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L’oggetto della giurisdizione tributaria

1. Profili generali

L’oggetto della giurisdizione tributaria  è disciplinato dall'art. 2 del D.Lgs. 546/1992,  mentre il successivo art. 19 reca l'elenco degli atti impugnabili  innanzi le Commissioni tributarie.

Sono attribuite alla giurisdizione tributaria le seguenti fattispecie:

a)      tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale[1];

b)      le sovrimposte e le addizionali;

c)      le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio;

d)      le controversie promosse dai  singoli possessori  concernenti  l'intestazione,  la  delimitazione,   la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo  fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti  la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale.

Restano  escluse  dalla  giurisdizione   tributaria   soltanto   le  controversie  riguardanti  gli  atti  della  esecuzione  forzata  tributaria successivi alla notifica  della  cartella  di  pagamento  e,  ove  previsto, dell'avviso  di  cui  all'articolo  50  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad  applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica. Si tratta  delle opposizioni all’esecuzione di cui  all’art.  615  c.p.c. relative alla pignorabilità dei beni,  e  le  opposizioni  agli  atti esecutivi previsti dall’art. 617 c.p.c., diverse  da quelle relative alla regolarità formale ed  alla  notificazione  del  titolo esecutivo.

Le Commissioni tributarie sono competenti per tutte le controversie in materia di imposte e tasse e la loro giurisdizione è esclusiva e di carattere generale[2], pertanto tale giurisdizione è estesa ad ogni questione relativa all’an o al quantum del tributo[3]. Ne deriva che ogni tributo, anche di nuova istituzione, rientrerà automaticamente nella giurisdizione tributaria, senza necessità di espresse disposizioni al riguardo[4].

2. L’ampliamento della giurisdizione

Il passaggio da un sistema basato sulla definizione dell'oggetto della giurisdizione tributaria che si identificava nell'elencazione tassativa di tributi rimessi alla cognizione delle Commissioni tributarie provinciali e regionali[5], ad un sistema “aperto”, coincidente con l’intera area del contenzioso tributario[6], è avvenuto per mezzo di due interventi legislativi:

a)l’art. 12, c. 2, della L. 28 dicembre 2001, n. 448;

b)      l' art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203  convertito con L. 2 dicembre 2005, n. 248 (c.d. collegato alla finanziaria 2006).

Tale ampliamento della giurisdizione non ha mancato di sollevare dubbi di legittimità costituzionale con riferimento:

1.      alla possibile violazione dell’art. 102 e della VI disposizione trans. Cost., che dispone l’illegittimità di nuovi giudici speciali previsti da una norma successiva all’entrata in vigore della costituzione;

2.      alla possibile violazione del limite – richiamato a suo tempo dalla Corte Costituzionale con ord. n. 144 del 23/04/1998 – della natura tributaria delle materie attribuite alle Commissioni tributarie, che rappresenta presupposto indispensabile per non farle ritenere “nuovi giudici speciali”.

3 L’ampliamento ad opera  dell’art. 12, c. 2, della L. 28 dicembre 2001, n. 448

L’art. 12, c. 2, della L. 28 dicembre 2001, n. 448[7]:

-         ha esteso la giurisdizione a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, sostituendo l’elencazione tassativa delle imposte rimesse alla cognizione delle Commissioni tributarie. Conseguentemente, ogni tributo, anche di nuova istituzione, rientrerà  automaticamente  nella giurisdizione tributaria,  senza  necessità  di  espresse  disposizioni  al riguardo. La giurisdizione  delle Commissioni ha assorbito, quindi, quella che era la competenza del giudice  ordinario in materia di imposte e tasse prevista dall’art. 9 c.p.c.;

-         ha consentito di superare le problematiche connesse all’interpretazione della categoria dei  “tributi comunali e locali”, emerse con riferimento alla ricomprensione o meno in tale categoria dei tributi regionali, infatti alcune interpretazioni restrittive escludevano dalla giurisdizione speciale le controversie relative a quest’ultima categoria di tributi[8];

-         ha attribuito alla cognizione delle Commissioni tutte le controversie in materia di sanzioni amministrative “comunque irrogate da uffici finanziari”, mentre la precedente formulazione dello stesso articolo, limitava la giurisdizione tributaria alle sole sanzioni tributarie non penali.

A decorrere dall’entrata in vigore (1 gennaio 2002) della citata modifica legislativa,  sono stati attratti nella giurisdizione tributaria, tra l’altro, le seguenti controversie concernenti:

-         i contributi spettanti ai consorzi di bonifica ed imposti  ai proprietari, per le spese di esecuzione, manutenzione  ed  esercizio  delle opere di  bonifica  nonché  di  miglioramento  fondiario, in quanto  rientranti  nella categoria generale dei tributi, considerato che gli obblighi sono imposti dalla legge e non da accordi contrattuali[9]. Pertanto, spetta al giudice tributario, la  competenza,  ratione materiae, a conoscere della domanda con la quale il contribuente chiede  la restituzione delle somme versate a tale titolo, laddove deduca di non avere tratto alcun vantaggio dall'attività consortile[10];

-         i diritti doganali di cui all’art. 34 del TULD;

-         l’imposta straordinaria sui beni di lusso[11] di cui all'art. 8 D.L. 384/1992, convertito, con modificazioni, nella L. 438/1992;

-         i diritti aeroportuali relativi all’imbarco dei passeggeri, previsti dalla L. 5 maggio 1976, n. 324 in quanto obbligatoriamente corrisposti dagli utenti del servizio aeroportuale allo scopo di consentire ai gestori di svolgere le attività loro affidate[12].

Ciò nonostante sussisteva, il problema della giurisdizione per talune entrate patrimoniali degli Enti locali tra cui la TIA[13], in riferimento alle quali il  Consiglio  di  Presidenza  della  Giustizia tributaria, nella Relazione al  Parlamento sull'andamento dell'attività degli organi di giurisdizione tributaria (anno 2003),  aveva  prospettato l'attrazione delle relative  controversie  nell'alveo  della  giurisdizione tributaria,  a  ragione  della  loro  prevalente  natura   di   imposizioni tributarie.

4 L’ampliamento ad opera  delle lett. a) e b) del c. 1 dell' art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203  convertito con L. 2 dicembre 2005, n. 248

Le disposizioni normative di cui alle lett. a) e b) del c. 1 dell' art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203  convertito con L. 2 dicembre 2005, n. 248 hanno ulteriormente modificato l’art. 2.

La lettera a) inserisce al c. 1 del citato art. 2, dopo  le  parole "tributi di ogni genere e specie", le parole "comunque denominati". Si tratta di una disposizione,  con la quale si dà rilevanza all’aspetto sostanziale anzichè formale[14] (nomen iuris).

La lettera b) del c. 1 dell'art. 3-bis, riconduce nell'ambito della  giurisdizione  tributaria i seguenti canoni  o  tariffe di  competenze  degli  Enti  locali:

-   le  controversie relative alla debenza  del  canone  per  l'occupazione  di  spazi  ed  aree pubbliche previsto dall'articolo 63 del  D.Lgs.  15  dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni;

-   del canone per lo scarico e  la depurazione delle acque reflue e per lo  smaltimento  dei  rifiuti  urbani;

-   le controversie attinenti  l'imposta  o  il  canone  comunale  sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni.

In definitiva, vengono attribuite alla giurisdizione tributaria anche le entrate patrimoniali di cui gli artt. 62 e 63 del D.Lgs. 446/1997, alla  L.  5 gennaio 1994, n. 36 ed all'art. 49 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. 

Antecedentemente a quest’ultima innovazione normativa,  la giurisprudenza di legittimità si era consolidata nel riconoscere relativamente alle citate entrate la giurisdizione del giudice ordinario[15], trattandosi di controversie relative a rapporti individuali di  utenza  con soggetto privato,  dovendosi ritenere per soggetto privato qualunque utente  del  servizio,  e quindi anche un ente pubblico. Tale soluzione, veniva rafforzata  dall’osservazione che detti "rapporti individuali di utenza con soggetti privati", sono sottratti dall'art. 7 della L. n. 205/2000 alla giurisdizione esclusiva in materia di  pubblici servizi: si tratta, infatti, di rapporti la cui fonte regolatrice non è  di natura amministrativa, ma di diritto privato  negoziale,  indipendentemente dalla natura (pubblica o privata) del soggetto del  rapporto  giuridico  da tale regolamento scaturito[16]. Tale soluzione è rafforzata dal nuovo testo dell'art. 33 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, così come modificato dall'art. 7 della L. n.  205/2000[17],  nel  testo risultante dalla dichiarazione di parziale incostituzionalità, pronunciata dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 204 del 2004. La Corte ha, infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato  art. 7 in quanto attribuisce  al  giudice  amministrativo l'intera materia dei   pubblici servizi, a prescindere dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte. La Corte ha,  infatti,  statuito  che,  a  prescindere  dall'ipotesi  di concessione di servizi, già contemplata dall'art. 5 della L.  1034/1971, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in  materia  di pubblici  servizi  sopravvive  soltanto  nelle  controversie  "relative   a provvedimenti adottati dalla Pubblica Amministrazione o dal gestore  di  un pubblico servizio in un procedimento  regolato  dalla  L.  7  agosto  1990, n. 241", ovvero relative all'affidamento di un pubblico servizio e alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché alla vigilanza in settori particolari espressamente indicati[18]-[19]-[20]-[21].

Tuttavia, nulla è mutato con riferimento alle  cause  per contributi previdenziali obbligatori in  costanza  di  lavoro, la cui competenza è  dei Giudici civili - Giudici monocratici del lavoro[22].

5. Le sentenze della Corte costituzionale n. 64 del 14 marzo 2008 e n. 130 del 5 maggio 2008

Con Sent. n. 64 del 14 marzo 2008 la Corte Costituzionale[23] ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2,  c.  2,  secondo periodo, del D.Lgs. 546/1992 –  come  modificato dall’art. 3-bis, c. 1, lett. b), del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, nella parte in cui stabilisce che  «Appartengono alla giurisdizione tributaria  anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi  ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni». Ciò discende dalla considerazione che una volta appurato che il COSAP non ha, secondo il diritto vivente, natura tributaria, la norma sopra citata nell’attribuire alla giurisdizione tributaria  la  cognizione  di controversie relative a prestazioni patrimoniali non tributarie si risolve nella creazione di un giudice speciale vietato dal c.2  dell’art. 102. Dalla natura non tributaria discende che il credito non gode del privilegio speciale che l’art. 2752 c.c. assicura ai tributi locali.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 130 del 5 maggio 2008 ha  dichiarato  l'illegittimità  costituzionale  dell’art. 2,  c.  1,  primo periodo nella  parte  in  cui  attribuisce  alla  giurisdizione     tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse  conseguano  alla  violazione  di   disposizioni non aventi natura tributaria. Si trattava, nel caso di specie, delle sanzioni previste dall’art. 3 del D.L. 12/2002 per l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture obbligatorie e, pertanto, estranee alla materia tributaria, essendo dirette a contrastare il lavoro irregolare. Infatti, la norma scrutinata si pone in contrasto con il  divieto costituzionale di istituzione  di  giudici  speciali  laddove  devolve  alla giurisdizione  tributaria  le  controversie  relative   all’irrogazione   di sanzioni in materia estranea alla disciplina dei rapporti tributari in virtù di un mero criterio soggettivo associato all’appartenenza all’Amministrazione  finanziaria  dell’ufficio  competente   all’irrogazione delle dette sanzioni.

6. Decorrenza della modifica della giurisdizione

Per il principio della perpetuatio jurisdictionis, di cui all’art. 5 c.p.c., applicabile  in base al  richiamo di cui all'articolo 1, c. 2 del D. Lgs. 546/1992,  la giurisdizione si determina secondo la legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda. Senza che abbiano rilevanza i mutamenti legislativi successivi alla proposizione della domanda[24]  nei casi in cui il sopravvenuto mutamento dello stato di diritto privi il giudice della giurisdizione al momento della introduzione della domanda.

Con particolare riferimento alle modifiche apportate con l' art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 restano, incardinate avanti al giudice ordinario le controversie introdotte  avanti  a  quest'ultimo  fino alla data del 3 dicembre 2005 (data di entrata in vigore della L. n. 248/2005)[25], mentre le nuove disposizioni si  applicano  a tutti i ricorsi presentati a partire da tale data. Da tale disposizione deriva che:

-         il principio in argomento trova applicazione anche per gli atti notificati anteriormente al 3 dicembre 2005, sempre che - prima di tale data – gli stessi non siano stati impugnati (anche con la proposizione di ricorso amministrativo) in base alla disciplina previgente e che - alla stessa data - non sia  ancora decorso il termine stabilito per l'impugnazione;

-         tutti i giudizi già incardinati dinanzi al giudice ordinario alla data del 2 dicembre 2005 proseguono presso quest'ultimo in quanto non vengono influenzati dalla novella in rassegna[26];

-         tutti i giudizi già incardinati dinanzi al giudice tributario alla data del 2 dicembre 2005, ancorché la giurisdizione al momento della domanda fosse stata carente, proseguono presso quest'ultimo, in quanto la novella legislativa ne conferma al giurisdizione[27].

L’art. 5 c.p.c. non trova applicazione in caso di sopravvenuta incostituzionalità della norma inerente la giurisdizione, come si è verificato nel caso delle sentenze della Corte costituzionale n. 64 del 14 marzo 2008 e n. 130 del 5 maggio 2008, in quanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale non essendo una forma di abrogazione della legge ma una conseguenza della sua invalidità originaria, ha efficacia retroattiva, nel senso che investe anche situazioni processuali precedenti alla sentenza di abrogazione, salvo l’avvenuta formazione del giudicato e la presenza di preclusioni processuali già verificatesi[28], in conformità al principio enunciato dagli artt. 136 Cost. e 30 della L. 11 marzo 1953, n. 87. Di conseguenza le relative controversie se ancora pendenti al momento della dichiarazione di illegittimità costituzione devono essere riassunte dinanzi al giudice fornito di giurisdizione (c.d. traslatio judicii).

L’applicabilità della translatio iudicii comporta che - a seguito  della declaratoria di difetto di  giurisdizione pronunciata dalla Commissione tributaria presso cui pende il giudizio instaurato prima della pubblicazione della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale - il processo possa essere riassunto innanzi  al giudice fornito di giurisdizione del luogo in cui è stata commessa la violazione ovvero al  diverso Tribunale indicato dal Giudice, entro il termine indicato dal Giudice  a  quo  o,  in mancanza, entro il termine di 6 mesi di cui al c.1  dell’art. 50 c.p.c., con conservazione  degli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva del giudizio tributario. In   applicazione dei criteri enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 77 del 2007, nel giudizio di riassunzione non possono essere formulate domande ulteriori rispetto a  quelle  sollevate nel giudizio originariamente instaurato innanzi al Giudice tributario[29]. In merito alla forma ed al contenuto dell’atto di riassunzione, si richiamano, in particolare, le disposizioni di  cui  all’art.  125  disp. att. c.p.c. e la  relativa  giurisprudenza  di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. n. 18170 del  9  settembre  2004;  n. 6255 del 21 giugno 1999). La  mancata  riassunzione   determina l’estinzione dell’intero processo, con il venir meno delle  sentenze  emesse nel corso di esso e la conseguente  definitività  dell’atto  (cfr. Cass. n. 3040 dell’8 febbraio 2008,  secondo cui “l’estinzione del  processo  travolge  la  sentenza  …,  ma  non  l’atto amministrativo che – come noto - non è un atto processuale  bensì  l’oggetto dell’impugnazione”).  Ciò posto, nel  giudizio  di  riassunzione  innanzi  al  Tribunale,  pur essendo ammessa la possibilità di avvalersi della prova testimoniale  –  non ammessa nel processo tributario -, i fatti  oggetto  della  prova  sono  pur sempre e solo quelli già ritualmente  introdotti  nel  giudizio  tributario, considerato che, come già ricordato, non si tratta di un nuovo giudizio,  ma della prosecuzione di quello già instaurato, senza possibilità  di  modifica della domanda e dei fatti posti a fondamento della stessa. Più specificamente, la mancata  allegazione  in  sede  amministrativa  o processual-tributaria di dichiarazioni rese da terzi si ritiene che  escluda la possibilità di utilizzare validamente la prova per testi nell’ambito  del giudizio di riassunzione[30].

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 7. Controversie rientranti nella giurisdizione del giudice tributario

Di seguito si elencano le entrate tributarie e patrimoniali comunali, provinciali e regionali oggetto della giurisdizione delle Commissioni tributarie. Tale elencazione non è tassativa in quanto per effetto dell’ampliamento della giurisdizione da parte della normativa sopra citata  viene superata la precedente elencazione ratione meteriae, pertanto ogni tributo anche di nuova istituzione rientrerà automaticamente nella giurisdizione tributaria[31].

7.1.  I tributi di ogni genere e specie.

Con il termine “tributo”  ci si riferisce al prelievo coattivo imposto in virtù di un potere autoritativo dell’Ente, rispetto ad un obbligo imposto dalla costituzione, che deve essere riconosciuto a tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed il beneficio che il singolo riceve[32].  Rientrano nella categoria dei “tributi di ogni genere e specie”, a titolo esemplificativo:

I) Tributi Erariali

-         Imposte sui redditi (IRPEF e IRPEG);

-         Imposta sul valore aggiunto (I.V.A.);

-         Imposta di registro (D.P.R. 26.04.1986, n. 131);

-         INVIM (soppressa con L. 28.12.2001, n. 448) ordinaria, decennale e straordinaria;

-         imposte ipotecarie e catastali (D.Lgs. 31.10.1990, n. 347);

-         imposta sulle successioni (soppressa con L. 18.10.2001, n. 383) e donazioni;

-         imposta erariale di trascrizione dei veicoli al P.R.A. di cui alla L. 23.12.1977, n. 952;

-         imposta sulle assicurazioni;

-         imposta straordinaria immobiliare – ISI –(D.L. 11.07.1992, conv. con modif. con L. 8.8.1992, n. 359);

-         imposta straordinaria sui depositi bancari (D.L. 11.07.1992, n. 333, conv. con modif. con L. 8.8.1992, n. 359);

-         imposta straordinaria sui beni di lusso (D.L. 19.9.1992, n. 384, conv. con modif. con L. 14.11.1992, n. 438);

-         imposta sul patrimonio netto delle imprese (D.L. 30.9.1992, n. 394, conv. con modif. con L. 26.11.1992, n. 461) abolita con D.Lgs 446/1997;

-         imposta di bollo (D.P.R. 26.10.1972, n. 642);

-         tasse automobilistiche (L. 27.12.1997, n. 449);

-         imposte sugli spettacoli di cui al D.P.R. 26.10.1972, n. 640 (come modificata dal D.Lgs. 26.2.1999, n. 60);

-         tassa sulle concessioni governative (D.P.R. 26.10.1972, n. 641);

-         tributi doganali (D.P.R. 23.1.1973);

-         imposte di fabbricazione e di consumo (accise) di cui al D.Lgs. 26.10.1995, n. 504;

-         diritti camerali riscossi dalle Camere di Commercio di cui alla L. 29.12.1993, n. 580;

-         tassa sui concorsi ed operazioni a premio (cd. tassa di lotteria) di cui al R.D.L. 19.10.1938, n. 1933, conv. con L.. 5.6.1939, n. 973 e ss.mm.;

-         tassa sui contratti di borsa di cui al R.D. 30.12.1923, n. 3278 e ss.mm.;

-         contributo al S.S.N. (cd. ‘tassa sulla salute’) di cui all’art. 31, L. 28.2.1986, n. 41 (soppresso dall’1.1.1998);

-         tributi consortili, cioè i contributi dovuti agli enti consortili di bonifica o di sviluppo industriale;

-         il canone di abbonamento radiotelevisivo (canone RAI) di cui alla L. 14.4.1995,n. 103, la cui natura tributaria di tassa è stata affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza 12.5.1988, n. 535 (conf., CTC sez. XVI, dec. 19.11.1983 n .3899; Cons. di Stato sez. VI sent. 2.4.1998, n. 426).

II) Tributi Comunali

-         ICI.  l'imposta comunale sugli immobili (disciplinata dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504);

-         ICPDPA, imposta comunale sulla pubblicità ed i diritti sulle pubbliche affissioni (artt. 1 ss., D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507);

-         CIMP, canone per l’installazione di mezzi pubblicitari (art. 62, D.Lgs. 446/1997);

-         TOSAP, tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle provincie (artt. 38 ss., D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507);

-         TARSU, tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (artt. 58 ss., D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507);

-         TIA, Tariffa di igiene urbana (art.  49  del  D.Lgs. n. 22/1997 - cosiddetto decreto  Ronchi).

III Tributi Provinciali:

-         TEFA, tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente (artt. 19 ss., D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504);

-         TOSAPP, tassa per l’occupazione delle aree pubbliche delle province (D.Lgs. 15 novembre 1993, n.507);

-         IPT, l’imposta provinciale di trascrizione;

-         la tassa speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi;

-         l’addizionale provinciale all’IRPEF (istituita dall’art. 12 della L. 13 maggio 1999, n.133);

IV Tributi Regionali:

-         TUNIV, tassa per il diritto allo studio universitario (art. 3, c. da 19 a 23, L. 549/1995);

-         TAUR, le tasse automobilistiche[33] regionali, di cui all'art. 23, D.Lgs. 30 dicembre1992, n. 504;

-         addizionale regionale sul consumo di gas metano;

-         IRBA, tassa regionale sulla benzina per autotrazione;

-         IRESA, imposta regionale sulle emissioni sonore di aeromobili;

-         TSDD, tributo speciale regionale per il deposito in discarica di rifiuti solidi;

-         TCR, tasse sulle concessioni regionali.

7.1.a. Canone per l’installazione di mezzi pubblicitari (art. 62, D.Lgs. 446/1997) [34].

I comuni possono, ai sensi del c. 1 dell'art. 62 del D.Lgs. n.  446/1997, escludere l'applicazione, nel proprio territorio, dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui al capo I del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, sottoponendo le iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o sull'ambiente ad un regime autorizzatorio e assoggettandole al pagamento di un canone in base a tariffa .

Gli elementi di analogia tra il canone  e l’imposta comunale sulla pubblicità attengono:

1.      all'oggetto  dei  suddetti due prelievi. Il presupposto dell'imposta è costituito dalla «diffusione  di messaggi  pubblicitari»  (cioè  di  messaggi   diffusi   nell'esercizio   di un'attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero  di  messaggi  finalizzati  a  migliorare  l'immagine  del   soggetto pubblicizzato), effettuata «attraverso  forme  di  comunicazione  visive  od acustiche,  diverse  da  quelle  assoggettate  al  diritto  sulle  pubbliche affissioni», in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico (art.  5 del  d.lgs.  n.  507  del  1993).  Analogamente,  il  canone  è  dovuto  per «l'installazione di mezzi pubblicitari» (rubrica dell'art. 62 del d.lgs.  n. 446 del 1997)  o,  piú  precisamente,  per  l'effettuazione  di  «iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o  sull'ambiente»  (testo  del medesimo art. 62). Al pari di ciò che  avviene  per l'imposta sulla pubblicità, l'obbligo  di  pagare  il  CIMP  nasce,  dunque, direttamente in forza della legge, per il solo fatto dell'installazione  dei mezzi  pubblicitari,  con  l'unica  differenza  che tale installazione, per essere  considerata  legittima, deve essere  preceduta,  per  l'imposta  sulla  pubblicità,  da  un'apposita dichiarazione del contribuente  e,  per  il  CIMP,  dall'autorizzazione  del Comune;

2.      il regolamento  al fine di applicare sia l'imposta che il canone per la  pubblicità, ha  sostanzialmente  lo  stesso contenuto per  ambedue  i  prelievi,  quanto  agli  elementi  strutturali  e procedimentali   che   li   caratterizzano. Appare particolarmente significativo, al riguardo, che la  tariffa del CIMP sia parametrata a quella dell'imposta, nel senso che la  prima  non può superare di piú di un quarto la seconda. Ne  deriva  che  l'importo  del canone, analogamente a quello dell'imposta, non è  determinato  in  funzione del criterio della copertura del costo di un eventuale servizio prestato dal Comune a favore  di  chi  installi  il  mezzo  pubblicitario.  Ciò  conferma l'impossibilità di configurare un rapporto di corrispettività contrattuale.

3.      per la pubblicità assoggettata a  canone,  si  applica  un  sistema  di  controllo, accertamento  e  sanzioni   amministrative   degli   abusi   sostanzialmente corrispondente a quello previsto per la pubblicità assoggettata ad  imposta. In relazione a  quest'ultima,  il  D.lgs.  n.  507  del  1993,  prevede:  a) l'applicazione dell'imposta anche  nel  caso  di  pubblicità  effettuata  in difetto od in difformità dalla  dichiarazione  che  il  soggetto  passivo  è tenuto a presentare preventivamente (art. 8); b) l'obbligo di vigilanza  del Comune  sulla  corretta  osservanza   delle   disposizioni   legislative   e regolamentari  in  materia  di  pubblicità,  alla  violazione  delle   quali conseguono, a seconda dei casi, sanzioni  amministrative  non  tributarie  e tributarie,  con  rimozione  degli  impianti  pubblicitari   abusivi,   loro sequestro (a séguito  di  ordinanza  sindacale)  a  garanzia  del  pagamento dell'ammontare dell'imposta e degli accessori di questa nonché  delle  spese  di rimozione e di custodia, anche con immediata copertura  della  pubblicità abusiva (art. 24, commi 1, 2, 3 e 4); c) l'adozione, da parte del Comune, di un  «piano  specifico  di  repressione  dell'abusivismo,   di   recupero   e riqualificazione con interventi di arredo urbano», eventualmente  prevedendo procedure   agevolative   dirette   a   «favorire   l'emersione   volontaria dell'abusivismo»,  e  ciò  all'evidente  fine  di  ridurre  l'impatto  della pubblicità sull'arredo  urbano  e  sull'ambiente  (art.  24,  comma  5-bis). Analogamente, l'art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 – proprio nel  dichiarato intento di  consentire  al  Comune  il  controllo  preventivo,  mediante  un adeguato  sistema   di   autorizzazioni,   dell'impatto   della   pubblicità sull'arredo  urbano  e  sull'ambiente  –  stabilisce  che   il   regolamento istitutivo del CIMP debba prevedere: a) «l'equiparazione, ai soli  fini  del pagamento del canone, dei mezzi pubblicitari installati senza la  preventiva autorizzazione a quelli autorizzati» (prima parte della lettera e del  comma 2); b) per l'installazione dei mezzi pubblicitari non autorizzati, «sanzioni amministrative  pecuniarie  di  importo  non  inferiore  all'importo   della relativa tariffa, né superiore al  doppio  della  stessa  tariffa»  (seconda parte della medesima lettera e del comma 2);  c)  «la  rimozione  dei  mezzi pubblicitari  privi  della  prescritta  autorizzazione,  o   installati   in difformità della stessa, o per i quali non sia stato effettuato il pagamento del canone», nonché  la  «immediata  copertura  della  pubblicità  con  essi effettuata» (comma 4).

In conclusione, i  sottolineati  forti  tratti  di  continuità  tra  la disciplina del CIMP e quella dell'imposta sulla pubblicità  evidenziano  che il canone costituisce, seppure con diverso nomen  iuris, un prelievo  della stessa natura dell'imposta e presenta, perciò, tutte le caratteristiche  del tributo. A tale conclusione non può opporsi  che,  nel  caso  di  mezzo pubblicitario  installato  su  beni  pubblici,  il   CIMP   ha   natura   di corrispettivo contrattuale, come risulterebbe dimostrato  sia  dall'analogia di detto prelievo con il COSAP, già ritenuto di natura non tributaria. Infatti, in primo luogo, va osservato, in  proposito,  che  il  CIMP, contrariamente  al  COSAP  ed  alla  TOSAP,  è  connesso  a  un  regime  non concessorio – tale, cioè, da attribuire al  concessionario  diritti  di  cui altrimenti non sarebbe titolare – ma autorizzatorio, in senso proprio, delle iniziative pubblicitarie incidenti sull'arredo urbano o sull'ambiente (comma 1 dell'art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997). La  previsione  di  un  siffatto regime comporta che l'autore delle suddette iniziative è  già  titolare  del diritto a esercitarle e che la previa autorizzazione, avendo la funzione  di realizzare un controllo preventivo, non  costituisce  una  controprestazione del Comune rispetto al pagamento del canone.

In secondo luogo, per quanto attiene al COSAP, il soggetto che  occupa  il  bene pubblico  è  tenuto  a   prestare   un   corrispettivo   (se   titolare   di concessione-contratto) o una indennità (se privo di  tale  concessione)  per remunerare l'uso di un bene del demanio o del patrimonio  indisponibile  del

Comune. Per quanto attiene  al  CIMP,  invece,  al  pagamento  del  canone  non corrisponde  alcuna  controprestazione  da  parte  del Comune, perché né il consenso  all'incidenza  della  pubblicità  sull'arredo urbano o sull'ambiente, né il rilascio  di  autorizzazioni  alle  iniziative pubblicitarie possono qualificarsi come corrispettivi contrattuali a  carico del Comune.

In terzo luogo, deve ritenersi non rilevante, ai fini  della qualificazione del CIMP, il fatto che la legge, nell'ipotesi di occupazione di beni pubblici a fini pubblicitari, da un lato, non escluda che la  TOSAP o il COSAP si cumulino con l'imposta sulla pubblicità (comma 7  dell'art.  9 del d.lgs. n. 507 del 1993; comma modificato  dal  comma  55  dell'art.  145 della legge 23 dicembre 2000, n. 388) e, dall'altro, disponga che la tariffa del CIMP sia «comprensiva» della TOSAP o del  COSAP  (comma  2,  lettera  d, dell'art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997; lettera  modificata  dal  comma  5, lettera b, dell'art. 10 della legge 28 dicembre 2001, n. 448).      Infatti, tale diversità di disciplina non incide sulla  sopra  rilevata analogia tra il presupposto del CIMP e quello dell'imposta sulla pubblicità, in quanto la “comprensione” in un prelievo di natura  tributaria,  quale  il CIMP, di un prelievo di natura privatistica come il COSAP non muta la natura del tributo “comprendente” – che è  l'unico  prelievo  applicabile  in  tale fattispecie – e comunque non fa venir meno la distinzione concettuale tra il fatto dell'installazione di mezzi pubblicitari ed il fatto  dell'occupazione di spazi ed aree pubbliche.

7.1.b Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani[35] (artt. 58 ss., D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507).

Il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507,  efficace  a  decorrere dal 1° gennaio 1994, – in attuazione del comma 4 dell’art. 4  della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n. 421 – ha  stabilito,  all’art.  58, che, in relazione all’istituzione ed all’attivazione del  servizio  relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni,  svolto  in  regime  di  privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni  «debbono  istituire una tassa annuale» (usualmente denominata “TARSU”), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal  cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali  per  i  quali  sussistono  i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento  per  cento)  del costo del servizio stesso, nel rispetto delle  prescrizioni  e  dei  criteri specificati negli artt.  da  59  a  81  del  medesimo  decreto  legislativo.

Diversamente dal precedente regime, il prelievo non riguarda lo  smaltimento dei rifiuti “esterni” ed il richiamo ai rifiuti solidi  urbani  «equiparati» (ai sensi dell’art.  60  del  decreto  legislativo)  a  quelli  «interni»  – richiamo originariamente contenuto nel comma 1 del citato art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 – è stato soppresso dalla lettera a) del comma  3  dell’art. 39 della legge 22 febbraio 1994, n. 146  (articolo  che  ha  abrogato  anche l’art. 60 del suddetto decreto legislativo).  Solo  con  l’introduzione  del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993, ad opera  dall’art.  3, comma 68, lettera b), della legge 28 dicembre 1995, n. 549, hanno acquistato rilevanza anche per la TARSU i rifiuti “esterni”, perché  tale  disposizione stabilisce che dal costo complessivo dei servizi di nettezza urbana  gestiti in regime di privativa comunale va dedotta una  quota  «a  titolo  di  costo

dello spazzamento dei rifiuti solidi urbani di cui all’art. 2, terzo  comma, numero 3), del d.P.R. 10  settembre  1982,  n.  915»  (cioè  «i  rifiuti  di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade  ed  aree  pubbliche  o  sulle strade ed aree private, comunque soggette  ad  uso  pubblico  o  sulle spiagge marittime, lacuali e sulle rive dei fiumi»). L’art.  31,  comma  23, della legge 23 dicembre 1998, n.  448,  ha  ampliato,  dal  punto  di  vista quantitativo, l’incidenza del suddetto  costo  di  spazzamento  dei  rifiuti “esterni”.

    Quanto ai  soggetti  passivi,  la  tassa  è  dovuta  (in  solido  tra  i componenti del nucleo familiare o  tra  gli  utilizzatori  in  comune  degli immobili) da coloro che occupano o  detengono  locali  od  aree  scoperte  a qualsiasi uso adibiti – ad esclusione delle aree  scoperte  pertinenziali  o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde – esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito  ed  attivato  o comunque reso in maniera continuativa, ivi comprese le abitazioni  coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se  nella  zona in cui è attivata la raccolta dei  rifiuti  è  situata  solo  la  strada  di accesso (artt. 62 e 63). I soggetti passivi hanno  «l’obbligo  di  denuncia» dell’occupazione  o  detenzione  dei  locali  ed  aree  tassabili  siti  nel territorio del Comune (art. 70, specie commi 1  e  6).  In  connessione  con l’obbligo di presentare tale  dichiarazione  di  scienza,  è  attribuito  al Comune il potere di «emettere» (nel senso di “notificare”, come chiarito dal comma 1 dell’art. 72) motivati avvisi di accertamento d’ufficio (in caso  di omessa denuncia) o in rettifica (in caso di denuncia infedele o incompleta), entro specifici termini di decadenza (artt. 71, 73). È prevista l’esclusione o l’esonero dal tributo in determinati casi in cui gli immobili  si  trovino in  condizione  di  non  potere  produrre  rifiuti,  mentre  è,  di  regola, irrilevante la circostanza che  il  soggetto  passivo  abbia,  in  concreto, autonomamente provveduto allo smaltimento (art. 62, commi  2,  3  e  5).  Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato,  alla  attitudine  media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti  per  unità di superficie  e  per  tipo  di  uso  degli  immobili  e,  dall’altro,  alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da  parte  dei soggetti  passivi.  È coerente con  tale  impostazione  pubblicistica  l’obbligo,  imposto  agli occupanti o detentori «degli insediamenti comunque situati  fuori  dall’area di raccolta»,  di  utilizzare  il  servizio  pubblico  di  nettezza  urbana, conferendo i rifiuti  urbani,  «interni  ed  equiparati»,  nei  «contenitori viciniori» (art. 59, comma 3). È compatibile con la  medesima  impostazione, anche la previsione di riduzioni della tassa per le zone in cui la  raccolta non viene effettuata e per  i  casi  di  non  svolgimento,  svolgimento  per periodi stagionali, nonché per i casi  in  cui  l’utente  dimostri  di  aver provveduto autonomamente allo smaltimento in periodi  di  protratto  mancato svolgimento  del  servizio,  ove  l’autorità  sanitaria   competente   abbia riconosciuto una situazione di danno o di pericolo di danno alle  persone  o all’ambiente secondo le norme e prescrizioni sanitarie nazionali  (art.  59, commi  2,  4,  5,  6,  secondo  periodo).  La  natura  pubblicistica  e  non privatistica del prelievo  è  ulteriormente  evidenziata  sia  dalla  regola secondo cui «L’interruzione temporanea del servizio di raccolta  per  motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo);  sia  dal  sopra citato comma 3-bis dell’art. 61 e  successive  modificazioni,  che  ha  reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni. Il d.lgs. n. 507 del 1993 prevede  anche  una  «tassa  giornaliera  di  smaltimento»  dei rifiuti producibili mediante l’uso (autorizzato o no), per periodi inferiori a 183 giorni per anno solare, di locali od aree pubbliche, di uso  pubblico, o  aree  gravate  da  servitù  di  pubblico  passaggio  (art.  77).  Per  la riscossione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, e del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43  (art.  72).  Ai  sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n.  446,  il  Comune  ha facoltà di disciplinare con proprio regolamento l’affidamento a terzi  delle fasi di liquidazione,  accertamento  e  riscossione  della  tassa.  Sanzioni specifiche sono previste  dall’art.  76  (e  successive  modificazioni)  per l’omessa o infedele denuncia e per la mancata presentazione  o  trasmissione di atti, documenti o dati richiesti dal Comune; sono comunque applicabili le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative  in  materia  tributaria stabilite dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

7.1.c Tariffa di igiene urbana (TIA) [36] -[37].

L'art.  49  del  D.Lgs. n. 22/1997 (cosiddetto decreto  Ronchi) successivamente  modificato dall’art. 1, c. 28, della L. 9 dicembre 1998, n. 426, e  dall’art.  33 della L. 23 dicembre 1999, n. 488,  in  applicazione  della  Direttiva n. 91/156/CEE, ha abolito la previgente TARSU, introducendo una  "tariffa", tesa ad assicurare la copertura totale dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani  e  dei  rifiuti  diqualunque natura o provenienza giacenti sulle strade  ed  aree  pubbliche  e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa – usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) –  «è  composta  da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo  del servizio, riferite in particolare agli  investimenti  per  le  opere  e  dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle  quantità  di  rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione, in  modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi  di  investimento  e  di esercizio». Con regolamento del  Ministro  dell’ambiente  e  della tutela del territorio, viene elaborato il metodo normalizzato  per  definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento. Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o  aree  scoperte  ad  uso  privato  non  costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a  qualsiasi  uso  adibiti,  esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3). La tariffa è ridotta nei casi in cui il produttore di rifiuti assimilati dimostri  (mediante  attestazione rilasciata da chi effettui il recupero) di aver  avviato  detti  rifiuti  al recupero (comma 14). La tariffa è applicata  e  riscossa  dal  soggetto  che gestisce il servizio (commi 9 e  13).  Diversamente  dalla  normativa  sulla TARSU, l’art. 49 del “decreto Ronchi”, pertanto:  a)  evita  di  qualificare espressamente il prelievo  come  “tributo”  o  “tassa”,  pur  mantenendo  il riferimento testuale alla «tariffa»; b) stabilisce che la  TIA  deve  sempre coprire l’intero costo del servizio di gestione dei rifiuti; c) dispone  che detta tariffa è dovuta anche per la gestione dei rifiuti “esterni”; d) non reca, con riguardo alla TIA,  specifiche  disposizioni in tema di accertamento, liquidazione e sanzioni. Analogamente  alla  TARSU, anche per la TIA la riscossione volontaria  e  coattiva  della  tariffa  può essere effettuata tramite ruolo, secondo le disposizioni del d.P.R.  n.  602 del 1973 e del D.P.R. n. 43 del 1988 (c.15 del  medesimo  art.  49). 

La  completa  soppressione  della  TARSU  e  la  sua sostituzione con la TIA, inizialmente fissata a  decorrere  dal  1°  gennaio 1999, è stata via via differita dal legislatore, secondo uno  scadenzario  differenziato,  in ragione sia del grado di copertura  dei  costi  dei  servizi  raggiunto  dai diversi Comuni sia della popolazione dei Comuni stessi (c. 184  dell’art. 1 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, quale modificato dall’art. 5,  commi da 1 a 2-quinquies del decreto-legge  30  dicembre  2008,  n.  208,  recante «Misure  straordinarie  in  materia  di  risorse  idriche  e  di  protezione dell’ambiente», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma  1,  della legge 27 febbraio 2009, n. 13).

Non  è  individuabile, allo stato, un’univoca giurisprudenza di legittimità sulla  natura  di  tale tariffa,  anche  se  pare  maggiormente  attestato  l’orientamento  che   le riconosce natura tributaria.  Infatti,  ad  una  pronuncia  della  Corte  di cassazione civile che ha qualificato come non  tributaria  tale  prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto  séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni  e  differenze linguistiche, hanno invece  ricondotto  detta  prestazione  nel  novero  dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze  n.  13902  del 2007 e n. 4895 del 8 marzo 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e  n.  5297  del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare  la  natura  (tributaria  o extratributaria) della TIA, oggetto di  contrastanti  opinioni  anche  nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo  ed  analitico  esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al  riguardo,  non  rilevano  né  la formale denominazione di «tariffa», né la sua  alternatività  rispetto  alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo. Dalla comparazione tra la TARSU e  la  TIA  emergono  le  forti analogie  dei  due  prelievi.   Entrambi   mostrano   un’identica   impronta autoritativa e somiglianze di contenuto  con  riguardo  alla  determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo. Con riferimento a quest’ultimo aspetto per entrambi i prelievi: a) i servizi concernenti lo smaltimento  dei  rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono,  in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata; b) i soggetti tenuti al  pagamento  dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di  agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi  avvalere  dei suddetti servizi; c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo,  genetico  o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente  del servizio.     La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi  non  viene  meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del  1993  individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina  specificamente  la fase di accertamento e di liquidazione della tassa,  prevedendo  sanzioni  e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo  alla  TIA,  l’art.  49  del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel  gestore  del  servizio  il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e,  dall’altro,  non  reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di  liquidazione  della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi  per  omesso  o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l’accertamento e  la  riscossione dei due prelievi e la  relativa  legittimazione  a  stare  in  giudizio.  Analogamente, nulla osta a  che,  per  le  sanzioni  ed  interessi  relativi all’omesso o ritardato pagamento della  TIA,  possano  applicarsi  le  norme generali in tema di  sanzioni  amministrative  tributarie.  Cosí  come,  con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992,  che  attribuisce,  appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative,  in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del «canone […] per  lo smaltimento dei rifiuti urbani».  Non  contraddice  tale  conclusione  il  fatto  che   fonti   secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l’emissione di semplici «bollette che tengono luogo delle fatture […] sempreché contengano tutti gli  elementi  di cui all’art. 21» del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1,  comma  1,  del  citato decreto  ministeriale  n.  370  del  2000),  e  cioè  l’emissione  di   atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 19 del d.lgs.  n. 546 del 1992 come impugnabili davanti  alle  Commissioni  tributarie.  In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa ( come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007,  con specifico riferimento alla TIA) , un’applicazione estensiva  dell’elenco  di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili  anche  atti  che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto  elenco;  con l’ovvio corollario che le suddette  «bollette»,  avendo  natura  tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.     In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU  –  quantomeno  per  i  Comuni  con  popolazione  non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata «in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i  medesimi  sono destinati, e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1,  del  d.lgs.  n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22  del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le  componenti  essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle  strade –, riferite in particolare agli investimenti per le  opere  ed  ai  relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle  quantità  di  rifiuti conferiti, al servizio fornito, e  all’entità  dei  costi  di  gestione).  I criteri di determinazione di tali due parti della  TIA  sono  contenuti  nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici  costruiti,  tra  l’altro, sulla quantità totale dei rifiuti  prodotti  nel  Comune,  sulla  superficie delle utenze, sul numero dei componenti il  nucleo  familiare  delle  utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti  secondo  le varie attività esercitate nell’ambito delle utenze non  domestiche.  Risulta evidente,  pertanto,  che  il  suddetto   «metodo   normalizzato»   per   la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri  fissati  dalla legge per la commisurazione della  TARSU,  la  quale,  certamente,  non  può definirsi  “corrispettivo”,  neppure  in  relazione  ai  criteri   stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267,  per  le  tariffe dei servizi pubblici resi  dagli  enti  locali.  Per  entrambi  i  prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per  tipo  di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda  la  TIA, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n.  22  del 1997, perfino l’autonomo avviamento a recupero dei  rifiuti,  da  parte  del produttore di essi, non comporta l’esclusione dal  pagamento,  ma  determina una riduzione proporzionale della sola  parte  variabile  di  tale  tariffa.

Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2  dell’art.  67 del d.lgs. n. 507 del  1993,  secondo  cui  il  regolamento  comunale  «può» prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli  «utenti  dimostrino  di avere  sostenuto  spese  per  interventi  tecnico-organizzativi  comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento  volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il  recupero  da  parte del gestore del servizio». I due prelievi, pertanto, sono dovuti,  sia  pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di  rifiuti  dimostri di aver adeguatamente  provveduto  allo  smaltimento.  Il  che  esclude  per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra  pagamento  e servizio di smaltimento dei rifiuti.

In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA –  analogamente alla  TARSU  -  ha  la funzione di coprire il  costo  dei  servizi  di  smaltimento  concernenti  i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni”  (cioè  rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche  e soggette ad uso pubblico. L’unica  sostanziale  differenza  sul  punto  tra  i  due prelievi si riduce al fatto  che,  mentre  per  la  TARSU  il  gettito  deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata  in  funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi  (art.  49  del  d.lgs.  n.  22  del  1997). Tuttavia, tale differenza  non  è  sufficiente  a  caratterizzare  in  senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica  spesa  (come  il costo di un servizio utile alla  collettività)  possa  essere  integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche  la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio  di  smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo,  la  sua  natura  da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza  che  la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la  natura di prezzo privatistico.

In quinto luogo, con riferimento alla disciplina  complessiva della TIA, va rilevato che l’art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma  l’applicabilità  del  tributo  provinciale  «per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione  ed  igiene  dell’ambiente» previsto dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua  sostituzione  con  la  TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un’addizionale della TARSU,  ne  consegue  che,  una  volta  soppressa  quest’ultima,  esso  deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri  di  quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato  come  un  tributo  addizionale della TIA stessa. Ciò  evidenzia  un  ulteriore  elemento  di  omogeneità  e continuità tra la TARSU e la TIA.

In sesto luogo, infine, un altro  significativo  elemento  di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all’ambito di  applicazione  dell’IVA.  Infatti,  la  rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità  del  prelievo porta ad escludere la sussistenza  del  rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA  ai  sensi  degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di  un «corrispettivo» per la prestazione di servizi[38]. Non esiste,  del  resto,  una norma legislativa che espressamente assoggetti ad  IVA  le  prestazioni  del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio,  è  quella  prevista dall’alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 4  del  d.P.R.  26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell’IVA,  «sono  considerate  in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici», le attività di «erogazione di acqua e servizi di  fognatura  e  depurazione,  gas,  energia elettrica e vapore». Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU  che  della  TIA,  entrambe  le  entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti,  canoni,  contributi» che la normativa  comunitaria  (da  ultimo,  art.  13,  paragrafo  1,  primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre  2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE  del  16  settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in  via  generale  dall’assoggettamento  ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività  od  operazioni  che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a  contrario  dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il  mancato assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione  della  concorrenza (distorsione, nella specie,  non  sussistente,  in  quanto  il  servizio  di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in  regime  di  privativa).

Le sopra indicate caratteristiche strutturali  e  funzionali  della TIA disciplinata dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del  tributo e  che,  pertanto,  non  è  inquadrabile  tra  le  entrate  non tributarie, ma costituisce una mera variante della  TARSU  disciplinata  dal D.P.R.  n.  507  del  1993  (e  successive  modificazioni),  conservando  la qualifica di tributo propria di quest’ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra  le  possibili  interpretazioni  della censurata disposizione e dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell’art.  102 Cost., appare conforme a Costituzione  (sulla  necessità,  in  generale,  di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata,  ex  plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).  Le controversie aventi ad oggetto la debenza della  TIA,  dunque,  hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione  delle  commissioni tributarie, ad  opera  della  disposizione  denunciata,  rispetta  l’evocato parametro costituzionale.

7.1.d Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani.

L’art. 238 del D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 recante norme in materia di ambiente ha previsto a regime la soppressione della tariffa di cui all'articolo 49 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 sostituendola con la  Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani,  che una  disposizione  successiva  (l’art.  5, c. 2-quater, del citato D.L. n. 208 del 2008) denomina  «tariffa integrata ambientale (TIA)». Tale tariffa integrata deve essere  determinata ad opera  dell’autorità  d’ambito  territoriale  ottimale  (AATO),  prevista dall’art. 201 dello stesso decreto legislativo, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento ministeriale (da emanarsi,  a  sua  volta, entro sei mesi dalla sopra indicata data di entrata in  vigore  della  parte quarta del decreto legislativo e, quindi, dell’art. 238  in  essa  compreso) con il quale sono fissati  i  criteri  generali  per  la  definizione  delle componenti dei costi e la determinazione della tariffa (commi  3  e  6).  La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti,  esistenti  nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (c. 1,  primo periodo). Detta tariffa, in particolare,  è  «commisurata  alle  quantità  e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti  per  unità  di  superficie,  in relazione agli usi e alla  tipologia  di  attività  svolte,  sulla  base  di parametri […] che tengano anche conto di indici  reddituali  articolati  per fasce di utenza e territoriali» (comma 2), e costituisce  «il  corrispettivo per lo svolgimento del servizio di  raccolta,  recupero  e  smaltimento  dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall’art. 15  del D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36» (c.  1,  secondo  periodo)  – cioè  «i  costi  di  realizzazione  e  di  esercizio  dell’impianto  per  lo smaltimento in  discarica,  i  costi  sostenuti  per  la  prestazione  della garanzia finanziaria ed i costi stimati  di  chiusura,  nonché  i  costi  di gestione successiva alla chiusura per il periodo fissato dalla legge – oltre ai «costi accessori relativi alla gestione  dei  rifiuti  urbani  quali,  ad esempio, le spese di spazzamento delle strade» (c. 3,  secondo  periodo). La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in  relazione  alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in  particolare  agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da  una  quota rapportata alle  quantità  di  rifiuti  conferiti,  al  servizio  fornito  e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia  assicurata  la  copertura integrale  dei  costi  di  investimento  e  di  esercizio»  (comma   4).   È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa  dai  soggetti affidatari del servizio di gestione  integrata»  (c.  3)  e  che  la  sua riscossione, volontaria o  coattiva,  «può»  essere  effettuata  secondo  le disposizioni del D.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l’Agenzia delle entrate» (c. 12).  La  soppressione  della  precedente  tariffa  di igiene ambientale ha effetto dalla data di entrata in  vigore  dello  stesso art. 238, ma, fino alla completa attuazione della  nuova  tariffa  integrata (cioè con l’emanazione del sopra menzionato regolamento ministeriale  ed  il compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa),  «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10). Nel  caso  in cui il regolamento ministeriale non sia stato adottato entro  il  30 giugno 2010, i Comuni possono ugualmente «adottare la tariffa integrata  ambientale TIA […] ai sensi delle disposizioni  legislative  e  regolamentari  vigenti»[39].   

Nelle more della completa attuazione delle disposizioni recate dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, il c. 184 dell’ art. 1 della L. 27 dicembre 2006 n. 296 così come integrato dal c. 1 dell'art. 5, D.L. 30 dicembre 2008, n. 208 ha disposto che il regime di prelievo relativo al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti adottato in ciascun comune per l'anno 2006 resta invariato anche per l'anno 2007 e per gli anni 2008 e 2009.

In deroga all'articolo 238 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ai sensi dell’art. 7 del D.L. 11 maggio 2007, n. 61 i comuni della regione Campania adottano le iniziative urgenti per assicurare che, a decorrere dal 1° gennaio 2008 (termine prorogato al 31 dicembre 2008) e per un periodo di cinque anni, ai fini della determinazione della tassa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani e della tariffa igiene ambientale (TIA) siano applicate misure tariffarie per garantire la copertura integrale dei costi del servizio di gestione dei rifiuti[40].

7.1.e Canone o diritto per i servizi relativi alla raccolta, all'allontanamento, la depurazione e lo scarico delle acque (art. 2, D.L. 17 marzo 1995, n. 79, conv. con L. 17 maggio1995, n. 172).

In materia di servizio idrico unificato, a partire dal 3 ottobre 2000,  data di entrata in vigore del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 258,  è  divenuta operativa  l'innovazione  introdotta  dall'art.  31,  c. 28  della   L. n. 448/1998, nella parte  in  cui  ha  previsto  che  anche  il  canone  in questione non è più tributo comunale, ma quota tariffaria (cfr., per tutte, Cass.  SS.UU.  14693/2005 e  6418/2005). Pertanto, il canone di depurazione di acque reflue ha, dopo il 3 ottobre 2000, natura di corrispettivo patrimoniale, per cui il relativo contenzioso fino al 3 ottobre 2000 rientra nella giurisdizione del giudice tributario[41], dal 3 ottobre 2000 e fino all’entrata in vigore della legge 248/2005 rientra nella giurisdizione del giudice ordinario[42]. Nulla, invece, è mutato in merito al canone acqua, fatturato nel documento relativo al servizio idrico integrato,  relativamente al quale le controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, vertendosi in tema di posizioni di diritto soggettivo di fonte negoziale[43] (contratto di somministrazione tra l’utente e l’Ente) e non trovando, quindi, titolo in una potestà impositiva. Sulla tariffa depurazione è intervenuta la Corte costituzionale con sentenza 10 ottobre 2008 n. 335 per la quale è  fondata  la  questione  di  legittimità   costituzionale dell’art. 14, c. 1, L. 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia  di risorse idriche),  nel testo originario e nel testo modificato dall’art.  28, L. 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale), sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede  che  la  quota  di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti  nel  caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di  depurazione o questi siano temporaneamente  inattivi[44].

Poiché il citato art. 14, c.1, della legge n. 36 del 1994 è stato, con decorrenza dal 29 aprile 2006, abrogato dall’art. 175, c. 1,  lett.u), del D.Lgs. 3  aprile  2006,  n.  152  (Norme  in  materia ambientale), e sostituito dall’art.  155,  c. 1,  primo  periodo,  dello stesso decreto legislativo, la Corte ha dichiarato, inoltre, l’illegittimità costituzionale di tale disposizione.

L’efficacia retroattiva della sentenza della Corte costituzionale non può estendersi oltre i termini di prescrizione decennale.  La  tariffa  di  servizio  idrico integrato si configura quale corrispettivo di  una  prestazione  commerciale complessa e trova fonte nel contratto di utenza. L’esistenza di  un  preciso sinallagma  contrattuale  esclude  la  ragionevolezza  della   debenza   del corrispettivo  in  assenza  della  relativa  possibilità  di  fruizione  del servizio. 

La sezioni Unite della Corte di cassazione, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (ordinanza n.11 del 25 luglio 2008) hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art.3-bis, nella parte in cui devolve alla giurisdizione speciale anche le controversie in tema di canone di depurazione, sulla scia della dalla sentenza n. 64/08.

7.1.f Contributi  in favore di Consorzi di bonifica

Costituiscono   un   esborso   di   natura pubblicistica, e rappresentano una forma di  finanziamento  di  un  servizio pubblico attraverso l'imposizione dei relativi costi sull'area  sociale  che da tali costi ricava un  beneficio.  Non  è  perciò  necessaria  una  esatta corrispondenza  costi-benefici  sul   piano   individuale   essendo   invece indispensabile una razionale  individuazione  dell'area  dei  beneficiari  e della maggiore o minore incidenza dei  benefici.  Il  giudice  tributario  è perciò competente[45] a verificare, ove  vengano  in  contestazione  le  singole obbligazioni tributarie, che gli atti amministrativi di  carattere  generale relativi alla individuazione degli immobili compresi nel  consorzio  e  alla ripartizione fra di essi  degli  oneri  consortili  rispondano  ai  principi contenuti nell'art. 860 c.c. secondo  cui  “I  proprietari  dei beni  situati  entro  il  perimetro  del  comprensorio  sono   obbligati   a contribuire nella spesa  necessaria  per  l'esecuzione,  la  manutenzione  e l'esercizio  delle  opere  in  ragione  del  beneficio  che  traggono  dalla bonifica”, o dalle opere cui attende il consorzio. Il “beneficio” è  infatti -  ex  art.  23  della  Costituzione-  l'elemento  costitutivo  dell'obbligo contributivo, ed il criterio per la ripartizione dell'onere[46].

7.1.g Diritto camerale

La Corte  di  Cassazione  ha  stabilito  che  il diritto camerale annuale è un  tributo, sebbene non  può  essere  definito  "tributo locale" in quanto la legge  riserva  tale  denominazione  solo  ai  tributi gestiti dagli enti pubblici territoriali. Quindi,  qualora  sorgano  delle contestazioni in materia, spetta alle Commissioni  tributarie  e  non  alle Camere di commercio il compito  di  dirimere  la  controversia.  Pertanto le Camere di  commercio  hanno solo il compito di gestire la  riscossione  del  tributo,  ma  nessuna competenza in materia di contenzioso[47].

7.2 Le sovrimposte e le addizionali

rientrano nella giurisdizione del giudice tributario le controversie concernenti le addizionali ai tributi, tra le quali, a titolo esemplificativo, l’addizionale comunale all’IRPEF (istituita dall’art. 1 del D.Lgs. 28 settembre 1998, n. 360) e l’addizionale regionale all’IRPEF (istituita dall’art.50  D.Lgs. 446/97).

7.3 Le sanzioni amministrative irrogate da uffici finanziari

Ci si riferisce alle sanzioni irrogate dagli uffici finanziari per violazioni in materia tributaria, comprese quelle commessa da soggetti estranei al rapporto d’imposta tenuti per legge a obblighi strumentali connessi all’accertamento ed alla riscossione dei tributi[48].

L’art. 2,  c. 1,  primo periodo del D.Lgs. 546/1992 è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 130 del 5 maggio 2008 nella  parte  in  cui  attribuisce  alla  giurisdizione  tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse  conseguano  alla  violazione di disposizioni non aventi natura tributaria.

In tale fattispecie, la norma si pone in contrasto con il  divieto costituzionale di istituzione  di  giudici  speciali,  in quanto devolve  alla giurisdizione  tributaria  le  controversie  relative all’irrogazione di sanzioni in materia estranea alla disciplina dei rapporti tributari, in virtù di un mero criterio soggettivo associato all’appartenenza all’Amministrazione finanziaria dell’ufficio  competente all’irrogazione delle dette sanzioni.

Pertanto, risulta definitivamente superato il precedente orientamento giurisprudenziale che riconosceva la giurisdizione delle commissioni tributarie in base non alla correlazione esclusiva della natura della norma violata, ma anche all'organo che irrogava la sanzione[49], orientamento che trovava conforme la prassi dell’Agenzia Entrate.

Quest’ultima, riteneva che fossero devolute alla giurisdizione tributaria anche le sanzioni amministrative non tributarie irrogate dagli uffici finanziari, vale a dire le sanzioni non strettamente correlate alla violazione di norme disciplinanti il rapporto tributario, in quanto a differenza della precedente formulazione dell'art. 2 che limitava la giurisdizione delle commissioni tributarie alle sole sanzioni tributarie non penali, il nuovo testo della citata disposizione demanda alle commissioni tributarie tutte le controversie in materia di sanzioni  comunque irrogate da uffici finanziari. In tali casi, comunque, l’Agenzia ha ritenuto che tale situazione, non conferisce a dette sanzioni natura di violazioni tributarie, restando, quindi, inapplicabili alle sanzioni amministrative non tributarie le disposizioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472[50].

Alla luce di quanto sopra esposto, ne deriva che non hanno natura tributaria:

-           la sanzioni previste dall’art. 3 D.L. 12/2002 per l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture obbligatorie, essendo tali sanzioni dirette a contrastare il lavoro irregolare[51];

-           le sanzioni amministrative irrogate dagli uffici locali dell’Agenzia delle entrate per irregolarità accertate dagli uffici provinciali del lavoro o per l’utilizzo di dipendenti pubblici senza previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza[52];

-           le sanzioni pecuniarie irrogate per infrazioni valutarie, e richieste con lo strumento della cartella di pagamento[53]

Hanno, viceversa, natura tributaria e pertanto rientrano nella giurisdizione del giudice tributario:

-         le sanzioni di cui ai D.Lgs. 471, 472, 473 del 1997;

-         l'impugnazione  avverso  il  provvedimento  con  cui  veniva inflitta,  ai  sensi  dell'art.  2,  c.  4,  della  L.  n.  13/1983,  al contravventore dell'obbligo di emissione di scontrino fiscale, la  sanzione amministrativa della sospensione della licenza  o  della  autorizzazione  a svolgere l'attività commerciale[54];

-         le sanzioni previste dall’art. 39 del D.Lgs. 241/1997, in materia di visto di conformità, di asseverazione e di certificazione tributaria;

-         le sanzioni previste dall’art. 7-bis del D.Lgs. 241/1997, in caso di omessa o tardiva trasmissione delle dichiarazioni da parte degli intermediari;

-         le sanzioni applicabili ai concessionari del servizio di riscossione dei tributi per la violazione delle disposizioni relative agli obblighi di riscossione e di riversamento dei tributi e dei relativi accessori derivanti dal rapporto concessorio previsto dal D.Lgs. 112/1999;

-         le sanzioni conseguenti all’evasione dell’imposta erariale sull’energia elettrica anche a seguito di  sottrazione  di energia elettrica[55].  

7.4 Gli interessi e ogni accessorio relativi ai tributi, alle sovrimposte e addizionali

Per altri accessori si intendono  gli aggi dovuti all’esattore, le spese di notifica, gli interessi moratori ed al limite il maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, c. 2 c.c. (Cass. SS.UU. 4  ottobre 2002 n. 14274  e 17 novembre 1999 n. 789).

La questione relativa  alla  rivalutazione  monetaria delle somme versate a titolo di imposta e di  cui  il  contribuente  ottenga pronuncia di rimborso rientra nella giurisdizione del giudice tributario, in quanto consequenziale ad una controversia tributaria, in forza del “principio  della  concentrazione”  della  tutela giurisdizionale, che caratterizza l'attuale sviluppo dell'ordinamento  anche in materia tributaria[56].

Sono invece escluse, in quanto rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario,  le controversie sul risarcimento del danno per comportamento illecito dell’Amministrazione finanziaria ex art. 2043  c.c. (cfr. Cass. SS.UU. 30 novembre 2006 n.  15; Cass. SS.UU. 29 aprile 1999 n. 722; Cass. Sez. III civ. 27 gennaio 2003 n. 1191), nonché le controversie in materia di riscossione a mezzo cartella di pagamento  delle ammende e delle spese di giustizia relative a processi penali, non pagate nei termini previsti dal T.U. delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia di cui al D.P.R. 115/2002 (CTR Puglia 27 dicembre 2006 n. 114).

7.5. Il fermo di beni mobili registrati e l’ipoteca sugli immobili

Inoltre, dal 12 agosto 2006, in conseguenza della modifica apportata dall’art.35, c. 26-quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, convertito dalla L. 248 del 4 agosto 2006 all’art. 19 D.L.gs. 546/1992 vengono attratti nella giurisdizione tributaria i ricorsi contro il fermo di beni mobili registrati e l’ipoteca sugli immobili, a condizione che i citati atti scaturiscano da entrate soggette alla giurisdizione del giudice tributario[57].

Antecedentemente alla novella legislativa sopra richiamata, poiché il fermo amministrativo[58], è preordinato all'espropriazione forzata, la Corte di Cassazione ha ritenuto che,  rientra   nella giurisdizione del giudice ordinario[59], la controversia avente  ad  oggetto  il fermo amministrativo di  autoveicolo  per  mancato  pagamento  di  cartelle tributarie, con le forme, consentite dal vigente art. 57  del  DPR 29 settembre 1973, n. 602, dell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi. Infatti, l’attività relativa la fermo amministrativo dei beni mobili iscritti nei pubblici registri del debitore o dei coobbligati posta in essere dal concessionario decorso il termine previsto dall’art. 50 del DPR 602/1973 rappresenta una potestà che si colloca nell’ambito dei diritti potestativi del creditore finalizzato all’esercizio dello  jus eligendi e non già un potere discrezionale ed autoritativo. In caso di opposizione all’esecuzione il tribunale fissa l’udienza di comparizione della parti avanti a sé con decreto steso in calce al ricorso, ordinando al concessionario di depositare in cancelleria, cinque giorni prima dell’udienza, estratto del ruolo e copia di tutti gli atti di esecuzione. Il giudice dell’esecuzione fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti e il termine perentorio per la notifica del ricorso alla controparte. L’esecuzione dell’esattore può esser sospesa a norma dell’art. 60  del  DPR 602/1973 alla presenza di gravi motivi e di un danno grave ed irreparabile.

8. Controversie escluse dalla giurisdizione del giudice tributario

Restano, tuttavia,  escluse  dalla giurisdizione tributaria e, quindi,  devolute all'A.G.O, le controversie inerenti:

a)      l'addizionale comunale e l'addizionale provinciale sul consumo dell'energia elettrica (D.L. 28 febbraio1983, n. 55, conv. con L. 26 aprile 1983, n. 131). La circolare ministeriale n. 98/1996 ha infatti precisato che per le relative controversie si applicano le disposizioni sul contenzioso dell'imposta erariale sul consumo di energia elettrica, che non è attribuita alla giurisdizione delle Commissioni tributarie;

b)      l'addizionale regionale all'imposta di consumo sul gas metano (art. 9, D.Lgs.  21 dicembre 1990, n. 398; D.L. 18 gennaio 1993, n. 8, conv. con L. 19 marzo 1993, n. 68);

c)      l'indennizzo ex art. 18, L. 319/1976, che a differenza del canone per i servizi relativi alla depurazione delle acque,  non ha natura tributaria[60];

d)      le azioni di rivalsa da parte del soggetto passivo della pretesa tributaria nei  confronti del  terzo, in quanto l'obbligazione tributaria non  costituisce  l'oggetto del giudizio[61];

e)      la  controversia fra  l'impresa  fornitrice  e  il  beneficiario  della  prestazione  colpita dall'IVA, in quanto non ha ad oggetto un rapporto tributario, intercorso tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, ma esclusivamente  un  rapporto di natura privatistica, riguardante  un  mero  accertamento  incidentale  in ordine all'ammontare dell'Iva, applicata dalle società erogatrici in  misura contestata dall'utente[62];

f)        le azioni di rimborso limitatamente alle ipotesi in cui l’Ente impositore abbia riconosciuto inequivocabilmente la fondatezza della pretesa del contribuente ed in particolare il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, pertanto non residuano questioni in merito all’an ed al quantum del rimborso[63];

g)    le controversie tra lavoratore e datore di lavoro, che non hanno ad oggetto i profili tributari quale l’applicazione della ritenuta[64]. Ad esempio, la domanda proposta dal lavoratore  nei  confronti del datore di lavoro per ottenere il  risarcimento  dei  danni  causati  dal ritardo nella corresponsione di una parte delle  retribuzioni  dovutegli,  e consistenti nella  maggiore  imposta  sul  reddito  pagata  dall’attore  per effetto del cumulo delle retribuzioni, che abbia comportato la  collocazione del suo reddito imponibile in uno scaglione superiore. In tale ipotesi, pur vertendo tra  sostituito  e  sostituto  d’imposta,  la  controversia non ha ad  oggetto  la  legittimità  della  ritenuta  d’imposta applicata dal datore di lavoro, e pertanto, non presupponendo la definizione di  una  causa  tributaria  avente  carattere  pregiudiziale,  esula   dalla giurisdizione delle commissioni tributarie[65];

h)      i ricorsi avverso gli atti con cui l’Amministrazione chiede il pagamento di spese di giustizia e sanzioni penali[66], ancorché venga utilizzato quale mezzo di riscossione l’emissione  di cartella di pagamento;

i)        i ricorsi avverso le sanzioni per lavoro nero. A seguito delle modifiche dei c. 3 e 5 dell’art. 3 del D.L. n.12/2002 ad opera dell’art. 36 –bis , c. 7, lett. a) e b) del D.L. 4 luglio 2006,  n. 223 la competenza in merito all’irrogazione delle sanzioni è stata trasferita dall’Agenzia delle entrate alla Direzione Provinciale del Lavoro.  Conseguentemente, per le contestazioni successive al decreto sopra citato, non risulta più applicabile il D.Lgs. 472/1997 bensì la L. 24 novembre 1981 686;

j)        la controversia con la quale un consorzio chiede, alla concessionaria della riscossione dei contributi consortili, l’IVA applicata sui compensi per la riscossione dei contributi stessi, asserendo che essi non sono soggetti ad IVA avendo natura tributaria[67];

k)      il canone concessorio per l'occupazione degli spazi e delle aree pubbliche – COSAP[68] - (art. 63, D.Lgs. 446/1997), in merito al quale è stata esclusa  la natura di tributo[69],  in quanto assume i   connotati   propri   di   un'entrata patrimoniale[70]. In fatti, il  COSAP  è  stato  concepito  dal legislatore  come  un  quid  ontologicamente  diverso,  sotto  il   profilo strettamente giuridico, dal tributo (TOSAP) in luogo del quale  può  essere applicato, e che lo stesso nel solco di un processo  politico-istituzionale  inteso ad una sempre più vasta defiscalizzazione delle entrate rimesse alla competenza degli enti locali (canoni di fognatura e  di  depurazione  delle acque, remunerazione dei servizi di pubbliche affissioni e  di  ritiro  dei rifiuti urbani, e così via), risulta disegnato come  corrispettivo  di  una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione  abusiva),  dell'uso esclusivo o speciale di beni pubblici.     In particolare, l'oggettiva differenza fra  TOSAP  e  COSAP  è  segnata dalla  diversità  del  titolo   che   ne   legittima   l'applicazione,   da individuarsi,  rispettivamente,  per   la   prima   nel   fatto   materiale dell'occupazione  del  suolo,  e  per  il  secondo  in   un   provvedimento amministrativo,   effettivamente   adottato   o   fittiziamente    ritenuto sussistente, di concessione dell'uso esclusivo o speciale di detto suolo;

l)        la  domanda con cui un contribuente,  deducendo  un  comportamento  scorretto  dell’Ente esattore, chieda la condanna dell’Ente al risarcimento del danno  in  misura pari alla tassa indebitamente riscossa, in quanto il giudice non è  chiamato a pronunciarsi sulla debenza  o  meno  della  tassa,  ma  sul  comportamento illecito dell’esattore[71];

m)    la fase dell’espropriazione forzata, rispetto alla quale sono  atti prodromici, autonomamente impugnabili innanzi al giudice tributario a  norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, tanto la cartella  esattoriale,  quanto l’avviso di mora (o intimazione di pagamento D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 50), che costituisce nel caso l’oggetto specifico dell’impugnazione proposta dal contribuente[72]. Quest’ultima disposizione stabilisce che il concessionario procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente decorso il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione ed alla sospensione del pagamento. Se l'espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l'espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, di un avviso che contiene l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro 5 giorni.

Sono  devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 5 della L. 1034/71:

a)      le controversie tra l’Amministrazione ed il concessionario, ma non anche quelle tra quest’ultimo ed il contribuente, anche allorquando sia posta in discussione la titolarità del rapporto di concessione o i suoi contenuti[73];

b)      le somme dovute a titolo di oblazione in sede di condono edilizio previsto dalla L. 47/1985[74];

c)      le pretese relativa al pagamento degli oneri di urbanizzazione e delle relative sanzioni, in quanto la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo, ai sensi sia dell'articolo 16, legge n. 10/1977 sia dell'articolo 7, legge n. 205/2000. Il contributo di concessione edilizia, infatti, non ha natura di tributo[75], neppure quando gli oneri siano riscossi con cartella esattoriale;

d)      l’impugnazione degli atti amministrativi generali e i regolamenti in materia di tributi[76]. Infatti, ogni volta che oggetto della controversia è l'esercizio di  un potere discrezionale, la competenza è del  giudice  amministrativo,  mentre sono devolute al giudice tributario le controversie attinenti  l'esecuzione della pretesa tributaria[77];

e)      la controversia avente ad oggetto l'atto con il quale il Garante del contribuente interferisce, con procedure di autotutela, sull'autonomia organizzativa del concessionario della riscossione[78].

Sono devolute alla giurisdizione della Corte dei conti la controversia instaurata dal concessionario della riscossione tributi avverso il provvedimento dell’Amministrazione finanziaria di rigetto della domanda di rimborso o di discarico di quote inesigibili tenuto conto sia degli effetti che il provvedimento è destinato a produrre e sia che a norma dell’art. 103 c. 2 della Costituzione, degli 13 e 44 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, dell’art. 9 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 603 e dell’art. 127 del DPR 15 maggio 1963, n. 858, alla Corte dei conti è attribuita una giurisdizione tendenzialmente generale in materia di contabilità pubblica, giurisdizione che riguarda ogni controversia inerente alla gestione di denaro di  spettanza dello Stato o di enti pubblici da parte di un agente contabile[79].

Nei casi sopra elencati, qualora, la questione venga sottoposta al giudice tributario, in via principale, a quest’ultimo è inibita ogni pronuncia, dovendo  dichiarare il proprio difetto di giurisdizione.

9. Decisione del giudice tributario in via incidentale

In base al c. 3 dell'art. 2 il giudice tributario risolve in via incidentale, ossia  limitatamente a quanto strettamente necessario per la decisione della controversia, ogni questione, civile o amministrativa, da cui dipenda la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione delle questioni concernenti:

-         la materia di querela di falso in merito ai documenti inerenti il giudizio;

-         lo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio di all’art. 39 D.Lgs. 546/1992. 

Il potere delle Commissioni tributarie di decidere in via incidentale su qualunque questione attribuita alla giurisdizione di altri giudici, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, deriva  dai principi regolatori del processo e deve, pertanto, ritenersi ammesso  anche prima dell'espresso riconoscimento  contenuto  nell'art.  12  della  L. 448/2001[80]. Qualora, per previsione di legge o per libera iniziativa delle parti, si dia luogo ad una causa autonoma, di carattere pregiudiziale, si inserisce nel processo una ulteriore domanda, che è soggetta - in difetto di norme che prevedano deroghe per motivi di connessione - alle proprie regole sulla giurisdizione, con conseguente eventuale separazione delle due domande e devoluzione di ciascuna al giudice rispettivamente fornito della giurisdizione.

La citata norma riproduce, sostanzialmente, le analoghe disposizioni poste a  presidio del giudizio amministrativo dagli artt. 28 del T.U. 26 giugno  1924, n. 1054 (contenente norme relative al Consiglio di Stato) e 8  della  L.  6 dicembre 1971, n. 1034 (istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali). In base a tale principio, per il quale il giudice della causa principale è giudice anche della causa pregiudiziale, si è ritenuto, che compete al giudice tributario:

-         per quanto riguarda la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, ai sensi  del  D. Lgs. n. 507 del 1993, accertare la natura demaniale  o  meno  dell'area coinvolta[81], nonché la proprietà del bene su  cui  grava  la tassa[82];

-         decidere, in via incidentale, sulla qualità di erede del contribuente[83];

-         decidere, in via incidentale, sulla  simulazione  o  nullità  di contratti, sullo status di coltivatore diretto[84].

Il giudice tributario non può giudicare in merito alla legittimità degli  atti  amministrativi generali, dei quali può conoscere incidenter tantum ed entro  confini  ben determinati, solo ai fini della disapplicazione dell'atto amministrativo presupposto dell'atto impugnato[85].

10. Difetto di giurisdizione del giudice tributario

In ogni processo vanno individuati  "due  distinti  e  non confondibili  oggetti  del  giudizio,  l’uno  (processuale)  concernente  la sussistenza o meno del potere-dovere del  giudice  di  risolvere  il  merito della causa e l’altro (sostanziale) relativo  alla  fondatezza  o  no  della domanda"[86].

Pertanto sussiste l’obbligo  del  giudice  di  accertare l’esistenza della propria   giurisdizione  prima  di  passare  all’esame  del merito  o  di  altra  questione  ad  essa  successiva.

Secondo l'art. 3, D.Lgs. 546/1992, il difetto di giurisdizione è sempre proponibile dalle parti e rilevabile d'ufficio dal giudice, in ogni stato e grado del processo, finchè non sia intervenuto il giudicato[87], come definito dall’art. 324 c.p.c.

Il c.1 dell'art. 3 riproduce sostanzialmente l'art. 37 c.p.c. in base al quale il difetto di giurisdizione del giudice ordinario  nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali  è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.

Il  difetto di giurisdizione può essere eccepito fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo  grado, anche  dopo  la scadenza  dei  termini  previsti  dall’art.  38  c.p.c.. Entro lo stesso termine le  parti  possono  chiedere  il  regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 c.p.c..

La sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata  per difetto di giurisdizione. Le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di  giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito.

Il principio, secondo il quale il difetto di giurisdizione è  rilevabile dal giudice d’ufficio in ogni stato e grado del processo, deve essere coordinato con il principio di economia processuale e di ragionevole  durata  del  processo. Conseguentemente, l’ordinamento non accorda tutela alle ipotesi  giusta  le quali la relativa eccezione di parte viene sollevata secundum eventum litis ovvero manifestata direttamente in sede di legittimità, senza che  siffatta contestazione sia stata precedentemente dedotta, ostandovi il principio  di acquiescenza, di leale collaborazione e di formazione del giudicato[88].

Il difetto di giurisdizione può riguardare:

-       la violazione della giurisdizione in generale, ossia l’esercizio da parte del  giudice della giurisdizione nel settore di competenza del legislatore o della discrezionalità amministrativa;

-       oppure, la violazione dei limiti esterni alla propria giurisdizione,  ossia la violazione in positivo o negativo da parte del giudice dei limiti della propria giurisdizione rispetto ad altra giurisdizione (ordinaria o amministrativa).

La pronuncia potrà assumere la forma del decreto ex art. 27 D. Lgs. 546/1992, qualora il difetto venga rilevato nella fase di esame preliminare da parte del presidente,  in caso contrario, verrà pronunciata con sentenza.

La sentenza del giudice di merito che declina la giurisdizione, a differenza di quelle pronunciate in tema di giurisdizione dalla Corte di cassazione a sezioni unite, non può obbligare al giudice presso il quale la causa venga eventualmente riassunta di adeguarsi a tale pronuncia. Pertanto, laddove quest’ultimo dichiari il proprio difetto di giurisdizione, le parti sarebbero costrette a denunciare il conflitto negativo di giurisdizione mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, c.2 c.p.c..

11. Regolamento di giurisdizione

E` ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall'art. 41, c. 1 c.p.c. che così dispone: "Finche` la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni unite della Corte di cassazione, che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37”.  La formula della prima parte dell'art. 41 c.p.c. deve essere interpretata nel senso che qualsiasi decisione emanata dal giudice ha efficacia preclusiva del regolamento preventivo di giurisdizione, quindi non solo una pronuncia che abbia riguardato il merito della causa[89].

L'istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e ss. e produce gli effetti di cui all'art. 367 c.p.c..

Il regolamento di giurisdizione è il mezzo che permette di ottenere una decisione definitiva e vincolante sui limiti della giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria o dei giudici speciali, finalizzato quindi ad perseguimento di economie in termini processuali. Il regolamento di giurisdizione ha carattere preventivo e deve essere proposto prima che la causa sia decisa nel merito in primo grado. La richiesta deve provenire dalla parte, in quanto è escluso che il regolamento possa essere promosso d'ufficio.

L'istanza si propone con ricorso diretto alle Sezioni unite della Corte di cassazione, quale organo supremo, senza che sulla questione di giurisdizione si pronuncino i giudici investiti della causa.

Il ricorso deve essere sottoscritto da un avvocato ammesso al patrocinio davanti alla Corte di cassazione e iscritto all'apposito albo (degli avvocati c.d. cassazionisti). Tale sottoscrizione è prevista a pena d'inammissibilità ex art. 365 c.p.c..

La proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione non produce automaticamente la sospensione del processo ai sensi dell'art. 367 c.p.c.. La sospensione è pronunciata mediante ordinanza del giudice a quo, il quale concede la predetta sospensione soltanto se ritiene che l'istanza non è inammissibile o se non reputa che la contestazione della giurisdizione è manifestamente infondata. Il giudice verifica la sussistenza delle condizioni per la proponibilità del regolamento.  L'art. 367, c. 2 c.p.c. stabilisce che se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine perentorio di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza.

Sono  inammissibili  le   questioni   di legittimità sollevate dal giudice del  merito  dopo  la  presentazione  del ricorso per regolamento di giurisdizione, e segnatamente quando  le  norme sospette di incostituzionalità rilevino per la risoluzione della  questione di giurisdizione ( Cass. ord. n. 248 del 2000, che richiama espressamente l'ordinanza n. 239 del 1989 e le sentenze n. 173 del 1981 e n. 43 del 1980)[90].

La pronuncia, da parte del giudice amministrativo, sull'istanza incidentale di sospensione del provvedimento amministrativo impugnato con il giudizio principale, non rende inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, proposto con riguardo a tale giudizio, ancorché nell'ordinanza che abbia provveduto sull'istanza cautelare sia stata delibata la questione di giurisdizione[91].

12. Applicazione della translatio iudicii

Attraverso la statuizione di questo importante principio, si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di poter continuare – così com’è iniziato – davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata. Pertanto, a fronte di una pronuncia che declina la giurisdizione del giudice adito, la parte non è costretta a promuovere un nuovo giudizio, ma ha la possibilità della riassunzione della causa.

Le  ragioni  prospettate  a  sostegno  dell'introduzione  del principio della translatio iudicii vengono ravvisate, anzitutto, nell'esteso criterio di ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale che rende oggi più difficile stabilire a quale giudice (ordinario o speciale) la parte debba rivolgersi, specie dopo che sul  riparto  di  giurisdizione  per blocchi di materia è intervenuta la sentenza, in parte  modificativa,  della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e successivamente la 191 del 2006.

Altra  ragione  viene  indicata  nell'esigenza   di   evitare   che   la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice  ordinario  possa  dare luogo, essendo intanto maturato il termine perentorio  per  la  proposizione del ricorso davanti al giudice speciale, alla definitiva stabilità dell'atto impugnato.

La normazione di questo principio, enunciato in giurisprudenza dalla sentenza n. 4109 del 2007 delle sezioni Unite della corte di Cassazione e n. 77 del 2007 della Corte costituzionale, è avvenuto ad opera dell’art. 59 rubricato “Decisione delle questioni di giurisdizione” della L. 18 giugno 2009 n. 69 recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo”.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione[92] con una sentenza innovativa  hanno affermato l’operatività della regola della translatio iudicii sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360, n. 1, c.p.c. – previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso, ai sensi dell’art. 111 Cost., a tutte le decisioni – sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario.

Le sezioni unite della Corte di cassazione, quindi, hanno mutato lo “ius  receptum  (ex  plurimis:  Cass. SS.UU. n. 7039/2006; Cass. SS.UU. n. 19218/2003; Cass. SS.UU. n. 17934/2003; Cass. SS.UU. n. 8089/2002; Cass. SS.UU. n. 7099/2002; Cass. SS.UU. n. 6041/2002; Cass. SS.UU. n. 2091/2002;  Cass. SS.UU. n. 14266/2001; Cass. SS.UU. n.  1146/2000;  Cass. SS.UU. n. 1166/94; Cass. SS.UU. n. 10998/93) sul  tema”,  in  base  al  quale  “la translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale  (e  viceversa) presuppone necessariamente l’unicità della giurisdizione”.

A  tale  precedente  indirizzo  -   fondato   sull’applicabilità   della translatio alle sole ipotesi tassative di difetto di competenza  nell’ambito dello stesso ordine giudiziario (art. 50 c.p.c.) e di pronuncia in sede di regolamento  di  giurisdizione,  se  la  Corte  di cassazione dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario  (artt.  41  e 367 c.p.c.) - conseguiva che “nel caso … di  domanda  proposta innanzi ad un giudice privo di giurisdizione, non  era  possibile  la riassunzione dinanzi al giudice … fornito di tale giurisdizione”.    

A seguito del riesame delle proprie posizioni, posto in  essere  con  la predetta sentenza n. 4109 del 2007, le sezioni unite “nella loro funzione di Corte regolatrice della giurisdizione  ritengono  che,  in  base  ad  una lettura  costituzionalmente  orientata  della  disciplina  della  materia  sussistano le condizioni per potere affermare  che  è  stato  dato  ingresso nell’ordinamento processuale  al  principio  della  translatio  iudicii  dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa,  in  caso  di  pronuncia sulla giurisdizione”.

Ad  avviso  della  Suprema  Corte,  “premessa  indispensabile   è   la considerazione di carattere generale che, seppure in tema  di  giurisdizione non è espressamente stabilita una disciplina improntata  a  quella  prevista per la competenza (artt. 44, 45 e 50 c.p.c.),  ammissiva della riassunzione della causa dal giudice incompetente a quello competente, neppure sussiste la previsione  di  un  espresso  divieto  della  translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale”.  Sulla applicabilità della  translatio  iudicii  tra  Giudici  di  ordine diverso è intervenuta la Corte costituzionale con  sentenza  n.  77  del  12 marzo 2007, concernente dichiarazione di illegittimità costituzionale –  per contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione  -  dell’articolo 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, “nella parte in cui  non  prevede  che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla  domanda  proposta  a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di  declinatoria  di giurisdizione,  nel  processo  proseguito  davanti  al  giudice  munito di giurisdizione”.   Le conclusioni di entrambe le Corti  sono,  in  ogni  caso,  volte  alla conservazione degli effetti sostanziali e  processuali  della  domanda,  sia pure con la differenza che, mentre la Cassazione ritiene che  la  translatio sia applicabile a  diritto  vigente,  il  Giudice  delle  leggi  auspica  un intervento  del  legislatore,  “con  l’urgenza  richiesta  dall’esigenza  di colmare una lacuna dell’ordinamento  processuale”  che  dia  “attuazione  al principio  di  conservazione  degli  effetti,  sostanziali  e   processuali, prodotti dalla  domanda  proposta  a  giudice  privo  di  giurisdizione  nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di  declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito”.     Più specificamente, la Consulta nella predetta sentenza n. 77  del  2007 chiarisce  che  “la  conservazione  degli  effetti  prodotti  dalla  domanda originaria discende non già da una dichiarazione del giudice che declina  la propria giurisdizione, ma direttamente  dall’ordinamento  …;  ed  anzi  deve escludersi che  la  decisione  sulla  giurisdizione,  da  qualsiasi  giudice emessa, possa interferire con il merito (al  quale  appartengono  anche  gli effetti della  domanda)  demandato  al  giudice  munito  di  giurisdizione”. Aggiunge, inoltre, che “È  superfluo  sottolineare  che,  laddove  possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto del giudizio a quo, dopo la declinatoria di giurisdizione), i  giudici  ben  potranno  dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda  nel processo riassunto”.     Successivamente, il Consiglio di Stato, con decisione  n.  3801  del  28 giugno 2007,  ha  statuito  l’applicabilità  della  translatio  iudicii  nei rapporti tra giudice amministrativo e giudice ordinario, “considerato che la Corte costituzionale (sentenza n. 77 del 2007) e le Sezioni Unite  (sentenza n. 4109/2007) hanno affermato il principio … secondo cui il giusto  processo è diretto non allo scopo di sfociare in  una  decisione  purchessia,  ma  di rendere una pronuncia di merito, stabilendo chi ha ragione e chi  ha  torto, onde esso deve avere per oggetto la verifica della  sussistenza  dell’azione in senso sostanziale e,  nei  limiti  del  possibile,  non  esaurirsi  nella discettazione sui presupposti processuali”.     Il  richiamato  orientamento  è  stato  ulteriormente   confermato   dal Consiglio di  Stato con la decisione n. 3065 del 19 giugno 2008,  in  cui  si sottolinea che “In attesa dell’intervento legislativo auspicato dalla  Corte costituzionale, il Collegio ritiene che per  dare  attuazione  al  principio enunciato dalle sopra indicate sentenze (Cass. SS.UU. n. 4109 del  2007  e Corte cost. n. 77 del 2007) sia necessario: a) rimettere le parti davanti al Giudice ordinario affinché dia luogo al processo di  merito …; b)  precisare,  comunque,  che  sono  salvi  gli  effetti  sostanziali  e processuali della domanda …; c) … fissare un termine entro cui tale salvezza opera …. Ai fini dell’individuazione di tale termine  può  essere  applicato analogicamente … l’art. 50 c.p.c. …”[93].

L’art. 59 della L. 18 giugno 2009, n. 69 obbliga ad indicare il giudice munito di giurisdizione, disponendo al primo comma che il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. Prevede, altresì, un’efficacia vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo della pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione.

Il comma 2 regola l’accesso al giudice indicato come munito di giurisdizione stabilendo che “se, entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al c. 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. La domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile”. Il termine per l’accesso al giudice come munito di giurisdizione è perentorio e decorre dal giorno del passaggio in giudicato della pronuncia. Quest’ultimo per le pronunce della Suprema corte coincide con il  giorno della pubblicazione della sentenza, mentre ove si tratti di pronuncia resa da un giudice di merito coincide con il decorso del termine per l’impugnazione a cui è soggetta la pronuncia declinatoria della giurisdizione. L’inosservanza dei termini fissati per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Al contrario, il rispetto del termine trimestrale sopracitato ha come conseguenza la salvezza degli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio. Il c. 3 dell’art. 59 introduce nell’ordinamento il regolamento di giurisdizione d’ufficio disponendo che “Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione”. Il c. 5 della’art. 59 stabilisce che “In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al c. 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova”. Tale principio trova applicazione anche per i giudizi già pendenti all’entrata in vigore della L. n. 69/2009, non trovando applicazione il regime transitorio previsto dall’art.58 della citata legge di riforma.

 


[15] Cass. SS.UU. 19 novembre 2001, n. 14543, per la quale “è devoluta  alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia  attinente  la  pretesa creditoria dell'Amministrazione finanziaria, per somme dovute in dipendenza dell'occupazione senza titolo di  un  bene  del  demanio,  anche  se  detta controversia  riguardi   sanzioni   amministrative   applicate   a   carico dell'occupante  ed  insorga  in  via  di  opposizione  ad  ingiunzione   di pagamento, dovendosi  escludere  sia  la  giurisdizione  della  Commissione tributaria, sia quella del giudice amministrativo”; Cass. SS.UU. 19  agosto 2003 n. 12167 che afferma “la competenza del giudice ordinario  in  relazione  al  canone  per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (COSAP)  in quanto il canone per l’occupazione di spazi di aree pubbliche (istituito dall’art. 63 D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, come modificato dall’art. 31 della L. 23 dicembre 1998, n. 448) è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto l’aspetto strettamente giuridico, dal tributo (tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui al capo II del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 ed all’art. 5 L. 16 maggio 1970, n. 281) in luogo del quale può essere applicato, e risulta configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici. Da siffatto inquadramento si è fatta derivare la conseguenza che le controversie attinenti alla debenza del canone in questione esulano dalla giurisdizione delle commissioni tributarie (come delineata dall’art. 2 D.Lgs. 546/1992, pur dopo la sostituzione operata dall’art. 12 della L. 28 dicembre 2001, n. 448) e rientrano nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario, a mente dell’art. 5 della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dall’art. 33 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (poi sostituito dall’art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205)”.  Cass. SS.UU. ord. 25 maggio 2006  n. 14864; Cass. SS.UU. ord. 19 agosto 2003 n. 12167; Cass. SS.UU.  23 ottobre 2006 n. 22661 per le quali “le controversie concernenti indennità, canoni od altri corrispettivi riservate, in materia di concessioni amministrative, dall’art. 5, comma secondo, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, alla giurisdizione del giudice ordinario sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della P.A. a tutela di interessi generali, con la conseguenza che quando la controversia coinvolga la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio sottostante, ovvero quando investa l’esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone e non semplicemente di accertamento tecnico dei presupposti fattuali economico-aziendali (sia sull’an che sul quantum), la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo”.

[20] Cass.SS.UU. ord. 3 aprile 2007  n.  8956 per la quale “non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia relativa al contributo per la valutazione dell’impatto ambientale  previsto, ratione temporis, dall’art.27 L. 136/1999 (ma la situazione non è diversa nel nuovo regime emergente del c.d. codice dell’ambiente). Pur avendo ad oggetto una prestazione che si ricollega all’espletamento di un pubblico servizio, essa non riguarda un rapporto di concessione né implica un sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo, in quanto l’obbligo di pagamento sorge da presupposti interamente regolati dalla legge, senza che siano riservati alla pubblica amministrazione spazi di discrezionalità circa la concreta individuazione dei soggetti obbligati, i presupposti oggettivi o il quantum del corrispettivo dovuto. Tale prestazione, che trova la propria fonte nella legge e non in un rapporto contrattuale, presenta i connotati della tassa     che è definibile come la prestazione che lo Stato può imporre al fine di procurarsi un’entrata in stretta correlazione all’espletamento di funzioni pubbliche che riguardano specificamente l’obbligato in una situazione di scambio di utilità (per il vantaggio che ne deriva all’obbligato medesimo) - prestazione che diversamente dall’impositiva – si ispira al principio di corrispettività e che non trova titolo giustificativo nella capacità contributiva del soggetto al quale è richiesta. Pertanto il relativo contenzioso rientra nella giurisdizione del giudice tributario”.

[23] In giudice delle leggi con tale sentenza afferma che “per  valutare  la  sussistenza  della  violazione dell’art. 102, secondo  comma,  Cost.,  occorre  accertare, se  la controversia devoluta ai giudici  tributari  abbia  o  no  effettiva  natura tributaria. E, a tal fine, non si  può  prescindere  dai  criteri  elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte  per  qualificare  come  tributarie  le entrate erariali; criteri che, indipendentemente dal nomen iuris  utilizzato dalla normativa che disciplina tali  entrate,  consistono  nella  doverosità della prestazione e nel collegamento di  questa  alla  pubblica  spesa,  con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis:  sentenze n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).     Al riguardo, va sottolineato che, ove sia stata accertata la natura  non tributaria della materia attribuita alla cognizione dei  giudici  tributari, si deve affermare l’illegittimità costituzionale di detta  attribuzione,  né possono addursi in contrario argomenti che non trovano fondamento  nell’art. 102,  secondo  comma,  Cost.  e  nella  VI  disposizione  transitoria  della Costituzione. Ad esempio, non sarebbe sufficiente,  al  fine  di  negare  lo “snaturamento”  della  materia  attribuita  alla  giurisdizione  tributaria, affermare che le controversie relative ad alcuni particolari canoni, pur non avendo natura tributaria, sono  legittimamente  attribuite  alla  cognizione delle commissioni tributarie per la sola ragione  che  il  fatto  generatore delle suddette prestazioni patrimoniali è  simile  al  presupposto  che,  in passato, avevano avuto alcuni tributi. Neppure sarebbe  sufficiente  addurre mere ragioni di opportunità per giustificare, sul piano  costituzionale,  la cognizione, da parte dei giudici tributari, di controversie  non  tributarie riguardanti fattispecie in  qualche  misura  simili  a  quelle  propriamente tributarie. Al  contrario,  come  già  rilevato,  il  difetto  della  natura tributaria della controversia fa necessariamente venir  meno  il  fondamento costituzionale  della  giurisdizione  del   giudice   tributario,   con   la conseguenza  che  l’attribuzione  a  tale  giudice  della  cognizione  della suddetta  controversia   si   risolve   inevitabilmente   nella   creazione, costituzionalmente vietata, di un “nuovo” giudice speciale”.

[27] Cass. SS.UU. 26 febbraio 2004  n. 3877 per la quale “debbono  essere trattenute avanti alle Commissioni tributarie  le  controversie  instaurate avanti a tali organi prima della riforma del 2001 poiché il principio della perpetuatio iurisdictionis, contenuto nell'art. 5 del codice  di  procedura civile, consente di affermare l'irrilevanza, ai fini  della  determinazione della giurisdizione, dei mutamenti legislativi successivi alla proposizione della domanda nei soli casi in cui il sopravvenuto mutamento dello stato di diritto privi il giudice della giurisdizione al  momento  dell'introduzione della  domanda,  ma  non,  all'opposto,  nei  casi  in  cui  esso  comporti l'attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era inizialmente privo e davanti a cui il processo è stato (in ipotesi) erroneamente instaurato”. Corte Cass. SS.UU.  24 luglio 2007  n. 16289 in  base alla quale “poiché  le  tasse  automobilistiche  hanno  indiscutibilmente  natura tributaria alla  luce  dell'art.  2  del  D.Lgs.  n.  546/1992,  come sostituito dall'art. 12, comma 2, della L. 28  dicembre  2001,  n.  448  (ed integrato dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248) ed il relativo contenzioso  rientra  nella giurisdizione  del  giudice  tributario,  restano  attribuite   al   giudice tributario anche le controversie promosse dinanzi ad esso in data  anteriore all'entrata in  vigore  della  nuova  disposizione,  non  potendo  utilmente invocarsi in contrario il principio  della  perpetuatio  iurisdictionis,  il quale opera soltanto nel caso di sopravvenuta carenza di  giurisdizione  del giudice adito, e non anche quando  quest'ultimo,  originariamente  privo  di giurisdizione, acquisisca la competenza in pendenza del giudizio”. Cass. civ. Sez. III Ord., 17 gennaio 2008, n. 857 per la quale “l'art. 5 cod. proc. civ., anche nel testo novellato dall'art. 2 della legge 26 novembre 1990, n. 353, che esclude la rilevanza dei mutamenti in corso di causa della legge - oltre che dello stato di fatto - in ordine alla determinazione della competenza, va interpretato in conformità alla sua "ratio", che è quella di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis, sicchè, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della proposizione della domanda, non può l'incompetenza essere dichiarata se quel giudice sia diventato competente in forza di legge entrata in vigore nel corso del giudizio”.

[36] Cass. Sez. I civ 5 marzo 2009, n. 5298 per la quale “ricadono  nel sistema tributario forme di partecipazione alle spese pubbliche che non sono riconducibili alla fiscalità generale e non sono perciò ragguagliate ad  una qualche specifica  capacità  patrimoniale  del  soggetto.  Rientrano cioè nel sistema fiscale anche quelle entrate  pubbliche  che si possono con termine moderno denominare tasse di scopo, che, cioè,  mirano a fronteggiare una spesa di interesse generale  ripartendone  l’onere  sulle categorie  sociali  che  da  questa  traggono  vantaggio  o   che   comunque determinano l’esigenza  per  la  mano  pubblica  di  provvedere.  Esempi  in proposito sono costituiti dai contributi  consortili,  dalla  tassa  per  lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (ora tariffa igiene  ambientale),  dal canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue (che  risponde  al principio chi inquina paga)".   "Si  tratta  di  un  complesso  di  proventi  non   sempre   esattamente inquadratali o definibili, i cui confini  sono  stati  tracciati  da  queste Sezioni Unite (ordinanze cass nn. 123/07, 8956/07) attraverso l’affermazione secondo cui deve  essere  riconosciuta  natura  tributaria  a  tutte  quelle prestazioni che non trovino  giustificazione  o  in  una  finalità  punitiva perseguita dal soggetto pubblico o in  un  rapporto  sinallagmatico  tra  la prestazione stessa e il beneficio che il singolo  riceve".  (Cass.  sez.  un 3158/08). Alla luce di questi principi generali è stato ritenuto,  in  riferimento alla T.I.A, che, anche se è vero che il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22,  art. 49, (successivamente sostituito dal D.Lgs. n. 152 del  2006,  art.  238)  ha previsto la soppressione della tassa per lo smaltimento dei  rifiuti  urbani interni (originariamente prevista dal R.D. 14 settembre 1931, n. 1175,  art. 268 e segg., poi modificata dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, art. 21, e compiutamente riordinata dal Capo 3 del D.Lgs. 15 novembre  1993,  n.  507), prevedendo che in suo luogo si applichi la Tariffa per l’igiene  ambientale, tuttavia tale  tariffa  non  risulta  presentare  caratteri  sostanziali  di diversità rispetto alla tassa (Cass. 17526/07).     Prescindendo, infatti, dalla considerazione che il termine  tariffa  non ha all’interno del sistema tributario un significato univoco,  questa  Corte ha osservato anzitutto che la applicazione della T.I.A non trova  fondamento in alcun intervento o atto volontario del privato. Essa, infatti,  ai  sensi del D.Lgs n. 22 del 1997, art. 49, riveste carattere obbligatorio in  quanto deve "essere applicata nei  confronti  di  chiunque  occupi  oppure  conduca locali, o  aree  scoperte  ad  uso  privato  non  costituenti  accessorio  o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi  uso  adibiti,  esistenti  nelle zone del territorio comunale".     Il fatto che siano assoggettati alla tariffa tutti i  locali  "esistenti nelle zone del territorio comunale" costituisce addirittura un’accentuazione del carattere pubblicistico dell’entrata (Cass. n.  17526/07),  estendendone la base di applicazione rispetto a quanto in precedenza previsto dal R.D. n. 1175 del 1931, art. 270 (e poi del D.Lgs. n. 507  del  1993,  art.  62)  che prevedeva che  "la  tassa  era  dovuta  soltanto  da  chi  occupasse  oppure conducesse  locali  a  qualsiasi  uso  adibiti,  esistenti  nelle  zone  del territorio  comunale  in  cui  i   servizi  erano  istituiti  a  norma  delle disposizioni di legge vigenti in materia". (Cass. 17526/07).     Presupposto del debito, è dunque  "l’occupare  o  condurre  immobili"  a prescindere dal conferimento dei rifiuti  al  servizio  pubblico,  sia  pure monopolistico, dal momento che  la  tassa  è  dovuta  anche  da  chi  occupa immobili in zone dell’area comunale non servite, in ipotesi, dal servizio di raccolta dei rifiuti.     Il conferimento dei rifiuti (e la loro quantità) concorre quindi solo  a determinare la  partecipazione  alla  "quota  rapportata  alle  quantità  di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di  gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di  investimento e di esercizio" (Cass. 17526/07). È stato ulteriormente osservato che "anche il riferimento ai rifiuti conferiti si rivela - almeno quando si discorra di utenze familiari - piuttosto labile:  il  D.P.R.  27  aprile  1999,  n.  158 ("Regolamento recante norme per la elaborazione del metodo normalizzato  per definire la tariffa del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti  urbani") ha infatti consentito alle Amministrazioni comunali di applicare un  sistema presuntivo, prendendo a riferimento la produzione media comunale  procapite, desumibile da tabelle che saranno predisposte  annualmente  sulla  base  dei dati elaborati dalla Sezione nazionale  del  Catasto  dei  rifiuti".  (Cass. 17526/07). La non corrispondenza tra il conferimento effettivo dei rifiuti da parte dei cittadini e la somma da questi corrisposta si evince  ulteriormente  dal fatto che la tariffa comprende anche  spese che  riguardano  la  collettività nel suo insieme, dal momento che essa copre anche  i  costi  per  i  servizi relativi ai rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle  strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico (Cass. 17526/07).     La natura tributaria della tariffa non è messa poi in discussione  dalla eventuale natura eventualmente privatistica del  soggetto  che  gestisce  la stessa. Questa Corte ha infatti più volte affermato che le  varie  forme  di attribuzione a soggetti privati di servizi (ed entrate) pubbliche non  fanno venir meno i cardini della struttura  pubblicistica  dei  servizi  (e  delle entrate) stesse.  La natura tributaria in questione non può neppure essere  contestata  in base alla considerazione che la parte terza  della  tabella  A  allegata  al D.P.R. n. 633 del 1972,  art.  49,  in  materia  di  IVA,  preveda  (n.  127 sexiesdecies)  che  le  prestazioni  di  raccolta,  trasporto   recupero   e smaltimento dei rifiuti sia urbani che speciali siano soggette al  pagamento dell’IVA 10%.   È sufficiente a tale proposito osservare che detta previsione  normativa è stata introdotta dal D.L. n. 557 del 1993, art. 4, comma 1, convertito con L. n. 133 del 1994, quando era ancora in vigore  la  TARSU,  la  cui  natura tributaria è sempre stata indiscussa.     Il che dimostra che l’applicazione dell’Iva all’importo corrisposto  per smaltimento dei rifiuti  prescinde dalla sua natura tributaria o meno. Deve dunque concludersi (in accoglimento  della  corrispondente  censura avanzata dalla società ricorrente) che  l’entrata  in  questione  ha  natura sicuramente tributaria, non costituendo, in senso tecnico, il  corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta; e rappresentando invece una  forma di finanziamento di servizio pubblico attraverso la imposizione dei relativi costi sull’area sociale che da  tali  costi  ricava,  nel  suo  insieme,  un beneficio. Cass. SS.UU. 8 marzo 2006  n. 4895  ha affermato la giurisdizione tributaria relativamente alle controversie “in materia di TIA - con riferimento alla TIA, alla stregua della disciplina sopravvenuta con l’art. 3-bis, comma 1, lett. b), della Legge n. 248/2005 di conversione del D.L. n. 203/2005”-.  Contra Cass. SS.UU. ord. 15 febbraio 2006  n. 3274 che ha dichiarato la giurisdizione del Giudice ordinario per le controversie aventi ad oggetto la tariffa per la raccolta dei rifiuti urbani (TARSU). Con decreto del 12 febbraio 2008 il presidente di sezione della CTP di Pistotia ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto contro la fattura emessa per la TIA. Si veda anche Sent. n. 259 del 30 dicembre 2008 (ud. del 21 novembre 2008) della Comm. trib. prov. di Pisa, Sez. IV per la quale la  T.I.A.  rappresenta  una “tariffa” (e non una “tassa”) che deve essere pagata da chi produce  rifiuti a fronte del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

[49] Secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con sent. n. 15846 del 7 luglio 2009 2009 la carenza di giurisdizione delle commissioni tributarie per le sanzioni irrogate dall’agenzia delle entrate in materia di lavoro nero comporta la cassazione delle eventuali sentenze pronunciate dai giudici tributari e la rimessione delle parti innanzi al giudice del lavoro, in base al principio della traslatio iudicii. Cass. SS.UU. 11 febbraio 2008 n. 3171, in base alla quale “rientrano cioè nel sistema fiscale anche quelle entrate pubbliche che si possono con termine moderno denominare "tasse di scopo" che  cioè  mirano  a fronteggiare una spesa di  interesse  generale  ripartendone  l'onere  sulle categorie sociali che da questa spesa traggono  vantaggio,  o  che  comunque determinano l'esigenza per la  "mano  pubblica"  di  provvedere.  Esempi  in proposito sono costituiti dai contributi  consortili,  dalla  Tassa  per  lo Smaltimento dei rifiuti solidi Urbani (ora Tariffa Igiene  Ambientale),  dal canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue (che  risponde  al principio "chi inquina paga").     Si  tratta  di  un  complesso  di  proventi   non   sempre   esattamente inquadrabili e definibili, i cui confini  sono  stati  tracciati  da  queste Sezioni Unite (ordinanze n. 123 del 9 gennaio 2007 e n. 8956 del  16  aprile 2007) attraverso l'affermazione secondo cui deve essere riconosciuta  natura tributaria a tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione  o  in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico,  o  in  un  rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed  il  beneficio  che  il  singolo riceve.     Questa proposizione consente di individuare la massima estensione  della giurisdizione tributaria compatibile con il testo costituzionale  e  con  il divieto di istituire "giurisdizioni speciali".     Al  giudice  tributario  possono  cioè  essere   attribuite   tutte   le controversie che rientrano nella materia tributaria  latamente  intesa,  ivi comprese quelle che derivino dalla applicazione di  sanzioni  conseguenti  a violazioni di carattere tributario”.

[57] Cass. SS.UU. 5 giugno 2008 n. 14831 per la quale “il giudice tributario innanzi al quale sia stato impugnato un provvedimento di fermo di beni mobili registrati ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, deve accertare quale sia la natura - tributaria o non tributaria  -  dei crediti posti a fondamento del provvedimento in questione, trattenendo,  nel primo caso, la causa  presso  di  se,  interamente  o  parzialmente  (se  il provvedimento faccia riferimento a crediti in parte di natura  tributaria  e in  parte  di  natura  non  tributaria),  per  la  decisione  del  merito  e rimettendo, nel secondo caso, interamente o parzialmente, la  causa  innanzi al  giudice  ordinario,  in  applicazione  del  principio  della  translatio iudicii.  Allo  stesso  modo   deve   comportarsi   il   giudice   ordinario eventualmente adito. Il debitore, in caso  di  provvedimento  di  fermo  che trovi riferimento in  una  pluralità  di  crediti  di  natura  diversa,  può comunque  proporre  originariamente  separati  ricorsi  innanzi  ai  giudici diversamente competenti”; Cassazione SS.UU. ord. 17 aprile 2007  n. 875 che in merito ad una controversia avente ad oggetto l’ omesso versamento di contributi previdenziali ha disposto che “Il provvedimento di fermo amministrativo dei beni mobili registrati (nella specie, un'autovettura) emesso da un concessionario del servizio riscossione tributi ex art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 è un atto funzionale all'espropriazione forzata attraverso il quale si realizza il credito dell'amministrazione, e pertanto la tutela giurisdizionale nei confronti dello stesso si realizza dinanzi al giudice ordinario con le forme dell'opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi”.

[59] In tal senso Cass. SS.UU. 31 gennaio 2006 n. 2053 per la quale “il rimedio del fermo amministrativo di beni mobili registrati del debitore d’imposta s’inserisce nel processo di espropriazione forzata esattoriale, il quale è segnato dalle seguenti tappe: l’iscrizione del credito a ruolo (art. 49 del D.P.R. 602/73); la notificazione al contribuente della cartella di pagamento al fine della decorrenza del termine dilatorio per l’inizio dell’esecuzione (art. 50 dello stesso D.P.R.); la possibilità di iscrivere il fermo nei registri mobiliari (art. 51 del medesimo decreto) per sottrarre il bene sia alla circolazione naturale secondo il disposto dell’art. 214 comma ottavo del codice della strada, sia a quella giuridica attraverso la inopponibilità al concessionario degli atti dì disposizione successivi del bene, secondo il disposto dall’art. 5, c.1 del D.M. 503/98. Il fermo amministrativo, dunque, è atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito allo stesso modo con il quale la realizzazione del credito è agevolata dall’iscrizione ipotecaria ex art. 77 del citato D.P.R. 602/73. Se ne ricava che la tutela giudiziaria esperibile nei confronti del fermo amministrativa si deve realizzare davanti al giudice ordinario con le forme, consentite dal vigente art. 57 del citato D.P.R. 602/73, dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi. Sì deve aggiungere che nella materia non ricorre neppure la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, giacché, con la richiesta di trascrizione nei registri mobiliari del fermo amministrativo, il concessionario non esercita alcun potere di supremazia in materia di pubblici servizi che, alla luce della pronuncia della Corte Cost. 204/04, giustifichi questa forma di giurisdizione amministrativa”. Conforme Cass. SS.UU. 23 giugno 2006 n. 14701; Cons. Stato, Sez. V, 13 settembre 2005 n. 4689 che ha negato la propria giurisdizione che in primo grado era stata affermata dal TAR; Cons. Stato, Sez. IV, 3 febbraio  2006 n. 418. Si veda anche Ordinanza Corte Cost. 8 maggio 2007 n. 161. Per altro filone giurisprudenziale Cons. di Stato 13 aprile 2006  n. 2032 “le controversie relative al fermo rientravano nella giurisdizione del giudice amministrativo, per la natura ablatoria del provvedimento amministrativo”.  

[61] Cass. sez. trib. 15 novembre 2002 n. 16158 per la quale “appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa dal  locatore nei confronti del conduttore per ottenere il rimborso della tassa rifiuti solidi urbani  versata all'amministrazione comunale, senza convenire in giudizio l'amministrazione stessa. In tal caso il giudice tributario dovrà risolvere in via incidentale la  questione  relativa  alla   titolarità   dell'obbligazione tributaria, nonché quella, accessoria e subordinata,  dell'esattezza  della somma  pretesa  in  relazione   all'effettiva   misura   della   superficie assoggettata alla tassa al limitato fine di stabilire se ed in quale misura sia fondata la domanda di rivalsa  proposta  dal  locatore  nei  confronti  del conduttore dell'immobile, senza che  la  relativa  statuizione  possa  fare stato, nei confronti dell'ente impositore dell'obbligazione tributaria”. Cass. SS.UU. 27 marzo 2003 n. 9067; Cass. SS.UU. 20 gennaio 2003 n. 745. In tal senso anche Cass. SS.UU. n. 13199/1982; Sent. n. 5140/1998. Tali disposizioni non si pongono in contrasto con la Cass., SS.UU.  n.  2803/1993, Cass. SS.UU n. 4223/1996 e n. 11891/1998 concernenti la controversia  tra sostituto d'imposta e sostituito, avente ad oggetto il pagamento  di  quella parte del credito del lavoratore che il datore di lavoro abbia trattenuto e versato a titolo di ritenuta d'imposta, attesa la particolare posizione soggettiva del sostituto d'imposta rispetto all'Amministrazione finanziaria e con Cass. SS.UU. 21 settembre 2006  n. 22515  per la quale è devoluta alla giurisdizione tributaria la controversia   promossa dal   sostituito d’imposta nei confronti del sostituto, per pretendere il pagamento di quella parte del suo credito che il convenuto (nel caso di specie il comune) abbia trattenuto e versato a titolo di ritenuta  d'acconto  (nel caso in esame sulle somme liquidate a titolo di risarcimento danni per illegittima occupazione di un suolo). Si tratta, infatti, di un’indagine sulla   legittimità della  ritenuta integrante non  una  mera  questione  pregiudiziale,  suscettibile  di essere delibata  incidentalmente, ma   una   causa   tributaria   avente   carattere pregiudiziale, la   quale  deve  essere  definita  con  effetti  di  giudicato sostanziale dal giudice cui la relativa cognizione spetta ratione materiae", in litisconsorzio necessario con l'Amministrazione finanziaria. Conforme Cass. SS.UU. 26 giugno 2009, n. 15047 per la quale laddove il thema decidendum della controversia abbia ad oggetto la sussistenza e determinazione del quantum di  una  ritenuta  tributaria  deve dichiararsi la giurisdizione del giudice tributario. Cass. SS.UU. 15 novembre 2005  n. 23019 e 19 febbraio 2004 n. 3343. Contra Cass. SS.UU. 26 giugno 2009 n. 15031.

[63] Cass. SS.UU. ord. 22 luglio 2002 n.10725 per la quale “qualora l'Amministrazione finanziaria abbia formalmente riconosciuto il diritto del contribuente al rimborso delle imposte e la quantificazione della somma dovuta, sì che non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione tributaria, il "quantum" del rimborso o la procedura con la quale lo stesso deve essere effettuato, non ricorrono i presupposti di applicabilità della riserva alla giurisdizione tributaria, di cui all'art. 2 d.lg. 31 dicembre 1992 n. 546, con conseguente esperibilità, da parte del contribuente, dell'ordinaria azione di ripetizione d'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. e devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario”; Cass. SS.UU. ord. 8 luglio 2005  n. 14332 per la quale “in mancanza di una decisione definitiva che contenga una condanna dell'Ente impositore al pagamento di somme dovute (della quale può chiedersi l'esecuzione in via civile ovvero l'ottemperanza), deve sempre attivarsi il procedimento di rimborso, contro il cui rifiuto può soltanto esperirsi la tutela dinanzi alle Commissioni tributarie”; Cass. SS.UU. 6 luglio 2004 n. 12352 per la quale “la controversia relativa al rifiuto di rimborso dell'Imposta comunale sugli immobili (ICI) è devoluta alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie, ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. h), del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nel testo originario, applicabile nella fattispecie "ratione temporis"), in relazione all'art. 19, comma 1, lett. g), del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 medesimo, atteso che tale inderogabile regola non si applica nei soli casi in cui il credito del contribuente sia incontestato, per essere stato formalmente riconosciuto dall'ente impositore. rileva, in contrario, la motivazione del diniego (nella specie fondata sull'intervenuta decadenza triennale ex art. 13 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504), poiché la giurisdizione tributaria è delineata unicamente dalla natura del rapporto e non dalla natura della problematica da affrontare per la sua definizione”.

[71] Cass. SS.UU. 18 gennaio 2008 n. 968. Conforme Cass. SS.UU. 30 aprile 2008  n. 10826 in base alla quale “non rientra nella giurisdizione  esclusiva  delle  commissioni tributarie, e  spetta  invece  alla  cognizione  al  giudice  ordinario,  la controversia con la quale il privato, adempiuto  il  debito  d’imposta  (nel caso  di  specie  relativo  all’ICI)  non  tempestivamente  o  integralmente versata, domandi il risarcimento dei danni subiti  in  sede  di  riscossione coattiva per aver dovuto corrispondere anche le somme pretese dal comune per l’assistenza legale allo stesso prestata da avvocati di cui l’ente  pubblico si sia avvalso.     Non invade l’ambito proprio della giustizia amministrativa  la  sentenza con cui il giudice di pace  qualifichi  come  illegittima  la  condotta  del comune che, in sede di riscossione coattiva dei tributi,  si  avvalga  della assistenza di un legale ponendo poi a carico del  contribuente  le  relative spese, e quindi condanni il comune al risarcimento del danno.     È priva di qualunque supporto normativo la pretesa del Comune  volta  ad ottenere il rimborso delle spese legali  affrontate  per  una  procedura  di riscossione coattiva di debiti fiscali”. Cass. SS.UU. 16 aprile 2007, n. 8958 per la quale “compete  al  giudice  ordinario  valutare  se  l'illegittima richiesta di un tributo non dovuto abbia determinato  danni  patrimoniali  e non patrimoniali risarcibili” (nel caso di specie l'Amministrazione era stata condannata  al  ristoro  delle  spese   sostenute   dal   contribuente   per l'iscrizione ipotecaria a garanzia del presunto credito tributario).

[85] Cass. SS.UU.  2 marzo 2006  n. 6224. Conforme Cass. SS.UU. 20 settembre 2006 n. 20318; Cass. SS.UU. 25 gennaio 2007 n. 1616 in base alla quale  “la controversia che abbia ad oggetto  un  atto  amministrativo generale, presupposto dell'accertamento e della determinazione  in  concreto del tributo, ove esso sia integrativo del precetto legislativo (ciò  essendo consentito dalla natura non assoluta  della  riserva  di  legge  in  materia tributaria), esula  dalla  giurisdizione  delle  Commissioni  tributarie  (e ricade  nella  giurisdizione  amministrativa),  poiché  il  cui  potere   di annullamento dei giudici tributari riguarda, anche dopo la riforma del 2001, soltanto gli atti indicati dall'art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non si estende agli atti amministrativi generali, dei quali l'art.  7  del medesimo decreto legislativo consente soltanto  la  disapplicazione.  Né  il fatto che questa Corte, da una parte, non possa esercitare  la  funzione  di nomofilachia rispetto alle sentenze del  Consiglio  di  Stato  (in  tema  di annullamento degli  atti  generali  amministrativi  di  valenza  tributaria) mentre, dall'altra, possa esercitare  detta  funzione  rispetto  ai  singoli rapporti tributari, è in contrasto con il parametro di cui all'art. 3  della Costituzione in quanto i limiti di intervento di questa Corte rispetto  alle sentenze del Consiglio di Stato sono espressamente tracciati dall'art.  111, comma 8, della Costituzione ("per soli motivi inerenti alla giurisdizione"), sul presupposto della diversa  tutela  accordata  agli  interessi  legittimi rispetto ai diritti soggettivi ex art. 113 della Costituzione.      Non incorre  in  eccesso  di  potere  giurisdizionale  la  sentenza  del Consiglio di Stato che constati come la legislazione vigente non consenta ai comuni di fissare aliquote diverse dell'Ici  per  le  singole  tipologie  di immobili destinati ad usi non abitativi e  quindi  dichiari  illegittima  le discriminazioni all'interno della stessa categoria catastale, a danno  della centrale termoelettrica dell'E. società  per  azioni.  L'opera  del  giudice amministrativo si è esaurita nell'interpretazione delle norme di diritto che disciplinano  il  potere  di  stabilire   l'aliquota   Ici,   senza   alcuno straripamento giurisdizionale”; Cass. SS.UU. 27 luglio 1998, n. 7350 che con  riguardo  alla  delibera   di   determinazione dell'aliquota dell'imposta comunale sugli immobili (nella misura, in specie, del sei per mille) ha stabilito che si sottrae al sindacato delle Sezioni Unite  della  Corte di Cassazione la decisione del Consiglio di Stato di annullamento  di  detta delibera, a seguito di negativo riscontro della sua legittimità, per  essere la  detta  determinazione  fondata  non  sulla  presenza  di  un  fabbisogno economico-finanziario predeterminato ed emergente alla data di  approvazione del bilancio comunale di previsione, bensì con  riguardo  ad  un  fabbisogno futuro ancora in  fase  di  studio,  trattandosi  di  interpretazione  della normativa vigente in materia non  sindacabile  in  sede  di  giudizio  sulla giurisdizione ex art. 362 del codice di procedura civile, e non di pronuncia travalicante  nella  sfera  del  merito,  sostitutiva  delle  determinazioni dell'Amministrazione.

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