I poteri istruttori del giudice tributario
1. Profili generali
Nel processo tributario vige il principio dispositivo della domanda, in quanto il giudice è vincolato ai fatti dedotti in giudizio dalle parti, nel senso che non è possibile esercitare detti poteri per acquisire elementi diversi da quanto rimesso all’esame del collegio giudicante[1]. In ogni caso, pur essendo impedito al giudice di rilevare fatti non dedotti dalle parti, è consentita, nell’ambito della situazione fattuale allegata dal ricorrente, una valutazione giuridica autonoma e difforme rispetto a quella prospettata[2].
Dalla natura dispositiva del processo tributario, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, discende l’applicabilità del c.d. “principio di non contestazione” - da intendersi correttamente come onere di contestazione tempestiva, col relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati, e, a fortiori, non contestati tout court –pertanto le parti devono responsabilmente collaborare alla ragionevole durata del processo, dando attuazione, per quanto in loro potere, al principio di economia processuale e perciò immediatamente delimitando, ove possibile, la materia realmente controversa[3].
Tale principio è stato normativizzato dal c. 14 dell’art. 45 della L. 69/2009 che ha integrato l’art. 115 c.p.c.. Tale disposizione, così come modificata dispone che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. La previsione che i giudici possano fondare la decisione anche sui “fatti non specificamente contestati dalla parte costituita” comporta che i fatti non specificamente contestati vengono espunti dal tema di prova, con “relevatio ab onere probandi”[4] della parte istante. La contestazione generica ed il mero silenzio, nei processi avviati dal 4 luglio 2009, saranno equiparati al difetto di contestazione.
L’esercizio dei poteri istruttori non ha la funzione di sopperire alle deficienze probatorie delle parti[5], pertanto il giudice tributario non è tenuto all’acquisizione d’ufficio delle prove[6], salvo la necessità di integrare l’onere probatorio allorquando alla parte interessata sia difficile o impossibile fornire le prove richieste[7], né tantomeno è tenuto a dare giustificazione, nella propria decisione, del mancato uso dell’utilizzo dei poteri istruttori[8]. Inoltre, la Suprema Corte ha affermato in via generale che i poteri d'ufficio vanno usati prudentemente e discrezionalmente dal giudice e che "le parti non possono dolersi circa l'uso che le Commissioni fanno di tali poteri[9].
Il giudice può derogare al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio, facendo a meno delle prove, soltanto qualora può avvalersi direttamente della conoscenza del fatto divenuto notorio, acquisito fuori dal processo[10].
Per aversi «fatto notorio» occorre che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività di modo che questa ne compia per suo conto la valutazione critica, sicchè al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che da esso derivano, nonchè, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perchè appartenente alla cultura media della collettività, o perchè le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune[11].
I poteri istruttori riconosciuti al giudice tributario dall’art. 7 D.Lgs. 546/1992 sono giustificati dagli interessi coinvolti che riguardano oltre alle parti del processo anche tutta la collettività in considerazione della natura pubblicistica degli interessi in gioco.
Pertanto, rispetto alla precedente disciplina, di cui all’art. 35 D.P.R. n. 636/1972, che non limitava l’esercizio dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie in quanto disponeva che “La commissione tributaria, al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione, ha tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti, conferite agli uffici tributari dalle singole leggi di imposta”, la nuova disposizione attenua la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario.
2. Abrogazione del c. 3, art. 7 D.Lgs. 546/1992
Il riconoscimento dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, esercitabili d’ufficio, ha fatto sorgere il problema del carattere inquisitorio oppure dispositivo del processo tributario. La tesi che riconosceva il carattere inquisitorio al processo tributario è stata attenuata, in conseguenza del disposto del c. 5 dell'art. 3-bis del D.L. n. 203/2005 che ha abrogato il c. 3 dell'art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, che riconosceva alla Commissione la facoltà di ordinare ex officio alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia. La ratio della modifica in commento va individuata nella volontà del legislatore di rimettere all'iniziativa delle parti l'andamento del processo e limitare la discrezionalità del giudice dalla quale potevano conseguire diversi effetti.
L’abrogazione di tale disposizione, non ha inciso sulla connotazione propria della giurisdizione tributaria, in quanto ai giudici è attribuito un potere di indagine che possono esercitare se dagli atti non risultino sufficienti elementi di giudizio e sempre che non ritengano di averne già acquisiti, il tutto nei limiti dei fatti dedotti dalle parti[12]. Pertanto, le commissioni tributarie, dotate di ampio potere estimativo e anche sostitutivo, avvalendosi dei larghi poteri attribuiti possono acquisire aliunde gli elementi di decisione, prescindendo dall’accertamento dell’ufficio e dall’eventuale difetto di prova assunto[13].
La prevalenza del carattere dispositivo[14] del processo tributario, è stato affermanto anche in giurisprudenza, infatti, la Corte di Cassazione con sentenza 30 novembre 2005 n. 366[15], pronunciandosi sull'abrogato c. 3 dell'art. 7 ha ribadito che tale norma "costituisce una norma eccezionale che non può essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti dal momento che il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio salvo che la situazione probatoria sia tale da impedire la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata senza l’acquisizione di ufficio di un documento[16]”. Partendo da tale premessa, la Suprema Corte ha poi precisato che "diversamente risulterebbe violato il principio dispositivo ... su cui si regge il processo tributario" e che, pertanto, "non a caso la recente miniriforma sul contenzioso approvata con la conversione in legge del D.L. n. 203/2005 ha soppresso ... la disposizione in parola eliminando così una possibile limitazione al principio di legalità consacrato sul piano probatorio dall'art. 2697 c.c. ...".
L'abrogazione del citato c. 3 dell'art. 7 delimita, invero, la portata dell'art. 24, c. 2, D.Lgs. 546/1992, in merito all'integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ... per ordine della commissione ...".
Resta salva in ogni caso la facoltà, per ciascuna delle parti, di chiedere al giudice di ordinare il deposito di documenti non conosciuti in possesso della controparte.
Detta abrogazione è stata indirettamente oggetto della sentenza Corte cost. 29 marzo 2007 n. 109, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.7, c.1 D.Lgs. 546/1992 nella parte in cui non prevede, tra i poteri istruttori delle commissioni, quello di ordinare alle parti, pur nei limiti dei fatti dedotti, di produrre documenti ritenuti necessari ai fini della decisione.
3. Mezzi di prova ammessi
Il collegio giudicante dispone comunque dei sotto elencati poteri istruttori previsti dall’art. 7 del D.Lgs. 546/1992, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti:
a) facoltà di accesso (analogamente agli uffici tributari). Tale potere può essere esercitato al fine di rilevare lo stato dei luoghi e delle cose che si trovano all’interno dei locali;
b) facoltà di richiesta di dati, informazioni e chiarimenti (analogamente agli uffici tributari). In tal caso la commissione tributaria al fine di ottenere precisazioni indispensabili ai fini della decisione della controversia può rivolgersi alle parti del giudizio ed a terzi (professionisti, pubbliche amministrazioni, banche ecc.);
c) richiesta di relazioni esplicative alla pubblica amministrazione o rapporti alla Guardia di Finanza, nei casi di particolare complessità tecnica (norma speculare all’art. 213 c.p.c.);
d) facoltà di disporre la nomina di un consulente tecnico di ufficio[17]. Trovano applicazione le relative norme del codice di procedura civile in tema di consulente tecnico ovvero la facoltà delle parti di assistere alle operazioni (art.194, c. 2 c.p.c.) e di nominare un loro consulente (art. 201 c.p.c), obbligo per il CTU di prestare il giuramento (art. 193 c.p.c.) e per le parti di ricusare il consulente (art. 192 c.p.c). Non sono, invece, applicabili gli artt. 198, 199 e 200 c.p.c., non essendo ammissibile un tentativo di conciliazione delle parti operato dal consulente tecnico di ufficio, stante l’apposita disciplina dell’istituto della conciliazione giudiziale (ex art.48 D.Lgs. 546/1992) davanti alla Commissione provinciale e non oltre la prima udienza;
e) il potere di disapplicare i regolamenti e gli atti generali ritenuti illegittimi.
Per effetto del rinvio disposto dall’art. 1 D.Lgs. 546/1992, alle norme contenute nel codice di procedura civile, ai sopra citati poteri istruttori, si affiancano anche i seguenti mezzi processuali, che contribuiscono a costituire il fondamento del convincimento del giudice:
a) ordine di ispezione di persone o cose (art.118 c.p.c.). Trattasi di un ordine che può essere rivolto sia alle parti che ai terzi e lo scopo è quello di acquisire tramite le ispezioni sulle persone e sulle cose i fatti della causa che appaiono indispensabili. Il ricorso a questo strumento deve configurarsi residuale e soprattutto è necessario che l’ispezione non arrechi alcun danno alla parte o al terzo e che non costringa loro a violare il segreto professionale o d’ufficio;
b) interrogatorio non formale delle parti[18] (art. 117 c.p.c.). Consiste nell’interrogare entrambi le parti in contraddittorio tra loro sui fatti della causa. Trattandosi di un interrogatorio libero l’assistenza o meno dei difensori dipende dalla volontà delle parti;
c) richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.p.c.). Consiste nella richiesta di informazioni scritte riguardanti atti e documenti dell’amministrazione che il giudice rivolge d’ufficio quando sia necessario acquisire notizie utili ai fini del processo.
Il giudice tributario nel disporre ulteriori accertamenti nel corso del procedimento, se da un lato dispone di un potere di libero apprezzamento degli elementi acquisiti in giudizio, dall’altro l’apprezzamento deve essere rapportato ad elementi aventi effettiva valenza probatoria e deve essere comunque adeguatamente motivato[19].
Ben può il giudice tributario disporre la misurazione dei locali al fine di accertare l’esatta consistenza del presupposto del tributo TARSU, qualora le parti in giudizio non siano d’accordo sull’entità[20].
La mancata produzione in giudizio di documenti, su specifica richiesta della Commissione tributaria che abbia fatto uso dei propri poteri istruttori, non comporta ex se la soccombenza della parte che non abbia ottemperato all'invito del giudice tributario; in forza dei richiami di cui agli artt. 1, c. 2, e 61, D.Lgs. 546/1992, in materia probatoria, sia in primo grado che nel giudizio di appello, vale il c. 2 dell'art. 116 c.p.c.[21], per cui il giudice tributario può trarre soltanto "argomenti di prova" dal comportamento tenuto dalle parti, ma non può basare in via esclusiva la propria decisione che comunque deve essere adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze[22].
4. Poteri istruttori nel giudizio di appello
Le disposizioni dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992 sono applicabili anche nella fase di appello: sia per effetto al richiamo alle norme del processo di primo grado contenuto nell’art. 61 dello stesso decreto, sia per applicazione diretta dell’art. 58 dello stesso decreto, che ammette le nuove prove quando esse vengano ritenute necessarie dal giudice[23].
5. Mezzi di prova non ammessi
Dai mezzi di prova del processo tributario, a differenza del processo ordinario, sono esclusi, per effetto della previsione di cui al c. 4 dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992
- il giuramento (previsto dagli artt. 233 – 243 del c.p.c.);
- la prova testimoniale (previsto dagli artt. 244 – 257 del c.p.c.)[24], la cui esclusione è dettata da un’esigenza di speditezza del processo tributario.
Del pari non trova applicazione nel processo tributario la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, così come l'autocertificazione in genere, in quanto hanno attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale, e ciò perché altrimenti si finirebbe per introdurre nel processo tributario - eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione - un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo[25].
Inoltre, nel processo tributario non può avere efficacia di giudicato la sentenza penale definitiva, posto che l'art. 654 c.p.p. stabilisce che il suddetto giudicato non vale in processi, quali quello tributario, ove vigono limitazioni probatorie (divieto di testimonianza). Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza definitiva in detta materia, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all'azione accertatrice del singolo ufficio, ma, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui esso é destinato ad operare[26].
Nell’ottica del principio dell’unità della giurisdizione il giudice tributario può utilizzare i mezzi probatori raccolti in differenti giudizi al fine di trarne indizi od elementi utili alla formazione del convincimento, ovvero di disattenderne le conclusioni con motivazione congrua e logicamente argomentata[27].
6. Dichiarazioni rese dal contribuente e dichiarazioni rese da terzi
Le dichiarazioni rese dal contribuente in contraddittorio con i verificatori e risultanti dal processo verbale di constatazione debitamente sottoscritto possono assumere valore di confessione stragiudiziale e come tali legittimare l’accertamento dell’Ufficio[28], ancorchè il loro valore probatorio sia rimesso al libero apprezzamento del giudice[29].
L’esclusione delle prove testimoniali nel processo tributario non preclude l’utilizzo di dichiarazioni rese da soggetti terzi rispetto al rapporto tributario tra Ente impositore e contribuente, il cui valore di tali dichiarazioni è quello di semplici elementi indiziari[30], i quali mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione[31]. Pertanto non è possibile procedere ad una ricostruzione del ”se” e del “quanto” della pretesa tributaria sulla base esclusivamente di dichiarazioni rese dai terzi agli organi investigativi[32]. Si può quindi affermare il principio che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione, in quanto diverse dalla testimonianza trovano ingresso in un processo tributario.
Di conseguenza, alla luce dell’art.111 Cost. (che regola il giusto processo e che afferma il principio della parità delle parti), si ritiene che anche il contribuente al pari dell’Amministrazione può introdurre nel giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale[33]. Il valore probatorio di tali dichiarazioni è pari a quello delle dichiarazioni raccolte dall'Amministrazione cioè quello proprio degli "elementi indiziari", i quali, ancorché non idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, possono concorrere a formare il convincimento del giudice [34].
Le perizie giurate di parte non sono dotate di efficacia probatoria nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato. Ad esse, così come il documento proveniente da terzi è soltanto possibile attribuire valore indiziario, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, il quale non è obbligato a tenerne conto[35].
7. Disapplicazione dei regolamenti ed atti generali ritenuti illegittimi. Rinvio.
E’ prevista dal c. 5 dell’art. 7 a chiusura dell’insieme dei poteri istruttori attributi al giudice tributario. (Si veda Parte I, Cap. 1, Parag. 4).
8. Disapplicazione della norma nazionale incompatibile con il diritto comunitario
Il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la disposizione interna che sia incompatibile con il diritto comunitario[36]. Esiste oramai un potere di disapplicazione della norma nazionale, sulla base di una supremazia del diritto comunitario, attraverso i regolamenti, le direttive e le sentenze della Corte di Giustizia Europea, fornendo quest’ultime, la interpretazione autentica delle Direttive medesime, individuando di fatto la norma interna incompatibile e autorizzando il giudice nazionale a disapplicare la disposizione confliggente, sia essa di emanazione anteriore ovvero successiva a quella comunitaria. L’art. 249 del Trattato CE, sancisce la tipologia degli atti a mezzo dei quali le istituzioni comunitarie esercitano le competenze loro attribuite, comprendendo tra gli atti vincolanti, i Regolamenti, le Decisioni, le Direttive. Il Regolamento è un atto legislativo di portata generale ed astratta dotato di obbligatorietà integrale diretta nel territorio degli Stati producendo effetti immediati ed attribuendo ai cittadini diritti tutelabili davanti ai giudici nazionali. La Direttiva comunitaria è uno strumento di armonizzazione a cui le istituzioni comunitarie maggiormente ricorrono in materia tributaria e costituisce un atto obbligatorio rivolto allo Stato circa il risultato da raggiungere ma con forme e mezzi rimessi alla discrezionalità dello Stato medesimo. In proposito, la Corte di Giustizia Europea ha puntualizzato che se la Direttiva risulta dettagliata e particolareggiata, con contenuto cioè precettivo, chiaro, preciso, incondizionato assume effetto diretto con possibilità da parte del privato di farla valere contro lo Stato ed al giudice di applicarla immediatamente, opponendola alla norma interna incompatibile con un cosiddetto “effetto verticale”, mentre non è immediatamente operativa nei rapporti tra privati “c.d. effetto orizzontale”.
9. La disapplicazione da parte del giudice tributario delle sanzioni non penali
La disapplicazione delle sanzioni amministrative tributarie per obiettive condizioni di incertezza sotto il profilo procedimentale è disciplinato dagli articoli 6, c. 2, del D.Lgs 472/1997 e 10, c. 3, della L. 212/2000, mentre sotto il profilo processuale dall’art. 8 del D.Lgs 546/1992.
In base a tale principio, le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da incertezza normativa oggettiva tributaria, cioè dal risultato equivoco dell’interpretazione delle norme tributarie accertato dai giudice, anche di legittimità.
Rientra nel potere – dovere[37] delle Commissioni tributarie la dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni amministrative previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce (ex art. 8 D.Lgs. 546/1992)[38].
L’inapplicabilità delle sanzioni deve essere sempre motivata dal giudice di merito[39].
L'incertezza interpretativa può essere rilevata dal giudice (sia in primo grado che in secondo grado) anche se non dedotta in giudizio dal contribuente, ma deve trattarsi di incertezza oggettiva[40] non anche di incertezza derivante da condizioni soggettive del ricorrente come ad esempio nel caso in cui il contribuente sia stato indotto in errore da un esperto[41]. E’ comunque opportuno che la parte presenti apposita istanza, infatti la Corte di Cassazione con sentenza del 15 settembre 2008 n. 23633 ha stabilito che "in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, potere conferito dal D.Lgs. 546/1992 art. 8, e ribadito, con più generale portata, dal D.Lgs. 472/1997 art. 6, c. 2, e quindi dal D.Lgs. 212/2000 art. 10, c. 3, deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione; l’onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione, se esistenti, grava sul contribuente, sicchè va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente, né, per conseguenza, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d’ufficio sul punto"[42].
Tale disposizione è l’epilogo di previsioni contenute in norme di carattere sostanziale, quali;
- l’art. 10, c. 2 della L. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) a norma del quale “non possono essere irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’A.F., ancorché successivamente modificata dall’Amministrazione”;
- l’art. 10, c. 3 della L. 212/2000, per cui le sanzioni amministrative non possono essere irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria;
- l’art. 6 c. 2 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, a norma del quale, “non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono”[43].
Tale disposizione riproduce quanto statuito dall'art. 39 bis D.P.R. 636/1972, il quale recepisce un principio già dettato dalle leggi concernenti i singoli tributi (art. 55, c. 5, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in materia di imposte dirette, ed art. 48, c. 7, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di imposta sul valore aggiunto). Detta disposizione opera in tutte le fasi del procedimento e, quindi, anche in sede di rinvio della Cassazione ove si debba ancora statuire sulla sussistenza della violazione stessa[44].
Per "sanzioni non penali" si intendono le pene pecuniarie, le sanzioni accessorie, nonché le soprattasse, in quanto anche queste ultime hanno natura afflittiva e non meramente risarcitoria[45].
L’errore sulla norma tributaria è configurabile nelle seguenti ipotesi:
- casi di divergenze di contenuto tra atti ufficiali dell'Amministrazione;
- effettiva incertezza legislativa. Non è sufficiente ipotizzare una non chiara formulazione letterale della norma, essendo pur sempre onere del destinatario del precetto la ricerca della interpretazione più consentanea alla lettera ed alla ratio della legge[46];
- superamento di un indirizzo giurisprudenziale consolidato al quale il contribuente si sia uniformato[47];
- il contrasto di pronunce giurisprudenziali[48];
- la disciplina normativa si articola in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto derivante da elementi positivi di confusione[49].
10. Ultrapetizione
Il giudice tributario deve limitarsi a verificare la legittimità dell'operato dell'ufficio senza operare una diversa qualificazione della fattispecie sottoposta al suo esame, atteso che è precluso al giudicante il potere amministrativo sostanziale (o attiva)[50] spettante all'Amministrazione, pena la configurazione del vizio di ultrapetizione[51].
Si ha vizio di ultrapetizione nei seguenti casi, in cui il giudice:
- decide la controversia in base ad un motivo non introdotto in giudizio dalle parti e non rilevabile d’ufficio[52], in violazione quindi dell’art. 112 c.p.c.;
- pronuncia su un motivo dedotto irritualmente in una memoria successiva al ricorso;
- pronuncia su un’eccezione non sollevata dalle parti e non rilevabile d’ufficio;
- decide per un rimborso di un tributo superiore a quello domandato dal ricorrente.
Dall’ultrapetizione, si distingue l’extrapetizione che si manifesta allorquando il giudice pronuncia un provvedimento diverso da quello richiesto, come nel caso in cui emette una sentenza di condanna al rimborso mai richiesta dal ricorrente.
11. Divieto del ricorso all’equità
Nel processo tributario non è consentito il ricorso all'equità[53], non è, dunque, possibile ammettere il ricorso a valutazioni equitative e tanto meno lo è nel caso in cui la parte (ufficio o contribuente che sia) non riesca ad assolvere al proprio onere probatorio. Le Commissioni tributarie, ricorrendo a non meglio precisate valutazioni equitative, non possono pertanto sottrarsi al proprio dovere di decidere la controversia in base (e solo in base) alle previsioni di legge e al materiale probatorio acquisito in giudizio.
[1] La previgente normativa di cui all’art. 35 D.P.R. 636/1972 non prevedeva detto limite all’esercizio dei poteri istruttori.
[2] Cons. di Stato 23 marzo 2000 n. 1558.
[3] Cass. sez. trib. 26 ottobre 2006 n. 1540. Detto principio, invocabile anche nel processo tributario, è stato elaborato dalla giurisprudenza, con riguardo al rito del lavoro (SS.UU. n. 761 del 2002), e poi esteso al rito civile riformato (tra le altre, Cass. n. 394 del 2006 e n. 19260 del 2004).
[4] Con questa locuzione si indica l’esonero dall’obbligo di provare.
[5] Cass. sez. trib. 17 novembre 2006 n. 24464; Cass. sez. trib. 15 novembre 2002 n. 7129.
[6] Cass. sez. trib. 20 gennaio 2006 n.1134; Cass. 23 aprile 2008, n. 10513 in base alla quale “a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, il Giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, perché tali poteri sono meramente integrativi dell'onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte”. Conforme Cass. sez. trib. 14 gennaio 2009 n. 683; Cass. sez. trib. 14 maggio 2007 n. 10970.
[7] Cass. sez. trib. 16 maggio 2005 n. 10267.
[8] CTC sez XI 17 aprile 2001 n. 4267.
[9] Cass. sez. trib. 9 maggio 2003 n. 7129.
[10] Il giudice non può per identificare il valore di un immobile avvalersi di nozioni che non costituiscano fatto notorio il quale, derogando al principio dispositivo delle prove e al principio del contraddittorio, va inteso in senso rigoroso.
[11] Cass. sez. trib. 9 luglio 1999, n. 7181 per la quale “nel caso in cui la controversia giudiziale verta sul valore di un immobile ai fini dell'imposta di registro, questo non può rientrare nella categoria di fatto notorio, verficandosi la necessità di una precisa determinazione nell'individuazione della base imponibile dello stesso tributo”; Cass. sez. trib. 28 marzo 1997 n. 2898.
[12] Cass. sez. trib. 16 giugno 2006 n. 19593; Cass. sez. trib. 6 febbraio 2006 n. 2488.
[13] Cass. sez. trib. 11 gennaio 2006 n. 339.
[14] Un processo si definisce a carattere inquisitorio quando il giudice può giudicare ponendo a fondamento della propria decisione le prove da lui raccolte indipendentemente da quelle dedotte dalle parti. Un processo si definisce a carattere dispositivo laddove i mezzi di prova sono indicati dalle parti e risultano vincolanti per il giudice.
[15] Conforme Cass. sez. trib. 28 ottobre 2003 n. 16161.
[16] Cass. sez. trib. 4 maggio 2004 n. 8439; Cass. sez. trib. 25 maggio 2002 n. 7678.
[17] Cass. sez. trib. 8 maggio 2000 n. 5776, che ha evidenziato che tale potere rientra nel potere discrezionale del giudice.
[18] Cass. sez. trib. 15 maggio 2005 n. 15019.
[19] Cass. sez. trib. 26 agosto 2002 n. 12505. Contra Cass. sez. trib. 17 aprile 2002 n. 21515.
[20] Cass. sez. trib. 15 ottobre 2004 n. 1792.
[21] Art. 116 c. 2 c.p.c. "Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo".
[22] Cass. sez. trib. 17 gennaio 2002 n. 443 per la quale “la norma dettata dall'art. 116, c.2 c.p.c., nell'abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell'interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre "argomenti di prova", e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze. In particolare, nel caso di rifiuto a consentire ispezioni, anche documentali, la valutazione, motivata, del comportamento, nei limiti di una valenza meramente indiziaria, e' permessa soltanto quando il rifiuto risulti ingiustificato" (nella specie, si censurava la decisione della Commissione tributaria regionale che aveva dichiarato illegittimo l'accertamento del reddito di una società, senza valutare le prove acquisite, basandosi esclusivamente sulla circostanza che l'amministrazione finanziaria, invitata a fornire documenti ed informazioni ai sensi dell'art.7 del D.Lgs. 546/1992, non aveva ottemperato alla richiesta).
[23] Cass. sez. trib. 10 ottobre 2002 n. 5957.
[24] La Corte cost. 21 gennaio 2000 n. 18, ha escluso l’eccezione di incostituzionalità sollevata con riferimento alla violazione del principio di uguaglianza (art.3 Cost.) e del diritto di difesa (art. 24 Cost.) sulla base della considerazione che detta limitazione è valida sia per l’Amministrazione che per il contribuente e che il legislatore in base alla propria discrezionalità può disporre che il libero convincimento del giudice si formi su altre tipologie di elementi probatori. Conforme Corte Cost. ord. 2 dicembre 2004 n. 375; Corte cost. 23 novembre 2007 n. 395; Cass. sez. trib. 11 giugno 2004 n. 11170.
[25] Cass. sez. trib. 29 novembre 2006 n. 703.
[26] Cass. sez. trib. 10 luglio 2009 n. 16238. Conforme Cass. 11 giugno 2009 n. 13503; Cass. 25 maggio 2009 n. 12022; Cass. 17 giugno 2008 n. 22173 per la quale “il contenuto di accertamento del giudicato penale non è suscettibile di spiegare direttamente efficacia nel processo tributario in quanto, da un lato, la disciplina del contenzioso fiscale contempla limitazioni della prova e, dall’altro, possono essere fatte valere presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. E’ pertanto devoluta alla cognizione del giudice del merito, nella formazione del proprio libero convincimento e valutazione degli elementi di prova, verificare quali risultanze del giudizio penale comportino riflessi sulla legittimità e fondatezza della pretesa tributaria”; Cass. sez. trib 30 dicembre 2009 n. 27954 in base alla quale nel processo tributario la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorché i fatti accertati siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può - ma non deve automaticamente - essere presa in considerazione dal giudice tributario come possibile fonte di prova. Contra Cass. sez. trib. 8 settembre 2008 n. 22548 in base alla quale “la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 del codice di procedura penale (cosiddetto "patteggiamento") costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, laddove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, può essere utilizzato come prova per l'emissione di un avviso di accertamento e, dal giudice tributario, nel giudizio sulla legittimità dell'accertamento”.
[27] Cass. sez. trib. 6 febbraio 2009 n. 1904, che ha rilevato il difetto di motivazione della decisione del giudice del merito il quale - omettendo di illustrare la sufficienza ed esaustività delle prove dedotte - neghi sic et simpliciter l’ammissione al thema decidendum di una perizia contabile in quanto disposta in altro procedimento, penale o civile, fra le stesse parti. Al riguardo, afferma la Corte non sussiste alcun divieto - né risulta invocabile in merito il disposto dell’art. 57, D.Lgs. n. 546/1992 -.
[28] Cass. sez. I. civ. 22 febbraio 1999 n. 1481.
[29] Cass. sez. II 10 novembre 1999 n. 2610.
[30] Cass. sez. trib. 2 novembre 2005 n. 21267; Cass. sez. trib. 29 luglio 2005 n. 16032; Cass. sez. trib. 11 marzo 2002 n. 526; Cass. sez. trib. 21 gennaio 2000 n. 18; Cass. sez. trib. 25 gennaio 2002 n. 903 per la quale “il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dall'art.7 c. 4 D. Lgs. 546/1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo - che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio -, e non implica, pertanto, l'inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall'Amministrazione nella fase procedimentale e rese da terzi, e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente - parte e l'Erario. Tali informazioni testimoniali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e devono pertanto essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi”. Cass. sez. trib. 4 marzo 2009, n. 14290 per la quale “le dichiarazioni rese da terzi e raccolte dalla polizia tributaria possono assumere valenza di indizi utilizzabili dal giudice non essendo annoverabili fra le prove testimoniali per difetto dei presupposti di sostanza e di forma”. Cass. sez. trib. 11 gennaio 2008 n 450 per la quale “costituisce valutazione in fatto, non sindacabile nel giudizio di legittimità, l’attendibilità riconosciuta alle dichiarazioni di un terzo raccolte dalla Guardia di Finanza, che ben possono da sole costituire la prova della natura fittizia di operazioni economiche e quindi il fondamento di un accertamento”.
[31] Cass. sez. trib. 15 novembre 2000 n. 14774 e n. 14775; Cass. sez. trib. 8 marzo 2000 n. 2610.
[32] Cass. sez. trib. 8 marzo 2000 n. 2610. Conforme Cass. 27 settembre 2007 n. 20353 che ha ritenuto principio consolidato la insufficienza delle mere dichiarazioni di un terzo a giustificare un accertamento.
[33] Cass. sez. trib. 10 febbraio 2006 n. 2940 e n. 2942; Cass. sez. trib. 26 marzo 2003 n. 4423; Cass. sez. trib. 25 ottobre 2001 n. 4269; Cass. sez. trib. 10 ottobre 2002 n. 5957.
[34] Cass. sez. trib. 21 aprile 2008 n. 10261; Cass. sez. trib. 16 aprile 2008 n. 9958; Cass. sez. trib. 16 maggio 2007 n. 11221 che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva, con motivazione priva di vizi logici, deciso la controversia sulla scorta di dichiarazioni rese dal fratello del contribuente in un atto notorio. Contra Cass. sez. trib 15 gennaio 2007 n. 703 per la quale la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, così come l'autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale. Inoltre, nel contenzioso tributario l'attribuzione di efficacia probatoria alle dichiarazione sostitutive di notorietà trova ostacolo invalicabile nella previsione dell'art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992 e ciò perché altrimenti si finirebbe per introdurre nel processo tributario - eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione - un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato ma, anche costituito al di fuori del processo”; in tal senso anche Cass. sez. trib. 8 aprile 2008 n. 16348.
[35] Cass. sez. trib. 13 ottobre 2008 n. 25104.
[36] CTR Umbria 28 maggio 2009 n. 21.
[37] Contra Cass. sez. trib. 6 aprile 2000 n. 15563 per la quale “il potere di disapplicazione delle sanzioni è discrezionale”.
[38] Cass. sez. trib. 4 giugno 2008 n. 14715 in base alla quale “l'art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, nel consentire al giudice tributario di dichiarare non applicabili le sanzioni "quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce", delinea un'ipotesi di errore giustificabile riguardo all'interpretazione della norma tributaria la cui violazione ha comportato l'irrogazione delle sanzioni stesse, e non consente, quindi, di dichiarare non applicabili le sanzioni sulla base di un errore da cui sarebbe affetta una manifestazione di volontà precedente all'applicazione della medesima norma tributaria”.
[39] Cass. sez. trib. 28 luglio 2006 n. 17218 in base alla quale “non è conforme alla legge la pronuncia di accoglimento dell'istanza di esclusione delle sanzioni in base all'art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992 (per obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma) motivata con la generica affermazione secondo cui tale istanza è suscettibile di favorevole accoglimento”.
[40] Cass. sez. I 9 aprile 1991 n. 3713.
[41] Cass. sez. I 21 febbraio 1990 n. 1298.
[42] Conforme Cass. sez. trib. 25 ottobre 2006 n. 22890.
[43] La Circ. ministeriale n. 180/E del 10 luglio 1998 ha chiarito che sussiste incertezza obiettiva, di fronte a previsioni normative equivoche, tali da ammettere interpretazioni diverse e da non consentire, in un determinato momento, l’individuazione certa di un significato determinato.
[44] Cass. sez. trib. 11 marzo 1995 n. 2820.
[45] Cass. SS.UU. 6 maggio 1993 n. 5246.
[46] Cass. sez. trib. 9 maggio 2003 14476. Conformi Cass. 11233/2001, 13482/2001, 17515/2002, 6251/2003.
[47] Cass. sez. trib. 20 gennaio 2006 n. 1140; Cass. sez. trib. 20 maggio 2002 n. 17515.
[48] Cass. sez. trib. 3 luglio 2003 n. 10495.
[49] Cass. sez. trib. 29 settembre 2003 n. 14476.
[50] Cass. SS.UU. n. 5786/1988; Cass. sez. trib. 6065/1998 e Cass. sez. trib. 2935/1996. Conforme Cass. sez. trib. 26 agosto 2002 n. 12520 secondo la quale il giudice non può operare un accertamento induttivo in sostituzione di quello analitico compiuto dall’ufficio.
[51] Cass. sez. trib. 26 ottobre 2001 n. 2531.
[52] CTC sez. XIX 14 dicembre 2001 n. 424.
[53] Cass. sez. trib. 21 novembre 2005 n. 24520 per la quale “la valutazione del valore di un bene compiuta dal giudice attraverso gli elementi di causa non è assimilabile ad un giudizio secondo equità, in quanto si svolge nell'ambito dei parametri e delle indicazioni della legge; mentre il giudizio secondo equità si sovrappone e deroga alla legge”.
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