La responsabilità per invalidità degli atti

La responsabilità per invalidità degli atti

La responsabilità per invalidità degli atti rientra nel più generale concetto di responsabilità dello Stato, che nel corso degli anni risulta dilatato in conseguenza dell’incidenza da parte del sistema giuridico dell’Unione europea, a partire dalla celebre sentenza Francovich - Sentenza Corte di Giustizia 19 novembre 1991, cause riunite C 6/90 e C 9/90), che ha riconosciuto la tutela nei confronti dello Stato per il danno cagionato dall’attività legislativa. In particolare veniva stabilito il principio che il mancato recepimento di una direttiva comunitaria entro la data ultima stabilita nel provvedimento poteva determinare, a certe condizioni, una condanna dello Stato e un obbligo di risarcimento del cittadino che fosse risultato leso dall’inadempiente comportamento .


Una delle caratteristiche delle direttive comunitarie, infatti, è quella di concedere un determinato lasso di tempo agli Stati membri per poter recepire nel proprio ordinamento le nuove disposizioni (in genere due anni). Spesso però gli Stati risultano inadempienti, in quanto non provvedono in tempo a completare tutte le procedure per dare attuazione alle disposizioni comunitarie.

Riprendendo, i predetti concetti, la Corte di Giustizia con una successiva sentenza ((Blasserie du Pecheur e Factortame (cause C-46/93 e C-48/93)) ha affermato che il principio della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario si applica tutte le volte che il potere legislativo, esecutivo o giudiziario abbia leso un diritto riconosciuto al singolo dal diritto comunitario. La Corte di giustizia amplia la portata del principio di responsabilità extracontrattuale dello Stato considerando irrilevante la natura dell’atto che ha violato il diritto comunitario: la responsabilità dello Stato potrà sorgere in caso di violazione di una disposizione del trattato, di un regolamento, di una decisione, di una direttiva o anche di un principio generale dell’ordinamento comunitario. Di conseguenza, uno Stato membro può essere responsabile anche per la mancata o inadeguata attuazione di direttive dettagliate. Tra l’altro, nel caso di specie la Corte coglie l’occasione per ribadire che la responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli per violazioni del diritto comunitario vale “in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione o omissione ha dato origine alla trasgressione” ; infatti, “l’obbligo di risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario non può dipendere da norme interne sulla ripartizione delle competenze tra i poteri costituzionali”.
Sul piano dell’evoluzione giurisprudenziale relativa ai possibili profili di inattuazione di una direttiva comunitaria e del diritto comunitario in genere, merita di essere ricordata altresì la sentenza Hedley Lomas (del 23 maggio 1996), con la quale è stata riconosciuta la responsabilità dello Stato inglese per i danni cagionati non da un atto normativo, ma da un atto amministrativo (diniego di licenza di esportazione) adottato in violazione del diritto comunitario. La società attrice chiedeva il risarcimento dei danni patiti in virtù delle illegittime restrizioni alle esportazioni derivate da atti amministrativi interni che essa considerava illegittimi in quanto contrastanti con il diritto comunitario. La Corte di Giustizia, nel sancire l’incompatibilità dei provvedimenti in questione con il sistema dei trattati, sancì il principio secondo cui l’illecito può anche essere autonomamente commesso dallo Stato-Amministrazione, comportando conseguenze affatto simili a quelle già enunciate in tema di responsabilità dello Stato legislatore.

Nell’iter giurisprudenziale seguito dalla Corte di Giustizia sulla materia de qua appare doveroso il richiamo alle sentenze Konle (sentenza 1 giugno 1999, causa 312/97) e Haim (sent. 4 luglio 2000, causa 424/97) ove la Corte ha precisato che gli Stati possono assicurare la garanzia della tutela risarcitoria per danni da violazioni comunitarie, prevedendo la responsabilità non dello

Stato ma del soggetto pubblico che abbia esercitato il potere in modo dannoso e contra ius. Il problema, in considerazione della tendenza dell’ordinamento italiano ad un più ampio trasferimento di competenze dello Stato verso gli enti territoriali (Regioni, Province ed enti locali), assume particolare rilievo sia per le attività normative, ove l’illecito sia stato perpetrato dalle articolazioni territoriali, sia per l’attività amministrativa dove si è radicato il modello basato sul decentramento amministrativo. Interessante appare dunque la problematica connessa all’individuazione di responsabilità di detti enti segnatamente per quel che riguarda le materie di loro competenza, per le responsabilità derivanti dall’omessa trasposizione normativa delle direttive comunitarie, in considerazione del dictum di cui all’art. 120 Cost., che intestando allo Stato il potere sostitutivo, attribuisce allo stesso il ruolo di soggetto referente a livello comunitario degli inadempimenti nazionali.
Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un processo di progressiva erosione dei privilegi dei quali per lungo tempo aveva goduto la pubblica amministrazione in materia di responsabilità.

La giurisprudenza della corte di cassazione ha infatti esteso alla P.A. l’applicazione dei criteri di imputazione oggettiva

Cass. 14 marzo 2445 n. 5445. La Corte di Cassazione si colloca nel filone giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza 3651/2006, fautrice di un revirement in materia di responsabilità della P.A. per omessa manutenzione delle strade: Nella fattispecie la difesa dell’amministrazione eccepiva che la propria responsabilità “poteva essere affermata esclusivamente in ipo­tesi di esistenza di un'insidia o trabocchetto” e la Corte replica che “diversa­mente da quanto dall'odierna ricorrente dedotto in con­formità a principio da questa Corte in effetti costan­temente affermato e che il collegio ritiene peraltro di non poter condividere, l'insidia determinante pericolo occulto non è invero dalla norma di cui all'art. 2043 c.c. contemplata, trattandosi di figura di elaborazione giurisprudenziale che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porsene la relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.”.

e l’interpretazione della nozione di colpa riferibile direttamente ad essa come apparato e non solo nelle ipotesi di dolo o colpa dei singoli funzionari .

Cons di St. 10 gennaio 2005, n. 32. Il consiglio di Stato sancisce una svolta nel criterio della colpa (solo grave) della PA come apparato ( e quindi non solo del singolo dipendente a norma del D.P.R. n. 3/1957 a seguito di attività materiale) nella responsabilità civile terzi per perdite patrimoniali (lesione di interessi legittimi a seguito di attività provvedimentale illegittima)

Anche la corte costituzionale è intervenuta dichiarando illegittime alcune norme contenute in leggi speciali che restringevano irrazionalmente la tutela aquiliana nei confronti della P.A. .
Corte Cost. 20 giugno 2002, n. 254

E’ stato osservato che il filo conduttore del recente orientamento giurisprudenziale poggia sulla ricerca di un preesistente bene della vita del cittadino: il collegamento fra il bene e l’interesse leso qualifica il secondo come meritevole di tutela. In tal modo la condotta illegittima della P.A. che arreca pregiudizo al bene collegato all’interesse è fonte del diritto al risarcimento dei danni, sia se si collega tale diritto al generale principio del neminem laedere sia se lo si collega alla responsabilità da contatto sociale rilevante a seguito della L. 241/90.

Con riferimento a quest’ultimo punto molti autori, in dottrina, hanno sottolineato la necessità di valorizzare il significato del contatto che si instaura tra pubblica amministrazione e cittadino in occasione del procedimento amministrativo e la giurisprudenza non è stata indifferente a tali sollecitazioni, offrendo soluzioni svariatissime ed applicando a questo istituto a volte la disciplina della responsabilità aquiliana o extracontrattuale (che rinviene il fondamento generale della sua disciplina nell’art. 2043 cod. civ., presuppone che l’agente

non abbia normalmente alcun rapporto o contatto con la parte danneggiata. La norma citata, infatti, impone, con clausola generale dotata di una sua autonomia precettiva, il rispetto del dovere generale del neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva meritevole di protezione giuridica.), altre volte lo schema della responsabilità contrattuale (è conseguenza della violazione di un rapporto giuridico che sorge non solo da un contratto ma, esprimendo l’espressione impiegata una sineddoche, anche dalla legge o da contatto tra le parti che può generare un rapporto contrattuale di fatto. Le posizioni soggettive sono riconducibili alla categoria del diritto soggettivo relativo.), altre volte ancora quello della responsabilità precontrattuale.
Ci sono, però, delle ipotesi in cui, il soggetto danneggiante, pur non essendo vincolato al danneggiato da un rapporto obbligatorio in senso stretto, è tuttavia legato allo stesso, in via di fatto, da una relazione, c.d. contratto sociale qualificato, che espone quest’ultimo ad un rischio specifico e più intenso rispetto alla generalità dei consociati. In situazioni del genere si ritiene che la responsabilità possa prescindere dalla sussistenza di un precedente vincolo pattizio, rivelandosi a tal fine sufficiente un “contatto sociale” che indica, dunque, un rapporto socialmente tipico, che ingenera nei soggetti coinvolti un obiettivo affidamento.

L’introduzione della legge n. 241 del 1990, annovera numerose occasioni di “contatto” tra il privato e l’amministrazione: si pensi alla comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 7 e agli istituti di partecipazione ex art. 9 e s.s., ancora altra ipotesi quella sancitadall’art. 2 e cioè della responsabilità dell’amministrazione con riferimento all’obbligo della stessa di provvedere entro i tempi giusti evitando il ritardo che faccia provvedere tardivamente sul bene desiderato e addirittura lo precluda; ancora nel caso di difetto di comunicazione di avvio del procedimento nei difetti formali e procedurali, ma anche, più in generale, a tutti quei comportamenti che ingenerino o ledano l’affidamento, come nel caso in cui l’amministrazione superficialmente ingeneri nel privato la fiducia nelle spettanza di un provvedimento poi, sia pur legittimamente, lo neghi. La dottrina più recente, quindi, giustifica l’operatività del modello obbligatorio anche nell’ambito dei rapporti amministrativi, facendo rinvio all’art. 1173 c.c. che stabilisce il carattere aperto delle fonti delle obbligazioni, alla legge sul procedimento amministrativo, alla nuova formulazione dell’art. 328 c.p., alla previsione dell’art. 2 della L. n. 205/2000, in materia di processo speciale contro il silenzio, nonché alla progressiva attenuazione del rilievo della contrapposizione tra interessi legittimi e diritti soggettivi per effetto dell’incidenza del diritto comunitario.
La responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile (Cons. Stato, VI, 14 marzo 2005, n. 1047).

Rispetto alla responsabilità civile, quella in esame presuppone che il comportamento illecito si inserisca nell’ambito di un procedimento amministrativo. L’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, deve osservare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua

azione. L’esercizio del potere autoritativo «non è assimilabile alla condotta di chi – con un comportamento materiale o di natura negoziale – cagioni un danno ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal diritto privato (e la cui tutela è prevista dagli articoli 2043 e ss. del codice civile)» (Cons. Stato, VI, n. 1047 del 2005).
Rispetto alla responsabilità contrattuale, sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano: da un lato, dovere di prestazione (o di protezione) e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo.
Sulla questione si sono avvicendati vari orientamenti dottrinali in prima analisi si ricorda la sentenza n. 500/1999 della Cassazione a sezioni Unite con cui si affermò il principio della sostanziale irrilevanza, ai fini della configurazione della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., della qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto danneggiato .


La Cassazione ha sposato la tesi secondo cui l’art. 2043 c.c. racchiude una clausola generale primaria che attribuisce il diritto al risarcimento del danno ogni volta che è cagionato un ‘danno ingiusto’, riconoscendo, in tal modo, l’infondatezza dell’assunto che intende limitare alle sole posizioni di diritto soggettivo il funzionamento del meccanismo risarcitorio; è, invece, risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia intesa come lesione di qualsiasi interesse al quale l’ordinamento attribuisce rilevanza. La stessa Cassazione ha poi precisato che ciò non equivale certamente ad affermare l’indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, in quanto la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.: è necessario, in particolare, che risultino integrati tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, dell’illecito.

 

Secondo l’impostazione seguita nella sentenza n. 500 del 1999 dalla Suprema Corte, per affermare la responsabilità dell’amministrazione è necessario accertare:
1) Elemento oggettivo costituito dall’evento dannoso e stabilire se il danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento. Quanto all’elemento oggettivo della fattispecie di responsabilità, la Corte di Cassazione ha escluso che l’illegittimità dell’atto sia sufficiente a giustificare la responsabilità della pubblica amministrazione, essendo invece necessario verificare che l’attività illegittima della stessa abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita, cui è collegato l’interesse legittimo. A tal fine – si è sostenuto nella storica sentenza – occorre un “giudizio prognostico, da condurre con riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell’istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva”, e cioè di una situazione che, sulla base della disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole.
2) Nesso causale tra la condotta (commissiva o omissiva) della P.A. e l’evento dannoso sotto il profilo causale. Si tratta di verificare, in virtù di un giudizio controfattuale, quale sarebbe stato l’esito del procedimento se il fatto antigiuridico (nella specie la violazione della norma che è motivo di illegittimità dell’atto) non si fosse prodotto e se l’amministrazione avesse quindi agito correttamente.

Per l’accertamento del nesso di casualità tra il danno lamentato dal privato e il provvedimento illegittimo, occorre, analogamente a quanto

ritenuto dalla giurisprudenza civile, operare una duplice verifica avente ad oggetto: a) il collegamento materiale tra condotta ed evento deve farsi con riferimento agli artt. 40 e 41 c.p.; b) la sussistenza del collegamento giuridico tra il fatto illecito (valutato unitariamente come condotta ed evento) e l’entità del danno possono applicarsi gli artt. 1223 e 1227, comma 2, c.c., richiamati espressamente dall’art. 2056 c.c.
3) Elemento soggettivo costituito dal dolo o dalla colpa della P.A.
Prima della Cass. civ., s.u., 22 luglio 1999, n. 500, si riteneva in giurisprudenza che la colpa dell’amministrazione fosse in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente acclarata dell’atto amministrativo; la colpa era di per sé già ravvisabile nell’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e nella sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio.
L’impostazione è superata dalle Sezioni unite che, con la sentenza n. 500 del 1999, sostengono la necessità, perché possa concludersi per l’imputazione alla P.A. della responsabilità, di una penetrante indagine del giudice, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, ma estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della P.A. intesa come apparato; ad avviso delle Sezioni unite, la colpa in questione sarebbe configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

Il legislatore un anno dopo condivise il principio della risarcibilità della lesione dell’interesse legittimo con la riforma del processo amministrativo, attraverso la L. 21 luglio 2000, n. 205 il cui art. 7 prevede che il giudice amministrativo, nella controversia devoluta alla sua giurisdizione esclusiva dispone anche, attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto, attribuisce al tribunale amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ed abroga ogni disposizione che prevede al devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi .


Sul punto anche Corte Cost. 28 luglio 2004, n. 281 che ha precisato che il risarcimento del danno non costituisce una materia, ma uno strumento di tutela da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della PA.

Con la legge n. 241 del 1990, novellata dalla legge n. 15/2005, i principi di efficienza e di economicità dell’azione amministrativa e di partecipazione del privato al procedimento amministrativo sono diventati veri e propri criteri giuridici positivi per cui il contatto del cittadino con l’amministrazione è oggi caratterizzato da uno dovere di comportamento nell’ambito di un rapporto che, in virtù delle garanzie che assistono l’interlocutore dell’attività procedimentale, diviene specifico e differenziato. Rileva a questo punto la sentenza della Corte di Cassazione – I sez. n. 157/03 che inquadra il problema della natura della responsabilità della P.A. alla luce di una responsabilità per inadempimento, ad essa ascrivibile, per il mancato rispetto delle regole che disciplinano l’azione della amministrazione. La Cassazione, partendo dall’analisi dell’art. 2043 c.c., giunge a prospettare il dubbio che in questa fattispecie si possa inquadrare il rapporto che intercorre tra cittadino e P.A. con l’apertura di un procedimento amministrativo. Secondo la ricostruzione della Cassazione, l’apertura di un procedimento amministrativo implica l’impossibilità di utilizzare l’art. 2043 c.c. perché dall’apertura del procedimento nascono veri e propri obblighi e regole, scaturenti in un rapporto qualificato, idoneo a produrre delle obbligazioni giuridiche, che fanno sì che il cittadino possa pretendere determinati comportamenti e attività che la P.A. sia obbligata giuridicamente nell’ambito di questo rapporto. Anche il Consiglio di Stato non si è risparmiato in tema di responsabilità da contatto sociale rafforzandone la portata con riguardo alla prova della colpevolezza dell’amministrazione. Si è giunti a sostenere (VI Sezione n. 3981/2006) che “pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie”. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, ma anche in questo caso vengono sollevati una serie di dubbi. La realtà è che oggi sulla natura della responsabilità dell’amministrazione non c’è una risposta certa, data la complessità delle conseguenze che derivano dallo sposare una tesi piuttosto che un’altra. www.iussit.eu

Sul punto il Consiglio di Stato con Sentenza del 31 gennaio 2012, n. 482, ha ribadito l'orientamento maggioritario secondo cui, al di fuori di specifici settori (in primis quello degli appalti pubblici), non ricorre "la responsabilità civile dell'Amministrazione per danno da provvedimento illegittimo senza il concorso dell'elemento soggettivo, normalmente identificato nella “colpa", non potendo tale requisito ritenersi sussistente in re ipsa nell'illegittimità dell'atto amministrativo.
Ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043, l’imputazione della colpa alla pubblica amministrazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere un’indagine, estesa alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma dell’amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile soltanto nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, alle quali l’esercizio della finzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti alla discrezionalità.

E’ dunque ormai da ritenersi consolidato l’orientamento che ritiene esclusa la configurabilità della colpa in re ipsia sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, dovendo chiedersi un quid pluris utile ad evidenziare la imputabilità dei danni invocati a dolo o colpa della P. A .

Cass. 10 agosto 2002, n. 12144. l'ingiustizia non può considerarsi in re ipsa nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, sicchè il giudice deve, in ordine successivo:
a) in primo luogo, accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) stabilire, poi, se l'accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);
c) accertare, inoltre, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta della p.a.;
d) accertare, infine, se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., non soltanto sulla base del dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, ma anche sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa, configurabile qualora l'atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l'esercizio della funzione amministrativa e che costituiscono limiti esterni alla discrezionalità amministrativa.

In definitiva, la peculiarità dell’attività amministrativa – che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e sostanziali a tutela dell’interesse pubblico – rende speciale, per le ragioni indicate, anche il sistema della responsabilità da attività illegittima.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che non è sufficiente che l’amministrazione emani un atto illegittimo perché possa ritenersi anche responsabile dei danni subiti dal privato destinatario dell’atto. Devono, pertanto, essere mantenute separate le regole di validità dell’atto dalle regole di responsabilità.
Quando è proposta una domanda risarcitoria a seguito dell’emanazione di un provvedimento autoritativo risultato illegittimo, il suo accoglimento è subordinato alla verifica (da parte del giudice amministrativo, sulla base della documentazione acquisita) della rimproverabilità dell’amministrazione.

Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha contribuito a tipizzare alcune situazioni la cui ricorrenza può indurre a ritenere che

l’emanazione dell’atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile.
In particolare, si ritiene costantemente (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 6 maggio 2013, n. 2452; Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2013, n. 798; Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1114) che integra gli estremi dell’esimente da responsabilità l’esistenza di:
a) contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma;
b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore;
c) una rilevante complessità del fatto;
d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Dalla esemplificazione casistica risulta come la giurisprudenza amministrativa richieda – per aversi responsabilità – che il vizio sia “grave”, dovendosi comunque anche valutare la natura, formale o sostanziale, della violazione commessa e la eventuale esistenza di una pluralità di destinatari dell’atto illegittimo .


Cons. St., SEZ. VI - SENTENZA 27 giugno 2013, n.3521. Nel solo settore degli appalti pubblici la Corte di Giustizia ha, invece, sancito il principio della sovrapposizione tra regole di validità e regole di responsabilità (sentenza 30 settembre 2010). Non rileva, pertanto, ai fini della configurabilità della responsabilità della stazione appaltante, l’elemento soggettivo della colpevolezza. Questo orientamento è stato seguito dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2013, n. 1833; Id., 8 novembre 2012, n. 5686). La giurisprudenza europea, imponendo il rispet di tale interpretazione, ha derogato al principio generale che, in ossequio alla regola dell’autonomia processuale degli Stati membri, demanda ad essi di stabilire quali sono gli elementi costitutivi delle singole azioni proponibili nel processo.
La deroga si giustifica nell’ottica del rispetto dei principi a tutela della concorrenza e dunque dei valori sottesi di libera circolazione delle persone e delle merci. Si vuole, infatti, che nel settore degli appalti gli operatori economici non incontrino ostacoli all’accesso al mercato in ragione delle modalità di tutela assicurate nei singoli Stati membri.


 


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