precontrattuale è lo squilibrio negoziale e il problema della formazione del consenso si confonde con quello della vessatori età del contenuto del contratto. Ciò provano gli articoli 48 33 e 36 cod.cons. ove dichiarano la vessatori età delle clausole che prevedono l’estensione del consenso del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima delle conclusione del contratto. Sul punto la legislazione tedesca era già all’avanguardia e infatti il § 305 del BGB da una parte prevede espressamente un dovere di informazione in capo al predisponente, che si articola nell’obbligo di richiamare l’attenzione del contraente sulle condizioni generali di contratto e in quello di assicurare allo stesso la possibilità di prendere adeguatamente conoscenza del loro contenuto; dall’altra dispone l‘esclusione dal contratto delle clausole che sono così inconsuete che la controparte dell’utilizzatore non deve tenerne conto. In dottrina si è rilevato come la normativa tedesca concerna rispetto agli artt.33 ss.cod.cons. l’ambito più ristretto della contrattazione standard con i consumatori. Probabilmente il controllo sull’inserimento delle condizioni generali negoziali non è stato irrigidito dal legislatore italiano affinchè esso non diventasse un ostacolo per i traffici e irregolare funzionamento del mercato. Vi sono altri dati normativi da cui può trarsi l’esistenza di un dovere di informazione precontrattuale in capo al predisponente di condizioni generali di contratto come a qualunque altro contraente che si giovi di un’asimmetria informativa (ad ese. Art.1337,1341,1375 cod.cons.). Tuttavia l‘assenza di una disciplina espressa ha inciso sull’incertezza delle conseguenze giuridiche delle omesse o inesatte informazioni.] Obblighi di trasparenza sono, ad esempio, quelli presenti nei contratti aventi a oggetto lo svolgimento di attività di intermediazione mobiliare; nelle operazioni e servizi bancari; nei contratti assicurativi; nei contratti dei consumatori e così via. Le regole sulla trasparenza di regola sono affidate ad atti formali (scritti) che riguardano tutte le attività connesse al contratto sia nella fase formativa che in quella di esecuzione. Il diritto all’informazione pone delle questione per quanto riguarda la funzione che effettivamente svolge all’interno della dinamica contrattuale. In proposito si assiste ad una standardizzazione dell’informazione, nel senso che questa viene affidata ad un formulario o a un modulo che il professionista ha l’obbligo di consegnare al consumatore [si veda ad esempio in tema di prestazione di servizi di investimento finanziari l’obbligo a carico dell’intermediario di fornire ai suoi interlocutori le informazioni necessarie per comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i rischi ad essi connessi]. In un recente commento alla Direttiva in tema di diritti dei consumatori (83/2011) è stato osservato che la responsabilità del professionista si riduce a una responsabilità per omessa consegna del formulario e lascia fuori ogni possibile apprezzamento dell’adeguatezza del comportamento del professionista nei confronti del consumatore. gli effetti che ne derivano sono quelli di ridurre l’informazione a una mera comunicazione di dati.
5.b.c) Il principio di ragionevolezza è ben conosciuto nel sistema del common law come criterio che orienta il giudice nell’applicazione dello stare decisis. Non mancano però nel nostro codice civile e nel codice del consumo disposizioni che richiamano la ragionevolezza. Si tratta di riferimenti testuali privi di un significato unitario e non in grado di conformare una vera e propria clausola generale. Vi è da dire piuttosto che la ragionevolezza sia una sorta di valore empirico ragguagliabile alla condotta del buon padre di famiglia o al criterio della diligenza. Contiguo al criterio della diligenza è quello della proporzionalità che sta ad indicare un parametro valutativo di proporzione tra mezzo utilizzato e fine perseguito. Di ragionevolezza e proporzionalità si parla in una molteplicità di significati in diversi settori del diritto (Troiano ritiene che la ragionevolezza operi in tre direzioni: come modello di condotta; come formula di imputazione della responsabilità e come criterio dell’equilibrio contrattuale). Il diritto europeo rispetto alla ragionevolezza parla di uno standard di comportamento caratterizzato dall’onestà, dalla lealtà e dalla 49 considerazione degli interessi dell’altra parte dell’accordo o del rapporto in questione e afferma che la ragionevolezza deve essere accertata obiettivamente, tenendo conto della natura e dello scopo del contratto, delle circostanze della fattispecie,degli usi e delle pratiche vigenti nelle attività commerciali o professionali coinvolte. 5.c. 3) dall’inserimento di regole di comportamento (distinte da quelle di validità) che hanno l’obiettivo di rimuovere il pregiudizio che una parte può subire a seguito di comportamenti non conformi a correttezza e, in ogni caso, in violazione di doveri e che presuppongono che il soggetto non abbia la possibilità di sottrarsi agli effetti dell’atto scorretto [La Cassazione nelle sentenze Rordorf, 26724 e 26725 del 2007, in materia di mercati finanziari, ha affermato la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità, nel senso che la violazione delle prime non inciderebbe sulla genesi del contratto e determinerebbe solo la responsabilità dei trasgressori e non anche ‘invalidità dell’atto. Vi sono stati recenti dibattiti su questa distinzione e sulle tutele applicabili in caso di una loro violazione. Rientrano tra le regole di comportamento i doveri informativi posti a carico del professionista. Il rimedio esperibile in caso di loro violazione è il risarcimento del danno in conseguenza della violazione della clausola generale di buona fede exart. 1337 se la violazione ha interessato la fase precontrattuale, altrimenti si agirà per la risoluzione del contratto per inadempimento. Si esclude che possa essere fatta valere in proposito la nullità invocando regole di validità che sono quelle poste a tutela della struttura e del contenuto del contratto. Tuttavia, si osserva che nella moderna legislazione la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità si stia affievolendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto. Il problema costruttivo è quello di vedere fino a che punto elementi esterni al contratto, collocabili ad esempio nella fase precontrattuale, possano invadere il contratto fino a renderlo nullo. Sembra allora necessario ricostruire il regolamento contrattuale avendo a riferimento il punto di vista esterno al contratto cioè la situazione complessiva in cui il contratto è nato e che avrebbe efficacia costitutiva, compresi gli obblighi informativi]. Nel quadro di assicurare al consumatore sia la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali che il risultato del contratto s’iscrivono le nullità di protezione che svolgono la funzione di rimedi contro clausole (quali ad es. quelle vessatorie) o pattuizioni contrastanti con gli interessi che l’ordinamento giuridico intende difendere rimesse alla disponibilità del titolare dell’interesse normativamente protetto, affinchè possa valutare se farlo valere o meno [nella disciplina dei contratti con i consumatori sono previste forme di nullità speciali, dette anche di protezione, così denominate perché comminate in ragione della violazione di norme imperative di protezione, poste cioè a tutela sia di interessi generali sia di interessi particolari, riferibili cioè a determinate categorie di contraenti in situazione di debolezza negli scambi del mercato. Le nullità di protezione nel codice del consumo sono quelle che incidono sulla struttura e sul contenuto del contratto (es. art.71 sui requisiti relativi ai contratti di acquisizione a distanza di servizi finanziari); quelle relative alla violazione di obblighi d’informazione (art.52 dettato in tema di contratti a distanza relativamente alla informazioni da dare al consumatore a pena di nullità del contratto; quelle che incidono sia sulla struttura del contratto sia sugli obblighi di informazione (ad es. art.67 nella commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori relativamente agli ostacoli posti al diritto di recesso ..). La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice]. 5.d. 4) dalla presenza di tutele o rimedi miranti a ristabilire l’equilibrio contrattuale alterato dalla posizione di forza di una parte attraverso il ricorso a clausole, come quella della correttezza e della buona fede assunte come rationes dell’intero ordinamento degli scambi [Si può fare riferimento agli strumenti di regolamentazione del 50 mercato adoperati dal legislatore italiano, alcuni dei quali rappresentano una compressione dei principi di iniziativa economica e di autonomia privata. Nel codice civile sono presenti, agli articoli 2597 e 1679, disposizioni che impongono al monopolista legale e al concessionario di pubblici servizi l’obbligo a contrarre osservando la parità di trattamento. La legislazione speciale presenta leggi di regolamentazione di settori del mercato incidendo sulle attività contrattuali (si pensi alla legge 287/1990 concernete la repressione delle fattispecie anticoncorrenziali, oppure il d.lgs. 206/2005 “codice del consumo”)]. Forme di adempimento sanate sono inoltre previste dalle disposizioni sulla vendita di cose mobili sia pure per la sola vendita di beni di consumo; tra queste si colloca il diritto al ripristino, senza spese, mediante riparazione o sostituzione del bene non conforme. Tale rimedio si colloca accanto a quello della garanzia convenzionale [articolo 130 cod. cons.(diritti del consumatore) “il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene .In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità”].LA SCHULDRECHTSREFORM.
Nel 2002 il codice civile tedesco (BGB) è stato sottoposto ad un processo di riforma (SCHULDRECHTSREFORM) che ha modificato i suoi primi due libri. Questa riforma è particolarmente importante in quanto trasfonde all’interno del BGB la disciplina del contratto concluso dal consumatore collegandola alla disciplina del contratto. Il secondo libro del BGB, riguardante il diritto delle obbligazioni e dei contratti, contiene una parte generale sui diritti di obbligazione e una seconda parte sul diritto particolare delle obbligazioni, dove sono disciplinati i singoli rapporti obbligatori nascenti da contratto o dalla legge. Tra questi ultimi, assume particolare rilievo la vendita regolata da disposizioni generali e da disposizioni particolari, tra le quali la vendita di beni di consumo. La disciplina particolare di beni di consumo è caratterizzata dal fatto che talune disposizioni della vendita in generale sono dichiarate non applicabili e altre sono rese inderogabili a vantaggio del consumatore (ad esempio la garanzia per vizi non può essere esclusa). Vi è poi un ampliamento della responsabilità per vizi della cosa venduta e il passaggio, nel caso in cui il vizio si manifesti entro sei mesi dalla consegna, dell’onere della prova a carico del venditore. Le più importanti novità della riforma traggono origine dalla indicazioni proveniente dal legislatore europeo (in modo particolare dalla direttiva comunitaria sulla compravendita dei beni di consumo; 1999/44/CEE). La disciplina della compravendita di fonte comunitaria è stata applicata non solo alla compravendita del consumatore ma trova riscontro anche in aspetti del diritto generale della compravendita e delle obbligazioni di fonte contrattuale. Non sono mancate, tuttavia, delle critiche alle scelte operate dal legislatore della SCHULDRECHTSREFORM. Si osserva infatti che l’aver esteso ai rapporti business to business la gerarchia di rimedi azionabili dal consumatore nella vendita di beni mobili (adempimento specifico o correzione dell’inadempimento inesatto o sostituzione del bene) significa rallentare i ritmi di intervento nel mercato e comprimere le potenzialità di conflitto; laddove sarebbe stato più utile mettere in campo tecniche di tutela più complesse quali, ad esempio, quelle individuate dalla normativa a contrasto della concorrenza. La verità è che la questione dell’integrazione rileva in una dimensione segnata dalla relazione che corre tra diritto dei consumatori e diritto contrattuale generale: relazione che impone un continuo confronto delle norme generali di diritto privato e delle norme speciali che vi derogano. Nel quadro di queste considerazioni è il caso di segnalare che la direttiva 1999/44/CEE presenta numerosi punti di contatto con la disciplina contenuta nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla vendita internazionale di beni mobili [(CISG): essa rappresenta un testo di 51 grande rilievo in quanto modella lo sviluppo in ambito internazionale di aree nevralgiche del diritto delle obbligazioni. Quest’ultima è stata ratificata, finora, da 12 paesi dell’unione europea: ciò significa che le vendite commerciali internazionali sono disciplinate allo stesso modo nella maggior parte dell’Unione Europea. La CISG ha, inoltre, influenzato la Direttiva sulla vendita dei beni di consumo e ha giocato un ruolo importante nelle riforme di diritto interno in materia di compravendita e di inadempimento] e con i principi dei Contratti Commerciali Internazionali (UNIDROIT). L’insieme di queste disposizioni finisce per delineare un ambito comune di riferimento per lo sviluppo del diritto della vendita in Europa. Si tratta di corpi normativi aventi finalità diverse e infatti l’UNIDROIT mira ad una armonizzazione del diritto contrattuale commerciale a livello globale e la CISG esclude la vendita al consumo dal proprio ambito applicativo. Tuttavia, le soluzioni proposte non differiscono di molto le une dalle altre, in modo tale che ciò che è ritenuto corretto ed equo per i contratti commerciali può in larga misura esserlo per in contratti dei consumatori e viceversa. Analoghe considerazioni vanno svolte se si raffronta questo quadro di riferimento con i principi di diritto europeo dei contratti (PECL) curati dalla commissione Lando che hanno per oggetto principi del contratto in generale. L’esempio tedesco rafforza l’idea che sia necessario un raffronto tra gli ordinamenti europei che partecipano a questo processo di uniformazione al fine di individuare un sistema di principi comuni che rispecchiano un diritto materiale uniforme lasciando sopravvivere le linee portanti dei vari e diversi sistemi. Questo tipo d’indagine rappresenta il corpus scientifico del diritto privato europeo: in tale direzione si è mossa sovente la Corte di Giustizia della Unione Europea (ECJ) che ha invocato il sussidio del metodo comparatistico nel processo di elaborazione di principi e procedure.
LE ASIMMETRIE CONTRATTUALI: RAPPORTI VERTICALI TRA IMPRESE (IL TERZO CONTRATTO).
L’autonomia negoziale delle imprese trova limitazioni nella misura in cui è in grado di influenzare l’andamento del mercato. Così è per la normativa trust (legge 267/1990) che vieta:
- le intese restrittive della libertà di concorrenza,
- l’abuso di posizione dominante;
- le operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza.Di carattere diverso, invece, sono quelle limitazioni e quei controlli che hanno per oggetto l’operatività di un regolamento contrattuale (Business to Business, spesso indicato con l’acronimo B2B) stipulato tra imprenditori, nel quale una parte abusa della condizione di dipendenza economica dell’altra. Siffatta problematica è ben diversa a quella relativa al contratto concluso dal consumatore col professionista; perché in quest’ultimo caso la protezione del consumatore è caratterizzata dalla presenza di una asimmetria informativa, mentre nei contratti B2B è presente un’asimmetria di capacità economica e potere contrattuale.
La protezione dell’imprenditore debole ha origine con l’introduzione nel nostro sistema della figura dell’abuso di dipendenza economica introdotta, in materia di subfornitura, dall’articolo 9 della legge 192/1998. L’abuso di dipendenza economica è quella situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. L’abuso può essere costituito dal rifiuto di vendere o di comprare; dalla imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie; dalla interruzione arbitraria delle relazioni commerciali. Si può parlare di dipendenza economica solo nel caso in cui manchi una reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. La disciplina, quindi, è applicabile in presenza di queste 2 condizioni e comporta una tutela invalidante, salvo quanto disposto dal comma 3 bis dell’articolo 9.
[Si differenzia dall’abuso di dipendenza economica, l’abuso di posizione dominante, il quale si riferisce a un mercato di concorrenza imperfetta nel quale è presente una posizione di supremazia di un’impresa rispetto ad altre. Il giudice, pertanto, sarà tenuto ad accertare la posizione di potere dell’impresa nel mercato di riferimento. L’abuso di dipendenza economica, invece, rileva nel rapporto tra le parti. In pratica, nell’abuso di posizione dominante si cerca di impedire che un operatore economico agisca per ridurre la concorrenza esistente sul mercato, determinando un danno alla pluralità dei consumatori; nell’altro caso si vuole impedire che un soggetto economico agisca in danno di un altro, avvalendosi della propria posizione di vantaggio relazionale, al fine di imporre unilateralmente condizioni contrattuali particolarmente gravose.]
Partendo proprio dall’articolo 9 della legge 192/1998 sulla subfornitura si è ipotizzata l’esistenza di un terzo contratto, e cioè di un modello di contratto, avente uno statuto autonomo che si colloca quale terra di mezzo tra il contratto di diritto comune e il contratto del consumatore. Questa nuova categoria è caratterizzata dall’esistenza di una asimmetria di potere contrattuale tra le parti e di una mancanza di alternative sul mercato: caratteristiche in grado di consentire al giudice un controllo sull’equilibrio contrattuale. È stata, inoltre, proposta un’applicazione generalizzata dell’articolo 9 legge cit. quale norma collocata tra “contratto e mercato”. Infatti, la nozione di dipendenza economica consentirebbe di valutare il rapporto tra condizioni di mercato ed equilibrio contrattuale realizzatosi in fattispecie concrete, in modo tale che ove venisse rilevato un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi si sarebbe in presenza di un’anomalia del meccanismo concorrenziale. Allora, sembrerebbe lecito dedurre che anche l’abuso di dipendenza economica è frutto di un vizio strutturale del mercato, in quanto l’impresa in posizione di dominio relativo potrebbe imporre al proprio partner obbligato condizioni peggiori di quelle praticate in un mercato virtuoso. L’esigenza di evitare l’abuso di una posizione di monopolio è alla base non solo della legge antitrust ma anche del divieto di abuso di dipendenza economica. Il secondo comma dell’articolo 10 dello Statuto delle Imprese (legge 180/2011) ha aggiunto al comma 3 bis dell’art. 9 della legge sulla subfornitura il seguente periodo: “in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al d.lgs. 231/2002, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica.” Il legislatore, quindi, ha esteso la disciplina sanzionatoria prevista per i casi di abuso di dipendenza economica alle ipotesi di violazione diffusa e reiterata. Questa disposizione sembra dare ingresso ad una nozione di impresa contrattualmente svantaggiata molto ampia e tale da farla coincidere con la piccola e media impresa. In base a queste interpretazioni è possibile affermare che il divieto di dipendenza economica opererebbe in tutti i casi in cui sarebbe presente un vantaggio relazionale nei rapporti commerciali di tipo verticale tra imprese: disparità delle posizioni contrattuali che è connaturale all’appartenenza delle parti a diversi stadi del ciclo di commercializzazione di un prodotto. In realtà, l’idea di un monopolio relazionale fa sorgere dei dubbi in quanto riguarda la relazione tra imprenditori connotata da un diverso potere economico di una parte rispetto all’altra. Ciò comporta che l’abuso di dipendenza economica è diverso dall’abuso di posizione dominante che presuppone la definizione di un mercato di riferimento. I due abusi possono anche sovrapporsi ma resta il fatto che l’abuso di dipendenza economica non presuppone alcuna valutazione dell’impatto anticoncorrenziale della condotta vietata.Va osservato che il nostro codice all’articolo 2359, comma 3 (dettato in tema di società controllate e collegate) riconosce il controllo contrattuale (c.d. controllo esterno) che comporta una posizione di dipendenza economica di una società nei confronti di un’altra e tali sono i vincoli conseguenti a contratti di agenzia o fornitura di merci in esclusiva e in genere a rapporti contrattuale le cui prestazioni siano essenziali per l’attività di una delle due società. Queste ipotesi sono caratterizzate dallo stato di soggezione economica in cui versa la società controllata, la cui stessa esistenza e la vita dipendono dalla società controllante [E’ noto che nel nostro ordinamento non esistono contratti tipici cui fare riferimento quali i c.d. “contratti di dominio o dominazione” ad esempio previsti nell’ordinamento tedesco con cui espressamente una società si assoggetta alle direttive di un’altra. In assenza di una tipizzazione normativa si può affermare che di regola qualsiasi contratto ordinario possa essere posto a fondamento di un rapporto di controllo esterno, essendo necessario che attribuisca ad uno dei contraenti una situazione di predominio contrattuale e che crei nella controparte una dipendenza economica] . I contratti che presentano questo controllo societario sono quelli tipici dell’impresa destinati a stabilire rapporti di verticalità rispetto ai quali opera il controllo della legge sulla subfornitura sull’abuso della dipendenza economica (fornitura, distribuzione, agenzia, somministrazione, licenza di segni distintivi). Ci si chiede, allora, se il controllo esterno generi e in quale misura dipendenza economica, ai sensi della legge sulla subfornitura. Si afferma che nel nostro sistema si sia costituita una duplice categoria di contratti: quella del contratto tout court e quella dei contratti asimmetrici (in quest’ultima verrebbe a confluire la tutela del consumatore, quelle dell’impresa in posizione di dipendenza economica da altre imprese, del risparmiatore etc.). Si è, però, giustamente osservato che una unitaria figura di contratto asimmetrico non darebbe rilievo al fatto che nei contratti con i consumatori lo squilibrio economico è valutato in base a un criterio di proporzionalità; mentre nei contratti tra imprese lo squilibrio economico è misurato sulla base di una coerenza interna al rapporto, di guisa che l’esistenza di un eccessivo squilibrio è il frutto del comportamento in mala fede di una parte. In quest’ambito, la tutela solo invalidante non appare molto soddisfacente per l’imprenditore in posizione di dipendenza economica se non si accompagna a una soluzione correttiva giudiziale che dovrebbe investire la stessa fase precontrattuale, ove caratterizzata da oggettiva iniquità e approfittamento (es. rifiuto di vendere). In tale prospettiva, la tutela inibitoria (ex art. 9, comma 3 della legge sulla subfornitura) potrebbe generalizzare la possibilità dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre a fronte del rifiuto illecito dell’imprenditore forte. In ordine all’abuso di dipendenza economica si discute se sia sindacabile non solo la proporzionalità tra diritti e doveri discendenti dal contratto, ma anche l’equivalente tra il valore delle prestazioni corrispettive, misurata in relazione ai valori di mercato, cioè alla pratica commerciale leale. La legge sulla subfornitura, nella prospettiva del riequilibrio economico ci fornisce qualche spunto: l’articolo 6, ult. co. Prevede la nulità della clausola con la quale il subfornitore disponga al favore del committente e senza congruo corrispettivo di diritti di privativa industriale o intellettuale; l’art. 9 al comma 2 parla di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose. Altra indicazione proviene dal d.lgs. 231/2002 relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali che sottopone al limite della grave iniquità in danno al creditore le eventuali deroghe sulla data di pagamento sul saggio di interesse in tal modo colpite da nullità. Sul punto va richiamata la Direttiva 2011/7/UE che contiene una norma rivolta ad una più agevole identificazione delle clausole contrattuali e delle prassi inique. Ci riferiamo all’articolo 7, secondo cui: 1) deve considerarsi ex lege iniqua ogni clausola contrattuale o prassi che escluda l’applicazione di interessi di mora; 2) deve presumersi iniqua quella che esclude il risarcimento per i costi di recupero; 3) per determinare se una clausola contrattuale o una prassi sia gravemente iniqua per il creditore, ai sensi del comma 1, si tiene conto di tutte le circostanze del caso, tra cui: a) qualsiasi grave scostamento dalla corretta prassi commerciale, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza; b) la natura del prodotto o del servizio; c) se il debitore abbia qualche motivo oggettivo per derogare al tasso d’interesse di mora legale, 54 al periodo di pagamento di cui all’articolo 3, all’art.4 . Tali disposizioni hanno come obiettivo quello di proibire l’abuso della libertà contrattuale a danno del creditore. La norma comunitaria pone l’iniquità come scostamento dalla corretta prassi commerciale e come abuso della libertà contrattuale. Par lecito ritenere, quindi, che l’abuso di dipendenza economica comporta la necessità di un riequilibrio tra diritti e obblighi discendenti dal contratto; invece, l’iniquità del rapporto tra le prestazioni, cioè le condizioni ingiustificatamente gravose, comporta un riequilibrio rispetto all’abuso della libertà contrattuale da parte dell’impresa forte, nella prospettiva dell’equità, della correttezza e della buona fede [è interessante l’osservazione di Pagliantini che pone come riferimento di ogni valutazione la coerenza del rapporto rispetto alla quale va misurato il comportamento abusivo di una parte rispetto all’altra. Orientamenti della giurisprudenza sulla possibilità di rimuovere o riequilibrare un regolamento contrattuale iniquo sulla base delle clausole generali presenti nel nostro codice (buona fede, correttezza, equità) con lo scopo di mantenere il rapporto giuridico in sede di esecuzione nei binari dell’equilibrio e della proporzione.
L’angolo visuale coltivato dalla giurisprudenza è quello dell’abuso del diritto che rappresenta un modo di essere della buona fede. Per la giurisprudenza gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono:
1) la titolarità di un diritto soggettivo;
2) la possibilità che il concreto esercizio di questo diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;
3) la circostanza che tale esercizio sia in concreto, seppure formalmente rispettoso della sua cornice attributiva, svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico o extragiuridico;
4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. L’abuso del diritto, quindi, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. In questo contesto si legge che le locuzioni abuso del diritto e contrarietà a buona fede sono sinonimi in quanto i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata,e prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Questa prospettazione costituisce la ratio decidendi di quell’orientamento giurisprudenziale definito governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, la cui funzione è quella di ristabilire l’equilibrio contrattuale alterato dalla posizione di potere di cui un contraente forte si avvale a danno di quello debole. Nella nostra esperienza giuridica, l’adozione di una clausola generale sull’abuso del diritto ha sempre suscitato delle preoccupazioni in quanto potrebbe attribuire al giudice un potere discrezionale tanto ampio da contrastare con l’esigenza di certezza del diritto [La figura dell’abuso del diritto trova suoi precedenti nel diritto romano ove era prevista sia la exceptio doli generalis seu praesentis (con la quale veniva paralizzato l’esercizio di un diritto in contrasto con l’equità) sia la exceptio dolo praeteriti (con la quale si invalidava un negozio concluso a seguito di artifici e raggiri a danno di uno dei contraenti). Un importante contributo alla teoria dell’abuso del diritto è stato dato dalla dottrina francese: Plainol affronta il problema sul piano sistematico e del diritto positivo sostenendo la non configurabilità dell’abuso di diritto per il fatto che la condotta di un soggetto è qualificabile o come esercizio di un diritto o come illecito: tertium non datur. Al sistema delle regole morali allude Rand che sostiene che l’abuso del diritto vada distinto dall’illecito in quanto riguarda non la violazione della lettere della legge, ma la sua ragion d’essere. Savatier vede nell’abuso del diritto un contrasto tra una determinata condotta di esercizio di una prerogativa attribuita dalla legge e i dettami della morale; l’abuso rileva se provoca un danno anormale.] La clausola generale sull’abuso del diritto fu prevista nel progetto preliminare al codice civile- nel quale l’art.7 proclamava che nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto- ma non fu poi trasfusa nella stesura definitiva del codice, ove si preferì adottare norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti, com’è per l’articolo 833. Nel nostro ordinamento, inoltre, non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto sia come sviamento dell’interesse sotteso all’iscrizione del diritto; sia come criterio riconducibile allo schema della valutazione comparativa di due interessi [Si ritiene che il divieto sia stato riconosciuto dall’art.54 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dal’articolo 17 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU)]. Bisogna, ora, chiedersi se nel nostro sistema sia presente una implicita clausola generale sull’abuso del diritto in grado di incidere sulla disciplina delle situazioni giuridiche generalmente riportate ad un contrasto tra esercizio del diritto e direttiva etica. La questione,però, pone diversi problemi tra i quali quello di separare il riconoscimento del diritto dal suo esercizio in quanto non è l’esercizio il mezzo per realizzare il diritto, ma il diritto il mezzo per realizzare l ‘esercizio. Da questo punto di vista il problema dell’abuso del diritto finirebbe per coincidere con un problema di definizione de contenuto del diritto. Il concetto di abuso del diritto potrebbe essere ancorato al dato testuale di cui all’articolo 833 c.c., dettato in tema di rapporti proprietari, sul divieto degli atti emulativi. Non sembra, tuttavia, che tale norma consenta di selezionare i modi di esercizio del diritto di proprietà e di collocare all’interno di questi modi di esercizio, l’atto emulativo che,per definizione essendo privo di utilità economica (cioè non costituendo una modalità di godimento del bene), non è esercizio del diritto di proprietà. L’art. 833 prevede il requisito dell’animus nocendi che per essere tale deve tradursi in un danno ingiusto prodotto nella sfera giuridica altrui [La Cassazione nel 1995 ha affermato che la sussistenza di un atto di emulazione postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il proprietario e di un elemento soggettivo, costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri]. Lo schema dell’art. 833 è di scarsa utilità pratica in quanto non prevede alcun vantaggio per il proprietario che pone in essere l’atto emulativo se non quello di arrecare ad altri un pregiudizio: di fatto serve a sanzionare una condotta dolosa [In realtà sia l’abuso del diritto che la buona fede implicano sempre, anche al di fuori dei rapporti contrattuali, un giudizio relazionale].Uno spunto per la ricerca di un fondamento normativo all’abuso del diritto potrebbe essere ritrovato nella disciplina dell’abuso di dipendenza economica [(art. 9 della legge 192/1998) la norma ha avuto scarsa applicazione nella pratica. In materia, vi sono stati vari interventi successivi in materia di interventi di rimedi collettivi di ritardi nei pagamenti commerciali e di rapporti tra gestori e titolari di impianti di distribuzione del carburante ovvero fornitori di carburante, per il rifiuto di contrarre] che incide sull’autonomia contrattuale e sembra riguardare tutte le ipotesi di rapporti verticali tra imprese [Scarso ritiene che la disposizione abbia carattere eccezionale; Lipari ritiene che l‘estensione della norma si riconnette alla necessaria circolarità del processo interpretativo del diritto; la recente Cassazione nel 2011 ha affermato che l’ambito di applicazione oggettivo del divieto, nonostante la sua collocazione in una legge di settore, si estende in principio a tutti i rapporti verticali tra imprese]Siffatta disposizione non si presta, tuttavia, ad una generalizzazione in grado di 56 rappresentare una sistemazione della disciplina dei rapporti contrattuali tra imprese. Vi sono fattispecie, infatti, nelle quali il legislatore: a)richiama la qualità soggettiva dei contraenti (come nel caso delle norme antitrus e delle disposizioni a tutela dei consumatori); b) fa riferimento al solo contenuto della pattuizione oggettivamente intesa (come nel caso dell’usura e della normativa contro i ritardi di pagamento); c) individua infine un criterio che si avvale di elementi oggettivi (settore o ambito contrattuale) combinati a elementi soggettivi (imprenditore debole) (come nell’ipotesi della subfornitura). Il dato testuale più prossimo è quello costituito dalle norme sulla buona fede; a tal proposito in dottrina si è affermato che “il divieto di abuso del diritto non costituisce un’autonoma clausola generale e che altro non esprime che una delle finalità della buona fede in senso oggettivo. La giurisprudenza sovente ricorre alla figura dell’abuso de diritto sulla base di un iter argomentativo che è stato proposto in una decisione della Cassazione del 2009. In questa decisione di afferma che in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed accompagnarlo in ogni sua fase. La clausola generale di buona fede e correttezza opera sia nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio per quanto concerne i comportamenti del debitore e del creditore e sia nell’ambito del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto. Il principio costituisce strumento per il giudice, atto a controllare lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto che , come già accennato precedentemente, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Come conseguenza dell’eventuale abuso l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti, e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E proprio nella mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti attraverso atti di per sé idonei ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Dalla lettura della motivazione della sentenza riportata si ha l’impressione che i giudici abbiano utilizzato le locuzioni abuso del diritto e contrarietà a buona fede come sinonimi. Al di là delle perplessità che possono emergere, resta il fatto che la figura dell’abuso del diritto finisce per essere uno strumento di controllo degli equilibri contrattuali.
ASPETTI DELL’INTERVENTO COMUNITARIO IN MATERIA CONTRATTUALE
1. Dinanzi ad un’economia di mercato nascente, emersa già in Inghilterra e in Olanda, divenne cruciale un intervento nel campo del diritto privato generale (civile, commerciale, processuale civile, del lavoro) con particolare riguardo alle questioni del diritto di proprietà, dei contratti, dell’impresa, dei rapporti di lavoro. Nel tempo si manifestò l’idea, sollecitata dall’integrazione crescente delle economie in Europa, di ricercare un diritto comune ai vari Stati membri, di favorire il trapianto di istituti giuridici da un ordinamento all’altro, di risolvere questioni giuridiche comuni con l’ausilio di fori sovranazionali. Secondo alcuni questa armonizzazione giuridica incrementerebbe lo sviluppo dei rapporti commerciali tra gli Stati membri e favorirebbe, in definitiva, la conoscenza dei rischi legali legati alla gestione del contratto; secondo altri, invece, la specificità consente la ricerca di soluzioni giuridiche nazionali più adatte alle esigenze e alle caratteristiche di singole economie e tali da favorirne la crescita e la capacità di competere con le altre economie.
La questione non può essere limitata solo alle norme di diritto sostanziale essendo necessario un intervento organico sulle istituzioni dei singoli Stati con particolare riguardo all’amministrazione della giustizia (il processo). Da tempo si svolge un importante dibattito nell’Unione Europea in ordine alla unificazione del diritto contrattuale europeo: unificazione che, per alcuni giuristi, dovrebbe rispondere alla esigenza di porre accanto ad una unità economica una comunanza giuridica. Il mondo accademico europeo ha addirittura prodotto dei “codici” di varia ispirazione (Lando, Gandolfi) come proposte per disciplinare un auspicabile diritto contrattuale unifome; ma non si è avuto nessun risultato concreto e la rilevanza di questi codici è oggi oggetto di critiche. Vi è da rilevare, però, che in singoli stati dell’Unione questi studi hanno avuto una influenza nell’orientare i legislatori nazionali (si pensi alla legge tedesca sulla modernizzazione del diritto delle obbligazioni, entrata in vigore il 1 gennaio 2002). Da qualche tempo è stata avanzata l’idea di uno strumento opzionale nel campo del diritto contrattuale europeo e cioè non obbligatorio ma utilizzabile solo le parti lo vogliono. Si tratta in realtà di uno strumento che non turba coloro che in Europa sono contrari all’unificazione normativa perché ritengono più utile lasciare aperta la competizione tra gli ordinamenti giuridici al fine di sollecitare quel processo istintivo di selezione della disciplina più efficiente, così come avviene nel libero mercato delle merci e dei servizi. [è evidente che, nel nostro ordinamento interno, non si possa parlare di diritto privato contrattuale europeo, per il semplice fatto che i modelli contrattuali regolati dalle direttive comunitarie, una volta recepiti nell’ordinamento interno, appartengono a questo. Per poter parlare, invece, di diritto privato europeo occorre guardare all’attività svolta dal legislatore comunitario che si caratterizza dalla ricerca di modelli compatibili con gli ordinamenti degli stati europei, assecondando così quel riavvicinamento, di cui parla il trattato istitutivo della Comunità Europea, nei settori nei quali – come quello dei contratti- è ravvisabile un impatto sul funzionamento del mercato interno. Secondo un’opinione diffusa tale riavvicinamento deve andare oltre l’armonizzazione per dare vita ad un sistema contrattuale uniforme e coerente. Si tratta di un lavoro complesso in quanto riguarda un ordinamento giuridico di nuovo genere che si dispone su più piani.]
2. L’intervento comunitario, nella parte che riguarda l’assetto giuridico dei sistemi di scambio (contratto e mercato) ha interessato due principali settori (quando parliamo di diritto contrattuale europeo facciamo riferimento ad una normativa primaria (trattati della Comunità Europea) e ad una normativa secondaria (regolamenti e direttive che riguardano la disciplina della concorrenza e dei consumatori). Altra fonte di diritto comunitario (di provenienza giudiziaria) è costituita dalle decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che, nell’ambito dell’interpretazione delle norme comunitarie, ha elaborato una serie di regole, secondo il criterio della loro compatibilità con gli ordinamenti dei singoli stati membri, applicabili nell’interpretazione del diritto comunitario; del diritto nazionale basato sul diritto comunitario; nonché, nelle materie non ancora espressamente regolamentate ma di competenza esclusiva della Comunità.]:
a) la normativa sulla concorrenza (Competition Law);
b) la normativa sui consumatori (Consumer Protection Law) [nel Trattato di Roma non esiste alcun riferimento alla figura del consumatore, forse perché è considerato beneficiario indiretto della politica economica della Comunità il cui asse portante è costituito dalla libera circolazione dei bene e dei servizi e dalla tutela della libera concorrenza. Negli anni ’70 il Consiglio emana alcune risoluzioni sui diritti fondamentali dei consumatori considerati come diritto alla salute e alla sicurezza; alla protezione dei propri interessi economici; alla tutela giudiziaria, all’informazione, diritto ad essere rappresentati. Ma si tratta ancora di misure non vincolanti. La figura del consumatore emerge nella nota sentenza Cassis de 58 Dijon (febbraio 1979) la quale stabilì il principio del mutuo riconoscimento, nel senso che uno stato membro non può vietare la vendita sul suo territorio di un prodotto fabbricato e/o commercializzato in un altro stato membro, nonostante che il prodotto in parola non corrisponda ai requisiti tecnici o qualitativi diversi da quelli che sono imposti ai propri prodotti. Di maggiore rilievo è la parte della sentenza che si occupa della armonizzazione negativa in base alla quale le legislazioni nazionali vanno disapplicate se incompatibili con la libera circolazione delle merci (art.28 CE), salvo il caso nel quale nella legislazione interna siano previste condizioni di tutela della salute pubblica, dell’ambiente o dei consumatori. La tutela del consumatore, quindi, di competenza del legislatore interno, poteva rappresentare un legittimo ostacolo al commercio intracomunitario. La tutela dei consumatori compare espressamente negli articoli 94 e 95 nel Trattato.] Il diritto comunitario dei consumatori è costituito da un corpus di norme che hanno l’obiettivo di proteggere i consumatori dalla maggiore forza contrattuale delle imprese (professionisti). Bisogna dire, però, che sul piano della costituzione formale (i Trattati), l’originaria finalità dell’intervento comunitario è il buon funzionamento del mercato interno; mentre sul piano della costituzione materiale, l’impianto economico sembra evolversi verso una dimensione sociale, protesa a garantire, accanto all’obiettivo del mercato unico, l’effettività e l’uniformità delle posizioni soggettive tra le quali quelle protette. [il richiamo ai Trattati come fonte di rango costituzionale è motivo corrente nella dottrine europea. Nella letteratura che si è occupata di questo tema il termine costituzione non ha lo stesso significato che si ritrova per le carte fondamentali dei singoli stati, ma sta ad indicare i principi e le regole che sovraintendono ai rapporti tra Comunità e Stati membri e Comunità e cittadini comunitari. L’architettura costituzionale comunitaria poggia sul principio dell’attribuzione di competenze: ciò significa che il potere legislativo della Comunità è limitato ai poteri ad essa esplicitamente conferiti dal Trattato di Roma, tra questi non vi è un potere di regolare il diritto dei consumatori se non in relazione al buon funzionamento del mercato interno.]
L’intervento comunitario in materia di diritto dei consumatori è caratterizzato:
misure relative alla produzione e composizione dei prodotti (sicurezza, qualità ecc.);
da misure relative alla commercializzazione degli stessi.
Queste ultime riguardano sia le relazioni pre-contrattuali (informazioni sul tipo di bene, generalità del venditore, divieto di pubblicità ingannevole, divieto di pratiche commerciali sleali..); che la disciplina del contratto (si pensi all’inserimento di specifici doveri di informazione a cui sovente è collegato un diritto di ripensamento del consumatore sulla convenienza dell’affare; ovvero il divieto di inserzione di clausole vessatorie; o l’obbligo di consegna per il venditore di beni di consumo conformi al contratto. La finalità perseguita dal legislatore comunitario (ai sensi degli artt. 95 e 153 del trattato) è quella di migliorare le condizioni di instaurazione e funzionamento del mercato interno. Il diritto comunitario dei consumatori, quindi, ha per oggetto il commercio transfrontaliero. [importante è la sentenza 5/10/2000 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (ECJ), laddove vi è un chiarimento circa le competenza attribuite alla Comunità e sul fatto che non esiste una indipendenza del diritto dei consumatori dal mercato interno. La finalizzazione del diritto comunitario dei consumatori al miglioramento del mercato interno è enunciata in un documento “libro verde della Commissione sulle opzioni possibili in vista di un diritto europeo dei contratti per i consumatori e le imprese” ove si afferma che l’Unione deve fare di più per agevolare le transazioni transfrontaliere. E duplice obiettivo di questo libro è prospettare possibili strategie per consolidare il mercato interno e lanciare una consultazione pubblica in proposito.] Va rilevato, poi, che gli interventi del legislatore comunitario in materia di contratti del consumatore sono stati frequenti ma frammentari, di modo che al momento manca un 59 quadro normativo pienamente strutturato. Lo stesso principio dell’armonizzazione minima (che muove nel senso di modificare la norma interna nella misura necessaria al conseguimento del risultato che s’intende raggiungere) ha ricevuto, negli anni precedenti, diverse applicazioni negli approcci nazionali, in modo tale da creare ulteriori differenze tra gli Stati membri.La Commissione ha da tempo valutato l’opportunità di un dialogo sull’uniformazione delle legislazioni nazionali in materia di diritto contrattuale, al fine di evitare che il corretto funzionamento del mercato interno sia ostacolato da problemi connessi con la conclusione, interpretazione e applicazione dei contratti transfrontalieri o che le diversità tra gli ordinamenti nazionali scoraggino le transazioni transfrontaliere o ne aumentino i costi. In tale contesto vi sono varie opzioni:
1) promuovere lo sviluppo di principi non vincolanti in materia di diritto contrattuale;
2) rivedere e migliorare l’acquis comunitario del diritto contrattuale;
3) adottare un teso complessivo comprendente disposizioni relative ad aspetti generali di diritto contrattuale e ai singoli contratti. La diversità di queste opzioni sta ad indicare la difficoltà in cui si è mosso il legislatore comunitario che, ad un certo punto, era parso preferire un processo di armonizzazione fondato su un comune quadro di riferimento del diritto privato. Nel 2008, infatti fu pubblicato il testo di un progetto di codice civile europeo [definito progetto di un quadro comune di riferimento (Draft Common Frame of Reference, DCFR)] predisposto da una Commissione di natura accademica coordinata da alcuni professori. Il Draft è composto da 10 libri e da un’appendice di definizioni. Molte sono le novità in materia di contratti. I limiti alla libertà contrattuale sono intesi nel rapporto tra disposizioni inderogabili e disposizioni derogabili, nel rapporto tra legittimazione del potere contrattuale e abuso del potere contrattuale; nell’applicazione del principio di trasparenza e del principio di buona fede e correttezza. Il libro secondo del Draft contiene regole riguardanti il contratto in generale, ma all’interno di ciascun istituto distingue: regole rivolte a disciplinare i contratti conclusi da contraenti non qualificati; regole rivolte a disciplinare i contratti conclusi da consumatori; regole rivolte a disciplinare contratti conclusi da professionisti deboli; regole rivolte a disciplinare contratti conclusi da consumatori deboli. Il primo gruppo di regole contiene disposizioni volte a garantire la trasparenza del contratto, buona fede e correttezza, nonché il divieto di abuso contrattuale. Da questo punto di vista trovano conferma i temi, presenti sia in dottrina che in alcune normative comunitarie, di moralizzazione del mercato, e favorire l’ingresso di istanza sociali ormai non ritenute realizzabili compiutamente dal libero gioco delle forze presenti sul mercato. Il DCFR ha come obiettivo quello di riordinare l’acquis, con riguardo alla vendita, alle informazioni precontrattuali, alle clausole abusive, al diritto di recesso; nonché di incidere sul diritto generale dei contratti. Esso è rivolto al legislatore europeo, a quello nazionale, alle corti, inclusi i tribunali arbitrali, nei casi in cui è necessario dare a un problema (sia che riguardi un contratto transfrontaliero che un contratto domestico) una soluzione accettabile. In realtà, sin da subito, il DCFR fu oggetto di critiche; in quanto, esso sembrava presentare il suo nucleo essenziale nel diritto del consumo, là dove, per poter avviare il processo di uniformazione del diritto contrattuale in Europa, occorreva una disciplina generale del contratto e delle obbligazioni. I primi interventi del legislatore comunitario nel campo del diritto privato, infatti, si sono mossi enfatizzando la retorica della protezione del consumatorie come strumento necessario per abbattere le barriere agli scambi transfrontalieri. Ciò ha favorito una notevole attenzione della dottrina che ha finito per far divenire centrale nell’ambito degli studi sul contratto il problema del contratto del consumatore. Tali studi si sono sviluppati con continui raffronti con la precedente dottrina sul contratto e hanno portato a escludere, da un lato, l’esistenza dell’accordo e delle figure ad esso collegate; dall’altro lato, all’elaborazione, sul presupposto della ricorrenza del consumatore come contraente debole, di una teoria dei rimedi per assicurare più incisiva protezione alla realizzazione dell’interesse, oggettivamente considerato, manifestato dal consumatore col contratto. Nell’aprile del 60 2010 la Commissione Europea sollecita la revisione del DCFR al fine di selezionarne le parti rilevanti per il diritto contrattuale e approntare un diritto opzionale per l’Europa. Altra critica mossa al DCFR è che esso adopera una terminologia e un richiamo a clausole generali di grande indeterminatezza, così da rendere complessa la sua applicazione da parte dei giudici. Vi è ,poi, da chiedersi se sia ragionevolmente praticabile una normativa sui contratti priva di adeguati approfondimenti sui rapporti tra questi e la disciplina dell’illecito o dell’ingiustificato arricchimento. Per l’applicazione dei diritti derivanti dal diritto privato comunitario manca un diritto processuale maturo che affronti il tema dei diritti, della procedura e dei rimedi giuridici. Quest’assenza fa da sfondo alla dottrina dell’autonomia degli Stati membri nel campo del diritto procedurale. La Corte Europea di Giustizia, per attenuare la critica, ha affermato il principio dell’effettività e il principio dell’equivalenza, come principi applicabili sia alla procedura che ai rimedi giuridici. L’interazione tra norme nazionali e comunitarie in materia di diritti, rimedi giuridici e procedura è fondamentale in quanto consente che la normativa comunitaria non viva solo in astratto. Successivamente alla elaborazione del DCFR vi sono state altre iniziative degli organi comunitari. Nel 2011, infatti, viene pubblicata la direttiva 2011/83/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio sui diritti dei consumatori, contenente una proposta di un regolamento per un diritto comune degli Stati membri in materia di vendita. Scopo del provvedimento è quello di proporsi come disciplina della vendita a carattere facoltativo (cioè sottoposto alla scelta delle parti e in concorrenza con tutti gli altri diritti nazionali nonché con le convenzioni di diritto uniforme) e di riguardare un ambito ristretto (quello delle transazioni tra professionisti e consumatori/piccole medie imprese). Tale ambito in una recente proposta sembra essere ancora più circoscritto alla categoria dei contratti on-line e tramite cloud (ci riferiamo al Draft Report: progetto di relazione sulla proposta di regolamento del parlamento europeo e del consiglio relativo a un diritto comune europeo della vendita,del febbraio 2013. Secondo il parere di chi scrive, invece, avrebbe dovuto essere valorizzata la scelta di concentrare la proposta di uniformazione sul contratto di compravendita, che presenta un sufficiente grado di organicità, e lo rende idoneo a partecipare una successiva disciplina uniforme dei contratti in Europa; ma questa opportunità non sembra essere stata colta sino ad ora.) Gli incerti esiti cui si è giunti inducono ad interrogarsi sugli scopi e le modalità di un diritto europeo comune in ambito contrattuale e , in modo particolare, ci si chiede se il diritto di provenienza comunitaria abbia carattere di specialità o, invece, debba essere integrato dai principi e dalle regole che caratterizzano i codici civili. Il punto di riferimento di questo discorso è rappresentato soprattutto dalla disciplina dei contratti con i consumatori. La questione sul carattere del diritto comunitario sui contratti conclusi dal consumatore col professionista ha ricevuto risposte diverse dai legislatori dei singoli stati. In Italia, ad esempio, si è preferito dar vita ad un apposito Codice del Consumo (dlgs. 206/2005) che costituisce un corpo estraneo al codice civile e questa scelta sembra essere giustificata dal fatto che è necessario un processo di rammodernamento del diritto delle obbligazioni e dei contratti. Un autorevole studioso tedesco Zimmermann fornisce il quadro problematico e le criticità dell’attuale stato del dibattito sull’unificazione del diritto contrattuale europeo e infatti egli afferma che: l’obiettivo da raggiungere è molto difficile, in quanto esso consiste nel dover racchiudere circa 30 sistemi legali indipendenti tra loro. Basti pensare che tra questi vi è il common law che è un diritto molto diverso dalla tradizione continentale e che, sino ad oggi, è stato ostile all’idea di una codificazione. Si aggiunge poi che una codificazione del diritto degli illeciti/delitti, dell’ingiustificato arricchimento o dei diritti reali appare inconcepibile; questo perché non vi è una sufficiente base comune a livello strutturale e concettuale e non vi è accordo su quale, tra le soluzioni individuate dagli stati membri dell’Unione Europea, sia la migliore. Gli unici settori in cui una codificazione è immaginabile sono il diritto generale dei contratti e il diritto delle 61 vendite: ma anche qui ci sono delle difficoltà. In definitiva, si ritiene che il progetto di un DCFR è stato un’aberrazione eccessivamente ambiziosa e se poi, tenendo conto dei complessi rapporti tra il diritto dei contratti, degli illeciti/delitti e dell’ingiustificato arricchimento, una codificazione del solo diritto dei contratti sia praticabile, costituisce un altro problema irrisolto.I CONTRATTI TRASLATIVI DELLA PROPRIETA’ IMMOBILIARE.
1. IL MODELLO ITALO-FRANCESE E QUELLO TEDESCO.
Al riparo dalle grandi trasformazioni che hanno investito la teoria del contratto sembra porsi il contratto traslativo della proprietà immobiliare (ci riferiamo alla successione inter vivos, dove l’acquisto è definito come derivativo traslativo.
L’acquisto di diritti reali diversi dalla proprietà, invece, ha carattere derivativo costitutivo:derivativo in quanto deriva da un diritto preesistente col quale ha un rapporto di correlazione e di limitazione reciproca; costitutivo in quanto crea un nuovo diritto qualitativamente diverso da quello da cui deriva) e degli altri diritti reali che in certa misura è ancora quello regolato dal codice, e solo in relazione a determinati profili, da leggi speciali.
La categoria generale che racchiude questi contratti è quella dei contratti di alienazione tra i quali il posto principale spetta alla compravendita (art. 1470).
Nel nostro ordinamento, l’art. 1376 enuncia la regola della sufficienza del nudo patto alla produzione dell’effetto traslativo. La regola ripete quella già presente nel codice del 1865, art. 1448 (che disponeva che la vendita è perfetta tra le parti, e la proprietà si acquista di diritto dal compratore riguardo al venditore al momento che si è convenuto sulla cosa e sul prezzo, quantunque non sia seguita ancora la tradizione della cosa né sia pagato il prezzo. Esso era l’applicazione dell’art. 1125 in base al quale nei contratti che hanno per oggetto la traslazione della proprietà o di altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmette e si acquista per effetto del consenso legittimamente manifestato, e la cosa rimane a rischio e pericolo dell’acquirente, quantunque non ne sia seguita la tradizione. Sulla base di queste disposizioni veniva interpretato l’art. 1447 (definendo la compravendita come un contratto per cui uno si obbliga a dare una cosa all’altro e l’altro a pagare il prezzo) che sembrava, invece, alludere ad una struttura contrattuale meramente obbligatoria) che,a sua volta, derivava da quello napoleonico (art. 1583).Il modello italo-francese si contrappone a quello, di derivazione romanistica, in uso in Germania e in Austria nel quale alla vendita (obbligatoria) –titulus- deve far seguito l’atto attributivo o traslativo della proprietà-modus. [la relazione tra vendita e trasferimento della proprietà nel diritto tedesco si basa sul principio dell’astrattezza nel senso che il passaggio della proprietà, per effetto della vendita obbligatoria, è affidato ad un contratto che può essere definito ad effetti reali. Soluzione parzialmente diversa è nell’AGBG austriaco dove il § 1053 distingue il titolo dell’acquisto dal modo dell’acquisto, costituito dalla traditio. Il sistema austriaco richiede la validità del contratto di vendita come presupposto necessario dell’acquisto della proprietà].
Il modello germanico ci appare il più lineare e corrispondete alla struttura dello scambio, che si avvale della coppia proposta-accettazione e sul piano effettuale della relazione prestazione-contraprestazione (in realtà i tedeschi conoscono il solo contratto obbligatorio.
In Italia la definizione, ex art.1321, è comprensiva di una pluralità di fattispecie molto diverse tra di loro per il fatto che noi manchiamo, a differenza dei tedeschi, di una disciplina positiva del negozio giuridico). Nell’altro modello, invece, l’effetto traslativo è anticipato rispetto al pagamento del terzo. Al di sotto di queste distinzioni vi sono diverse scelte di politica legislativa.
Il modello italo- francese dovrebbe tutelare in maniera più efficace le ragioni dell’acquirente dal pericolo che il venditore, ripensandoci, possa, poi, non trasferire la proprietà. Quanto al venditore opererebbe la garanzia ex art. 2817 n.1.
Il modello germanico, invece, avrebbe il vantaggio di garantire maggiormente le ragioni creditorie del venditore, e di dare più flessibilità alla vendita, in quanto obbligatoria, nella regolamentazione di interessi non sempre coincidenti con le ragioni dello scambio (si pensi alla materia delle garanzie e dei trasferimenti fiduciari).
Nel modello italo-francese, in realtà, la tutela dell’acquirente sembra parziale in quanto essa si completa rispetto ai terzi solo con la trascrizione (che configura una sorta di modus adquirendi). [è noto che ai sensi dell’art. 1372 il contratto produce i suoi effetti tra le parti e non riguardo i terzi. Rispetto a ciò che è richiamato nel testo, l’ipotesi più nota è quella della vendita, con successivi atti, da parte del proprietario del medesimo diritto a due persone diverse. È evidente che nel secondo trasferimento manca al venditore la legittimazione a trasferire in quanto, con la prima alienazione, la titolarità del diritto è passata al primo acquirente. Ciò nonostante, ai sensi dell’art. 2644, comma 2, l’apparente conflitto così creato tra i due acquirenti si risolve in favore di chi abbia per primo trascritto, anche se secondo acquirente, purchè nel rispetto della continuità delle trascrizioni prevista ex art. 2650 c.c. Da questo punto di vista non può venire in evidenza l’effetto traslativo del secondo contratto- non avendo più il venditore la titolarità del diritto- semmai un effetto acquisitivo a non domino previsto in sede di trascrizione della norma richiamata.]
Per quanto riguarda il modello tedesco, invece, può dirsi che da un lato, nella pratica, vendita e atto di disposizione finiscono per coincidere, dall’altro lato, che esso s’innesta in un sistema (quello tedesco) che riconosce all’autonomia privata spazi maggiori rispetto a quello italiano.
I due modelli non differiscono solo sul piano della struttura, in quanto sia l’uno che l’altro si collocano in sistemi diversi di pubblicità immobiliare (di fronte al nostro sistema di pubblicità dei diritti reali immobiliari- attuato mediante l’istituto della trascrizione e , per le ipoteche, con la iscrizione- si pone il sistema germanico dei libri fondiari dove l’iscrizione del trasferimento nel libro fondiario è requisito essenziale perché la proprietà passi non solo nei confronti dei terzi ma anche tra alienante e venditore. Considerato che il solo consenso delle parti non è di per sé sufficiente a trasmettere la proprietà o altro diritto reale è necessario che vi sia una dichiarazione delle parti a voler trasmettere e ricevere la proprietà resa innanzi all’ufficiale del libro fondiario).
Anche il nostro modello conosce ipotesi nelle quali è presente una separazione tra il contratto e il verificarsi della sua efficacia reale (sia pure con modalità diverse). In proposito, è a volte richiamata la vendita obbligatoria nella quale, ferma l’efficacia del consenso,, è pure sempre implicata un’obbligazione di far acquistare la proprietà che trova attuazione o col medesimo accordo, nel caso di cosa certa e determinata; ovvero ha necessità di ulteriori atti di adempimento, ma senza ripetizione del consenso, se si dovessero frapporre ostacoli al trasferimento (Gorla ritiene che in tema di vendita obbligatoria il consenso non abbia funzione traslativa, ma è fonte di un obbligo al compimento dell’atto che produrrà il trasferimento del diritto. Rispetto alla posizione del Gorla si presenta una discussione sull’obbligo di trasferire, risalente agli anni ’50 che è ben riassunta nel pensiero di Cariota Ferrara, secondo il quale l’obbligo di trasferire non è null’altro che l’obbligo di compiere un negozio di trasferimento con ciò criticando Gorla che parlava di obbligo di trasferire come obbligo di dare. Dall’obbligo di trasferire va tenuto distinto l’obbligo di intestare i beni ad altri come capita nella simulazione quando l’acquirente apparente ritrasferisce al finto alienato i beni oggetto del negozio simulato. Questo atto non è un trasferimento e ha bisogno di una mera volontà a dichiarare e non di una volontà negoziale).
Altra ipotesi è quella del contratto preliminare che a tenore di una tesi ricalca nel suo rapporto col definitivo il modello binario tedesco. Anche da questo punto di vista si conferma l’idea che il preliminare, più che ad assolvere una funzione preparatoria al definitivo, risponde ad un piano d’interesse delle parti distinto da quello che avrà ingresso col definitivo. La tematica del preliminare rappresenta una direttiva che indica la possibilità che l’investitura della titolarità di un bene possa avvenire in forza di un atto dispositivo di attuazione di un assetto d’interesse previamente definito [si pensi all’ipotesi del mandato ad acquistare ex art. 1706, comma 2; al riscatto nelle prelazioni legali; agli obblighi di dare negli accordi traslativi tra coniugi.
(Luminoso in proposito propone una classificazione distinguendo tra
1) pagamenti traslativi, tra i quali annoverare: gli atti di trasferimento del bene immobile acquistato dal mandatario senza rappresentanza, l’atto di trasf. Da parte dell’onerato nel legato di cosa di terzo, il negozio di esecuzione del contratto preliminare ad effetti anticipati, gli atti di puro trasf. Posti in essere in attuazione di accordi quadro (es. concessione di vendita), negozi traslativi di proprietà esecutivi di obbligazioni di risarcimento del danno in forma specifica, gli accordi traslativi tra coniugi posti in occasione della crisi familiare;
2) negozi di attuazione di pure trasferimenti, costituti da i conferimenti della proprietà di beni in società, dai contratti traslativi solvendi causa, dall’adempimento di obbligazioni naturali;
3) contratti traslativi atipici: negozio fiduciario, l’alienazione in funzione di garanzia, trust e atti di destinazione.)]Si può richiamare nel novero delle ipotesi nelle quali la fattispecie acquisitiva attende un completamento del titolo, il caso del negozio nullo nel quale la rilevanza del titolo è commisurata alla sua astratta idoneità a produrre i suoi effetti. In questa ipotesi l’effetto traslativo della proprietà si realizza col concorso degli elementi successivi richiesti per l’usucapione abbreviata. Tutto ciò è molto diverso dallo schema dell’usucapione ordinaria non solo per la durata del termine ma anche per la irrilevanza in questa del giusto titolo e della buona fede. Sarebbe del tutto affrettato concludere che nel nostro sistema vi sono fattispecie nelle quali il trasferimento della proprietà riprende la struttura del doppio contratto alla tedesca. Questa conclusione, pur avendo il merito di sottolineare l’insufficienza dello schema ex art 1376 a soddisfare le varie esigenze del traffico giuridico, non porterebbe ad alcun guadagno interpretativo sul piano della concreta disciplina. Il problema consiste nel verificare gli spazi che nel nostro ordinamento può godere l’autonomia privata nel costruire in concreto fattispecie nelle quali la realizzazione dell’effetto traslativo è affidato ad una fase successiva rispetto alla vendita.
IL PROBLEMA DELLA TIPICITA’ DEI CONTRATTI TRASLATIVI.
I contratti traslativi della proprietà per lungo tempo sono stati ritenuti solo tipici. Questa opinione può essere ricollegata alla considerazione che il risultato che con tali contratti s’intende raggiungere riguarda il trasferimento della proprietà: cioè di un diritto ritenuto tipico.
La possibilità di affidare ad un negozio atipico la possibilità di produrre l’effetto traslativo solleva un duplice ordine di problemi: uno di contenuto, l’altro di struttura.
Con il primo problema alludiamo al fatto che attraverso negozi traslativi della proprietà atipici si possa dar vita ad un programma negoziale che vada oltre la sola produzione dell’effetto reale, nel senso di investire e modificare il contenuto di questo diritto, inserendo precetti negoziali in luogo o in aggiunta alle regole legali. Bisogna, però, precisare che non si vuole affermare che il carattere tipico del contratto avrebbe la funzione di assicurare uno schema chiuso a protezione della tipicità della proprietà e del numero chiuso dei diritti reali. L’effetto traslativo, in realtà, è presente in una vasta area di tipi negoziali (compravendita, permuta, somministrazione ..) rispetto a quali esso non sempre è destinato da solo a designare l’esito finale delle singole vicende negoziali a cui inerisce. In questo contesto, il diritto reale trasferito può assumere connotazioni che precedentemente non aveva, ma in ogni caso connotazioni con i suoi carattere generali. Il problema allora è quello dii vedere se attraverso il contratto si possano dettare regole che, iscritte nello statuto della proprietà, siano impegnative anche nei confronti dei terzi. In ciò risiede la questione circa la competenza privata a dare vita a diritti reali atipici. L’argomento non è di agevole soluzione e la regola in virtù della quale il contratto ha effetto solo tra le parti ( ex art. 1372, comma 1) farebbe propendere verso la soluzione dell’esclusivo rilievo personale dei precetti in parola. Va poi aggiunto che non è alcuna ragione sistematica per mettere in dubbio l’esattezza di questa regola
Il secondo problema riguarda la struttura del negozio traslativo nel senso che un suo elemento portante (l’effetto traslativo) possa essere affidato a un distinto atto o negozio. La risposta a questi quesiti finisce per risolversi col richiamo al tema dell’atipicità ogni qual volta sia presente nei contratti traslativi uno sganciamento tra il momento programmatico (la vendita) e quello esecutivo (la realizzazione dell’effetto traslativo).È bene soffermarsi allora sulla funzione tipizzante dell’effetto traslativo nei contratti di alienazione. È necessario sottolineare a tal fine che il trasferimento della proprietà non ha in sé alcun rilievo funzionale, trattandosi di una prestazione inespressiva della finalità che il contratto è chiamato a svolgere nell’economia delle parti (causa solvendi, credendi e donandi). È evidente che il significato di questa prestazione (l’elemento giustificativo dell’attribuzione) non può prescindere dall’essere inserito in un negozio traslativo causale. Ciò porterebbe a concludere che il nostro ordinamento non conosce un negozio di trasferimento dei diritti reali autonomo. Si tratterebbe di una obbligazione senza causa che nel nostro sistema non può aver alcun effetto se si tengono presenti le disposizioni contenute negli artt. 1325, n.2 e 1418, comma 2.
Ipotesi diversa è quella nella quale sussistendo il negozio causale codesta prestazione sia affidata a diverso e autonomo negozio, in modo tale da essere solo apparentemente isolata. Il problema sarà quello della expressio causae nel documento contenente codesto negozio traslativo. Si tratta di un principio giurisprudenziale in base al quale per la validità giudiziale di un documento riguardante un negozio traslativo immobiliare deve essere indicata la giustificazione causale del trasferimento. La soluzione di questo problema può essere affidata all’insegnamento in base al quale neppure nei negozi solenni si richiede che la causa giustificativa dell’attribuzione risulti dalla documentazione scritta. Una conferma di ciò può essere ricavata dall’art. 1988, i quale fissa non già il principio della invalidità di ogni altro negozio non contenente indicazione di causa, bensì la diversa regola in base alla quale spetta a chi agisce l’onere di provare la causa in tutti i negozi che, prestandosi in astratto a realizzare una molteplicità d’interessi, non sono in grado per la loro natura di individuare l’interesse fondamentale.(SCALISI).
3. IL TIPO E L’ARTICOLO 1322 DEL CODICE.
Nel suo significato originario il tipo si colloca nei confronti della realtà come misura, comparazione o modello. Per Larenz il tipo è una descrizione, mentre il concetto è una definizione. Il tipo, nonostante la sua corrispondenza al singolo fenomeno è una generalità, per l’indefinita verifica di cui è suscettibile. Generalmente il termine tipo è adoperato nell’accezione più ristretta di tipo legale, cioè normativamente descritto e disciplinato dal legislatore.
Nel nostro ordinamento la norma che consente alle parti di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare è contenuta nel comma 2 dell’art. 1322 la quale precisa che tali contratti debbano essere diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela, secondo l’ordinamento giuridico.
Altra regola importante è quella contenuta nell’articolo 1322, comma 1 secondo la quale le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge.
Tra le due disposizioni (la prima riguardante il potere di dare vita a nuove figure negoziali non tipizzate e la seconda di determinare liberamente il contenuto del contratto o di singole clausole) si pone una linea di confine oscura in quanto non è sempre agevole fissare i limiti che discriminano l’una dall’altra ipotesi.
Secondo dottrina autorevole è la funzione del contratto a discriminare la tipicità dall’atipicità, quest’ultima intesa come distacco da una funzione contrattuale legalmente tipica (per certi aspetti questo modo di procedere richiama la teoria della mistione contrattuale in base alla quale l’interprete deve individuare la prestazione principale o prevalente per poi dedurre a quale tipo fare ricorso per individuare la disciplina applicabile). Un primo sostegno al nostro lavoro interpretativo (cioè quello di chiedersi se appartiene alla competenza dispositiva dei privati lo scindere il momento della conclusione del contratto dall’effetto traslativo) proviene da una constatazione in base alla quale le parti possono concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare se diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela, secondo l’ordinamento giuridico. La meritevolezza degli interessi da realizzare viene a coincidere col rispetto delle norme inderogabili, cioè quelle la cui violazione comporta una sanzione d’invalidità (è difficile fissare quale sia l’area fissata dalle norme inderogabili: certamente le singole norme proibitive che si traducono in divieti e comportano invalidità della disposizione adottata in loro violazione; ma anche quelle che pur non contenendo un espresso divieto sono collegate ad una disciplina ritenuta inderogabile (si pensi alle norme sulla tipicità e sul numero chiuso dei diritti reali); nonché quelle legate alla coerenza sistematica della fattispecie). Allo stesso tempo, la meritevolezza dell’interesse finisce per coincidere col rispetto della sfera giuridica dei terzi.A tal proposito Graziani dice che la libertà consentita ai privati dall’ordinamento giuridico si estende al ristretto campo dei negozi che sono destinati ad avere efficacia solo nei confronti delle parti contraenti.
Di conseguenza quando un negozio è destinato ad avere efficacia non solo tra le parti contraenti (si pensi al contratto di società che è sempre destinato a produrre effetti nei confronti dei terzi) a garanzia dei terzi il negozio deve essere posto in essere negli schemi previsti dal legislatore.
Sotto altro profilo riteniamo di dover condividere l’idea che, da un lato, l’atipicità riguardi la competenza dei privati a comporre fattispecie contrattuali non annoverate nella tipologia legale; mentre, dall’altro lato, non può essere riferita all’impiego di tecniche formative del contratto ulteriori rispetto a quelle predisposte dall’ordinamento. In questo contesto riemerge nella tematica del tipo il ruolo svolto dalla funzione e questo spiega come nell’ottica dell’art. 1322 non è riconosciuta ai privati alcuna competenza a comporre tipi innominati astratti.
Tali premessi sottolineano la prospettiva secondo cui nei negozi traslativi è possibile separare il momento di realizzazione della fattispecie (si pensi ai contegni dichiarativi e ai loro presupposti (capacità, legittimazione..)) dalla produzione delle situazioni effettuali (passaggio della proprietà). Ciò non solo perché manca nella disciplina relativa un esplicito divieto ma anche perché vi è una espressa previsione nell’art. 1476, sub n.2 del codice, allorchè colloca tra le obbligazioni principali del venditore quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l’acquisto non è effetto immediato del contratto. La regola trova concreta applicazione in altre disposizioni del codice che prevedono vendite obbligatorie nelle quali è presente il differimento dell’effetto traslativo come avviene nelle vendite obbligatorie (vendita di cosa futura, vendita di cosa altrui, vendita di cosa generica). Ciò conferma che l’effetto traslativo, ex art. 1376, non rappresenta un elemento di necessaria coerenza interna del contratto e che non vi sono ragioni sufficienti nel sistema per escluderne la derogabilità. Ora se è vero che le situazioni di atipicità sono quelle che investono la funzione si affaccia il dubbio che nei contratti nei quali le parti hanno disposto un differimento dell’effetto traslativo, affidandolo ad un successivo atto, si possa parlare di atipicità in considerazione del fatto che l funzione che rileva in questo contratto è ragguagliabile a quella prefigurata dal legislatore nella disciplina della vendita (contratto che rappresenta la più frequente ipotesi di scambio). Aderendo, però, all’idea che l’atipicità rileva nella misura in cui è investita la funzione del contratto, si dovrà convenire che le alterazioni convenzionali dello schema legale (quelle che evocano il giudizio di meritevolezza) finiscono per riguardare le ipotesi nelle quali lo scopo pratico perseguito dalle parti è altro rispetto allo scambio, come capita, ad esempio, nella garanzia e nella fiducia.
Ma qual è la sorte di un atto traslativo atipico rispetto ai terzi? Si è già detto che il contratto ha effetto tra le parti e ha come limite il non potere riservare al terzo un trattamento deteriore rispetto a quello assicuratogli dalla legge. Il nostro codice, inoltre, riserva ai terzi vantaggi ulteriori anche nelle ipotesi in cui il contratto di trasferimento sia affetto da invalidità. In tal senso depone sia l’art. 1445 in base al quale l’annullamento che non dipende da incapacità legale non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso da terzi in buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento; sia l’art. 1415, comma 1 dettato in tema di acquisti dal simulato acquirente, il quale stabilisce che la simulazione non può essere opposta, né dalle parti contraenti né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione (le due norme citate accordano al fenomeno della circolazione dei beni – con speciale riguardo alla posizione sia dell’acquirente che del terzo- una sorta di maggiore favor verso la stabilità delle modificazioni intervenute rispetto al contratto che sostiene il fenomeno stesso). Ritornando al nostro quesito (su quale sia la sorte di un atto traslativo atipico rispetto ai terzi) non sembra ragionevole ritenere che,a tutela del pregiudizio che potrebbe sopportare il terzo, si debba invocare una sanzione di invalidità dell’atto stesso, giacchè si tratterebbe di misura eccessiva rispetto al risultato che s’intende raggiungere e contraddittoria nei confronti di una libertà riconosciuta alle parti. Un argomento normativo che può aiutarci ad individuare una soluzione ci è dato dall’art. 1379, dettato in tema di divieto di alienazione. La norma dispone che il divieto di alienazione stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, se contenuto entro convenienti limiti di tempo e se rispondente ad un apprezzabile interesse di una delle parti. Ciò significa che il divieto di alienazione non può avere rilievo reale con la conseguenza che non è opponibile ai terzi. La conclusione si può trarre, generalizzando il principio che informa il divieto in parola, è che i precetti privati che riservano al terzo un trattamento deteriore rispetto a quello assicuratogli dalla legge, sono impegnativi solo per le parti del contratto che li hanno posti in essere. D’altro canto, il principio di tutela dei terzi resta salvaguardato a sufficienza ogni qual volta siano rispettate le forme di pubblicità previste dalla legge.
LA PRODUZIONE DELL’EFFETTO TRASLATIVO.
Quanto detto fino ad ora ci permette di affermare che le parti possono tenere separata la vendita immobiliare dalla produzione dell’effetto traslativo, derogando a quanto disposto dall’art. 1376, purchè non sia pregiudicata la posizione del terzo.
Facendo perno sulla tutela del terzo-che si realizza mediante la non opponibilità di clausole comportanti un trattamento deteriore rispetto a quello riservatogli dalla legge- e sul principio di relatività del contratto sembra lecito ritenere che siano meritevoli di tutela, ex art. 1322, comma 2 anche i negozi di trasferimento che perseguono una funzione diversa da quella della vendita, come ne è esempio il contratto fiduciario. [Si è molto discusso sull’ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico di un negozio mediante il quale si attua il trasferimento – sorretto dalla causa fiduciae (cum amico: gestione; o cum creditore: garanzia)- strumentale e temporaneo della proprietà di uno è più beni dal fiduciante al fiduciario con obblighi, consacrati nel factum fiduciae, di gestire e amministrare il bene e di ritrasferirlo o trasferirlo a un terzo beneficiario. Secondo Grassetti l’effetto traslativo è giustificato dal fatto che il fiduciario assume obblighi; Cariota Ferrara parla invece di un eccesso del mezzo adoperato rispetto alle finalità perseguite dalle parti e dell’esistenza di motivi d’incompatibilità con le architetture concettuali del sistema, relative al profilo della causa negoziale e a quello del numero chiuso dei diritti reali. Secondo Pugliati l’atto traslativo fiduciario (comportando un trasferimento provvisorio della proprietà ed una compressine del contenuto di questo diritto sia per quanto attiene alla facoltà di godimento che per quanto si riferisce ala facoltà di disposizione) ridurrebbe la proprietà fiduciaria ad una proprietà formale del tutto estranea al nostro ordinamento positivo. Un lungo processo di revisione delle cause di attribuzione patrimoniale e della teoria della proprietà ha portato recenti proposizioni dottrinali a ritenere ammissibile nel nostro ordinamento la causa fiduciae quale titolo idoneo al trasferimento del bene. È dato riscontrare che mentre si piò pensare alla piena validità dei rapporti interni tra fiduciante e fiduciario, assistiti da rimedi di stampo obbligatorio, resta, invece, aperto il problema del rilievo reale che il trasferimento fiduciario può avere sulle sfere giuridiche aliene. Alludiamo al problema della sua opponibilità nei confronti del terzo avente causa dal fiduciario che ha trasferito in violazione degli obblighi assunti; ovvero nei confronti dei creditori dello stesso fiduciario che agiscono esecutivamente sul bene fiduciariamente trasferito. Pensiamo che la inopponibilità della causa fiduciae si fondi sul principio del numero chiuso dei diritti reali che non consente la costruzione di diritti reali atipici; dall’altro, sulla impossibilità di dare vita a patrimoni separati in contrasto con quanto disposto ex art. 2740 c.c. E’ stato proposto di superare questo impasse col ricorso al contratto di mandato; in virtù di questa disciplina il mandante (fiduciante) è in grado di rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario; o di chiedere, invece, in caso di inadempimento del mandatario (fiduciario), il trasferimento in suo favore dei beni immobili o mobili registrati, acquistati per suo conto anche nei confronti dei terzi che abbiano acquistato in mala fede. Questo discorso è per alcuni aspetti discutibile in quanto gli obblighi posti a carico del mandatario conducono ad evidenziare la produzione di singoli atti e non appaiono funzionalmente indirizzati a far emergere un’attività di gestione.] Il problema sorge nel momento in cui l’effetto traslativo o non è affidato all’operare del termine o della condizione ma avviene per il tramite di atti o negozi unilaterali, posti al di fuori dei contratti tipici che adempiono a tale funzione. In proposito parte della dottrina italiana ha affermato che una nozione non formale di causa (svincolata cioè dal tipo negoziale) può fungere da giustificazione obiettiva di qualsiasi spostamento patrimoniale e non può dubitarsi che un idoneo riferimento causale assista il trasferimento attuato dichiaratamente per adempiere un’obbligazione preesistente, l’allusione è alla causa solvendi. È innegabile che il nostro ordinamento non conosce una disciplina della prestazione isolata consistente nel trasferimento della proprietà, salvo innestarla in una fattispecie contrattuale tipica. Nelle ipotesi di cui si discute siamo in presenza di un dovere di trasferire il cui antecedente logico-giuridico è rappresentato dal contratto che lo prevede, in tal modo da escludere qualsiasi appiglio ad una sorta di astrattezza dell’atto di trasferimento. Né appare convincente l’idea (che ha origini tedesche) di far coincidere l’obbligo di trasferire con un vero e proprio obbligo a contrarre. Si tratta di una soluzione artificiale in quanto non spiega la vicenda ma si limita a sovrapporre una fittizia volontà delle parti a trasferire che si sommerebbe a quella già espressa col precedente contratto nel quale non è regolato alcun obbligo a contrarre, ma al più l’attuazione dell’effetto reale. A favore di questa veduta vi sarebbe l’art. 1706, dettato in tema di acquisti del mandatario e del suo obbligo a ritrasferire: il comma 2 di questo articolo prevede che in caso d’inadempimento del mandatario si osservano le norme relative all’obbligo di contrarre. In tale ambito ci sembra convincente l’opinione secondo cui il richiamo all’art.2932 non implica necessariamente che il dovere di trasferire sia null’altro che un obbligo a contrarre in quanto la norma rappresenta una manifestazione della tendenza volta ad assicurare al creditore, in luogo del rimedio minore del risarcimento, la res, ogni qual volta ciò sia, di fatto, possibile. (Montuschi). L’idea che il trasferimento della proprietà possa in alcuni casi prodursi alla stregua di una isolata prestazione trova, ad esempio,riscontro nell’obbligazione di conferimento che incombe al socio nelle società di persone (ex art. 2253) [nelle società di capitali l’art. 2342, comma 3 dispone che per i conferimenti dei beni in natura le azioni corrispondenti debbono essere immediatamente liberate alla sottoscrizione: da ciò si desume che l’effetto immediatamente traslativo sia legato alla sottoscrizione del contratto di società]. Si discute se il contratto in parola (obbligo di conferimento del socio nelle società di persone ) contenga un’obbligazione di dare seguita da un pagamento traslativo ovvero se l’effetto traslativo scaturisca direttamente dal contratto. La disciplina del conferimento di beni immobili in società di persone sottolinea fornisce la possibilità che gli atti di trasferimento di beni immobili possono dar vita ad un programma negoziale in grado di obiettivare all’interno dello schema del diritto significati funzionali (vincoli, limiti, obblighi) destinati a modificarne convenzionalmente la struttura. Infatti, in tali conferimenti viene attuata una modificazione della titolarità (la proprietà passa dal socio alla società) che producendo l’inserimento del bene nell’azienda, imprime sullo stesso una destinazione economica, nel senso che esso risulta stabilmente legato al programma di attività intorno al quale è costituita l’azienda. Va rilevato allora che per effetto del conferimento sono selezionate le utilità che il bene può erogare in dipendenza del suo inserimento nell’azienda, la cui disciplina ne diverrà elemento caratterizzante (art. 2555 ss). Questo aspetto può essere meglio rilevato se si pone a confronto la funzione del bene sociale con la situazione in cui versa il bene in comunione: nella comunione è assente un programma di attività e i contitolari non perseguono altra utilità diversa da quella derivante dal bene da dividersi pro quota.
IL DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO E I CONTRATTI DI ALIENAZIONE A SCOPO DI GARANZIA.
I trasferimenti immobiliari spesso svolgono una funzione di garanzia del credito [col termine garanzia (specifica) si designa un genus nel quale si riconducono numerose figure tenute insieme dal fatto che svolgono la comune funzione di rafforzare l’aspettativa del creditore ad ottenere la prestazione dovuta dal debitore sia ponendo accanto a questi un altro soggetto obbligato; sia concedendo al creditore una posizione di esclusività o preferenza su di un bene.
Il tratto qualificante di tute le garanzie è il loro affidamento a un rapporto principale (cd. Carattere dell’accessorietà) anche se vi sono ipotesi, nel campo delle più duttili garanzie personali, nelle quali si assiste ad una sorta di distacco tra credito e garanzia (cd. Contratto autonomo di garanzia) per la diversa funzione che il relativo contratto assolve: non più rivolta al pagamento del debito principale, ma a indennizzare il mancato evento-prestazione. Il problema di fondo è quello di bilanciare il rapporto che corre tra l’esigenza di potenziare la tutela del credito, l’interessa ad una circolazione della ricchezza la più libera possibile e senza intralci e la tutela degli altri creditori.]
Varie sono le ragioni che inducono a ricercare una soluzione alternativa ai tradizionali istituti codicistici di sicurezza del credito, soprattutto con riguardo alle garanzie reali tipiche che presentano una notevole rigidità. Si pensi all’ipoteca che non può circolare autonomamente rispetto al credito garantito; oppure al ricorso a procedure esecutive giudiziali lunghe e costose che spetto portano a un ricavato inferiore al valore del bene. L’autonomia privata per questo motivo ha creato la categoria dei contratti di alienazione a scopo di garanzia che presentano una complessità nella misura in cui si intrecciano con la disciplina della responsabilità patrimoniale del debitore (questa disciplina poggia sul principio della responsabilià patrimoniale illimitata del debitore, il principio della par condicio creditorum e della tipicità delle cause legittime di prelazione e il divieto del patto commissorio).
La stipulazione commissoria si sviluppa nella pratica per contrastare la rigidità del sistema delle garanzie reali col ricorso, ad esempio, a operazioni di trasferimento di diritti a scopo di garanzia del credito (alienazioni fiduciarie, cessioni) in luogo della costituzione di garanzie reali tipiche. Anelli ha sottolineato che l’essenza delle alienazioni a scopo di garanzia può individuarsi nella predisposizione di una modalità di estinzione alternativa del credito mediante il trasferimento al creditore della proprietà della cosa costituita in pegno o oggetto di ipoteca: questo effetto traslativo, in funzione satisfattiva, è programmato già prima del verificarsi dell’inadempimento, al momento della costituzione della garanzia. Si tratta di una regolamentazione ex ante della fase patologica del rapporto obbligatorio.
L‘articolo 2744 (divieto del patto commissorio) dispone che è nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore (comma 1); ciò, anche se il patto è stipulato posteriormente alla costituzione dell’ipoteca o del pegno (patto commissorio ex intervallo) (comma 2). Il codice configura il patto come contratto di alienazione che accede a una garanzia reale tipica e il cui effetto traslativo è sospensivamente condizionato all’adempimento del rapporto garantito. Le ragioni di questo divieto sono,da un lato, l‘esigenza di tutelare il debitore pressato dal bisogno di liquidità e, dall’altro lato, la tutela dei creditori chirografari diversi dal beneficiario del patto. La dottrina più risalente osserva che sul piano sistematico il patto realizza una sorta di proprietà temporanea (in violazione del principio del numero chiuso dei diritti reali) in quanto il trasferimento all’acquirente/creditore è destinato a venir meno al verificarsi dell’adempimento del debito garantito in dipendenza di un obbligo a ritrasferire gravante sul creditore/fiduciario; ovvero, in alternativa, per l’operare retroattivo di una condizione risolutiva, rappresentata dall’evento adempimento. Sul piano strutturale si osserva che la causa di garanzia è idonea a giustificare un trasferimento della proprietà.
La giurisprudenza ha esteso l’ambito applicativo dell’art. 2744 (divenuta così norma materiale e non formale) a tutte le ipotesi nelle quali è presente un programma traslativo della proprietà in funzione di garanzia [la costruzione di una categoria giurisprudenziale di trasferimenti commissori si deve alla nota sentenza Cass. 3800/1983, confermata da Cass. Sez. Un 1611/1989 e seguita da Cass. Sez Un. 1907/1989. Il merito di questo indirizzo giurisprudenziale è quello di aver escluso distinzioni formali ed essersi chiesto se un dato contratto traslativo realizzasse in concreto una elusione del divieto di cui all’art. 2744, in quanto alienazione conclusa per un esclusivo scopo di garanzia (con applicazione della sanzione di nullità, se pur attraverso la mediazione della norma ex art. 1344).
Merita particolare attenzione il contratto di sale and lease-back (locazione finanziaria di ritorno) rispetto al quale ci si è chiesto se finisce in pratica per aggirare il divieto del patto commissorio. La struttura economica del contratto prevede la combinazione in un unico nesso funzionale dei seguenti elementi :
- uno scopo di finanziamento che si realizza attraverso la trasformazione di beni in liquidità (il prezzo pagato dall’acquirente-concedente);
- la restituzione del finanziamento col pagamento dei canoni;
- l’alienazione di un determinato bene;
- un patto di riacquisto.
La contiguità col patto commissorio è evidente soprattutto se si considera che generalmente nella prassi contrattuale rischi e oneri inerenti la cosa restano in capo all’utilizzatore. Si è osservato che nel sale and lease-back non si ravvisa un preesistente rapporto di debito-credito tra i soggetti protagonisti dell’operazione; che la vendita non si presenta come contratto accessorio a scopo di garanzia, ma come contratto collegato strutturalmente a quello di leasing, funzionale alla realizzazione dell’assetto d’interessi perseguito dalle parti (si parla di vendita a scopo di leasing e non a scopo di garanzia) e che la compravendita è pura non essendovi condizioni né sospensive né risolutive. A ciò si aggiunge che il modo in cui il diritto di proprietà si atteggia nello schema sottolinea una indifferenza del concedente sulla sorte finale del bene. Emerge poi che la titolarità del bene rimane al concedente semplicemente perché è necessario alla dinamica del rapporto e che l’intestazione al lessor non è fatta per attribuirgli una garanzia reale ma per attuare l’interesse dell’utilizzatore. Dopo posizioni altalenanti la giurisprudenza fissa le condizioni di piena validità del contratto nei seguenti punti: la
- qualità delle parti contraenti nel senso che esse dovranno essere, da un lato, un’impresa o un lavoratore autonomo; dall’altro un’impresa di leasing;
- la natura del bene oggetto dell’operazione nel senso che dovrà essere un bene strumentale all’esercizio dell’impresa;
- i criteri di determinazione del prezzo della vendita, dei canoni e del prezzo d’opzione al fine di evitare una sproporzione tra le prestazioni di ambo le parti; la considerevole durata del rapporto.Va, invece, dedotto l’esistenza di uno scopo di garanzia, in violazione dell’art. 2744, quando manchi uno o più elementi caratterizzanti il tipo sociale di lease-back; o vi siano difficoltà economiche dell’impresa venditrice, che possono far presumere un approfitta mento della situazione di debolezza da parte dell’acquirente. I
n questo quadro va ricordato che il d.lgs n. 170/2004 parla di contratti di garanzia finanziaria anche con riguardo ai contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia, ivi compreso il contratto di pronti contro termine e qualsiasi altro contratto di garanzia reale avente ad oggetto attività finanziarie e volto a garantire l’adempimento di obbligazioni finanziarie.
In tal modo si realizza un riconoscimento ribadito nell’art. 6 del d.lgs. 170/2004 ai sensi del quale ai contratti di garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia non si applica l’art. 2744c.c. Dal contesto di questa disciplina risulta che l’ammissibilità del trasferimento a scopo di garanzia si lega alla presenza e all’operare di una regola che stabilisce l’equivalenza tra il valore della garanzia legittimamente trattenibile dal creditore e l’entità del credito garantito, di fatto attribuendo al trasferimento la sola funzione di consentire al creditore la gestione diretta delle conseguenze dell’inadempimento del debitore]. Ricordiamo le seguenti ipotesi: - vendita stipulata tra debitore (alienante) e creditore (acquirente) sottoposta alla condizione sospensiva dell’inadempimento del debitore (c.d. patto commissorio autonomo in quanto non collegato a costituzione di pegno o ipoteca). A tenore di un orientamento dottrinale il patto commissorio autonomo avrebbe “una funzione diversa dalla garanzia, ponendosi come alternativa alle conseguenze dell’inadempimento”, sarebbe valido ove svolgesse funzioni creditizie o solutorie. Mentre se la funzione di garanzia dovesse essere qualificante, la conclusione muterebbe radicalmente, perché allora il patto commissorio autonomo si porrebbe in contrasto con alcuni principi del nostro ordinamento. - vendita stipulata tra debitore (alienante) e creditore (acquirente) ad effetti immediati, ma risolutivamente condizionata all’adempimento del debitore (vendita con patto di riscatto e con patto di retrovendita).È diffusa l’opinione che attribuisce alla vendita con patto di riscatto una possibile funzione di garanzia. Tuttavia, se si conviene che la garanzia presuppone la preesistenza di un rapporto obbligatorio garantito, allora deve riconoscersi il dubbio che la vendita con patto di riscatto possa avere funzione di garanzia. Atra parte della dottrina preferisce riconoscere nella vendita con patto di riscatto una funzione di finanziamento pur attribuendo al trasferimento della proprietà una generica funzione di garanzia della restituzione della somma oggetto di tali finanziamenti.
- stipula di mutuo con contestuale promessa di vendita di un bene per il caso di inadempimento dell’obbligo di restituzione delle somme mutuate (patto commissorio);
- mandato a vendere l’immobile da eseguirsi nel caso di mancato adempimento dell’obbligazione, ritenuto valido per la diversa struttura che ha rispetto al patto commissorio, giacchè l’immobile non passerebbe al creditore in conseguenza dell’inadempimento ma verrebbe alienato a terzi nell’esecuzione di un mandato da compiersi con la diligenza del buon padre di famiglia;
- vendita del bene a scopo di garanzia operata da un terzo (garante di un debito altrui);
- patto marciano, con il quale il creditore insoddisfatto diventa definitivamente proprietario del bene con l’obbligo di versare al debitore l’importo della differenza tra il maggior valore del bene e l’ammontare del debito: il creditore, quindi, farà propria la cosa per un prezzo da determinare. La stima dovrà essere rimessa ad un terzo, dovrà essere eseguita successivamente all’inadempimento e dovrà essere pagata la plusvalenza.
L’elemento comune a queste fattispecie può essere individuato nella necessità di tutela dell’interesse del debitore di non subire il rischio di sproporzione tra garanzia prestata e debito garantito e di impedire l’indebito arricchimento del creditore. Il nostro ordinamento conosce ipotesi di autotutela esecutiva del creditore che presentano affinità funzionali e strutturali col patto commissorio, senza per questo incorrere nella sanzione di nullità, nella misura in cui realizzano il passaggio della proprietà di beni o diritti al creditore in conseguenza dell’inadempimento del debitore. Si pensi al pegno irregolare a garanzia di un’anticipazione bancaria, regolato dall’articolo 1851, ove si stabilisce che la banca creditrice debba restituire al debitore solo la somma, o quella parte di merci o titoli, eccedenti l’ammontare dei crediti garantiti. Analogamente si dispongono le ipotesi regolate:
a) Dagli art. 2803 e 2804 dettati in materia di pegno di crediti, ove si prevede la possibilità che il creditore garantito riscuota il credito pignorato alla sua scadenza e trattenga la somma necessaria al soddisfacimento delle sue ragioni, previa restituzione dell’eventuale residuo al debitore;
b) dagli articoli 2796 e 2797 in base alla quale le parti sono libere di concordare forme diverse per la vendita della cosa mobile pignorata;
c) dall’articolo 1500 ss. che autorizzano la vendita con patto di riscatto.Le ipotesi richiamate hanno la caratteristica di presentare un meccanismo che neutralizza l’effetto commissorio evitando una sproporzione tra le prestazioni a svantaggio del debitore.
Lo stesso giudizio di liceità del patto marciano si basa sul fatto che, mentre nel patto commissorio l’equivalenza tra importo del debito garantito e valore del bene è solo eventuale, nel patto marciano essa assurge a contenuto tipico del contratto andando a integrare un vero diritto del debitore alla restituzione dell’eccedenza. Da queste osservazioni può ricavarsi un argomento di carattere generale rappresentato dalla necessità di un controllo sulla proporzionalità tra il valore del bene trasferito e l’importo del credito garantito. Altri indici testuali confortano questa prospettiva come
- l’articolo 496 del codice di rito che prevede la possibilità della riduzione del pignoramento per il caso in cui il valore dei beni pignorati sia superiore all’importo delle spese e dei crediti;
- l’art. 2910 che stabilisce che il creditore può far espropriare i beni del debitore solo per conseguire quanto gli è dovuto;
- l’art. 2901 c.c. che prevede che ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria sia necessario l’elemento del danno nei confronti dei creditori. Da queste norme si desume che il controllo di proporzionalità riflette l’esistenza di un principio generale di adeguatezza nell’assoggettamento del patrimonio del debitore alla sua funzione di garanzia: principio che costituisce un limite generale all’operatività del divieto del patto commissorio. Non può ignorarsi, d’altro canto, che nell’esecuzione del contratto sussiste l’obbligo di comportarsi secondo buona fede (art. 1175, 1375; 1358 per il negozio condizionato).[Una considerazione va svolta sul c.d. trust di garanzia. (Il Trust è un istituto giuridico con cui una o più persone - disponenti - trasferiscono beni e diritti sotto la disponibilità del trustee, il quale assume l’obbligo di amministrarli nell’interesse di uno o più beneficiari o per un fine determinato.
Il Trust è un rapporto giuridico in forza del quale determinati beni o diritti sono sottoposti al controllo del trustee affinché quest’ultimo li amministri.
Per esservi un trust devono presentarsi i seguenti minimi elementi:
a) I beni trasferiti: 1. costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio personale del trustee; 2. sono intestati al trustee;
b) Il trustee: 1. è investito del potere ed onerato dall’obbligo di gestire il fondo in trust in conformità alle disposizioni dell’atto istitutivo e della legge; 2. Deve rendere il conto della gestione)La Convenzione dell’Aja del 1985 all’art.15, dopo aver stabilito il principio generale della inderogabilità delle norme imperative dettate dalla legge del foro, prevede tra le materie che non possono essere derogate applicando la Convenzione quelle relative alle garanzie reali.
I principi inderogabili della disciplina civilistica della tutela del credito che vengono in rilievo al fine di verificare la compatibilità con essi di un trust di garanzia sono:
1)il principio della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore (art. 2740)
2) il principio della par condicio creditorum e della tipicità delle cause legittime di prelazione (2741);
3) il divieto del patto commissorio (2744).
Uno degli argomenti addotti dalla dottrina contraria al riconoscimento nel nostro ordinamento di trust interni è rappresentato dalla contrarietà di tale figura al principio della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore per le proprie obbligazioni. Quindi il trust realizzando una segregazione patrimoniale (beni del trust e beni del trustee) costituirebbe un’eccezione al principio indicato; visto il carattere inderogabile del principio allora sarebbe sottratta all’autonomia dei privati la possibilità di realizzare tali forme di segregazione patrimoniale.
La dottrina prevalente riconosce oggi la legittimità anche del trust interno e la giurisprudenza di merito osservano:
a) in primo luogo che i beni costituiti in trust sono illimitatamente coinvolti dall’azione posta in essere dal trustee, per tale via non potendosi configurare un’eccezione al principio di cui all’articolo 2740, comma 1
b) che il rango normativo della Convenzione dell’Aja e della sua legge di ratifica, fanno sì che la deroga al principio di cui all’art. 2740, comma 1, derivi non dall’autonomia dei privati, ma dalla stessa legge; in particolare, si individuano negli artt. 2 e 11 della Convenzione disposizioni di diritto uniforme, di carattere materiale idonee a derogare legittimamente ad un principio espresso da una legge ordinaria, quale il codice civile. L’ammissibilità di un trust di garanzia richiede altresì la valutazione della sua compatibilità con il disposto di cui all’art. 2741 dal quale si ricavano i principi inderogabili della tipicità delle garanzie reali e della par condicio creditorum. Si tratta di principi connessi considerato che caratteristica delle garanzie reali è l’attribuzione al titolare di un diritto di prelazione, rispetto agli altri creditori dello stesso debitore, sul ricavato della vendita del bene oggetto della garanzia. Ulteriori caratteri di questo tipo di garanzia sono il diritto di seguito, il riferimento a un bene specifico e l’opponibilità ai terzi, mediante il sistema della pubblicità costitutiva o dello spossamento del bene. Un trust di garanzia che avesse a oggetto un bene specifico e che, costituito dal debitore, vincolasse il trustee a disporre del bene a favore di un solo creditore, nell’eventualità dell’inadempimento di una determinata obbligazione da parte del debitore, correrebbe il rischio di essere coinvolto nel divieto di dare vita a forme di garanzie atipiche.
Al fine di sottrarsi a tale pericolo,allora, è necessario configurare il trust in modo da evitare che sussista la specialità dei beni che ne costituiscono oggetto. In altri termini, il debitore potrebbe destinare in trust uno o più beni, vincolando il trustee ad amministrarli in modo che, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, egli possa soddisfare le ragioni di uno o più creditori attraverso la sua attività di amministrazione. La relativa fungibilità dei beni costituenti il trust vale in questo caso a escludere sia la specialità sia il diritto di seguito, con la conseguenza di rendere difficilmente configurabile una violazione dell’art. 2741.
Uno dei maggiori problemi relativi alla riconoscibilità nel nostro ordinamento degli effetti del trust a scopo di garanzia derivano dal divieto del patto commissorio, previsto dall’art. 2744. Si è già detto che l’orientamento giurisprudenziale fornisce un’interpretazione sostanziale dell’art. 2744: al fine di stabilire l’eventuale contrarietà alla disposizione indicata di uno specifico negozio giuridico valuta se il risultato conseguito dalle parti sia tale da consentire ad esse di realizzare una situazione analoga a quella che esse avrebbero ottenuto ponendo in essere un patto commissorio. È necessario, allora, predisporre in concreto negozi che siano tali da evitare di incorrere nel divieto del patto commissorio, soddisfacendo piuttosto la ratio del divieto, individuata nell’esigenza di impedire che il debitore sia soggetto al rischio della sproporzione tra depauperamento ed entità del debito inadempiuto e a quello dell’approfittamento del suo stato di bisogno. Entrambi i rischi sono esclusi dalla presenza di un meccanismo analogo a quello che si ritrova nel patto marciano che consente di realizzare l’equivalenza tra entità del debito e valore del trasferimento. Alla luce dei principi ricordati, il trust convenzionale a scopo di garanzia sembra evitare il rischio di cadere nel divieto del patto commissorio, per la fungibilità degli elementi che ne costituiscono oggetto (che evita l’identità tra cosa costituita in trust e cosa trasferita al termine dello stesso ) e soprattutto per la necessità ontologica per il trustee di rendere il conto della sua gestione, il che, in caso di trust con scopo di garanzia, si traduce nel dare conto dell’avvenuto rispetto dell’equivalenza tra valore trasferito e entità dell’inadempimento. D’altro canto, il rischio della violazione del divieto del patto commissorio può essere escluso prevedendo espressamente nell’atto istitutivo del trust con scopo di garanzia l’obbligo di salvaguardare il debitore da ogni sproporzione economica.] 74»»»»»» »»»»» »»»»»» »»»»»