L’art. 2 bis della legge 241/1990 -introdotto dall’ art. 7 c) legge 69/2009- prevede l’obbligo di risarcimento a carico delle p.a. -e dei soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative- del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’“inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Il risarcimento del danno da ritardo: l’art. 2 bis della legge 241/1990 introdotto dalla legge 69/2009.
Paola Maria Zerman -Avvocato dello Stato
La norma si inserisce nella più ampia previsione dell’art. 7 della legge 69/2009 che nel reintrodurre il termine generale di 30 giorni per la conclusione del procedimento (salva diversa individuazione con i regolamenti da emanarsi entro un anno e comunque non superiore a 90 giorni), ripropone la norma sulla procedura del silenzio di cui all’art. 21 bis della legge Tar 1034/1971 . La disposizione si affianca ad altre di “restyling” di altri istituti della 241/1990, come la conferenza di servizi ( così Clarich, in questa Rivista, luglio 2009).
A più di dieci anni di distanza dalla legge delega n. 59/1997, rimasta inattuata, in cui si prevedeva il pagamento di un indennizzo in caso di mancato rispetto del termine di procedimento da parte della p.a. (art. 17 comma 1 lett. f)), riemerge lo spinoso problema del danno da ritardo, questa volta risolto normativamente con la configurazione di un illecito aquiliano. La previsione del danno ingiusto causato dall’inosservanza del termine, unitamente all’elemento soggettivo (dolo o colpa) alla base di tale inosservanza e alla previsione di una prescrizione quinquennale per la richiesta del risarcimento del danno, riconducono la fattispecie all’illecito di cui all’art. 2043 c.c.
Scaduto il termine del procedimento, tre sono le evenienze con cui il privato deve confrontarsi.
La prima ipotesi è quella in cui l’inerzia perduri e la legge non attribuisca alcun significato al silenzio (ipotesi sempre più ampia attraverso la generalizzazione del silenzio-assenso prevista dall’art. 20 della legge 241/90 modificato dalla legge 15/2005, o dal silenzio rigetto, come nell’ipotesi di rigetto del ricorso gerarchico previsto dall’art. 6 del Dpr 1199/1971) In tal caso la legge mette a disposizione uno strumento veloce (art. 21-bis legge Tar) per giungere in tempi rapidi all’adozione dell’atto da parte della p.a. (anche attraverso l’eventuale nomina di un commissario ad acta).Il secondo caso può verificarsi quando la p.a. emani in ritardo un provvedimento favorevole o, ultima ipotesi, sfavorevole, eventualmente anche nel corso del giudizio instaurato avverso il silenzio.
In tutte e tre le evenienze, si pone il problema della risarcibilità del danno cagionato o dal ritardo nell’emanazione dell’ atto –favorevole o sfavorevole- o del silenzio, qualora l’inerzia perduri e il privato decida di non porre fine al silenzio con la promozione della procedura propulsiva ai sensi dell’art. 21 bis o nell’ipotesi in cui quest’ultima non si sia ancora definita.
Perché il silenzio sia rilevante giuridicamente in ordine ad un’eventuale responsabilità risarcitoria della p.a. è necessario che l’istanza rimasta inevasa riguardi i casi in cui “il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio” (art. 2 l.241/1990).
Argomento approfondito dalla giurisprudenza, la quale ha osservato che “indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un'esplicita pronuncia". (Cons. Stato Sez. VI, n. 2318/2007)
La posizione della giurisprudenza
Già dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2005 la giurisprudenza prevalente si è assestata sul riconoscimento della risarcibilità del danno da ritardo solo nell’ipotesi di provvedimento favorevole al privato. Egualmente nel caso di perdurante silenzio, si ritiene che sia possibile riconoscere un risarcimento nell’unico caso in cui, -mediante un giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita- si possa stabilire con un buon grado di probabilità la spettanza del bene oggetto dell’istanza del privato medesimo. Tale ultima ipotesi, peraltro, si scontra con la difficoltà di operare una valutazione dell’esito finale del procedimento nel caso di discrezionalità della p.a., con la sua pratica preclusione nell’ipotesi di attività amministrativa discrezionale “pura”.
In presenza di un provvedimento di rigetto dell’istanza del privato (non impugnato o confermato dal g.a. con la reiezione del ricorso) o di un giudizio prognostico negativo circa la spettanza del bene della vita, la giurisprudenza è dell’avviso che nessun titolo abbia il privato per ottenere il risarcimento.
La posizione di tale giurisprudenza, da ultimo ripresa da Cons. Stato 2008 n. 248 con ampia e articolata motivazione, si basa sui presupposti concettuali impostati dalla ben nota sentenza 500/99 della Cassazione. Nell’inaugurare la stagione del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo perché danno non in iure e pertanto egualmente ingiusto come il danno contra ius, la storica decisione comunque collegava il risarcimento dell’interesse legittimo al bene della vita. Sicché, nell’ipotesi degli interessi pretensivi conseguenti ad un’istanza del privato, solo laddove, attraverso un giudizio prognostico, fosse ritenuto dovuto il bene della vita negato illegittimamente dalla p.a. sarebbe dovuto il risarcimento.
Tale impostazione, che disegna l’illecito da atto illegittimo come aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c. è stata però contrastata da chi riteneva che in realtà la legge 241/1990, prevedendo una serie di obblighi procedimentali di correttezza a carico della p.a. e un rapporto diretto instauratosi tra cittadino e p.a. a seguito dell’istanza del privato, configurasse una responsabilità di natura contrattuale da “contatto”. In tale prospettiva anche la violazione del termine del procedimento comportava un diritto al risarcimento del danno risentito dal privato indipendentemente dal contenuto dell’atto.
Tale teoria, pur trovando autorevoli sostenitori, ha avuto limitata fortuna, anche in conseguenza del timore di estendere eccessivamente l’area della risarcibilità degli interessi legittimi, in presenza di vizi esclusivamente formali e in ordine ad interessi procedimentali svincolati dalla debenza del bene della vita.
Il tempo bene della vita
Altra è però la prospettiva che comporta il superamento della giurisprudenza che ammette il risarcimento solo in caso di silenzio o ritardo in relazione ad un provvedimento favorevole.
La stessa e ormai risalente ordinanza di rimessione alla Adunanza Plenaria del 2005 n. 7 (Cons. Stato sez. IV ord. 7/3/2005 n. 875) aveva evidenziato che occorre considerare il tempo come bene della vita. “L’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa sembra- nell’attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo- essere interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione e alla azionabilità di strumenti processuali di carattere propulsivo che si giustificano solo nell’ottica del conseguimento dell’utilità finale ma appaiono poco appaganti rispetto all’interesse del privato a vedere definita con certezza la propria posizione in relazione ad un’istanza rivolta all’amministrazione”. In tale ottica, prosegue l’ordinanza, il rispetto ai tempi del procedimento deve essere svincolato dagli ulteriori interessi procedimentali per essere considerato in se stesso “bene della vita”.
Seguendo questo ragionamento, sviluppato da autorevole dottrina (F. Caringella , Manuale di diritto amministrativo 2008), nella vicenda del privato che rivolge un’istanza alla p.a si possono individuare due distinti beni della vita.
Il primo è quello del rispetto dei tempi certi del procedimento, perché sotteso alla salvaguardia della progettualità del privato che si realizza in un determinato contesto temporale, il secondo al bene sostanziale richiesto (es. concessione edilizia, autorizzazione, ecc.).
Ne consegue che nell’ipotesi di scadenza del termine del procedimento, il privato, ove ne sia danneggiato, avrà diritto al risarcimento, indipendentemente dal contenuto del provvedimento.
Si badi bene che questa ipotesi ricostruttiva non sposa la tesi della responsabilità contrattuale della p.a. (con tutte le conseguenze anche in ordine alla quantificazione del danno, alla prova dell’elemento soggettivo e all’allungamento dei termini prescrizionali). Enucleando dagli interessi procedimentali il tempo come “bene della vita”, la stessa disegna l’ipotesi della responsabilità della p.a. per ritardo come danno ingiusto perché non in iure, ovvero determinato a seguito dell’inosservanza dei termini prescritti dalla legge e condizione di legittimità dell’azione amministrativa.
L’inosservanza dei termini del procedimento come illecito ex art. 2043 c.c.
La fattispecie risarcitoria prevista dal nuovo articolo 2 bis della legge 241/90 mostra di recepire la suddetta impostazione ancorando il risarcimento al ritardo o al silenzio della p.a., indipendentemente dal contenuto dell’atto, con il superamento della prevalente giurisprudenza.
L’elemento oggettivo dell’illecito è, infatti, costituito da una condotta omissiva individuata nell ”inosservanza dei termini del procedimento” colposa o dolosa che abbia causato al privato un “danno ingiusto”.
Risulta in tutta evidenza, dunque, l’autonomia di tale fattispecie risarcitoria rispetto al contenuto dell’atto amministrativo. La norma si disinteressa di quest’ultimo perché al di fuori dell’ipotesi risarcitoria e non causalmente collegato all’individuazione del “danno ingiusto” elemento indispensabile per il risarcimento. Il bene protetto dalla norma è il rispetto dei tempi certi del provvedimento al fine di salvaguardare la progettualità del privato e la determinazione dell’assetto di interessi dallo stesso preordinato in relazione ai tempi del procedimento. Il danno risentito dal privato è ingiusto perché la p.a. non ha rispettato i tempi determinati dall’ordinamento per la legalità del suo agire amministrativo.
E ciò, quindi, anche se è negativo il contenuto dell’atto, che peraltro il privato non è tenuto ad impugnare al fine di veder riconosciuto il danno da ritardo, essendo l’azione sottoposta al termine prescrizionale di cinque anni e in assenza di un rapporto di pregiudizialità concettuale con l’impugnazione del provvedimento negativo, il cui contenuto non incide sul giudizio risarcitorio previsto dall’art. 2 bis. Sembrando, peraltro, la questione della previa impugnazione dell’atto amministrativo avanti al g.a., superata (ma definitivamente? Vedi la nuova ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria del Cons. Stato, sez. VI 2436/2009) dalla nota Cassazione SS.UU. 30254 del 23 dicembre 2008 che ha negato la necessità della c.d. “pregiudiziale amministrativa”. Nemmeno, in caso di perdurante silenzio è necessario attivare pregiudizialmente (o cumulativamente) la procedura del silenzio ex art. 21 bis.
Come più volte sottolineato dalla dottrina e giurisprudenza, infatti, quest’ultima ha il precipuo scopo di addivenire all’emanazione della atto, finalità diversa da quella risarcitoria che pertanto può essere azionata indipendentemente dal giudizio avverso il silenzio (e ben potendo il privato decidere di rinunciare al provvedimento richiesto in ragione di un diverso assetto dei propri interessi). Come rilevato dalla dottrina già citata, la mancata attivazione del giudizio ai sensi dell’art. 21 bis potrebbe se del caso rilevare ai sensi dell’art. 1227 c.c. in ordine alla quantificazione del danno risarcibile.
Il danno non è però in re ipsa e non discende automaticamente dalla scadenza del termine. Secondo gli stringenti parametri di cui all’art. 2043 dovrà essere rigorosamente provato nel suo ammontare e sarà comunque limitato al c.d. interesse negativo. Il danno risarcibile “non potrà, ovviamente essere quello che discende dalla mancata emanazione del provvedimento, ma solo quello che sia derivato al privato dalla situazione di incertezza protratta oltre il termine, in altri termini ciò che si definisce l’interesse negativo” (ordinanza Cons. Stato 875/2005)
La giurisdizione del giudice amministrativo
L’art. 2 bis attribuisce alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo la domanda risarcitoria. E ciò in considerazione del fatto che l’illecito non è connesso all’illegittima attività provvedimentale della p.a. ma generato da un comportamento omissivo che fonda il diritto al risarcimento del danno. Che poi l’ inerzia o il ritardo della p.a., in quanto collegati a poteri autoritativi rientrassero nella giurisdizione del g.a., era stato già in precedenza chiarito sin dalla ricordata Ad. Plenaria 7/2005 secondo cui in tali casi non si è di fronte a “comportamenti” della pubblica amministrazione lesivi di diritti soggettivi del privato, ma “in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative”.
La prova dell’elemento soggettivo
Se anche la fattispecie è riconducibile all’art. 2043, con il conseguente onere della prova dell’esistenza dell’elemento soggettivo a carico del privato, come ricordato anche di recente dal Consiglio di Stato (23-03-2009, n. 1732) "fermo restando l'inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., all'interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell' elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un'espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata".
Conclusioni
Il timore dell’azione risarcitoria con l’eventuale conseguenze anche sul piano della valutazione del dirigente ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato (art. 7 comma 2 legge 69/2009) nonché dell’eventuale responsabilità dirigenziale (art. 2 legge 241/1990 comma 9 sostituito dalla legge 69/2009) e contabile, sollecitano un’azione amministrativa virtuosa in vista dell’entrata in vigore dell’art. 41 della “Carta dei diritti fondamentali” che riconosce il diritto del cittadino alla “buona amministrazione”, richiamato dal Trattato di Lisbona.
La norma, in apparenza di semplice lettura, sottende delicati temi in ordine alla responsabilità della p.a. (e le conseguenze sulla natura del termine del procedimento) che non mancherà di sollevare un intenso dibattito e contrastanti soluzioni in sede interpretativa. Vero è che la responsabilità della p.a. per lesione degli interessi legittimi (specie pretensivi) se pure ricondotta entro i sicuri binari dell’illecito aquiliano, sia per il carattere pubblico del soggetto coinvolto che per la natura autoritativa della sua azione, continua inevitabilmente a rimanere un po’ “speciale”.
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