La normativa comunitaria ha introdotto importanti novità in materia di contratti in larga misura recepite dal legislatore italiano col codice del consumo (d.lgs. 206/2005). I principali obiettivi dell’Unione Europea in materia di regolamentazione del mercato sono: 1) di contrastare sia le intese che modificano il regime della concorrenza sia lo sfruttamento abusivo di posizioni dominanti sul mercato; 2) di proteggere il consumatore dallo strapotere della controparte (il professionista, l’impresa). Per dare attuazione all’obiettivo di proteggere il consumatore il legislatore comunitario interviene con norme che disciplinano sia aspetti precontrattuali (es. direttive sulla pubblicità ingannevole, sulle pratiche commerciali sleali ecc) che contrattuali (es. divieto dell’inserzione di clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, facoltà per il consumatore di risolvere il contratto durante il periodo di ripensamento ecc). I primi investo la regolamentazione dell’attività del professionista che deve essere conforme a determinati standards imposti dalla legge ed essi si riflettono sul contratto, investendo diritti fondamentali del consumatore (quale quello alla salute, alla sicurezza, all’informazione ecc) di difficile tutelabilità sul piano di una possibile inibitoria preventiva, salvo il risarcimento del danno in via ordinaria (es. danno da prodotti difettosi). Su un piano diverso si pone la problematica riguardante il contratto concluso dal consumatore. Il legislatore del codice del consumo ha introdotto una peculiare disciplina degli squilibri contrattuali. Si tratta di una disciplina inderogabile che non può essere elusa anche nell’ipotesi in cui le parti dovessero scegliere una diversa legge applicabile (art. 5 Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali). [La convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali ha rango di diritto comunitario e introduce importanti elementi di valorizzazione della libertà contrattuale quanto alla legge applicabile, col solo limite del rispetto dell’ordine pubblico internazionale e con l’adozione di poche norme di applicazione necessaria in materia di contratti di lavoro e di tutela del consumatore. Da questo punto di vista la Convenzione dà rilievo a norme di protezione sociale e l’importanza della Conv., dal punto di vista della disciplina delle obbligazioni contrattuali, risiede nell’affermazione di un principio generale in base al quale le parti sono libere di scegliere le regole con le quali intendono regolare il contratto (art.3). il richiamo alla legge applicabile al contratto dovrebbe intendersi in senso ampio: non ridotto nei limiti della sola legge in senso formale ma esteso anche alla possibilità del rinvio ad un corpo di norme precostituito, anche se di provenienza non formale. D’altro canto, la prassi del commercio internazionale già si avvale di fonti non formali come i principi generali del diritto e la lex mercatoria]. In sintesi, il codice del consumo: a) riconosce il diritto del consumatore e dell’utente alla correttezza, alla trasparenza e alla equità nei rapporti contrattuali e in particolare il diritto all’informazione, che assume un ruolo centrale nella formazione di un consenso informato e consapevole ed è oggetto di puntuali obblighi dalla cui violazione scaturiscono meccanismi integrativi e/o sostitutivi; [questione dibattuta è stata quella dell’assimilazione dell’investitore al consumatore, ex art. 3 cod.cons. In Germania molti ritengono che 41 all’investitore non possa applicarsi la disciplina del consumatore per il fatto che l’investimento finanziario sia cosa ben diversa da operazioni destinate a soddisfare interessi personali o familiari. Sta di fatto che il risparmiatore è sovente un soggetto scarsamente informato sull’andamento dei mercati finanziari e quindi debole come il consumatore. Nel quadro della ratio che ha ispirato la legge 154/1992 sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, si colloca l’introduzione dell’art. 32 bis nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria che attribuisce alle associazioni dei consumatori il potere di agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori,connessi alla prestazione di servizi, attività di investimento, servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio. Con la legge 221/2007 è stata introdotta un’apposita sezione all’interno del codice del consumo, la IV bis (comprendenti gli artt 76 bis a 67 vicies bis), dedicata alla disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari. Sulla base di queste disposizioni deve ritenersi che la figura dell’investitore- risparmiatore è nella sostanza assimilata a quella di consumatore]. b) introduce, attraverso il divieto delle clausole vessatorie, un controllo generalizzato sul contenuto del contratto al fine di verificare che non ci vi sia un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi in pregiudizio del consumatore; controllo non riguardante la determinazione e l’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purchè indicati in modo chiaro e comprensibile; c) sancisce una seria di rimedi finalizzati a garantire la realizzazione dei diritti contrattuali dei consumatori e a rimuovere le conseguenze della loro in attuazione. Tra questi ricordiamo la c.d. nullità di protezione, strumento inedito rispetto alla disciplina di cui all’art. 1418 c.c., che colpisce la clausola ritenuta vessatoria ma non la validità del contratto. Il controllo dell’economia contrattuale in funzione della tutela dell’affidamento incolpevole della parte debole concerne i mercati di massa (caratterizzati dalla molteplicità degli scambi) e si manifesta attraverso una profonda modificazione dei modi e delle forme delle transazioni, secondo lo schema dello standard form contract. In tale ambito il contratto diventa un’autentica normativa d’impresa, imposta dalle industrie e dalla distribuzione commerciale ai consumatori. È bene sottolineare che il riequilibrio del contratto non pone i contraenti su un piano di parità sostanziale- nel senso che il maggior potere contrattuale del professionista e la debolezza del consumatore non sono rimosse né attraverso regole correttive, né attraverso la sottoposizione del testo contrattuale a un sindacato preventivo- ma consente solo di evitare eccessive sperequazioni nei limiti indicati dal legislatore o dall’intervento del giudice. In realtà, non sembra possibile rintracciare nell’ordinamento di settore, regole testuali che consentano con immediatezza di configurare un riequilibrio informato a principi di giustizia commutativa. Quel che rileva è la presenza di clausole vessatorie che malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Si parla di una asimmetria regolamentare o normativa, alla quale si aggiunge l’asimmetria informativa che riguarda la conoscibilità del contenuto del contratto; nonché la chiarezza e comprensibilità della forma di tutte le clausole o di talune di esse. Al giudice non è dato il potere di riscrivere il contratto rendendolo strumento di giustizia commutativa o distributiva. Pertanto, la protezione del contraente non professionista ha per scopo il ripristino di condizioni efficienti del mercato, impedendo la pattuizione di clausole che determinano un regolamento contrattuale ab origine sperequato. Sovente l’aspetto normativo del contratto finisce per coinvolgere gli aspetti economici dello scambio. Bisogna chiedersi allora se il consumatore ha qualche rimedio per reagire all’imposizione di prezzi eccessivamente gravosi. Una risposta ci è data dalla disciplina generale che definisce la posizione del consumatore e il contenuto dei suoi diritti. Indicazioni rilevanti sono fornite: dal diritto del consumatore all’equità nei rapporti contrattuali; dal diritto del consumatore alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; dal diritto del consumatore di vedere che l’esercizio delle pratiche commerciali sia svolto secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà. Il richiamo alle pratiche commerciali costituisce un importante parametro valutativo nella misura in cui rinvia al mercato la valutazione dello squilibrio tra le prestazioni. Per dare contenuto a questo rinvio soccorre l’articolo 3 della legge antitrust (287/1990) che fornisce un dato oggettivo allorchè indica tra gli abusi di posizione dominante l’imposizione diretta o indiretta nel mercato di riferimento di prezzi di acquisto e di vendita ingiustificatamente gravosi. Il prezzo ingiustificatamente gravoso è un prezzo iniquo che, cioè, viola il diritto all’equità nei rapporti contrattuale che spetta al consumatore [occorre ricordare che non è principio del nostro sistema quello per cui i contratti devono essere equi, cioè avere contenuti equilibrati e conformi a giustizia: in regime di libertà contrattuale, la giustizia e l’equilibrio del contratto sono decisi dalle parti stesse. Nella disciplina del contratto vi può essere un controllo da parte del giudice sull’equità del singolo scambio contrattuale ma solo in presenza di una condizione: quando l’accettazione del regolamento iniquo dipende da circostanze oppressive, le quali tolgono alla parte che subisce l’iniquità la possibilità di autodeterminarsi in modo libero: è la disciplina della rescissione. In generale i giudici non possono, in nome dell’equità, distruggere o correggere i contratti iniqui. Secondo Gazzoni l’iniquità opererebbe, quale causa di invalidità del contratto o di sue singole clausole, non a priori (come la illiceità) bensì a posteriori, poiché dipenderebbe non dalla violazione di regola predeterminate ma dal concreto atteggiarsi di un regolamento contrattuale di per sé lecito. Una tecnica sanzionatoria analoga viene ravvisata da Gazzoni nella disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore e a sostegno della sua teoria richiama la legge 281/1998 che menziona espressamente, tra i diritti fondamentali del consumatore, quello alla equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi]. Partendo dai diritti del consumatore, ancorati all’equità e al leale svolgimento delle pratiche commerciali, può dirsi che ogni qualvolta è presente uno squilibrio economico appare congruo il richiamo all’intervento integrativo del giudice, di cui parla l’articolo 1374 richiamando l’equità, sulla base di una valutazione dello squilibrio non rimessa al libero apprezzamento di questi, ma oggettivamente ancorata al parametro delle pratiche commerciali. La prassi comunitaria di regolare singoli tipi contrattuali o settori specifici del mercato (compravendita, contratti turistici, contratti di lavoro..) pone un problema di raccordo con la parte generale del contratto, presente nei codici continentali. Ogni qual volta non è possibile questo raccordo si ha l’ impressione di vivere in un doppio regime contrattuale: l’uno di provenienza comunitaria; l’altro proveniente dai codici domestici il cui impianto segue lo schema della coppia “parte generale del contratto- disciplina dei tipi legali”. Solo in Germania si è cercata una risposta organica a questo problema che assilla il giurista europeo che si trova nella necessità di dover elaborare una dimensione teorica e sistematica più ampia in un contesto operativo che ha necessità di armonizzarsi con la dimensione sovranazionale della normativa comunitaria. In quest’ambito occorre trovare un punto di coesione tra sistemi che hanno avuto storicamente sviluppi diversi (civil law dell’Europa continentale e common law dell’area anglosassone) e che stentano a trovare momenti unificanti. 5.a. Vi sono elementi che fanno propendere in favore di una nuova contrattualità segnata: 1) dal superamento- nell’ambito dei contratti stipulati dal consumatore col professionista- del requisito dell’accordo in favore della sola riferibilità dell’atto a un soggetto non più individuato come parte contraente, bensì come appartenente a una determinata categoria di soggetti (consumatore, risparmiatore,ecc [bisogna precisare che le norme a tutela del consumatore sono distinte da quelle a tutela dell’imprenditore debole non perché eccezionali, essendo entrambe espressione di principi quali quelli ex art.2,3,e 43 de’art.41 della Cost. , ma perché hanno una diversa ratio che ne impedisce lo’applicazione in via analogica. Il consumatore è un soggetto che viene tutelato perché non agisce professionalmente; l’imprenditore debole è un soggetto che opera nel mercato col criterio della diligenza qualificata e dalla perizia ex art. 1176, comma 2 e la cui professionalità è insita nella definizione di imprenditore ex art. 2082. Già la sent. 468/2002 aveva affermato la diversità tra le due figura negando la possibilità di applicare in via analogica all’imprenditore debole la normativa a tutela del consumatore in tema di clausole abusive] rispetto ad altro soggetto (professionista) [Alessi afferma che la posizione del consumatore non può ragguagliarsi a quella del contraente debole in quanto quello di consumatore è una posizione occasionale e mutevole che si definisce in relazione ala natura dello scambio e delle singole vicende contrattuali e l’autore ritiene che vada segnalata più che la figura del consumatore lo scopo dello scambio e quindi individuata la causa del contratto nella causa di consumo], non solo di posizione di vantaggio economico, ma anche in grado di disciplinare il contenuto del contratto [Santoro Passarelli afferma che l’intervento dello stato finisce per regolare variamente l’autonomia di ciascuna delle due parti del contratto. È evidente allora che l’autonomia del professionista, seppur vincolata, è molto più ampia di quella del consumatore che di fatto finisce per accettare un programma negoziale da lui non predisposto] . Si avverte un’assonanza con la categoria di estrazione tedesca dei rapporti di fatto, rispetto ai quali eventuali vizi della volontà contrattuale assumevano rilevanza negativa. Del resto, il limitato rilievo degli stati soggettivi sul terreno del contratto intercorso tra consumatore e professionista, trova sul piano teorico, un aggancio nell’esistenza di un generale nesso di interdipendenza tra i vizi della volontà e la libertà nella formazione del contratto (in modo particolare nella determinazione del contenuto del contratto). Il carattere volontario dell’atto non assume una rilevanza sulla determinazione degli effetti che questo produce; ciò vuol dire che l’attuazione dell’interesse affidata o rimessa alla valutazione dell’operato (comune intenzione) delle parti circa la determinazione del contenuto e degli effetti del contratto. In tal senso l’articolo 1362 cede il posto ai principi normativi di favore del consumatore su di un orizzonte il cui collante sistematico è quella della buona fede ex art. 1366 (norma di ingresso della interpretazione oggettiva). Il consumatore ha il diritto di liberarsi dagli obblighi nascenti da un contratto concluso con un professionista senza alcun bisogno che ricorra un vizio o altra anomalia nella fasi di formazione del contratto(art.64,comma 1 cod.cons.).
Il recesso (diritto di ripensamento o diritto di pentirsi) [il recesso da pentimento, con modalità diverse è previsto:
-
per i contratti e le proposte contrattuali a distanza;
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per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali;
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per i contratti conclusi o negoziati con gli investitori;
- per il credito ai consumatori;
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per commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori;
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per contratti di assicurazione sulla vita;
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per i contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili]
sembra trascriversi in un complesso di bilanciamento della posizione del consumatore rispetto a un regolamento contrattuale il cui contenuto è fissato esclusivamente dal professionista.
[Il diritto di recesso è variamente definito:
-
come diritto di sciogliere unilateralmente con effetto ex nunc un rapporto contrattuale già validamente instaurato;
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come diritto esercitabile solo posteriormente alla formazione del relativo accordo;
- come diritto di porre fine ad un vincolo contrattuale validamente sorto con effetto ex tunc;
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infine come diritto del consumatore di revocare la dichiarazione (proposta o accettazione) emessa in vista della stipulazione del contratto, evitando la stessa conclusione dell’accordo, fattispecie a formazione progressiva da considerarsi in itinere fino alla scadenza del termine concesso al consumatore per l’esercizio dello ius poenitandi. La Corte Europea di Giustizia nella sentenza Heiningere, 481/99, stabilisce che un limite del termine del diritto di recesso da parte di una legislazione nazionale è incompatibile con il diritto comunitario e quindi esso dovrà essere riconosciuto sine die al
consumatore sino all’integrale attuazione del programma contrattuale. Sulle conseguenze della violazione dell’obbligo di informare il consumatore sul suo diritto di recedere da contratto, la corte europea di giustizia ha affermato che il recesso non può esaurire la tutela accordata al consumatore in quanto negli ordinamenti nazionali devono essere previste anche misure idonee a sollevare il consumatore recedente dalla conseguenze dannose subite e a farle ricadere in capo al contraente che ha omesso l’informazione.]
L’articolo 33, comma 1 cod. cons., dettato in tema di clausole vessatorie, alludendo al significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivante dal contratto ha attribuito al giudice poteri inediti rispetto a quelli che aveva di valutazione dell’operazione contrattuale, consentendogli di prendere in considerazione sia l’equilibrio regolamentare del contratto, sia la congruità dello scambio, ogni qual volta questo non sia individuato in modo chiaro e comprensibile (art.34 cod.cons.). Nella valutazione del significativo squilibrio la giurisprudenza è ricorsa sovente ai principi di trasparenza e buona fede per riequilibrare le asimmetrie informative presenti in questi contratti. 5.b. 2) dal ricorso a taluni mezzi tecnici –il più delle volte declinati dal legislatore in chiave di principi [Nel diritto comunitario si riscontra un uso legislativo della nozione di principi generali, definiti anche norme o regole. Si parla ad esempio di un principio di trasparenza nei rapporti contrattuali coinvolgenti i consumatori; principio di informazione adeguata dei consumatori; principio di buona fede nei contratti con i consumatori etc.. Questi principi generali traggono la loro origine dai diritti positivi nazionali. Si sostiene infatti, che il metodo per la rilevazione dei principi generali debba essere quello comparatistico di tipo funzionale, in grado di valorizzare le soluzioni idi analoghi problemi di volta in volta incontrati nell’ambito dei vari ordinamenti statali, privilegiando un approccio attento alla pratica applicativa. La giurisprudenza arbitrale ritiene applicabile gli International trade usages: questi principi sono validi in quanto propri del diritto internazionale del commercio, purchè il diritto internazionale del foro consenta questo rinvio. Tra questi principi ricordiamo quello dell’estoppel, dell’ingiustificato arricchiamento, della forza maggiore, di buona fede; il principio rebus sic stanti bus e la regola pacta non servenda. Sovente la giurisprudenza arbitrale applica questi principi facendoli derivare dai sistemi nazionali. La lex mercatoria è una fonte di autoformazione degli operatori del commercio internazionale che assume le vesti di un sistema autonomo. Secondo alcuni autori che alla base della lex mercatoria vi sono i principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili. Secondo altri autori, contrari ad ammettere la figura del contratto senza legge, ritengono che le regole oggettive del commercio internazionale possono trovare applicazione solo se ritenute rilevanti dagli ordinamenti statali.] e/o clausole generali [il problema di queste clausole è tra quelli di maggiore complessità. Per lungo tempo di è ritenuto che esse fossero mere norme in bianco; ma col tempo questa presunta indeterminatezza è venuta meno. Si deve in Italia a Rodotà il promuovimento dell’idea di una legislazione per principi che si sarebbero espressi in clausole generali. Velluzzi afferma che la clausola generale è un termine di natura volitiva caratterizzato da indeterminatezza, per cui il significato di tali termini non è determinabile se non facendo ricorso a parametri di giudizio, interni o esterni ai diritti tra loro potenzialmente concorrenti.]- come, ad esempio, quello della buona fede e correttezza, della trasparenza, della ragionevolezza- concepiti quali strumenti in grado di verificare la consapevole adesione al programma contrattuale e la sua corretta esecuzione. Si afferma a tal proposito che i principi di trasparenza, consenso informato e buona fede si presentano come l’attuazione del modello di scambio immaginato dal legislatore moderno del contratto e posto a base dei principi che regolano l’autonomia privata nei codici moderni (Barcellona). 5.b. a) Il tema della buona fede e della correttezza è divenuto un importante pezzo anatomico della teoria del contratto e di quei rapporti in cui è presente un intenso contatto sociale. Parliamo della buona fede contrattuale, cioè della buona fede in senso oggettivo; là dove la buona fede in senso oggettivo rileva in tema di acquisto di diritti e di possesso. In ordine alle questioni relative alle obbligazioni derivanti da contratto sociale, si sostiene che quando una norma giuridica (art.1337)assoggetta lo svolgimento di una relazione sociale alla disciplina della buona fede, ciò è indice sicuro che questa relazione si è trasformata sul piano giuridico in un rapporto obbligatorio, il cui contenuto si precisa attraverso una valutazione di buona fede. Ora se l’articolo 1337 costituisce un’estensione della buona fede contrattuale alla fase delle trattative, appare coerente attribuire identica natura alla responsabilità per violazione della buona fede, a prescindere che si manifesti nell’ambito del rapporto contrattuale o del rapporto precontrattuale. Questa operazione di generalizzazione del modello normativo disciplinato dall’art. 1337 finisce per distinguere gli obblighi di protezione dall’obbligo di prestazione, consentendo ai primi autonomia strutturale e giuridica. Si parla a tal proposito di obbligazione senza obbligo primario di prestazione per qualificare vicende diverse da quella precontrattuale, ma suscettibili di essere risolte nella stessa forma giuridica, trovando collocazione nella terza categoria atipica delle fonti dell’obbligazione. Il modello del rapporto obbligatorio senza prestazione può trovare valido impiego ogni qualvolta vi sia un contatto sociale tra soggetti non legati da un preesistente rapporto contrattuale, che sia caratterizzato dall’affidamento di una parte nei confronti dell’altra, affidamento fondato sulla professionalità in funzione della quale si determinano obblighi di correttezza o di protezione verso chi ha riposto nello status una ragionevole fiducia.
Inoltre, numerose sono le norme che nelle direttive europee contengono la clausola generale della buona fede (si pensi alla direttiva sulle clausole abusive). Mengoni afferma che la clausola della correttezza e della buona fede (della correttezza ne parla l’art. 1175 in base al quale creditore e debitore devono comportarsi secondo correttezza; l’art. 1375 impone di eseguire il contratto secondo buona fede.) si concreta in obblighi autonomi ordinati alla protezione di ciascun contraente a preservare la propria persona e i propri beni da danni prodotti da comportamenti scorretti (sleali o negligenti) dell’altra. La riflessione dottrinale e l’intervento dei giudici hanno delineato il contenuto della clausola generale della buona fede e da un lato vi è chi (Rodotà) riconosce la funzione della buona fede alla stregua di una fonte integrativa del contenuto contrattuale che si estrinseca attraverso obblighi accessori aventi carattere strumentale; e dall’altro lato vi è chi (Di Majo) afferma che la buona fede assolve il compito di controllo delle facoltà e di poteri derivanti dalla norma pattizia attraverso il diniego di effetti al comportamento ritenuto scorretto e/o attraverso ad es. il congelamento di regole del diritto o attraverso eccezioni riconosciute alla parte in bonis.
Nel nostro codice vi sono una seria di norme che nell’ambito della disciplina generale dei contratti fanno riferimento alla buona fede:
- l’art. 1337, il quale dispone che le parti nelle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede;
- l’art. 1375 secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede;
- l’art.1358 che dispone che colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte;
-
l’articolo 1460, comma 2 che esclude la proponibilità dell’eccezione di inadempimento di cui al primo comma, allorchè avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede;
- l’art. 1366 in base al quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede;
-
l’art. 1175 che prescrive che il debitore e il creditore devono
comportarsi secondo le regole della correttezza
Dottrina autorevole ritiene che la correttezza è un concetto analogo a quello della buona fede, la quale opera come criterio complessivo di valutazione della condotta delle parti anche alla luce del principio costituzionale di solidarietà. In relazione al criterio della diligenza, ex art. 1176, che in quanto dovrebbe personale di prestare trova la sua giustificazione nella struttura interna dell’obbligazione, il criterio della buona fede è adoperato dalla giurisprudenza, con argomentazione implicita in ordine alle conseguenze della inesigibilità della prestazione con l’obiettivo di mitigare la responsabilità del debitore,ex art. 1218, in presenza, ad es. di prestazioni anomale il cui adempimento va oltre la diligenza ex art. 1176; ovvero per valutare l’esigibilità o meno della prestazione in dipendenza, ad es. del comportamento del creditore.
Alla stessa esigenza di commisurare l’esercizio concreto di un diritto al parametro della lealtà appartiene l’exceptio doli generalis. Questa figura, nota nel diritto romano, è stata ricostruita dalla giurisprudenza proprio nell’ambito della clausola generale di correttezza e buona fede e nella prospettiva dell’abuso del diritto. La clausola della buona fede si manifesta all’interno dell’attività interpretativa che è attività valutativa diretta alla produzione di effetti. Essa si colloca, unitamente all’accordo, alla legge e all’opera del giudice, tra le fonti di determinazione del regolamento contrattuale col compito di integrarlo.
Anche l’equità è chiamata ad integrare il regolamento contrattuale; essa acquista rilievo sul terreno dei principi, nella misura in cui lascia intravedere che il fine avuto di mira dal legislatore è quello di un equo contemporaneo degli interessi in conflitto. Il principio sembra trovare conferma nell’art. 428, dettato in tema di incapacità naturale, che esclude l’esistenza di un pregiudizio allorchè sia garantito un oggettivo equilibrio delle sfere patrimoniali dei contraenti. Rescigno osserva che in applicazione del principio di conservazione, l’interprete accerta, con riferimento al contratto la compatibilità del regolamento di interessi con la causa di nullità (art.1424) o la possibilità di mantenere in vigore la regola pur limitando la materia disciplinata (art.1419) o la partecipazione dei soggetti (artt. 1420, 1446, 1459, 1466).
[È bene fare un breve accenno sulla clausola generale di buona fede (individuata dai § 157 e 242 del BGB) in Germania. Nel sistema tedesco la clausola della buona fede presenta 3 principali funzioni: limitare le ipotesi di abuso del diritto; imporre un adeguamento del contratto in caso si eventi sopravvenuti; imporre un’integrazione del contratto in base alle circostanze concrete. La letteratura e la giurisprudenza tedesca ha dato rilievo alla comune rappresentazione delle parti circa le circostanze sulle quali è fondato il consenso. L’insussistenza di queste circostanze o il venir meno di esse giustificherebbe la revisione o il recesso dal contratto. Il legislatore tedesco, in realtà, recepisce nel § 313 del BGB una prassi giurisprudenziale che ha lontane origini nel saggio di Oertmann che ha costituito il punto di partenza di una complessa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del concetto di fondamento del contratto che serve a controllare dal punto di vista soggettivo, la comune rappresentazione delle parti circa uno stato di fatto attuale; nonché sul piano oggettivo, il rapporto originario di equivalenza tra le prestazioni e la sua evoluzione nel futuro in relazione allo scopo contrattuale. La giurisprudenza tedesca, dal canto suo, ha riconosciuto al giudice, a partire da una sentenza del 1920, la possibilità di revisione del corrispettivo per ricondurre ad equità il regolamento contrattuale voluto dalle parti. Si è così portati a riconoscere in capo al giudice il potere di pronunciare sia la risoluzione del contratto; sia, in alternativa, la revisione del corrispettivo, ove con ciò fosse possibile condurre ad equità il regolamento contrattuale, in presenza di un persistente interesse delle parti. La successiva giurisprudenza ha poi individuato una seria di ipotesi rilevanti ai fini del rimedio della revisione del contratto, ovvero della risoluzione, tra queste: l’errore comune; la frustrazione della comune aspettativa; la rottura del rapporti di equivalenza tra le prestazioni; l’irraggiungibilità dello scopo. Già nel 1920 la giurisprudenza tedesca ha riconosciuto la possibilità da parte del giudice di poter apprezzare circostanze incompatibili con i presupposti del contratto, in modo tale da rendere necessario l’accertamento della inesigibilità della prestazione ove questa dovesse condurre alla rovina economica del contraente tenuto all’adempimento ovvero una inadeguatezza tra le prestazioni. Secondo la ratio decidendi dei giudici tedeschi la tecnica di distribuire rischi e danni deve essere informata a principi di onestà e correttezza, di guisa che diviene possibile, attraverso il ricorso alla buona fede, un giudizio di equità. Nell’ordinamento inglese, invece, alla good faith è attribuito uno spazio molto limitato e questo è dovuto alla resistenza del giurista inglese ad utilizzare un concetto generale di buona fede e alla tendenza ad impiegare al suo posto soluzioni più specifiche. Bisogna, infine, osservare che il canone della buona fede, inteso come criterio correttivo del testo contrattuale, appartiene ormai anche al novero delle clausole generali che vivono nell’ambito della comunità internazionale degli operatori economici retta dalla Lex mercatoria. In questo ambito tra i principi dell’UNIDROIT (principi dei contratti commerciali internazionali) la buona fede riveste un posto di rilievo e nonché anche il principio sull’eccessivo squilibrio. Si pensi al rilievo accordato all’Hardship, riguardante una sproporzione tra le prestazioni dovuta a circostanze sopraggiunte, e che consente al giudice di riequilibrare le posizioni del contratto laddove le parti non siano riuscite a rinegoziare e a rimediare alla sproporzione sopravvenuta. La particolarità dei principi UNIDROIT è data dal fatto che essi non si applicano a rapporti che si instaurino tra soggetti appartenenti a categorie diverse, reputata l’una più debole dell’altra (ad es. quella dei consumatori rispetto a quella dei professionisti /imprese), bensì a tutti i rapporti contrattuali i cui protagonisti siano in posizione squilibrata l’uno rispetto all’altro.]
5.b. b) La trasparenza – di cui gli obblighi informativi ne rappresentano uno strumento di attuazione, unitamente alla forma chiara e comprensibile- assicura al consumatore la conoscibilità del regolamento contrattuale, favorendo la formazione di un consenso consapevole. La sua funzione è quella tipica di protezione del consumatore. il principio di trasparenza è ormai presente in tutta la normativa destinata a riequilibrare asimmetrie informative. Esso è ascrivibile a un dovere di comportamento secondo buona fede la cui violazione farebbe sorgere responsabilità per culpa in contraendo, ovvero nullità se si dovesse convenire sul fatto che la trasparenza rende vessatorio il testo o la clausola contrattuale [Il problema del controllo delle condizioni generali di contratto investe non solo il contenuto delle clausole predisposte ma anche la loro conoscenza al momento dell’inserimento nel contratto. Quanto detto non emerge con chiarezza dal testo della direttiva guida in materia (93/13/CEE), laddove si è preferito concentrarsi sul contratto del contenuto sostanziale del contratto con riguardo all’equilibrio dello scambio, senza stabilire in modo espresso la necessità della preventiva conoscenza delle clausole predisposte unilateralmente. Parimenti la normativa italiana di recepimento non contiene una disposizione che tuteli la conoscibilità delle condizioni generali negoziali nei contratti con i consumatori; una certa tutela della consapevole formazione del consenso nella fase precontrattuale è data dall’art. 1337 e dall’art. 2 del codice del consumo che tra i diritti del consumatore cita quello ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità. Per il resto il dovere di informazione precontrattuale, come nella direttiva comunitaria, è regolato in via indiretta attraverso il controllo di vessatori età delle clausole contrattuali a garanzia della congruità dello scambio. Per cui il parametro di rilevanza del difetto di informazione precontrattuale è lo squilibrio negoziale e il problema della formazione del consenso si confonde con quello della vessatori età del contenuto del contratto. Ciò provano gli articoli
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33 e 36 cod.cons. ove dichiarano la vessatori età delle clausole che prevedono l’estensione del consenso del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima delle conclusione del contratto. Sul punto la legislazione tedesca era già all’avanguardia e infatti il § 305 del BGB da una parte prevede espressamente un dovere di informazione in capo al predisponente, che si articola nell’obbligo di richiamare l’attenzione del contraente sulle condizioni generali di contratto e in quello di assicurare allo stesso la possibilità di prendere adeguatamente conoscenza del loro contenuto; dall’altra dispone l‘esclusione dal contratto delle clausole che sono così inconsuete che la controparte dell’utilizzatore non deve tenerne conto. In dottrina si è rilevato come la normativa tedesca concerna rispetto agli artt.33 ss.cod.cons. l’ambito più ristretto della contrattazione standard con i consumatori. Probabilmente il controllo sull’inserimento delle condizioni generali negoziali non è stato irrigidito dal legislatore italiano affinchè esso non diventasse un ostacolo per i traffici e irregolare funzionamento del mercato. Vi sono altri dati normativi da cui può trarsi l’esistenza di un dovere di informazione precontrattuale in capo al predisponente di condizioni generali di contratto come a qualunque altro contraente che si giovi di un’asimmetria informativa (ad ese. Art.1337,1341,1375 cod.cons.). Tuttavia l‘assenza di una disciplina espressa ha inciso sull’incertezza delle conseguenze giuridiche delle omesse o inesatte informazioni.] Obblighi di trasparenza sono, ad esempio, quelli presenti nei contratti aventi a oggetto lo svolgimento di attività di intermediazione mobiliare; nelle operazioni e servizi bancari; nei contratti assicurativi; nei contratti dei consumatori e così via. Le regole sulla trasparenza di regola sono affidate ad atti formali (scritti) che riguardano tutte le attività connesse al contratto sia nella fase formativa che in quella di esecuzione.
Il diritto all’informazione pone delle questione per quanto riguarda la funzione che effettivamente svolge all’interno della dinamica contrattuale. In proposito si assiste ad una standardizzazione dell’informazione, nel senso che questa viene affidata ad un formulario o a un modulo che il professionista ha l’obbligo di consegnare al consumatore [si veda ad esempio in tema di prestazione di servizi di investimento finanziari l’obbligo a carico dell’intermediario di fornire ai suoi interlocutori le informazioni necessarie per comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i rischi ad essi connessi]. In un recente commento alla Direttiva in tema di diritti dei consumatori (83/2011) è stato osservato che la responsabilità del professionista si riduce a una responsabilità per omessa consegna del formulario e lascia fuori ogni possibile apprezzamento dell’adeguatezza del comportamento del professionista nei confronti del consumatore. gli effetti che ne derivano sono quelli di ridurre l’informazione a una mera comunicazione di dati.
5.b.c) Il principio di ragionevolezza è ben conosciuto nel sistema del common law come criterio che orienta il giudice nell’applicazione dello stare decisis. Non mancano però nel nostro codice civile e nel codice del consumo disposizioni che richiamano la ragionevolezza. Si tratta di riferimenti testuali privi di un significato unitario e non in grado di conformare una vera e propria clausola generale. Vi è da dire piuttosto che la ragionevolezza sia una sorta di valore empirico ragguagliabile alla condotta del buon padre di famiglia o al criterio della diligenza. Contiguo al criterio della diligenza è quello della proporzionalità che sta ad indicare un parametro valutativo di proporzione tra mezzo utilizzato e fine perseguito. Di ragionevolezza e proporzionalità si parla in una molteplicità di significati in diversi settori del diritto (Troiano ritiene che la ragionevolezza operi in tre direzioni: come modello di condotta; come formula di imputazione della responsabilità e come criterio dell’equilibrio contrattuale). Il diritto europeo rispetto alla ragionevolezza parla di uno standard di comportamento caratterizzato dall’onestà, dalla lealtà e dalla
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considerazione degli interessi dell’altra parte dell’accordo o del rapporto in questione e afferma che la ragionevolezza deve essere accertata obiettivamente, tenendo conto della natura e dello scopo del contratto, delle circostanze della fattispecie,degli usi e delle pratiche vigenti nelle attività commerciali o professionali coinvolte.
5.c. 3) dall’inserimento di regole di comportamento (distinte da quelle di validità) che hanno l’obiettivo di rimuovere il pregiudizio che una parte può subire a seguito di comportamenti non conformi a correttezza e, in ogni caso, in violazione di doveri e che presuppongono che il soggetto non abbia la possibilità di sottrarsi agli effetti dell’atto scorretto [La Cassazione nelle sentenze Rordorf, 26724 e 26725 del 2007, in materia di mercati finanziari, ha affermato la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità, nel senso che la violazione delle prime non inciderebbe sulla genesi del contratto e determinerebbe solo la responsabilità dei trasgressori e non anche ‘invalidità dell’atto. Vi sono stati recenti dibattiti su questa distinzione e sulle tutele applicabili in caso di una loro violazione. Rientrano tra le regole di comportamento i doveri informativi posti a carico del professionista. Il rimedio esperibile in caso di loro violazione è il risarcimento del danno in conseguenza della violazione della clausola generale di buona fede exart. 1337 se la violazione ha interessato la fase precontrattuale, altrimenti si agirà per la risoluzione del contratto per inadempimento. Si esclude che possa essere fatta valere in proposito la nullità invocando regole di validità che sono quelle poste a tutela della struttura e del contenuto del contratto. Tuttavia, si osserva che nella moderna legislazione la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità si stia affievolendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto. Il problema costruttivo è quello di vedere fino a che punto elementi esterni al contratto, collocabili ad esempio nella fase precontrattuale, possano invadere il contratto fino a renderlo nullo. Sembra allora necessario ricostruire il regolamento contrattuale avendo a riferimento il punto di vista esterno al contratto cioè la situazione complessiva in cui il contratto è nato e che avrebbe efficacia costitutiva, compresi gli obblighi informativi]. Nel quadro di assicurare al consumatore sia la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali che il risultato del contratto s’iscrivono le nullità di protezione che svolgono la funzione di rimedi contro clausole (quali ad es. quelle vessatorie) o pattuizioni contrastanti con gli interessi che l’ordinamento giuridico intende difendere rimesse alla disponibilità del titolare dell’interesse normativamente protetto, affinchè possa valutare se farlo valere o meno [nella disciplina dei contratti con i consumatori sono previste forme di nullità speciali, dette anche di protezione, così denominate perché comminate in ragione della violazione di norme imperative di protezione, poste cioè a tutela sia di interessi generali sia di interessi particolari, riferibili cioè a determinate categorie di contraenti in situazione di debolezza negli scambi del mercato. Le nullità di protezione nel codice del consumo sono quelle che incidono sulla struttura e sul contenuto del contratto (es. art.71 sui requisiti relativi ai contratti di acquisizione a distanza di servizi finanziari); quelle relative alla violazione di obblighi d’informazione (art.52 dettato in tema di contratti a distanza relativamente alla informazioni da dare al consumatore a pena di nullità del contratto; quelle che incidono sia sulla struttura del contratto sia sugli obblighi di informazione (ad es. art.67 nella commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori relativamente agli ostacoli posti al diritto di recesso ..). La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice].
5.d. 4) dalla presenza di tutele o rimedi miranti a ristabilire l’equilibrio contrattuale alterato dalla posizione di forza di una parte attraverso il ricorso a clausole, come quella della correttezza e della buona fede assunte come rationes dell’intero ordinamento degli scambi [Si può fare riferimento agli strumenti di regolamentazione del
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mercato adoperati dal legislatore italiano, alcuni dei quali rappresentano una compressione dei principi di iniziativa economica e di autonomia privata. Nel codice civile sono presenti, agli articoli 2597 e 1679, disposizioni che impongono al monopolista legale e al concessionario di pubblici servizi l’obbligo a contrarre osservando la parità di trattamento. La legislazione speciale presenta leggi di regolamentazione di settori del mercato incidendo sulle attività contrattuali (si pensi alla legge 287/1990 concernete la repressione delle fattispecie anticoncorrenziali, oppure il d.lgs. 206/2005 “codice del consumo”)].
Forme di adempimento sanate sono inoltre previste dalle disposizioni sulla vendita di cose mobili sia pure per la sola vendita di beni di consumo; tra queste si colloca il diritto al ripristino, senza spese, mediante riparazione o sostituzione del bene non conforme. Tale rimedio si colloca accanto a quello della garanzia convenzionale [articolo 130 cod. cons.(diritti del consumatore) “il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene .In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità”].
LA SCHULDRECHTSREFORM.
Nel 2002 il codice civile tedesco (BGB) è stato sottoposto ad un processo di riforma (SCHULDRECHTSREFORM) che ha modificato i suoi primi due libri. Questa riforma è particolarmente importante in quanto trasfonde all’interno del BGB la disciplina del contratto concluso dal consumatore collegandola alla disciplina del contratto. Il secondo libro del BGB, riguardante il diritto delle obbligazioni e dei contratti, contiene una parte generale sui diritti di obbligazione e una seconda parte sul diritto particolare delle obbligazioni, dove sono disciplinati i singoli rapporti obbligatori nascenti da contratto o dalla legge. Tra questi ultimi, assume particolare rilievo la vendita regolata da disposizioni generali e da disposizioni particolari, tra le quali la vendita di beni di consumo. La disciplina particolare di beni di consumo è caratterizzata dal fatto che talune disposizioni della vendita in generale sono dichiarate non applicabili e altre sono rese inderogabili a vantaggio del consumatore (ad esempio la garanzia per vizi non può essere esclusa). Vi è poi un ampliamento della responsabilità per vizi della cosa venduta e il passaggio, nel caso in cui il vizio si manifesti entro sei mesi dalla consegna, dell’onere della prova a carico del venditore. Le più importanti novità della riforma traggono origine dalla indicazioni proveniente dal legislatore europeo (in modo particolare dalla direttiva comunitaria sulla compravendita dei beni di consumo; 1999/44/CEE). La disciplina della compravendita di fonte comunitaria è stata applicata non solo alla compravendita del consumatore ma trova riscontro anche in aspetti del diritto generale della compravendita e delle obbligazioni di fonte contrattuale. Non sono mancate, tuttavia, delle critiche alle scelte operate dal legislatore della SCHULDRECHTSREFORM. Si osserva infatti che l’aver esteso ai rapporti business to business la gerarchia di rimedi azionabili dal consumatore nella vendita di beni mobili (adempimento specifico o correzione dell’inadempimento inesatto o sostituzione del bene) significa rallentare i ritmi di intervento nel mercato e comprimere le potenzialità di conflitto; laddove sarebbe stato più utile mettere in campo tecniche di tutela più complesse quali, ad esempio, quelle individuate dalla normativa a contrasto della concorrenza. La verità è che la questione dell’integrazione rileva in una dimensione segnata dalla relazione che corre tra diritto dei consumatori e diritto contrattuale generale: relazione che impone un continuo confronto delle norme generali di diritto privato e delle norme speciali che vi derogano. Nel quadro di queste considerazioni è il caso di segnalare che la direttiva 1999/44/CEE presenta numerosi punti di contatto con la disciplina contenuta nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla vendita internazionale di beni mobili [(CISG): essa rappresenta un testo di 51 grande rilievo in quanto modella lo sviluppo in ambito internazionale di aree nevralgiche del diritto delle obbligazioni. Quest’ultima è stata ratificata, finora, da 12 paesi dell’unione europea: ciò significa che le vendite commerciali internazionali sono disciplinate allo stesso modo nella maggior parte dell’Unione Europea. La CISG ha, inoltre, influenzato la Direttiva sulla vendita dei beni di consumo e ha giocato un ruolo importante nelle riforme di diritto interno in materia di compravendita e di inadempimento] e con i principi dei Contratti Commerciali Internazionali (UNIDROIT). L’insieme di queste disposizioni finisce per delineare un ambito comune di riferimento per lo sviluppo del diritto della vendita in Europa. Si tratta di corpi normativi aventi finalità diverse e infatti l’UNIDROIT mira ad una armonizzazione del diritto contrattuale commerciale a livello globale e la CISG esclude la vendita al consumo dal proprio ambito applicativo. Tuttavia, le soluzioni proposte non differiscono di molto le une dalle altre, in modo tale che ciò che è ritenuto corretto ed equo per i contratti commerciali può in larga misura esserlo per in contratti dei consumatori e viceversa. Analoghe considerazioni vanno svolte se si raffronta questo quadro di riferimento con i principi di diritto europeo dei contratti (PECL) curati dalla commissione Lando che hanno per oggetto principi del contratto in generale. L’esempio tedesco rafforza l’idea che sia necessario un raffronto tra gli ordinamenti europei che partecipano a questo processo di uniformazione al fine di individuare un sistema di principi comuni che rispecchiano un diritto materiale uniforme lasciando sopravvivere le linee portanti dei vari e diversi sistemi. Questo tipo d’indagine rappresenta il corpus scientifico del diritto privato europeo: in tale direzione si è mossa sovente la Corte di Giustizia della Unione Europea (ECJ) che ha invocato il sussidio del metodo comparatistico nel processo di elaborazione di principi e procedure.
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