La clausola penale è il patto con cui due soggetti convengono che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’esecuzione degli obblighi nascenti da un contratto cui la stessa accede, uno dei contraenti sia tenuto ad una determinata prestazione.

La dottrina maggioritaria configura la pattuizione de qua non già come una mera clausola contrattuale, bensì come un autonomo negozio giuridico, accessorio a quello principale. Ne consegue che si è reso necessario individuare la funzione tipica a cui essa assolve all’interno dell’ordinamento italiano.

La maggior parte degli interpreti concorda nell’attribuire alla penale una funzione risarcitoria. In particolare, essa rivestirebbe il peculiare ruolo di liquidare preventivamente il danno causato dall’eventuale futuro inadempimento.

Una tale conclusione dovrebbe recare con sé una conseguenza; quella per cui, fermo restando il quantum determinato dalle parti, dovrebbe essere sempre ammessa la prova dell’inesistenza del danno, secondo le regole generali.

Pur tuttavia, si è notato come il legislatore abbia espressamente previsto che “la penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno”. Ciò ha indotto gli interpreti ad affermare che, nella fattispecie de qua, il danno sarebbe, addirittura, irrilevante.

Per queste ragioni, alcuni autori hanno sostenuto che la clausola penale rivesta, unicamente, una funzione sanzionatoria. Se, infatti, – da un lato – essa assolve il fine di evitare al creditore la prova del pregiudizio patito, dall’altro lato impedisce al creditore di sottrarsi al pagamento del quantum prefissato, anche nell’ipotesi in cui un danno conseguenza non si sia verificato.

Vi è, infine, chi ritiene poco utile rintracciare la funzione tipica della clausola de qua, dal momento che essa assommerebbe in sé tutte le predette finalità.

Dal punto di vista strutturale la penale si configura come un negozio obbligatorio; spirato il termine per l’adempimento, il contraente infedele sarà tenuto ad effettuare la prestazione promessa.

Il creditore, a questo punto, sarà posto di fronte ad una scelta. Eccettuata l’ipotesi in cui essa sia prevista per il semplice ritardo, egli non potrà domandare, insieme, la prestazione principale e la penale. Tuttavia, nel caso in cui decidesse di avvalersene, la clausola di cui all’art. 1382 c.c. impedirebbe al creditore di ottenere il risarcimento del danno nelle forme ordinarie, dovendosi ritenere la penale una forma di liquidazione forfettaria del danno in via anticipata. È prevista, in ogni caso, la risarcibilità del pregiudizio ulteriore eventualmente patito, nell’ipotesi di espressa pattuizione sul punto.

 

Con la sentenza 10511/1999 la Prima Sezione Civile della S.C. Cassazione affronta il problema della riduzione ad equità ex officio della clausola penale prevista dalle parti nel contratto. La Cassazione ha deciso che il giudice, nel rilevare il ritardo o l’inadempimento del debitore, può ridurre l’ammontare della clausola penale anche in assenza di una istanza in tal senso.


Questa pronuncia costituisce un revirement rispetto agli orientamenti precedenti, come dimostrano le sentenze 3549/1995 e 341/1997 della Cassazione, richiamate dalla sentenza in esame.


La prima delle citate sentenze ha per oggetto un contratto preliminare di vendita rimasto inadempiuto, rispetto al quale l’attore chiedeva la risoluzione del contratto stesso e il pagamento della penale. Il Tribunale rigettava la domanda attorea e, ai sensi dell’art. 2932 c.c., obbligava il debitore all’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto, disponendo il pagamento del saldo. L’attore soccombente rispetto alla domanda di risoluzione adiva la Corte d’Appello, la quale, accogliendo la censura, dichiarava la risoluzione del contratto per inadempimento e riduceva d’ufficio la penale prevista a favore del creditore. Il debitore soccombente ricorre per Cassazione con una serie di motivi, tutti rigettati. Viene invece accolto il ricorso incidentale, con il quale il creditore denunciava la violazione degli artt. 1382, 1384, 2697 c.c e 99 e 112 c.p.c, per avere il giudice ridotto la penale senza che vi fosse stata una richiesta di parte. Invero, la Corte ha avuto occasione di affermare, sulla scia di un orientamento consolidato, che la riduzione della penale non può essere effettuata d’ufficio ma richiede un’istanza del debitore, che, nella specie, non risultava dall’esame degli atti processuali.


Tuttavia esistono talune pronunce più risalenti (Cass. n. 2775/68; 1484/71; 519/82) le quali, pur non disconoscendo dal punto di vista formale il principio della non riducibilità ex officio della penale, dal punto di vista sostanziale, utilizzano un “espediente logico” attraverso il quale si ritiene implicita, nell’eccezione di nulla dovere a titolo di penale, la domanda di riduzione della penale stessa.

Da queste ultime pronunce che pongono le premesse logiche al revirement del ‘99, si discosta la Sentenza Cass. n 341/1997.
Nel caso di specie, oltre a un problema di qualificare come clausola penale l’accordo di depositare le cambiali nelle mani del creditore, si censura la violazione dell’art 1384c.c.
I ricorrenti assumono che, anche a voler qualificare la pattuizione in parola come clausola penale, il giudice di merito doveva procedere alla sua riduzione, ritenendo la relativa domanda implicitamente contenuta nella eccezione di nulla dovere a titolo di penale sollevata precedentemente. La Suprema Corte rigetta il ricorso sostenendo che l’eccezione di nulla dovere del convenuto non può ritenersi comprensiva dell’istanza di riduzione della penale medesima perché le dette due deduzioni difensive hanno fondamenti diversi e inconciliabili in quanto la prima (eccezione di nulla dovere) esclude l’esistenza dell’inadempimento che invece è presupposta dall’istanza di riduzione della penale.


Alla luce di quanto sinora detto, emerge chiara la portata rivoluzionaria della sentenza del ’99, con la quale la Cassazione riconosce al giudice il potere di ridurre ex officio l’ammontare della penale.

Ciò in virtù di una intervenuta costituzionalizzazione dei principi in materia di autonomia privata che impone un bilanciamento tra i valori dell’iniziativa economica privata (art 41 Cost) e il dovere di solidarietà dei rapporti intersoggettivi ricavabile dall’art 2 Cost. La Costituzione del ’48 ha determinato, infatti, una rivoluzione concettuale nei rapporti tra giudice e volontà delle parti, nella misura in cui la volontà contrattuale delle stesse non è più da considerarsi una sfera estranea al potere di intervento del giudice; difatti, l’ordinamento attribuisce a quest’ultimo un controllo non più eccezionale (subordinato all’istanza di parte), bensì generale sugli atti di autonomia privata. Il potere di intervento riconosciuto al giudice trova il suo fondamento nel rinnovato ruolo assunto dal principio della buona fede, che da sussidiario diviene criterio che permea di sé l’intera struttura contrattuale, qualificandosi come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita (cfr. sent. Cass. civ. 3775/1994).
Sviluppi successivi della giurisprudenza in materia di clausola penale (cfr. nn. 8071/2008; 23273/2010; 21297/2011; 22747/2013) non solo confermano la riducibilità ex officio della stessa ma ammettono la proponibilità della domanda di riduzione della penale per la prima volta in appello. L’esercizio di tale potere del giudice è tuttavia subordinato all’assolvimento, a carico della parte, degli oneri di allegazione e prova in riferimento alle circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale, che deve risultare ex actis, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio.

In dottrina, una posizione concorde con il principio di diritto desumibile dalla sentenza del 1999 è quella di Galgano, che giunge al medesimo risultato attraverso un’argomentazione differente.
L’autore, infatti, pone alla base della riducibilità ex officio della clausola penale l’idea secondo cui una penale manifestamente eccessiva è considerata una clausola diretta a realizzare interessi non meritevoli di tutela. L’intervento del giudice secondo equità si configura come uno strumento volto a correggere una manifestazione dell’autonomia contrattuale che darebbe luogo altrimenti ad una clausola nulla, come tale sottoposta al principio della rilevabilità d’ufficio.
Contraria alla soluzione individuata dalla sentenza della Cassazione è l’opinione del Prof. R.Rascio secondo il quale la riducibilità ex officio della clausola penale ne ridurrebbe la funzione compulsoria.


Accanto a quella compulsoria, la dottrina riconosce alla clausola penale altre funzioni.

Sin dall’approvazione del codice civile del 1942, l’orientamento prevalente riteneva che la funzione dominante della penale fosse quella risarcitoria, in virtù della quale l’obiettivo della clausola era la determinazione preventiva e convenzionale del danno, allo scopo di agevolare il creditore, che vedrebbe così rinforzata la propria posizione giuridica soggettiva. Se si accoglie questo orientamento e lo si coniuga con la previsione dell’art 1384, ne consegue la possibilità per il giudice di spingersi sino al punto di ritenere la penale non dovuta in assenza del pregiudizio.


Nel vigore del precedente codice civile, invece, era molto diffusa la teoria della funzione c.d. di garanzia, secondo cui la clausola penale rappresenta uno strumento per garantire l’adempimento di un’obbligazione.


In un’ottica diversa si pone chi ravvisa nella penale una funzione
sanzionatoria per l’inosservanza dell’obbligo contrattuale; essa non avrebbe più una funzione meramente risarcitoria, volta a ristorare la sfera patrimoniale, ma più ampliamente reintegrativa del diritto violato.


La più recente teoria sulla funzione della clausola penale è quella dualistica, la quale individua nella penale un diverso schema tipico dotato di autonoma e distinta disciplina, che avrebbe lo scopo di imporre anticipatamente e convenzionalmente una “sanzione a struttura obbligatoria”.
La funzione della clausola non si identificherebbe in nessuna delle due funzioni sopraelencate, risarcitoria o afflittiva, poiché soffrirebbe della irrilevanza, rispetto alla prima, del danno e, rispetto alla seconda, della volontà di punire il debitore. Essa consisterebbe piuttosto nella determinazione di una sanzione il cui contenuto sarebbe rimesso alla volontà (e quindi alla libera determinabilità) delle parti contraenti.

Clausola penale e Contratto del consumatore


Una peculiarità nella disciplina della clausola penale si rinviene nell’art 33 lettera f del Codice del consumo (D.lg. 206/2005). La norma stabilisce infatti che è da presumersi, fino a prova contraria, vessatoria la clausola penale manifestamente eccessiva, imposta al consumatore in caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento, inserita nel contratto concluso tra un professionista e un consumatore.

Su tale dato normativo, si innestano critiche della dottrina, in particolare quelle di Francesco Agnino.
La previsione codicistica si fonda sulla diffusa convinzione che il consumatore sia “parte debole” del rapporto contrattuale, in ragione dell’asimmetria informativa e di mezzi che sussiste tra le parti.
Rispetto a questo quadro normativo e interpretativo, Agnino solleva una serie di critiche. Innanzitutto, l’autore sostiene che, al fine di valutare la congruità della penale, bisogna tener conto non tanto delle posizioni formali di creditore (professionista) e debitore (consumatore), quanto piuttosto della “soggettiva debolezza del consumatore”, come criterio per indagare sull’equilibrio contrattuale in riferimento ai valori di mercato.
In secondo luogo,
la concezione secondo cui il consumatore è parte debole altera i parametri di valutazione di conformità della clausola penale, dando luogo a giudizi di vessatorietà arbitrari. Infine, la sindacabilità di una clausola in quanto manifestamente eccessiva è, per Agnino, da interpretare come uno svilimento dell’autonomia contrattuale, sulla base di un concetto di “debolezza negoziale” della cui utilità nel diritto dei contratti è lecito dubitare.


 

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