Cass. pen., Sez. V, ud. 22 dicembre 2015 - dep. 29 febbraio 2016, n. 8308
BANCAROTTA E REATI NEL FALLIMENTO - Definizione transattiva eseguita dal curatore - Riduzione dell'importo delle distrazioni - Attenuanti in favore degli amministratori imputati - Esclusione
In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, neppure la restituzione del bene distratto in seguito alla richiesta del curatore, esclude la configurabilità dell'elemento materiale del reato, essendosi questo già perfezionato al momento del distacco del bene dal patrimonio dell'imprenditore. Il recupero della res rappresenta, dunque, solo un posterius equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazione del furto, avendo inteso, il legislatore, colpire la manovra diretta alla sottrazione con la conseguenza che è tutelata anche la mera possibilità di danno per i creditori.
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Ritenuto in fatto
1 - G.G., P.P.D., C.P., T.A. C.G. ricorrono avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce del 13 febbraio 2015 che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brindisi del 2 maggio 2012, esclusa l'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, aveva ridotto la pena a ciascuno di essi inflitta ad anni 3 di reclusione.
Il Tribunale di Brindisi aveva ritenuto i predetti responsabili della sola bancarotta fraudolenta patrimoniale (assolvendoli dall'ipotesi di bancarotta documentale) a danno della s.r.l. I.MP., fallita il 22 febbraio 2005, per avere ceduto, il 18 ed il 27 marzo 2002, dei beni immobili alla S. s.r.l. ed alla S. s.r.l. a prezzo vile.
Ture era stato l'amministratore della fallita dal 1991 al 1997.
C.G. era uno dei soci della fallita. Ed era moglie di T.A. C.P. era uno dei soci della fallita ed era stato suo amministratore dal dicembre 1996 al 30 aprile 2001. Ed era fratello di G. P.D.P. era stato l'amministratore della fallita dal 30 aprile 2001 al 24 giugno 2002 e quindi lo era stato all'epoca delle cessioni.
G.G. era uno dei soci della fallita e ne era stato il liquidatore dal 21 maggio 2002.
Il Tribunale di Bindisi aveva condannato ciascuno dei predetti alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione. Ridotta poi, come ricordato, dalla Corte di appello.
2 - La Corte territoriale aveva ritenuto gli imputati responsabili della bancarotta patrimoniale loro ascritta considerando che entrambe le vendite, andate a vantaggio di società riferibili sempre al gruppo familiare T.C., erano state realizzate a prezzo vile: il capannone era stato ceduto, il 18 marzo 2002, a S. s.r.l. ad euro 210.000 pur essendo iscritto in bilancio a lire 1.221.214.188, con costi di ristrutturazione, già sostenuti, per lire 450 milioni più IVA; il terreno era stato venduto, il 27 marzo 2002, a S. s.r.l. ad euro 150.0 oltre IVA quando, dieci mesi prima, la fallita l'aveva acquistato ad euro 438.988,36 oltre ad IVA.
I corrispettivi indicati, pur molto inferiori al valore degli immobili, non erano stati neppure versati per intero dalle società acquirenti, ed i residui crediti erano stati poi addirittura cancellati dal bilancio della fallita come attività inesistenti.
La Corte aveva ritenuto la responsabilità di tutti gli imputati perché tutti erano necessariamente consapevoli, in quanto membri del medesimo nucleo familiare e soci ed amministratori delle società interessate, della spoliazione della fallita a vantaggio di altre società sempre a loro riconducibili, posto che, altrimenti, il complessivo disegno distrattivo a danno della fallita non si sarebbe potuto realizzare.
3 - Il ricorso di G.
In premessa ricordava di esser un libero professionista e di avere solo ricoperto il ruolo di liquidatore della società e che le condotte attribuitegli erano state consumate prima che egli assumesse la carica. Aveva chiesto il fallimento in proprio ed aveva depositato tutte le scritture contabili.
La curatela poi aveva esperito azione revocatoria per il recupero dei beni immobili, azione che si era chiusa con una transazione il cui ricavato aveva soddisfatto la massa passiva tanto che il fallimento aveva revocato la costituzione di parte civile.
3 - 1 - Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata laddove la Corte ricava la prova della sua complicità dal fatto che egli, come liquidatore, non aveva esperito l'azione revocatoria nonostante si trattasse di recuperare immobili di ingente valore. La Corte aveva così dimenticato che il curatore, esperita l'azione, aveva finito per recuperare in via transattiva solo 300.000 euro e quindi un importo molto minore rispetto alle distrazioni ipotizzate. Si sarebbe dovuta esperire una perizia per valutare il valore degli immobili.
Si censura anche il fatto che il trattamento sanzionatorio fosse stato identico a quello dei coimputati che avevano rivestito un maggior ruolo nella vicenda.
3 - 2 - Con il secondo motivo lamenta l'inosservanza della legge penale, ed in particolare:
- dell'art. 62 n. 4 e 6 cod. pen., posto che la Corte avrebbe dovuto prendere atto del fatto che gli importi delle distrazioni non erano certi ed avrebbero dovuto essere confermati da una perizia;
- dell'art. 62 bis cod. pen. perché si era tenuto conto della sola gravità della condotta senza nulla approfondire circa la valutazione soggettiva dell'imputato, incensurato;
- dell'art. 120 cod. proc. pen.posto che le condotte erano del 2002 ed il delitto contestato era quindi estinto per prescrizione;
- dell'art. 1 della legge n. 241 del 2006, atteso che non si era applicato il beneficio dell'indulto.
4 - Il ricorso di P.D.P.
4 - 1- Con il primo motivo deduce vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo dell'imputato e del concorso del medesimo nella condotta consumata dai coimputati.
La Corte non aveva in alcun modo approfondito il dolo di danno ai creditori che avrebbe determinato l'azione dell'imputato. Questi peraltro aveva agito in modo consono ai suoi doveri mosso solo dall'intento di risolvere le difficoltà in cui si dibatteva la società. Al più avrebbe versato in colpa, dovendosi così derubricare l'addebito in bancarotta semplice.
Non si era provato che la vendita dell'immobile a prezzo diverso dal valore ipotizzato fosse stata fatta in tal modo, ad esempio, a causa delle normali fluttuazioni del mercato. L'imputato poi non era legato da alcun vincolo di parentela con i coimputati.
4 - 2 - Con il secondo motivo lamenta il vizio di motivazione in quanto la transazione conclusa per definire l'azione revocatoria intentata dal curatore aveva consentito il recupero di euro 400.000 e ciò elideva ogni danno alla massa passiva così facendo venir meno uno degli elementi essenziali del reato.
4 - 3 - Con il terzo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche posto che l'imputato era incensurato ed aveva collaborato con la curatela tanto da essere assolto dal defitto di bancarotta documentale. Come si era indicata al punto 2 era poi del tutto assente il danno.
4 - 4 - Con il quarto motivo lamenta l'inosservanza della legge penale per la mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p. in riferimento all'omessa declaratoria di estinzione della pena per l'indulto previsto dalla legge n. 241 del 2006, una delle ragioni di proscioglimento individuate dalla norma processuale citata.
5 - Il ricorso di C.P.
In premessa si ricorda che l'imputato, cognato di T., aveva amministrato la società fallita in anni diversi rispetto a quelli in cui si erano venduti gli immobili indicati in imputazione ed era rimasto pertanto del tutto estraneo alle condotte contestate, in relazione alle quali non aveva ricoperto alcun ruolo.
5 - 1 - Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione laddove si è ritenuto, in via del tutto presuntiva, che la vendita dei due immobili fosse stata fatta a prezzo di favore perché di molto inferiore al prezzo di acquisto, senza che venisse in alcun modo accertato, con apposita perizia, il concreto valore di mercato all'epoca della alienazione nonostante la specifica richiesta in tal senso al giudice del gravame.
Né avevano rilievo al fine della prova dei fatti i legami di parentela fra coimputati.
5 - 2 - Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge per:
- la mancata applicazione delle attenuanti di cui ai numeri 4 e 6 dell'art. 62 cod. pen. posto che l'importo delle distrazioni non era certo e che la transazione l'aveva notevolmente ridotto;
- la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche posto che si era tenuto conto della sola gravità oggettiva del fatto senza neppure distinguere fra i diversi ruoli ricoperti dai coimputati;
- la mancata applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen. che avrebbe imposto la declaratoria di estinzione dei delitti contestati, consumati nel 2002;
- la mancata applicazione dell'art. 1 legge n. 241 del 2006 di concessione del beneficio dell'indulto.
6 - Il ricorso di T.A.
In premessa ricorda che la sua condanna era scaturita dall'essere stato l'amministratore unico della società fallita in epoca precedente ai fatti, dall'essere parente dei soci della ditta beneficiaria e dall'essere stato il prezzo di compravendita ben minore del dovuto.
6 - 1 - Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione laddove il giudice del gravame asseriva che il prezzo di vendita dell'immobile era inferiore a quello di mercato pur in assenza di qualsivoglia accertamento, anche peritale come era stato richiesto, sul punto.
Né avevano rilievo al fine della prova dei fatti legami di parentela fra coimputati.
6 - 2 - Con il secondo motivo deduce violazione di legge per:
- la mancata applicazione delle attenuanti di cui ai numeri 4 e 6 dell'art. 62 cod. pen. posto che l'importo delle distrazioni non era certo e che la transazione l'aveva notevolmente ridotto;
- la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche posto che si era tenuto conto della sola gravità oggettiva del fatto senza neppure distinguere fra i diversi ruoli ricoperti dai coimputati;
- la mancata applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen. che avrebbe imposto la declaratoria di estinzione dei delitti contestati, consumati nel 2002;
- la mancata applicazione dell'art. 1 legge n. 241 del 2006 di concessione del beneficio dell'indulto.
7 - Il ricorso di C.G.
In premessa si ricorda che la sua condanna era scaturita solo dall'essere stata socia della fallita quando questa aveva venduto il capannone alla S., senza che emergesse alcuna sua ingerenza nell'amministrazione.
Né avevano rilievo al fine della prova dei fatti i legami di parentela fra coimputati.
7 - 1 - Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione laddove il giudice del gravame asserisce che il prezzo di vendita dell'immobile era inferiore a quello di mercato pur in assenza di qualsivoglia accertamento, anche peritale come era stato richiesto, sul punto.
7- 2- Con il secondo motivo deduce violazione di legge per:
- la mancata applicazione delle attenuanti di cui ai numeri 4 e 6 dell'art. 62 cod. pen. posto che l'importo delle distrazioni non era certo e che la transazione l'aveva notevolmente ridotto;
- la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche posto che si era tenuto conto della sola gravità oggettiva del fatto senza neppure distinguere fra i diversi ruoli ricoperti dai coimputati;
- la mancata applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen. che avrebbe imposto la declaratoria di estinzione dei delitti contestati, consumati nel 2002;
- la mancata applicazione dell'art. 1 legge n. 241 del 2006 di concessione del beneficio dell'indulto.
Considerato in diritto
Vanno rigettati perché infondati ricorsi proposti da G.G., C.P. e T.A.. Va invece accolto il primo motivo di ricorso proposto da C.G.
1 - Tutti gli imputati, nel primo motivo di ciascuno dei ricorsi, lamentano che la Corte territoriale abbia confermato la loro condanna già pronunciata dal primo giudice in assenza di un valido apparato giustificativo. Le doglianze sono comuni e possono essere trattate unitariamente.
In particolare i ricorrenti lamentano, innanzitutto, la carenza della prova della incongruità del prezzo di vendita degli immobili (un capannone ed un terreno) ceduti a società riconducibili allo stesso nucleo familiare, in assenza di apposita perizia. Ciascuno di essi, poi, l'assenza di prova sufficiente circa la propria compartecipazione al fatto.
Si tratta di censure tutte infondate, ad eccezione di quella avanzata da CG in ordine al suo contributo causale ai fatti, di cui si parlerà in chiusura.
1 - 1 - I giudici di merito hanno chiarito, con argomentazione del tutto scevra da vizi logici, la ragione per la quale è certa la valenza distrattiva delle cessioni dei due immobili.
Avevano, infatti, rilevato che gli stessi erano stati ceduti per corrispettivi che erano solo una frazione del valore al quale la stessa società fallita li aveva acquistati o presi in carico a bilancio: il capannone era stato venduto a euro 210.0 mentre era in carico a bilancio (dell'anno prima) per lire 1.221.214.188 ed era stato ristrutturato con una spesa di lire 450.000.000; il corrispettivo era stato quindi di non più di un terzo del valore stimato dalla stessa società fallita; il terreno era stato venduto ad euro 150.000 più iva, ma solo dieci mesi prima era stato acquistato per euro 438.988,36 più iva; e quindi era stato ceduto a poco più di un terzo del valore ritenuto congruo dalla società fallita quando meno di un anno prima l'aveva acquistato.
Era allora evidente l'assoluta inutilità di esperire una perizia che avrebbe solo potuto indicare, approssimativamente, i valori dei due immobili quando questi erano stati fissati dalla medesima società fallita.
La conferma della correttezza di tale ricostruzione proveniva anche dall'azione revocatoria esperita dalla curatela che si era chiusa, così affermano gli stessi ricorrenti, con un accordo transattivo che aveva consentito il recupero di 300.000 o 400.0 euro (sul punto i ricorsi divergono e non è stata prodotta alla Corte la copia dell'atto). Si tratta di un accordo transattivo ed è quindi ovvio concludere che il danno per la società fallita era stato maggiore.
I giudici del merito hanno poi, con corretto procedimento logico, valorizzato altre circostanze che confermavano l'intenzione distruttiva che era alla base di tali cessioni. I corrispettivi, pur vili, fissati nei due contratti non erano stati versati che in parte: per il capannone si erano corrisposti solo 76.130,32 euro a fronte dei 210.000 stabiliti e per il terreno solo 7.249,40 euro a fronte dei 150.000 fissati.
Ed ancora: nulla si era fatto per recuperare quanto non versato ed anzi si era rinunciato al residuo credito, definendolo nel bilancio della fallita, contrariamente al vero, come inesistente.
Del resto le società beneficiarie delle cessioni a prezzo vile e della rinunce ai crediti erano la S. s.r.l. e la S. s.r.l., anch'esse appartenenti al nucleo familiare T.-C. ed amministrate, all'epoca delle cessioni, la prima da T.A., la seconda da C.P., i due cognati.
I giudici del merito hanno pertanto ricostruito la materialità dell'addebito in piena aderenza al costituto probatorio e traendo da questo l'unica conclusione possibile: la sussistenza della contestata condotta di bancarotta patrimoniale.
1 - 2 - Congrua e priva di vizi logici è l'argomentazione della Corte anche in ordine alla attribuzione della corresponsabilità delle indicate condotte agli imputati P., G., T. e C.P.
Per realizzare il trasferimento di valori attuato con le due cessioni immobiliari e con il mancato recupero dei crediti da esse derivanti occorreva che tutti gli amministratori delle società interessate fossero consapevoli di tale disegno e vi fornissero il proprio indispensabile contributo. E che i soci (i fratelli C. e G.) della fallita non reagissero a fronte di tale depauperamento.
Era allora evidente la responsabilità di:
- P. per essere stato il legale rappresentante della fallita al momento delle cessioni;
- T.A. già amministratore della fallita, per essere stato l'amministratore di una delle società beneficiarie delle cessioni al momento delle stesse, la S. s.r.l., di cui i suoi figli detenevano quote di proprietà;
- C.P., già amministratore della fallita (oltre che suo socio), per essere stato l'amministratore di una delle società beneficiarie delle cessioni al momento delle stesse, la S. s.r.l.;
- G. per essere stato il liquidatore della fallita (oltre che suo socio) dopo le cessioni ma nel periodo successivo non esperendo la necessaria azione revocatoria, e, soprattutto, cancellando, in modo del tutto ingiustificato ed anzi asserendone falsamente l'inesistenza, quella parte (la gran parte) del credito vantato dalla fallita nei confronti delle società beneficiarie delle cessioni che neppure avevano inteso versare (essendo amministrate da T. e C.P.
i corrispettivi incongrui stabiliti.
1 - 3 - Diversa è la conclusione di questa Corte in ordine alla responsabilità attribuita a C.G.. Questa infatti era solo una socia della fallita e la madre dei soci della S. s.r.l.. Certa era, quindi, la sua consapevolezza del disegno distrattivo perpetrato con la vendita degli immobili ma nullo era stato il suo contributo causale non ricoprendo ella, nelle società interessate, alcun ruolo da cui potesse derivare un suo necessario coinvolgimento, un suo contributo, una sua posizione di garanzia rispetto al patrimonio della fallita.
Non appare neppure possibile o prospettabile alcun approfondimento istruttorio sul punto o alcuna diversa valutazione del compendio probatorio, e pertanto la sentenza, sul punto della sua responsabilità, va annullata senza rinvio non essendovi prova che ella abbia commesso il fatto.
2 - Con gli ulteriori motivi (il secondo di G. il secondo, terzo e quarto del P.; il secondo di T; il secondo di C.P.) vengono sollevate una serie di questioni sul trattamento sanzionatolo che, per la loro sostanziale identità, possono essere trattate unitariamente.
Va, innanzitutto, sottolineato come i giudici di merito abbiano dettagliatamente e congruamente motivato tutti gli aspetti del trattamento sanzionatorio individuato per ciascuno degli imputati e che anche su tali punti della decisione, riformando la Corte la decisione del primo giudice solo in riferimento alla sussistenza della aggravante, contestata in fatto, della pluralità delle condotte di bancarotta, che escludeva. Fissando poi la pena al minimo edittale (così che incongrue erano anche le censure relative alla diversificazione della risposta sanzionatoria alle responsabilità dei singoli imputati, i cui ruoli e le cui condotte, peraltro, erano tutti e tutte convergenti al raggiungimento del risultato voluto: la spoliazione della fallita del suo compendio immobiliare).
Né, come si vedrà, si ravvisa alcuna delle violazioni di legge lamentate nei ricorsi.
2 - 1 - A torto le difese sostengono che l'azione revocatoria intentata dal curatore e la successiva transazione giovino agli imputati.
Si è già, infatti, avuto modo di affermare che, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, neppure la restituzione del bene distratto a seguito di richiesta del curatore esclude la sussistenza dell'elemento materiale del reato, essendosi questo già perfezionato al momento del suo distacco dal patrimonio del fallito (Cass. Sez. 5, n. 17084 del 09/12/2014, Rv. 263243, imp. Caprara) e che, in tema di bancarotta fraudolenta, il recupero del bene distratto a seguito di azione revocatoria non spiega alcun rilievo sulla sussistenza dell'elemento materiale del reato di bancarotta, il quale - perfezionato a momento del distacco del bene dal patrimonio dell'imprenditore - viene a giuridica esistenza con la dichiarazione di fallimento, mentre il recupero della "res" rappresenta solo un "posterius" - equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazione del furto - avendo il legislatore inteso colpire la manovra diretta alla sottrazione, con la conseguenza che è tutelata anche la mera possibilità di danno per i creditori (Cass. Sez. 5, n. 39635 del 23/09/2010, Rv. 248658, imp. Calderini).
Se, allora, neppure il recupero integrale, fisico, del bene ottenuto dal curatore comporta alcun effetto a vantaggio di chi l'abbia distratto (costituendo solo la reintegrazione del maltolto non ad opera dell'agente ma dei pubblici ufficiali intervenuti in epoca successiva all'illecita sottrazione) è del tutto ovvio concludere che non può derivare alcun effetto favorevole agli amministratori, che abbiano spogliato la società del bene, nemmeno dalla reintegrazione di parte del suo valore a seguito della definizione transattiva di una revocatoria iniziata e conclusa dal curatore e dagli organi del fallimento.
Infondata è pertanto la pretesa che il corrispettivo della transazione possa costituire un risarcimento del danno causato dagli imputati, sia perché la somma non era stata da costoro versata (anche se, in ipotesi, le società convenute in sede civile fossero dagli stessi amministrate), sia perché il risarcimento non era integrale (o non risulta che lo fosse; in ogni caso le difese nulla avevano allegato o prodotto in uno al ricorso), sia perché non risultava fosse rispettoso dei previsti tempi processuali.
Non sussiste quindi l'invocata attenuante prevista dall'art. 62 n. 6 cod. pen.
Come non sussiste l'attenuante di cui al n. 4 della stessa norma posto che il valore distratto è quantomeno pari al corrispettivo della transazione e quindi quantificabile in 300 o 400 mila euro, un importo del tutto incompatibile con l'attenuante invocata.
2 - 2 - I giudici di merito hanno negato a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche considerando la gravità del fatto (indubbia se si pensa alla pervicacia nella spoliazione della fallita, realizzata prima con le cessioni immobiliari e poi con la rinuncia ai crediti; per valori ingenti).
Ben poteva la Corte territoriale fondare la propria decisione sul punto su uno dei criteri individuati dall'art. 133 cod. pen., posto che si è già avuto modo di affermare che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevabili, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Cass. Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv, 259899, imp. Lule).
2 - 3 - E' poi orientamento costante di questa Corte che le condotte di bancarotta consumate prima della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento si considerano commesse da ultima data. Del resto è solo in tale momento che la fattispecie si completa posto che se non vi fosse la dichiarazione di fallimento la condotta tenuta dall'imputato, di spoglio del patrimonio della società, potrebbe solo concretare delitti diversi da quello di bancarotta patrimoniale (Cass. Sez. 5, n. 17084 del 09/12/2014, Rv. 263244, imp. Caprara).
Considerando che la sentenza dichiarativa di fallimento della I. s.r.l. è del 22 febbraio 2005 ne discende che il delitto di bancarotta patrimoniale contestato agli imputati non è estinto per prescrizione, posto che il termine di anni 12 e mesi 6 non è ancora decorso.
2 - 4 - I giudici di merito non hanno escluso l'applicabilità del beneficio dell'indulto alle pene irrogate agli imputati e si deve allora ricordare che il ricorso per cassazione avverso la mancata applicazione dell'indulto è ammissibile solo qualora il giudice di merito abbia esplicitamente escluso detta applicazione, mentre nel caso in cui abbia omesso di pronunciarsi deve essere adito il giudice dell'esecuzione (Cass. Sez. 5, n. 43262 del 22/10/2009, Rv. 245106, imp. Albano).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di CG per non avere commesso il fatto.
Rigetta i restanti ricorsi e condanna ciascuno dei restanti ricorrenti al pagamento delle spese processuali.