Anche la caparra confirmatoria, alla stregua della clausola penale, configura un autonomo negozio giuridico.

Essa presenta una struttura composita.

L’art. 1385 c.c. dispone che, se la parte debitrice adempie le proprie obbligazioni, la somma consegnata al momento della conclusione del contratto dovrà essere restituita ovvero – ipotesi senz’altro più frequente – imputata alla prestazione dovuta.

Nel caso di inadempimento, invece, la norma in esame offre due tipi di rimedi al contraente insoddisfatto.
Se inadempiente risulterà il soggetto che ha prestato la caparra, l’altra parte potrà esercitare il recesso e trattenere quanto ricevuto.
Nell’ipotesi inversa, la parte infedele sarà tenuta ad effettuare il versamento del doppio della caparra.

La natura particolarmente complessa della caparra confirmatoria ha comportato un notevole sforzo di dottrina e giurisprudenza volto ad individuare la finalità tipica a cui l’istituto assolve. E’ bene sin da subito chiarire che la funzione della caparra confirmatoria non può essere rintracciata in astratto, ma deve essere individuata, di volta in volta, in relazione agli aspetti dinamici del rapporto contrattuale cui essa afferisce. Come evidenziato dalla recente giurisprudenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la caparra, per come disciplinata dall’art. 1385 c.c., costituisce uno strumento in grado di modellarsi in relazione al comportamento dei contraenti e alle esigenze della parte non inadempiente.

Così, è evidente che, fino a quando l’adempimento sarà possibile, essa svolgerà, similmente alla clausola penale, il compito di rafforzare il vincolo e stimolare l’adempimento.

In caso, poi, di adempimento, la caparra non potrà che svolgere una funzione di anticipata esecuzione della prestazione.

Infine, nel caso di inadempimento, occorrerà avere riguardo alla scelta effettuata dal contraente non inadempiente. Più specificamente, se questi chiederà la risoluzione (e il risarcimento integrale dei danni) in capo alla caparra residuerà la funzione di garanzia per il risarcimento. Qualora, invece, egli manifestasse la volontà di recedere, la caparra fungerà da liquidazione forfettaria anticipata del danno.

 

A) tesi che nega la possibilità di un intervento da parte del giudice finalizzato alla riduzione

Una prima tesi nega la possibilità di un intervento da parte del giudice finalizzato alla riduzione:
I motivi di tale presa di posizione si basano su vari ordini di ragioni.

►►►  il primo argomento, fatto proprio dai giudici della Corte di Cassazione, è fondato sul divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali, quale sarebbe l’art. 1384 c.c..

►►►  n secondo luogo, difetterebbero gli ulteriori elementi necessari affinché si addivenga ad un’applicazione analogica, vale a dire la sussistenza di una lacuna in senso proprio e di una eadem ratio legis.

In quanto alla prima, è, infatti, da notare come nella vigenza del codice del 1865 non residuasse in capo al giudice alcun margine di controllo circa la congruità della somma dovuta, sia nell’ipotesi in cui essa fosse stabilita a titolo di penale, sia che essa fosse consegnata a titolo di caparra. La circostanza per cui, nell’introdurre la nuova disciplina, il legislatore abbia limitato tale potere alla sola clausola penale, ha, da sempre, fatto desumere l’impossibilità di estendere la sua applicazione in via analogica alla caparra confirmatoria. Se omissione c’è, si è detto, essa è volontaria.

Nemmeno sarebbe rintracciabile, secondo questa tesi, un’analogia funzionale tra i due istituti. Ed invero, ciò che difetterebbe alla caparra è la funzione tipicamente sanzionatoria esercitata dalla clausola penale. Essa, al contrario, integrerebbe, principalmente, una parziale anticipata esecuzione della prestazione.

Alcuni autori hanno, poi, osservato che una situazione di abuso in contrahendo non sarebbe neppure configurabile con riferimento alla caparra confirmatoria.
Lo strumento della riduzione previsto dall’art. 1384 c.c., è infatti, volto a fornire al contraente infedele un rimedio avverso la previsione di una somma manifestamente eccessiva.
Orbene, una tale situazione difficilmente potrebbe verificarsi nell’ipotesi di cui all’art. 1385 c.c.. Ed invero, sul piano strutturale, penale e caparra si atteggiano in maniera completamente differente.

La circostanza per cui la caparra confirmatoria si delinei non già come una promessa, bensì come una dazione di una somma di denaro o altre cose fungibili, porrebbe i contraenti al riparo da abusi, poiché essi sarebbero in grado, da subito, di constatare l’entità dell’esborso in caso di inadempimento.
Ancora, si è detto, a fronte dell’unilateralità della prima, la bilateralità della seconda dovrebbe indurre a ritenere attenuata la possibilità di una determinazione eccessiva del quantum risarcitorio.

Si è, inoltre, osservato come la caparra non potrebbe mai risultare manifestamente eccessiva, per l’evidente ragione secondo cui essa, sostanziandosi in una frazione del corrispettivo previsto per la prestazione, non potrà risultare superiore all’importo della stessa.

In ultimo, è stato proposto un argomento di natura logica. Ammettendo la riconduzione ad equità da parte del giudice il creditore non sarebbe in grado di effettuare una scelta consapevole tra il rimedio risarcitorio e l’incameramento della caparra. Egli, infatti, soddisfatto da quest’ultima, potrebbe rinunciare ad esercitare l’azione risarcitoria nelle forme ordinarie e subire, successivamente, la riduzione dell’importo spettantegli.

B) tesi che ammette la possibilità di un intervento da parte del giudice finalizzato alla riduzione. Esigenze perequative ed aperture alla riducibilità della caparra confirmatoria: a) l’applicazione analogica dell’art. 1384 c.c

A tale teoria, si è opposta l’opinione di chi ritiene necessario un intervento correttivo da parte dell’autorità giudiziaria.

In prima battuta, è stato osservato come un’analisi storico – sistematica condurrebbe a ritenere, contrariamente a quanto affermato dalla giurisprudenza dominante, che la penale e la caparra confirmatoria rivestano la medesima funzione.
Come si è già avuto modo di notare, le predette pattuizioni costituiscono un’ipotesi in cui la liquidazione del danno risarcibile è antecedente alla verificazione dello stesso, potendo, al limite, anche prescindere dall’eventualità che esso si produca.
Ebbene, è proprio in quest’ottica che la clausola penale e la caparra sembrano avvicinarsi in maniera sensibile. Osservati da questa prospettiva – e non in maniera astratta e indifferenziata – i due istituti presenterebbero delle indubbie affinità.
L’esigenza di tutela della parte che ha versato una caparra confirmatoria di non modico valore, nascerebbe, allora, dalla differente disciplina approntata dal legislatore. Invero, l’art. 1382 c.c. consente alla parte di ricevere immediata soddisfazione, potendo ella pretendere, senz’altro, la somma pattuita in caso di inadempimento. Nel caso, poi, in cui essa risulti essere inferiore al danno subito, in presenza di apposita convenzione, è fatto lecito alle parti di richiedere il risarcimento del danno ulteriore.

L’art. 1385 c.c., al contrario, garantisce il contraente fedele unicamente nell’ipotesi in cui l’importo della caparra risulti esiguo. Egli, infatti, qualora ritenga la somma concordata inidonea a risarcire il danno subito a causa dell’altrui inadempimento, potrà agire per ottenere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento, secondo le regole generali. Nel caso in cui l’importo della caparra sia superiore al danno effettivamente patito dalla controparte, il contraente inadempiente non avrà a disposizione alcun mezzo di tutela.

In ciò risiederebbe la necessità di un intervento correttivo.

Secondo la tesi in esame, prive di pregio apparirebbero le ulteriori argomentazioni addotte dalla teoria negatrice.

E così, in ordine, se è vero che la caparra costituisce una porzione della prestazione, l’esistenza di un limite massimo alla predeterminazione del quantum risarcitorio non impedisce che si addivenga a pattuizioni abnormi. La sproporzione del risarcimento, infatti, va valutata con riferimento al pregiudizio subito dalla parte inadempiente. La caparra, quindi, seppur di importo inferiore alla prestazione principale, potrà risultare manifestamente eccessiva.

L’argomento fondato sulla bilateralità della caparra, invece, appare poco pregnante in relazione alle fattispecie in cui una delle parti abbia già adempiuto la prestazione principale come, ad esempio, i contratti traslativi reali. Liberato dalla propria obbligazione, il contraente avrà tutto l’interesse a predeterminare una caparra di importo elevato, ai fini di lucrare un quantum risarcitorio più elevato.

Quanto, poi, alla frustrazione della scelte difensive del creditore, si può facilmente notare come una tale argomentazione si riveli poco efficace, se sol si osservi che anche nell’ipotesi di cui all’art. 1382 c.c. la parte ha l’onere di scegliere tra la richiesta di adempimento e l’incameramento della penale, sottoponendosi, in quest’ultima ipotesi, all’alea di una reductio ad aequitatem.

La teoria appena riportata, tuttavia, presenta notevoli limiti.

In primis, pur volendo ritenere sussistente l’analogia funzionale tra gli istituti della caparra e della clausola penale, essa non è in grado di spiegare come il potere di riduzione, da considerarsi eccezionale, possa essere applicato analogicamente, in violazione dell’art. 14 delle preleggi.

Ancora, permangono notevoli perplessità in ordine alla possibilità di sovrapporre in maniera perfetta i due istituti. Si può osservare, infatti, come la struttura dei rimedi forniti alle parti in caso di inadempimento diverga in maniera sensibile.
La clausola penale, lo si è detto, costituisce liquidazione anticipata e forfettaria del danno. Ciò vuol dire che la parte fedele, in caso di inadempimento, dovrà ritenere la somma pattuita pienamente satisfattiva. Pur tuttavia, potranno verificarsi due ipotesi.
La prima: la penale pattuita risulta manifestamente eccessiva; in questa ipotesi, lo si è visto, il giudice potrà intervenire per correggere tale anomalia, attraverso la riduzione della clausola stessa.
La seconda: il danno subito è superiore a quello quantificato dalla parti stipulando la clausola penale. In questo caso, il codice consente, in caso di previa pattuizione, di richiedere il risarcimento del danno ulteriore, ma il contraente fedele potrà chiedere ugualmente il pagamento della penale.

Osservando la disciplina prevista in tema di caparra, si nota, invece, come la logica seguita dal legislatore sia diversa. Ed infatti, nel caso in cui la caparra sia manifestamente eccessiva, le parti saranno del tutto sfornite di mezzi di tutela.
Nel caso, poi, in cui la somma pattuita sia inidonea a risarcire il danno subito, la parte fedele contrariamente all’ipotesi predetta, non potrà incamerarla, ma dovrà rinunciare alla caparra e chiedere il risarcimento del danno in via ordinaria.

Ora, è possibile notare come, nell’ipotesi di cui all’art. 1385 c.c., la disciplina dettata dal legislatore sia particolarmente gravosa per il contraente fedele. Egli, infatti, se intenderà chiedere il risarcimento integrale del danno, dovrà addossarsi integralmente gli oneri probatori, rischiando persino, in ultimo, di non ottenere alcunché nel caso in cui un danno conseguenza non si sia prodotto o egli non riesca a provarlo.
Le predette circostanze, probabilmente, sono indice della volontà del legislatore di scoraggiare il ricorso alla giustizia da parte del contraente insoddisfatto.

Consentire la riduzione della caparra eccessiva, in definitiva, significherebbe privare l’istituto della finalità deflattiva del contenzioso che gli è propria.

C) la riqualificazione della caparra manifestamente eccessiva e l’applicazione diretta della disciplina della clausola penale

 

Per superare le succitate difficoltà interpretative, è stata prospettata, allora, una terza soluzione.

Una tesi, recentemente propugnata in dottrina, ha sostenuto che la questione che ci occupa potrebbe trovare una sua composizione, in via ermeneutica, mediante una lettura particolarmente innovativa della disciplina codicistica. Secondo alcuni autori, a fronte di una caparra di importo manifestamente eccessivo, non sarebbe necessario applicare in via analogica l’art. 1384 c.c., ben potendo il Giudice, nell’ambito del proprio potere di qualificazione del contratto, assumere che le parti, nell’ipotesi de qua, non abbiano stipulato una caparra, bensì una clausola penale.

A tale esito si giungerebbe valorizzando la diversità di funzioni dei due istituti. Secondo i fautori di questa teoria, infatti, la caparra confirmatoria, nel caso di inadempimento, riveste unicamente la funzione di liquidazione anticipata del danno e deve, pertanto, ritenersi estranea ad essa la funzione punitiva esercitata dalla penale.

Orbene, nell’ipotesi in cui l’ammontare della prima risulti palesemente superiore al danno prevedibile nel momento della stipulazione del contratto, dovrà necessariamente concludersi che le parti, lungi dal voler predeterminare il quantum risarcitorio, abbiano inteso sanzionare l’altrui inadempimento.

Ed allora, se ciò è vero, l’importo previsto non potrà che configurare una clausola penale; essa sarà, pertanto riducibile, non già facendo ricorso allo strumento dell’analogia, bensì applicando in via diretta le norme sulla riduzione previste dal codice.

Sotto un’altra prospettiva, d’altronde, è stato, acutamente, osservato come il dovere di riqualificare una caparra manifestamente eccessiva scaturisca dalla necessità di preservare il contratto da una (possibile) declaratoria di nullità, ai sensi dell’art. 1344 c.c..[29] Questa, infatti, ben si presterebbe a costituire lo strumento per eludere la norma sulla riduzione prevista dall’art. 1384 c.c..

In sostanza, le parti, piuttosto che obbligarsi al pagamento di una penale per il caso di inadempimento, con lo scopo di evitare lo spettro di un controllo giudiziale sulla congruità della pattuizione, potrebbero preferire inquadrare la stessa sotto le spoglie di una caparra, sapendo che quest’ultima non è soggetta a riduzione. In tale modo esse si assicurerebbero un risarcimento di misura nettamente superiore al danno subito.

La soluzione or ora prospettata è certamente suggestiva. Pur tuttavia, avverso la predetta tesi non possono tacersi alcune perplessità.

In primis, accedendo a tale ricostruzione si finirebbe, inevitabilmente, per qualificare come penale una pattuizione avente natura reale, non già obbligatoria, come espressamente previsto dall’art. 1382 c.c..

In secondo luogo, una parte della dottrina riconosce apertamente anche alla caparra – seppure non in via esclusiva – un carattere sanzionatorio, in ispecie quando essa sia di notevole entità.

Osservata da questa prospettiva, allora, l’operazione interpretativa di cui si è sin qui discusso appare difficilmente configurabile.

Pronuncia della Corte Costituzionale del 2 aprile 2014, riguardo la legittimità costituzionale dell’art.1385 co.2 del codice civile.

In particolare, alcuni giudici, in tempi recenti, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385 c.c., per contrasto con l’art. 3 Cost. nella parte in cui non consente al giudice di ridurre, similmente a quanto avviene nelle ipotesi di cui all’art. 1384 c.c., il quantum stabilito dalle parti.

La Consulta, con due ordinanze, la n. 248/2013 e n. 77/2014, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Come risulta dalla giurisprudenza più recente della Corte, una norma non può essere dichiarata contraria a Costituzione allorquando residui in capo all’interprete una valida opzione ermeneutica, idonea a rendere la disposizione conforme alla Carta fondamentale.

I giudici delle leggi, invero, affermano che è poco utile preoccuparsi della possibilità di riduzione giudiziale della caparra confirmatoria, dal momento che sussisterebbe in capo all’organo decidente un potere ancora più pregnante: quello di dichiarare la nullità della clausola stessa, ex art. 1418 c.c., per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. “in combinato contesto con la clausola di buona fede.” La Corte Costituzionale, quindi, immagina un’applicazione diretta dei principi costituzionali alla materia contrattuale.

Il giudice delle Leggi, in sostanza, afferma l’esistenza di un generale potere di intervento sul contenuto del contratto. Nello specifico, le parti, non saranno libere di predisporre il contenuto del contratto; la loro autonomia non potrà sublimarsi in un accordo non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte, in ossequio al principio che impone l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale e del canone generale di buona fede.

La decisione della Corte Costituzionale, non ha mancato di sollevare perplessità in dottrina.

La sentenza che si annota, del resto, dimostra come gli stessi giudici della Corte di Cassazione non si siano uniformati al dictum della Consulta.

Da più parti, d’altronde, è stato rilevato come affermare che i principi costituzionali rappresentano dei limiti all’autonomia privata, al punto che la loro violazione possa inficiare sub specie nullitatis il contratto, significa ammettere la sussistenza, in capo all’autorità giudiziaria, del potere di ricondurre ad equità qualsiasi manifestazione dell’autonomia privata, sol che essa contrasti con uno di essi. Un potere abnorme, dunque, in grado di minare alla base i (non meno importanti) principi dell’autonomia delle parti e della certezza delle relazioni contrattuali.

Esse infatti, potrebbero essere inserite all’interno di quella teoria, recentemente prospettata in dottrina, secondo la quale sussisterebbe all’interno del nostro ordinamento, un principio generale di proporzionalità tra le prestazioni contrattuali.La clausola di buona fede, in combinato disposto con il principio solidaristico, farebbero assurgere il principio di proporzionalità tra le prestazioni a norma imperativa, la cui violazione comporta la nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418 c.c.

E’ innegabile, che l’ordinamento giuridico ha subito in tempi recenti notevoli trasformazioni. Dietro l’impulso del diritto europeo e dell’opera ermeneutica della Corte di Cassazione il principio di intangibilità del contratto ha assunto contorni molto più sfumati che in passato.

In primo luogo, si può pensare al rilievo che il principio solidaristico e la clausola generale di buona fede hanno avuto nell’elaborazione della figura dell’abuso del diritto..

La Corte di Cassazione, ha più volte affermato come la clausola generale della buona fede, in uno con il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., costituisca un preciso limite all’autonomia dei privati, i quali saranno tenuti a salvaguardare reciprocamente l’interesse altrui.

Si è osservato, ancora, come un’apertura verso il superamento del dogma dell’autonomia negoziale sia stata mostrata dalla Suprema Corte in alcune pronunce dettate in tema di clausola penale. Il punto controverso, prima dell’intervento a Sezioni Unite del settembre 2005, era rappresentato dalla possibilità, da parte del giudice, di ridurre ex officio la penale manifestamente eccessiva. Tale eventualità era stata costantemente esclusa dai giudici di legittimità, sulla scorta dell’assunto per cui l’art. 1384 c.c. dettasse una regola nell’interesse della parte debitrice, la quale, sola, era legittimata a chiederne la riduzione.

Come anticipato, tale orientamento è stato definitivamente accantonato un decennio fa, allorquando la Corte di Cassazione ha riconosciuto al giudice la possibilità di ridurre officiosamente la penale manifestamente eccessiva. Ciò ha detto la Corte, affermando come il potere di controllo appaia attribuito al giudice nell’interesse dell’intero ordinamento giuridico, al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro cui la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela.

Un notevole impulso, in tale ottica, è stato fornito dall’introduzione della disciplina dei contratti del consumatore.

Il superamento del modello codicistico, che pone i contraenti in posizione paritaria e indifferenziata, ha portato, in una logica di protezione della parte debole del rapporto, all’introduzione di una serie di rimedi che consentono al giudice un ampio margine di controllo sull’autonomia dei privati. E così, ad esempio, l’art. 2, co. 2, del Codice del Consumo, esplicitamente riconosce ai consumatori il diritto fondamentale “alla correttezza, alla trasparenza ed alla equità del contratto”.

L’art. 33 della norma sancisce, poi, la nullità delle clausole vessatorie, ovverosia di quelle pattuizioni in grado di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio di diritti ed obblighi.

Si osservi, infine, che, con riferimento agli istituti al nostro esame, lo stesso art. 33, co. 2, lettera f), fa espressamente divieto al professionista di “imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo

I giudici nel rigettare le domande attoree, hanno sempre svolto due ordini di considerazioni.

In primis, tra la clausola penale e la caparra confirmatoria sussisterebbero delle “chiare differenze” sul piano strutturale e funzionale. Invero, la clausola penale deve considerarsi un patto accessorio con funzione di coercizione all’adempimento, nonché di predeterminazione del risarcimento dovuto; la caparra, invece, pur assolvendo la medesima funzione risarcitoria, costituisce un parziale pagamento in via anticipata della prestazione finale. A detta della Corte riposerebbe in ciò la ratiodella differente disciplina approntata dal legislatore

In seconda battuta, osservano i giudici, una diversa lettura delle norme in esame sarebbe impedita dal divieto di applicazione analogica discendente dall’art. 14 delle preleggi: la disposizione contenuta nell’art. 1384 c.c., ponendosi in contrasto con il generale principio sancito dall’art. 1322 c.c., che impone il rispetto dell’autonomia contrattuale dei privati, costituisce norma eccezionale. E’ noto come l’art. 1384 c.c. attribuisca all’autorità giudiziaria il potere di ridurre la clausola penale pattuita qualora l’obbligazione principale sia stata adempiuta o se il suo ammontare appaia eccessivo in relazione all’interesse che il creditore aveva all’adempimento.  Sin dall’adozione del nuovo codice civile, che ha introdotto la suddetta deroga al principio dell’autonomia delle parti, ci si è chiesti se un tale potere potesse essere esercitato dal giudice anche con riferimento all’istituto della caparra confirmatoria, applicando analogicamente l’art. 1384 c.c..

La Suprema Corte ha sempre con fermezza enunciato il principio secondo cui la caparra confirmatoria di importo manifestamente eccessivo non possa essere ridotta dal giudice.

La tesi che ammette, al contrario, la riducibilità della stessa, trova pochissimi riscontri nella giurisprudenza (App. Roma, 13 marzo 1959, in Giust. civ., 1959, I, 584 ss).

 

Corte cost. ord. 77/2014

 

Il giudizio a quo verteva sulla domanda di restituzione del doppio della caparra confirmatoria da parte del promittente venditore di un immobile in favore della promissaria acquirente, in ragione della mancata stipula del contratto definitivo.

Il giudice a quo aveva sollevato questione di legittimità costituzione dell’articolo suddetto nella parte in cui non dispone che il giudice possa equamente ridurre la somma del doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione ove sussistano giustificati motivi.

Il giudice delle leggi risponde quindi, in linea con la pronuncia gemella del 24 Ottobre 2013 n°248 sul medesimo tema , ritenendo manifestamente inammissibile la questione per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza.

Quanto al primo profilo il rimettente aveva omesso di considerare che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art 1385 c.c., è comunque un inadempimento gravemente colpevole, cioè imputabile ( ex artt. 1218c.c. , 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456c.c.).

Quanto al secondo profilo quel giudice non aveva tenuto conto dei propri possibili margini di intervento a fronte di una clausola negoziale che rifletta un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte (come da sua stessa prospettazione). Ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità totale o parziale della clausola stessa (ex art. 1418 c.c.), per contrasto con l’art 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) , che entra direttamente nel contratto in combinazione con la buona fede che ha vis normativa e che funzionalizza il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse dell’obbligato (Cass n°15011/99, Cass n°3775/94,Cass n°20106 del 2009 ).


Il giudice a quo riteneva che l’art. 1385 secondo comma c.c. contrastasse con l’art 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza, intesa come intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità; egli lamentava, quindi, l’assenza di strumenti di intervento a propria disposizione in tema di caparra confirmatoria in chiaro contrasto con l’orientamento della Corte di Cassazione che, in tema di clausola penale, aveva riconosciuto il potere di riduzione ex officio della stessa.


La Corte replica sottolineando la manifesta infondatezza del quesito in relazione al caso concreto e , soprattutto, la sua irrilevanza dal momento che il giudice a quo sarebbe potuto intervenire comunque dichiarando nulla la caparra ex art 1418 cc.
L’elemento di novità sta proprio in questo: l’intervento ex officio del giudice può sempre realizzarsi utilizzando le norme in tema di nullità, laddove egli ritenga il regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato.
Questo punto ha suscitato forti perplessità in dottrina : in passato coloro i quali facevano leva sull’affinità funzionale tra gli istituti della clausola penale e della caparra confirmatoria, consideravano possibile e ragionevole un’estensione analogica della regola della riducibilità anche al caso della caparra manifestamente eccessiva. Un’altra parte della dottrina, seguita da una giurisprudenza costante, è di diverso avviso perché sottolinea i profili di diversità che caratterizzano le due figure e che giustificano una disciplina diversa.
Tuttavia, come osservato da due autorevoli commentatori (D’amico e Pardolesi), la Corte Costituzionale non mette in discussione la diversità dei due istituti poiché non è ammesso dalla lettera dell’art. 1385 c.c., un potere correttivo della caparra (al contrario ammesso in tema di clausola penale dall’art 1384 c.c.). Il carattere dirompente di questa pronuncia sarebbe, piuttosto, la dichiarazione del principio dell’autorizzazione generale del giudice ad intervenire sul contenuto del contratto, rintracciabile nella motivazione dell’irrilevanza della questione sollevata dal giudice a quo, che faceva leva sulla possibilità dell’utilizzo della nullità per la correzione della caparra. I due autori sono fortemente critici proprio riguardo a questo principio, che si avvarrebbe dell’art. 2 Cost. e del canone di buona fede come di due “apriscatole giuridici” che permettono di entrare direttamente nel contratto, in nome della solidarietà sociale. Il suddetto orientamento della Corte Cost. sarebbe quindi, secondo tali commentatori, in contrasto con l’impostazione sistematica intesa a scandire l’alternatività tra regole di validità e regole di condotta, e relegherebbe il parametro di correttezza a questo secondo ambito. Pardolesi, concludendo la propria analisi, afferma laconicamente che “le perplessità, a questo punto si sprecano”.

IN TEMA DI BUONA FEDE la sentenza del 2009,unitamente a quelle precedenti del 1994 e del 1999, ha costituito una renovatio che ha orientato anche i giudici delle leggi in una pronuncia del 2014 riguardante la riduzione ex officio della caparra confirmatoria.

Si riprende il problema ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza relativo alla possibilità di ammettere, in materia di caparra ex 1385 cc, un potere di riduzione analogo a quello previsto per la clausola penale all’art 1384.

 

 


 

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