Corte Conti, Sez. Giuris. Centrale di Appello, 20 aprile 2011 n. 198

Il “danno alla concorrenza” (non diversamente da ogni altra forma di danno patrimoniale) deve essere provato nell’an per, poi, essere quantificato, sia pur equitativamente, tenendo conto della specificità del caso concreto. Resta ferma la possibilità per la procura regionale di comprovare il danno alla concorrenza “con il ricorso a ogni idoneo mezzo di prova, quale può essere la comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti a seguito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione“

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SECONDA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D'APPELLO

composta dai seguenti magistrati
dott. Stefano IMPERIALI Presidente
dott. Mario PISCHEDDA Consigliere
dott. Josef Hermann RÖSSLER Consigliere
dott.ssa Angela SILVERI Consigliere estensore
dott.ssa Manuela ARRIGUCCI Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi d’appello promossi da
1) CALTAGIRONE PIETRO, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Vincenzo Avolio e Vittoria Luciano e con questi elettivamente domiciliato presso il dott. Alfredo Placidi in Roma, Via Cosseria n. 2;
2) SCHIMMENTI DIEGO, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Guido Bardelli, Carlo Nocita e Andrea Manzi ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Via Confalonieri n. 5;
avverso
la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia n. 598/2009 del 30 settembre 2009.
Visti gli atti d’appello, iscritti al n. 36892 e al n. 37015 del registro generale, nonchè gli altri atti e i documenti di causa.
Uditi nella pubblica udienza del 13 gennaio 2011 il relatore, Cons. Angela Silveri, gli Avv.ti Vincenzo Avolio e Salvatore Di Mattia (delegato dall’Avv. Andrea Manzi) e il P.M. in persona del Vice Procuratore Generale Amedeo Federici.
FATTO
Con atto di citazione del 18 ottobre 2004 la Procura regionale per la Lombardia chiamava in giudizio il dott. Pietro Caltagirone e il dott. Diego Schimmenti (unitamente ad altri) chiedendone la condanna al pagamento in favore della Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano della somma di euro 2.386.017,21 per il danno che sarebbe stato cagionato dai convenuti in sede di aggiudicazione e di esecuzione del contratto integrato (c.d. service) per la gestione, l’esecuzione dei lavori e la fornitura di servizi relativi a due reparti dell’Azienda Ospedaliera; appalto aggiudicato alla Società N.G.C. Medical s.p.a. con deliberazione n. 1359 del 12 ottobre 1999. Il danno veniva correlato alle “diseconomie” rilevate dalla Procura regionale, quantificate in base alla relazione della Guardia di Finanza del 5 febbraio 2004 e alla perizia del consulente tecnico in sede penale (arch. Maurizio Bracchi); diseconomie che la stessa Procura individuava quale diretta conseguenza delle violazioni: a) dell’art. 9, c. 3, del d.lgs. n. 358 del 1992 (come modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 402 del 1998), che autorizza il ricorso alla trattativa privata in caso di pubblico incanto andato deserto, “purchè le condizioni iniziali della fornitura non vengano sostanzialmente modificate” (mentre nella specie la licitazione privata aveva riguardato il service per tre reparti e la trattativa privata era stata condotta per il service di due reparti ed escludendo la manutenzione delle apparecchiature); b) dell’art. 6 della legge n. 537 del 1993 (come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994), secondo cui “è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni …”.
La Sezione territoriale, con ordinanza n. 182/06 del 30 maggio 2006 disponeva una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare la congruità del prezzo di aggiudicazione. A seguito di rinuncia all’incarico di tutti i componenti del collegio peritale, veniva emessa l’ordinanza n. 253 del 2007 con la quale veniva nominato il nuovo collegio peritale e venivano formulati nuovi quesiti recependo anche le osservazioni della difesa di Caltagirone (“se risulti congruo il prezzo di aggiudicazione del contratto di service … tenuto conto di tutte le categorie di servizi, lavori e forniture inclusi nell’oggetto contrattuale”; “se risulti congruo il prezzo al quale il contratto … è stato prorogato … tenuto conto anche dell’accordo intervenuto tra le parti in data 30 settembre 2002”).
Con relazione del 20 novembre 2007 il Collegio peritale affermava la sostanziale congruità del prezzo di aggiudicazione dell’appalto, tenuto conto delle conoscenze disponibili negli anni 1998-1999 e di un contesto commerciale caratterizzato da pochissime esperienze di service in emodinamica; comunque, le evidenziate criticità ad avviso del Collegio, sarebbero state recuperate nella rinegoziazione intervenuta il 30 settembre 2002.
A seguito della nuova udienza del 19 giugno 2008 la Sezione lombarda emetteva l’ordinanza n. 186 del 19 agosto 2008, nella quale considerava: che “gli atti processuali depongono per lo scostamento dell’azione amministrativa dalle regole della concorrenza …”; che “le predette conclusioni non sono incompatibili con le considerazioni del Collegio peritale …, secondo cui le criticità evidenziate in sede di aggiudicazione sarebbero state recuperate con la rinegoziazione del 30 settembre 2002”; che “dai nuovi elementi emerge la necessità di precisare il petitum sostanziale del presente giudizio, ossia di individuare in modo esaustivo il danno posto a fondamento delle accertate criticità (finora postulato con esclusivo riferimento alle diseconomie rilevate dalla Guardia di Finanza), fermo restando il potere-dovere del giudice di qualificare il fatto dedotto in giudizio e quindi di rideterminare le poste di danno scaturite dai fatti materiali contestati dalla Procura attrice, in caso di ravvisata sussistenza della prova di esso, nell’an e nel quantum”; quindi ordinava “alla Procura regionale di provvedere all’integrazione istruttoria di cui in parte motiva …”.
La Procura regionale, con atto depositato il 21 novembre 2008, nel chiedere la fissazione di nuova udienza, rilevava alcune incongruenze della consulenza tecnica d’ufficio. Precisava, inoltre, che il danno contestato con l’atto di citazione era, comunque, riconducibile al “danno alla concorrenza” da quantificare in via equitativa nella somma di € 715.805,16 (pari al 30% delle “diseconomie”). La difesa di Caltagirone rilevava l’inammissibilità della contestazione del c.d. danno alla concorrenza.
La Sezione territoriale, con la sentenza n. 598 del 2009, respinta l’eccezione di inammissibilità, ha affermato la sussistenza del danno alla concorrenza, mentre ha escluso – per carenza di prova – il danno per le diseconomie quantificate dalla Guardia di Finanza; ha condannato il dott. Caltagirone e il dott. Schimmenti, rispettivamente, al pagamento di € 322.112,32 e di €214.741,55; ha assolto –per insussistenza della colpa grave – gli altri convenuti.
*°*°*
La sentenza è stata impugnata da entrambi i soccombenti.
Peraltro il dott. Schimmenti, avendone fatto richiesta, è stato ammesso alla definizione agevolata del giudizio di cui all’art. 1, commi 231 e segg. della legge n. 266 del 2005, con decreto di questa Sezione n. 28/2010 del 15 giugno 2010. Lo stesso appellante, in data 20 settembre 2010 ha depositato documentazione attestante i pagamenti effettuati (€ 43.433,10 in favore della Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda ed € 73,10 in favore della Tesoreria Centrale dello Stato). Nelle conclusioni depositate il 22 dicembre 2010 la Procura generale ha chiesto che il giudizio venga dichiarato estinto con addebito all’appellante delle spese del secondo grado di giudizio.
*°*°*
Nel gravame depositato il 23 gennaio 2010 il dott. Caltagirone – premessa un’ampia ricostruzione dei fatti – ha dedotto i seguenti motivi d’appello:
1) quanto al risarcimento del danno alla concorrenza, violazione dei principi del giusto processo; violazione del divieto di proposizione di domande nuove nel corso del giudizio; violazione dei principi sull’onere della prova; falsità dei presupposti; contraddittorietà della motivazione. Deduce, al riguardo, che la domanda di cui trattasi – spiegata dalla Procura in limine litis – integra una inammissibile mutatio libelli ed illegittima era anche l’ordinanza del 19.8.2008, con la quale in sostanza la Corte chiedeva – inammissibilmente – alla Procura (che aveva già rassegnato le proprie conclusioni) di modificare la domanda per correlarla al danno da violazione delle regole sulla concorrenza; così violando l’art. 111 Cost. secondo cui ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti e davanti ad un giudice terzo ed imparziale che non può sostituirsi alle parti nella titolarità dell’azione. Osserva, in particolare, che - diversamente da quanto sostenuto dalla Sezione territoriale – la Procura, pur avendo rilevato la violazione di norme sugli appalti, ha sempre individuato il danno erariale solo ed esclusivamente nelle diseconomie (quale danno patrimoniale) di oltre 2 milioni di euro riscontrate dalla Guardia di Finanza e mai aveva parlato di danno alla concorrenza (che è danno non patrimoniale) quale autonoma voce di danno, ulteriore rispetto alla diseconomia. Osserva, inoltre, che ove si ritenesse che tale forma di danno sia riconducibile ai danni di natura patrimoniale, doveva essere provato che il mancato espletamento di una gara pubblica per l’affidamento del service per due soli reparti, anzichè per i tre originariamente previsti, abbia comportato un maggior costo rispetto a quelli di mercato; prova che non è stata raggiunta, essendo anzi risultati congrui i prezzi del service, come evidenzia anche la C.T.U.
2) Quanto alla responsabilità dell’appellante, osserva che questi – pur esercitando le funzioni di Direttore generale – è pur sempre un medico igienista privo di particolari cognizioni e competenze in materia di contratti. Sul punto, richiamate anche testimonianze e risultanze del processo penale, evidenzia che diffusa e condivisa da parte di dirigenti amministrativi era la convinzione che in sede di trattativa privata si potesse modificare l’ampiezza dell’oggetto dell’appalto. Nessuna colpa è, quindi, imputabile all’appellante anche con riguardo all’iniziativa della rinegoziazione che fu intrapresa dall’allora direttore amministrativo (dott. Tessera). In definitiva osserva che è senz’altro a lui riconducibile – quale titolare dei poteri di gestione dell’azienda – la scelta del modello contrattuale del service rispetto agli ordinari metodi di acquisto; scelta che, peraltro, ha consentito all’Ospedale di far fronte al notevole impegno economico occorrente per avere a disposizione attrezzature sanitarie all’avanguardia. Mentre le procedure amministrative poste in essere per il raggiungimento del fine sono demandate ai competenti uffici dell’ente. Inoltre, all’appellante non sarebbe addebitabile alcuna superficialità sulle analisi di convenienza del service. Osserva sul punto che la stima della spesa era stata affidata al Provveditorato e un dubbio sulla bontà del lavoro di questo ufficio è sorto solo quando sono pervenute le offerte. Ed anche a questo punto, quando il contratto non era ancora stato stipulato, il dr. Caltagirone ha agito con estrema razionalità, demandando ad un apposito collegio tecnico la valutazione della congruità dell’offerta della N.G.C.
Con successiva memoria l’appellante ha ulteriormente illustrato i motivi di gravame, evidenziando in particolare che: l’iniziativa assunta dalla Sezione lombarda con l’ordinanza del 2008 “ha evidente natura sindacatoria e tradisce platealmente il principio di terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, che … ha preteso di indirizzare l’azione, la cui titolarità è di esclusiva pertinenza della Procura”; comunque, il danno alla concorrenza - ove si ritenga di natura patrimoniale - non poteva essere determinato in via equitativa non essendo stata raggiunta la prova dell’esistenza dello stesso; esistenza che – secondo la giurisprudenza contabile – non può ritenersi in re ipsa (vedi Sez. Lazio n. 1990 del 2010, Sez. I n. 75 del 2010) e che, nel caso di specie, è stata esclusa anche dalla C.T.U.; alla procedura negoziata hanno, comunque, partecipato due imprese in un contesto commerciale in cui vige un sostanziale oligopolio; il criterio adottato per la quantificazione del danno è illogico e ingiusto, essendo stato adottato quale parametro di riferimento il danno da diseconomia che la stessa Sezione ha ritenuto non provato; sarebbe, in ogni caso, insussistente la contestata colpa grave dell’appellante. L’appellante chiede, in definitiva, di essere mandato assolto da ogni responsabilità e che la Corte ordini espressamente la cancellazione del sequestro conservativo trascritto sui beni immobili di proprietà dell’appellante (sia quelli ubicati in Milano alla via Birolli n. 20, sia il terreno in Bordigiadas); con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite.
Sull’appello proposto da Caltagirone la Procura generale non ha rassegnato conclusioni scritte.
All’udienza pubblica del 13 gennaio 2011 l’Avv. Vincenzo Avolio ha chiesto che, in mancanza delle conclusioni scritte, venga sentito prima il rappresentante della Procura generale. Il P.M. ha confermato, per la posizione di Schimmenti, le conclusioni rassegnate per iscritto sulla estinzione del giudizio; circa la posizione di Caltagirone ha osservato che - diversamente da quanto dedotto dall’appellante – l’ordinanza istruttoria emessa dalla Sezione Lombardia non ha determinato alcuna modifica della domanda introdotta con la citazione in giudizio; si è rimesso, comunque, al Collegio per la valutazione dell’entità dei danni addebitabili all’appellante. L’Avv. Avolio, in replica, ha ribadito che nella specie non è stata accertata l’esistenza di alcuna diseconomia e che i prezzi – così come determinati dal mercato - sono stati ritenuti congrui; quindi, salvo riesumare la responsabilità formale espunta dall’ordinamento, deve ritenersi che non si è verificato alcun danno; ha, poi, ripercorso le argomentazioni svolte per iscritto confermando le conclusioni ivi rassegnate ed insistendo sull’espresso ordine di cancellazione del sequestro. L’Avv. Salvatore Di Mattia ha chiesto che venga dichiarata l’estinzione del giudizio per Schimmenti ed ha osservato che le spese di giudizio sono state già liquidate dalla Sezione e sono già state pagate dall’appellante.
In questo stato i giudizi sono stati trattenuti in decisione.
DIRITTO
1. Disposta la riunione degli appelli ai sensi dell’art. 335 c.p.c., rileva il Collegio che nei confronti di Schimmenti ricorrono le condizioni per la declaratoria di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 1, comma 233, della legge n. 266 del 2005.
Si rammenta, al riguardo, che l’art. 1, comma 231, della legge n. 266 del 2005 prevede che «con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza»; il comma 232 stabilisce che «la sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento»; infine, il comma 233 dispone che «il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello».
Nella specie, in applicazione della menzionata normativa questa Sezione, con decreto n. 28/2010 del 15 giugno 2010, ha accolto l’istanza proposta dall’appellante e per l’effetto ha quantificato l’addebito nella somma di euro 43.433,10 (pari al 20% della condanna, più interessi dalla pubblicazione della sentenza di primo grado), oltre alle spese di giudizio di secondo grado liquidate in euro 73,10 (le spese di primo grado erano state compensate dalla Sezione territoriale).
Ciò premesso, osserva il Collegio che l’appellante ha provveduto all’integrale pagamento delle somme sopra indicate, che risultano versate con bonifico bancario in favore della Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda in data 8 settembre 2010 e con versamento alla Tesoreria Centrale dello Stato in data 17 settembre 2010.
Sussistono, pertanto, i presupposti per dichiarare definito il giudizio d’appello proposto dal dott. Schimmenti avverso la sentenza della Sezione Lombardia n. 598/2009 del 30 settembre 2009.
Circa le ulteriori spese del giudizio d’appello intercorse dopo l’emanazione del decreto n. 28/2010, ritiene il Collegio che sia equo disporne la compensazione anche in ragione della loro tenuità.


2. Resta, quindi, da decidere l’appello proposto dal dott. Caltagirone.
2.a A tal fine, per un’esatta comprensione della materia del contendere, occorre rammentare che all’appellante - direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano (chiamato in giudizio congiuntamente con Schimmenti, dirigente dell’unità operativa “Approvvigionamenti”, e con altri soggetti mandati assolti) – la Procura regionale aveva contestato un danno di euro 2.386.017,21 che sarebbe stato subito dalla stessa Azienda Ospedaliera per le “diseconomie” derivanti da un contratto integrato d’appalto (c.d. service) stipulato nel 1999 con la N.G.C. Medical s.p.a. per la gestione, l’esecuzione dei lavori e la fornitura di servizi relativi a due reparti dell’Azienda; diseconomie che erano state in tale misura quantificate dalla Guardia di Finanza e che nell’atto di citazione venivano indicate quale diretta conseguenza delle violazioni a carico dei convenuti: a) dell’art. 9, c. 3, del d.lgs. n. 358 del 1992 (come modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 402 del 1998), che autorizza il ricorso alla trattativa privata in caso di pubblico incanto andato deserto, “purchè le condizioni iniziali della fornitura non vengano sostanzialmente modificate”, mentre nella specie la licitazione privata aveva riguardato il service per tre reparti e la trattativa privata era stata condotta per il service di due reparti ed escludendo la manutenzione delle apparecchiature; b) dell’art. 6 della legge n. 537 del 1993 (come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994), secondo cui “è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni …”.
La Sezione territoriale, dopo aver espletato una consulenza tecnica d’ufficio che, pur evidenziando alcune “criticità”, concludeva nel senso dell’assenza di danno, ordinava alla Procura regionale di “precisare il petitum sostanziale del … giudizio”, osservando nelle premesse che gli atti processuali deponevano “per lo scostamento dell’azione amministrativa dalle regole della concorrenza”, che la circostanza non era incompatibile “con le considerazioni del Collegio peritale …, secondo cui le criticità evidenziate in sede di aggiudicazione sarebbero state recuperate con la rinegoziazione del 30 settembre 2002”; elementi dai quali conseguiva, appunto, “la necessità di precisare il petitum sostanziale del … giudizio, ossia di individuare in modo esaustivo il danno posto a fondamento delle accertate criticità (finora postulato con esclusivo riferimento alle diseconomie rilevate dalla Guardia di Finanza), fermo restando il potere-dovere del giudice di qualificare il fatto dedotto in giudizio e quindi di rideterminare le poste di danno scaturite dai fatti materiali contestati dalla Procura attrice, in caso di ravvisata sussistenza della prova di esso, nell’an e nel quantum”.
In esecuzione dell’ordinanza n. 186 del 19 agosto 2008, la Procura regionale precisava che il danno contestato con l’atto di citazione era riconducibile alla “violazione dell’articolo 9, commi 5 e 6 del dec. leg.vo 358/1992, così come modificato dal dec. leg.vo 402/1998” ed affermava che, essendo “ampiamente provate le illegittimità compiute dai convenuti …”, “il danno … quantificabile in via equitativa” poteva indicato come “pari al 30% del danno ravvisato dalla Guardia di Finanza, ovvero € 715.805,16”.
Con la sentenza impugnata i primi giudici hanno ritenuto sussistente il “c.d. danno alla concorrenza”, la cui peculiarità – come è detto in sentenza – “si coglie nella ricaduta, sul contratto, dell’acquisizione di beni e servizi in mancanza della valutazione concorsuale di un adeguato numero di potenziali contraenti, in termini di maggiori costi della fornitura o di conseguimento di prestazioni qualitativamente inferiori a quelle di mercato”; ed hanno ravvisato – mutuando i criteri utilizzati dalla giurisprudenza amministrativa per la quantificazione del danno per equivalente e, quindi, per la liquidazione dell’utile d’impresa – che tale forma di danno (da ritenersi “in re ipsa”) poteva essere “determinato applicando la misura del 5% al valore del contratto originario … e alle somme corrisposte all’impresa in sede di rinnovo …”; con la conseguenza che il “danno da concorrenza” “ammonterebbe ad € 2.387.357,80”; senonchè, dovendo “tener conto delle precisazioni svolte dalla Procura … il danno risarcibile non può superare l’importo di € 715.805,16”. Quindi, il danno alla concorrenza – scomputate le quote astrattamente riferibili ai soggetti per i quali è stata esclusa la colpa grave – è stato addebitato per euro 322.112,32 a Caltagirone e per euro 214.741,55 a Schimmenti (il cui appello è stato dichiarato definito supra sub 1 per ricorso alla definizione agevolata del giudizio).
Con la stessa sentenza la Sezione Lombardia ha rilevato che “oltre al danno alla concorrenza … la Procura regionale, con l’atto di citazione, addebitava ai convenuti l’importo delle diseconomie quantificate dalla Guardia di Finanza” ed ha osservato che “sostanzialmente, si trattava di un danno ulteriore che, però, la Procura non è riuscita a provare … limitandosi a chiedere il risarcimento del danno alla concorrenza …”.
Poste tali necessarie premesse, va ancora rammentato che l’appellante deduce l’illegittimità della sentenza sotto vari profili che possono, comunque, essere ricondotti – da un lato – alla violazione del divieto di proposizione di domande nuove nel corso del giudizio e – dall’altro – nell’assenza degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa con particolare riguardo al danno.
2.b L’appello è fondato. Valgano le argomentazioni di seguito illustrate, che debbono necessariamente prendere le mosse da una disamina del concetto di “danno alla concorrenza”.
E’ noto, al riguardo, che nella giurisprudenza di questa Corte con tale locuzione si indica, in forma sintetica, il danno subito dall’amministrazione quando un contratto venga stipulato in violazione delle regole di evidenza pubblica (anche e soprattutto di livello comunitario) che impongono il previo espletamento di una gara al fine di garantire la possibilità di scegliere, nell’ambito di un adeguato numero di imprese partecipanti, la migliore offerta conseguibile per l’acquisizione dei beni o servizi oggetto della gara stessa.
La locuzione è stata mutuata dalla giurisprudenza amministrativa che, peraltro, con tale espressione indica il danno risarcibile per equivalente in favore di un’impresa che non abbia avuto la possibilità di aggiudicarsi un contratto (si parla, infatti, di perdita di chance), o perchè illegittimamente esclusa da una gara o perché, altrettanto illegittimamente, la gara non sia stata neppure espletata; danno che – ove ne ricorrano i presupposti - viene determinato in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. in una misura variabile tra il 5% e il 10% del valore del contratto, che costituisce – di regola - l’utile che l’impresa avrebbe potuto conseguire dall’esecuzione del contratto stesso.
La giurisprudenza contabile – di cui è espressione la sentenza impugnata - ha ritenuto di poter utilizzare i medesimi criteri della giustizia amministrativa per la quantificazione del “danno alla concorrenza”, derivante – come si è detto – dall’illegittima omissione della gara pubblica e addebitabile al soggetto responsabile, per dolo o colpa grave, di tale omissione.
Va ancora precisato che tale forma di danno rientra, senza dubbio, nella categoria del vero e proprio danno patrimoniale, non essendo altro che la traduzione in termini economici del nocumento subito dall’amministrazione per non aver conseguito il risparmio di spesa che sarebbe stato possibile ottenere mediante il confronto in gara tra più offerte.
Fin qui il condiviso approdo della giurisprudenza contabile, che – fermo restando il concetto del “danno alla concorrenza”, definito in alcuni casi come “danno da differenza” - si è, peraltro, divisa sulla problematica della esistenza e della quantificazione del danno in concreto.
Tanto chiarito, osserva il Collegio – come notazione di carattere generale – che il danno alla concorrenza, non diversamente da qualunque altra tipologia di danno patrimoniale, non può ritenersi sussistente “in re ipsa” per il solo fatto, cioè, che sia stato illegittimamente pretermesso il confronto tra più offerte.
Deve dirsi, piuttosto, che l’omissione della gara costituisce un indizio di danno, in quanto suscita il sospetto che il prezzo contrattuale non corrisponda al minor prezzo che sarebbe stato ottenibile dal confronto di più offerte. Trattandosi, però, pur sempre e soltanto di un sospetto, occorre dimostrare che effettivamente nel caso concreto la violazione delle norme sulla scelta del contraente abbia determinato una maggiore spendita di denaro pubblico; dimostrazione che potrà essere raggiunta con il ricorso a ogni idoneo mezzo di prova, quale può essere la comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti a seguito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione. Ed è ovvio che solo in ipotesi di dimostrata esistenza del danno potrà farsi ricorso alla liquidazione con valutazione equitativa, che – come è ben noto - è prevista dall’art. 1226 c.c. proprio per sopperire alla impossibilità o, comunque, alla particolare difficoltà di quantificare un danno di cui sia, però, certa l’esistenza.
E’ doveroso anche precisare che non appare appropriato trasporre nel giudizio di responsabilità di cui conosce questa Corte i criteri elaborati dalla giustizia amministrativa per la quantificazione del danno subito dall’impresa illegittimamente esclusa da una gara. E’ agevole, invero, rilevare che il giudice amministrativo valuta la fondatezza di una domanda di risarcimento del danno che sia stata proposta sul presupposto che l’illegittima esclusione abbia precluso all’impresa di conseguire l’utile che avrebbe ottenuto in caso di aggiudicazione del contratto; è comprensibile quindi che, ove la domanda sia ritenuta fondata, la quantificazione del danno – necessariamente effettuata in via equitativa - faccia riferimento a una percentuale variabile tra il 5 e il 10% del prezzo di aggiudicazione, costituendo – di regola – detta percentuale la misura dell’utile d’impresa e indicando, di converso, l’entità presumibile del danno subito dall’impresa esclusa dalla gara.
Senonchè, dal lato dell’amministrazione danneggiata e salvo che non si agisca per il risarcimento del danno “indiretto”, non si vede perchè la maggiore spendita di denaro pubblico, che può conseguire dall’illegittima scelta del contraente, dovrebbe coincidere – nella stessa misura percentuale e numerica - con la perdita dell’utile riconosciuta all’impresa illegittimamente estromessa. In realtà va detto che nel versante della responsabilità amministrativa il “danno alla concorrenza” - ove sia effettivamente provato nell’an - può non corrispondere nel quantum a quelle misure percentuali, potendo oltrepassarle sia nel valore minimo (del 5%) che in quello massimo (del 10%) in relazione alla peculiarità del caso concreto, così come potrebbe emergere dagli esiti dei dovuti accertamenti probatori; esiti ai quali la quantificazione del danno deve pur sempre tendenzialmente conformarsi, anche se effettuata con il ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
In definitiva, osserva il Collegio che – esclusa la sussistenza “in re ipsa” del danno alla concorrenza – la mera trasposizione dei criteri di quantificazione seguiti dal giudice amministrativo si manifesta quale chiaro sintomo di una inammissibile rinuncia alla prova dell’an e del quantum del danno.
2.c Venendo al caso concreto, si è già detto supra sub 2.a che nell’atto di citazione il danno contestato veniva ravvisato quale conseguenza delle violazioni dell’art. 9, c. 3, del d.lgs. n. 358 del 1992 (come modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 402 del 1998), che autorizza il ricorso alla trattativa privata in caso di pubblico incanto andato deserto, “purchè le condizioni iniziali della fornitura non vengano sostanzialmente modificate” e dell’art. 6 della legge n. 537 del 1993 (come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994), secondo cui “è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni …”.
Quindi, pur non essendo espressamente qualificato come “danno alla concorrenza” (probabilmente perchè l’azione di responsabilità è iniziata prima che la locuzione prendesse forma nella giurisprudenza contabile), è evidente che si trattava di danno che - nella prospettazione accusatoria – trovava origine proprio nella circostanza che l’aggiudicazione del contratto di service, prima, e il rinnovo del contratto, poi, fossero avvenuti con il metodo della trattativa privata senza acquisire tutte le possibili offerte di mercato. E, infatti, il danno veniva indicato come il complesso delle “diseconomie” conseguenti a quelle violazioni, trattandosi dei maggiori costi, rispetto ai valori di mercato, che – sempre nella prospettazione accusatoria - l’Azienda Ospedaliera aveva sostenuto per acquisire beni, lavori e servizi in cui si estrinsecava il contratto integrato di service.
E su questa linea si è mossa la Sezione Lombardia fino alle ordinanze n. 182 del 2006 e n. 253 del 2007, con le quali è stata disposta consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare “se risulti congruo il prezzo di aggiudicazione del contratto di service …”; “se risulti congruo il prezzo al quale il contratto … è stato prorogato …”.
Successivamente – come rammentato sub 2.a – con ordinanza n. 186 del 2008 la Sezione territoriale ha chiesto alla Procura “di precisare il petitum sostanziale del … giudizio”, in considerazione del rilevato “scostamento dell’azione amministrativa dalle regole della concorrenza”.
Orbene, a prescindere dalla valutazione se quest’ultima ordinanza sia espressione del legittimo esercizio del potere istruttorio del giudice o se invece - come, in realtà, sembra trasparire dalle premesse del provvedimento – contenga una inammissibile richiesta alla Procura di modificare la domanda per correlarla al danno da violazione delle regole sulla concorrenza, sta di fatto che con la sentenza impugnata la Sezione Lombardia ha deciso la controversia prendendo a riferimento non più la sola posta dannosa di euro 2.386.017,21 contestata nell’atto di citazione, ma anche l’importo di euro 715.805,16 indicato dalla stessa Procura, in esito all’ordinanza, quale possibile entità del danno alla concorrenza equitativamente commisurato al 30% di euro 2.386.017,21.
La Sezione territoriale ha, quindi, ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova del danno da “diseconomie” contestato, si ripete, per euro 2.386.017,21; mentre ha ritenuto sussistere “in re ipsa” il danno alla concorrenza che – a detta della stessa Sezione - “ammonterebbe ad € 2.387.357,80”, ma che, in considerazione di quanto precisato dalla Procura, “non può superare l’importo di € 715.805,16”; relativamente a quest’ultimo addebito ha affermato la responsabilità dell’appellante nella misura di euro 322.112,32.
In sostanza, da una stessa vicenda contrattuale sarebbero derivate due forme di danno: una – quella delle “diseconomie” – che (come si legge in sentenza) “la Procura non è riuscita a provare”, in quanto “la relazione della Guardia di Finanza è stata contraddetta dalle perizie di parte, le cui deduzioni non sono state confutate dalla Procura”; l’altra – quella del “danno alla concorrenza” – che (si legge sempre in sentenza) “costituisce la soglia minima del pregiudizio che scaturisce dalla violazione delle regole di evidenza pubblica” e che è stata ravvisata come sussistente non necessitando di una prova specifica perché “in re ipsa”, essendo “intrinseca nel contenuto delle violazioni contestate”.
In realtà, osserva il Collegio che quelle che i primi giudici hanno considerato e trattato come due distinte forme di danno altro non sono che espressioni dello stesso danno - “da diseconomie” o “alla concorrenza”, che dir si voglia - che la Procura attrice reputava originato dalla violazione delle regole di evidenza pubblica sulla scelta del contraente mediante confronto tra più offerte in libera gara; e ciò trova piena conferma nella circostanza che la stessa Procura – in esito all’ordinanza del 2008 – ha quantificato il “danno alla concorrenza” come una semplice percentuale del “danno da diseconomie”.
Ma se così è, dovendosi ritenere – per tutte le ragioni indicate sub 2.b – che il “danno alla concorrenza” (non diversamente da ogni altra forma di danno patrimoniale) debba essere provato nell’an per, poi, essere quantificato, sia pur equitativamente, tenendo conto della specificità del caso concreto, non vi è dubbio che all’affermata carenza di prova del danno “da diseconomie” non poteva che conseguire una analoga affermazione di mancanza di prova per il danno “alla concorrenza”; e ciò semplicemente perchè nel caso di specie (non è inutile ripetere) quelle diverse espressioni linguistiche indicano la stessa tipologia di danno.
In definitiva, tutto quanto sopra precisato, poiché la sentenza non è stata gravata dalla parte pubblica ed è, quindi, non più controvertibile la mancanza di prova del danno accertata dai primi giudici, deve il Collegio affermare – in accoglimento dell’appello di parte privata – l’infondatezza della domanda di risarcimento proposta dalla Procura a carico del dott. Caltagirone per mancanza di prova del danno (sia esso denominato “da diseconomie” ovvero “alla concorrenza”).
2.d All’accoglimento dell’appello consegue la revoca del sequestro disposto dai primi giudici sui beni di proprietà di Caltagirone e, cioè, sull’appartamento con annesso box sito in Milano alla Via Birolli n. 20 e sul terreno sito in Bordigiadas (SS), con ordine al competente Conservatore dei registri immobiliari di provvedere alla cancellazione del sequestro già iscritto sui predetti beni.
2.e Infine, trattandosi di proscioglimento nel merito, deve il Collegio provvedere alla liquidazione - in favore di Caltagirone e a carico della Azienda Ospedaliera “Ospedale Niguarda Ca’ Granda” di Milano - dell’ammontare di spese e onorari di difesa.
A tale riguardo, tenuto conto della complessa e articolata attività difensiva che è stata dispiegata dinanzi alla Sezione territoriale anche con il ricorso a perizia di parte, reputa il Collegio che – in assenza di notula – sia equo liquidare l’importo onnicomprensivo di € 10.000,00 per entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale
1) dichiara definito, ai sensi dell'art. 1, commi 231-233, della legge n. 266 del 2005, il giudizio d'appello iscritto al numero 37015 del registro generale, proposto da SCHIMMENTI DIEGO avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia n. 598/2009 del 30 settembre 2009; compensa le ulteriori spese di questo grado di giudizio;
2) accoglie l’appello iscritto al numero 36892 del registro generale, proposto da CALTAGIRONE PIETRO avverso la stessa sentenza della Sezione Lombardia n. 598/2009 del 30 settembre 2009 e per l’effetto, in riforma della sentenza, dichiara l’appellante esente da responsabilità amministrativa per mancanza di prova del danno;
3) dispone il dissequestro dei beni di proprietà di Caltagirone e, cioè, dell’appartamento con annesso box sito in Milano alla Via Birolli n. 20 e del terreno sito in Bordigiadas (SS); di conseguenza, ordina al competente Conservatore dei registri immobiliari la cancellazione del sequestro già iscritto sui predetti beni;
4) liquida, in favore di Caltagirone e a carico della Azienda Ospedaliera “Ospedale Niguarda Ca’ Granda” di Milano, l’ammontare delle spese e degli onorari di difesa per entrambi i gradi di giudizio nell’importo onnicomprensivo di € 10.000,00.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 13 gennaio 2011.