L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO

L’INTERPRETAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO. LA GIURISPRUDENZA.

L’interpretazione è il primo pilastro della scienza giuridica: scienza pratica in quanto ha il compito di risolvere gli innumerevoli casi che la vita concreta propone, alla luce di regole fissate dal legislatore e dei principi che ne innervano l’essenza; la scienza giuridica ha, inoltre, carattere dinamico e cioè si evolve continuamente. [le regole sono norme che connettono precise conseguenze giuridiche a date fattispecie; mentre i principi sono norme, prive di fattispecie, desunti da una ratio comune a una molteplicità di regole e in grado di caratterizzare o l’intero ordinamento o un particolare sotto settore di questo. I principi possono essere espressi (si pensi al principio di eguaglianza, art. 3 Cost.) o inespressi (si pensi al principio di tutela dell’affidamento ricavato dalle disposizioni sull’errore quale causa di annullamento del contratto –art-1428- dalle disposizioni sugli effetti della simulazione rispetto ai terzi e ai creditori – art. 1415 e 1416; dalle disposizioni che limitano la opponibilità ai terzi della modificazione o revoca della procura- art.1396)].

La teoria dell’interpretazione del diritto presuppone l’esistenza di un ordinamento giuridico, cioè di un insieme di fonti del diritto gerarchicamente (il principio gerarchico è quel principio in base al quale in caso di conflitto tra norme gerarchicamente ordinate quella di grado inferiore deve considerarsi invalida) e coerentemente (il principio di coerenza presuppone modelli di risoluzione delle antinomie normative. Si ha antinomia normativa ogni qualvolta 2 diverse norme connettono ad una stessa fattispecie singolare e concreta 2 conseguenze giuridiche tra loro incompatibili. I metodi più noti di risoluzione delle antinomie sono: il criterio si specialità; il criterio cronologico; il criterio gerarchico) organizzato (art.1 Preleggi). La giurisprudenza, potendo contribuire alla formazione del diritto, deve essere annoverata tra le fonti del diritto? ( la nozione di fonte del diritto evoca problemi teorici di rilevante portata perché legati al modello di organizzazione e struttura di un dato ordinamento e alla capacità di individuare fattori in grado di dar vita a regole precettive destinate alla generale osservanza). Nel nostro ordinamento al giudice è demandato il compito di amministrare la giustizia (art. 101 cost.), compito che svolge attraverso l’interpretazione della legge (art. 12 preleggi); il giudice è soggetto solo alla legge e nel pronunciare sulla causa deve seguire le norme di diritto salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità (art 113, comma 1 Cost.). Tuttavia, l’equità non equivale a mero arbitrio. Secondo alcuni autori, ciò non vuol dire che la giurisprudenza contribuisce alla formazione del diritto oggettivo, essendo questa una competenza demandata, nel nostro sistema, alle assemblee elettive e,infatti, nel nostro ordinamento la giurisprudenza non rientra formalmente nel sistema delle fonti del diritto. La realtà, però, è diversa in quanto il significato effettivo di una data disposizione è quello reso, in sede di applicazione, dall’interpretazione fattane dal giudice. Da questo punto di vista, vi sono una serie di ipotesi nelle quali i criteri applicativi non sono determinati dal legislatore e così l’interpretazione giurisprudenziale svolge una vera e propria funzione normativa: si pensi, nel c.c. alla diligenza del buon padre di famiglia (art.1176); al buon costume (art.1343); alla buona fede (1376); alla giusta causa di recesso (2119). In realtà, attraverso le c.d. clausole generali il legislatore delega al giudice la formazione della norma da applicare al caso concreto e ciò impedisce di considerare presente nel sistema, in mancanza di una norma specifica, una lacuna. Nel nostro sistema manca, poi, la regola dello stare decisis che caratterizza il sistema anglosassone e nel nostro ordinamento la sentenza non ha effetti ultra partes, nel senso che non è vincolante per giudici diversi da quelli che l’hanno emessa. Il mero fatto che una data questione giuridica sia stata già risolta in un certo modo non offre alcuna garanzia che, se riproposta, sia risolta negli stessi termini.

Tuttavia, non è vero che il precedente giurisprudenziale abbia solo un valore persuasivo e sia privo di autorità. Si pensi: all’articolo 65 dell’ord. Giud. che attribuisce il potere-dovere di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale; all’art. 111, comma 6 Cost. in base al quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati: regola che impone ai giudici il dovere di conoscere la giurisprudenza (a tali principi si raccordano una serie di norme del ricorso per cassazione e l’art. 68 che prevede la massimazione ufficiale delle sent. della cassazione).

In altri termini, l’interpretazione è un atto del giudice che ha un contenuto conoscitivo strumentale alla risoluzione di un conflitto giuridico tra gli interessi delle parti che si contrappongono nel processo, quale luogo proprio in cui questa attività viene svolta. L’interpretazione del giudice, in generale, non è un atto di mero arbitrio e infatti da un lato ha un limite oggettivo, rappresentato dalle argomentazioni tecniche delle parti che si confrontano nel processo e rispetto alle quali il giudice deve prendere posizione; dall’altro lato, si muove all’interno di un sistema composto da definizioni legali, regole operative, precedenti giurisprudenziali.. La scelta interpretativa del giudice, in materia di contratti, invece, non è condizionata dalle prospettazioni fatte dalle parti in conflitto. L’autonomia del giudice (c.d. principio dispositivo) deriva dal fatto che a lui spetta la qualificazione giuridica della fattispecie da cui scaturisce sia l’individuazione dell’oggetto su cui cade il giudizio (bene della vita assicurato dall’ordinamento) che le posizioni giuridiche delle parti. Va, però, aggiunto che il sindacato del giudice si muove (essendo la struttura del processo a carattere partecipativo) all’interno delle componenti di fatto sottoposte dalle parti in lite e dalla loro condotta processuale e ciò significa che il giudizio sulle componenti di fatto appartiene sì al procedimento interpretativo per il fatto che la qualificazione della fattispecie avviene con l’accertamento del fatto e la successiva verifica della sua sussunzione all’interno dello schema-tipo descritto dalla norma, giacchè gli effetti dell’atto di autonomia si producono solo attraverso la mediazione di una fattispecie legislativamente prevista. Va rilevato, però, che se si lascia al giudice un ampio margine di controllo delle condizioni di esercizio del potere contrattuale, può determinarsi una instabilità nei rapporti tra soggetti che saranno portati a non ritenere sufficiente la corrispondenza del contratto agli schemi normativi che ne determinano struttura e funzione.

L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO E L’INDAGINE SULLA “COMUNE INTENZIONE DELLE PARTI”.

Nella teoria generale dell’interpretazione della legge si colloca quella dell’interpretazione del contratto. Il codice detta agli articoli da 1362 a 1371 la disciplina sull’interpretazione del contratto [il legislatore ha fissato in questi articoli un vero e proprio procedimento interpretativo scandito dal succedersi di passaggi che possiamo così sintetizzare:

a)determinazione dell’ampiezza e dell’effettivo contenuto della dichiarazione da interpretare (risultante dal testo contrattuale);

b) ricostruzione della fattispecie totale:comprensiva delle trattative e dei comportamenti tenuti dalle parti in sede di esecuzione;

c) successiva qualificazione giuridica della fattispecie (principio di adeguatezza funzionale o di qualificazione);

d) conseguenza che discendono dalla natura del contratto in ordine alla validità, all’efficacia e agli effetti.

Il primo presupposto per l’interpretazione è che essa sia necessaria; quando non è necessaria (come nel caso in cui il contenuto della dichiarazione è univoco) vale la regola in claris non fit interpretatio. Va osservato che questo principio (cioè l’accertamento stesso dell’univocità e della chiarezza di una dichiarazione) costituisce già di per sé un giudizio interpretativo. Ciò rende discutibile il valore di questa regola interpretativa. Il secondo presupposto è quello della possibilità dell’interpretazione. Con ciò si allude al fatto che non vi può essere interpretazione quando non è ravvisabile alcun senso della dichiarazione; mentre vi è spazio per l’interpretazione quando la dichiarazione appare contraddittoria]. Si è soliti distinguere le diposizioni che indagano sull’intento delle parti (interpretazione soggettiva) da quelle la cui applicazione discende dal permanere di dubbi sui quali sia stata la comune volontà delle parti (interpretazione oggettiva). (nei sistemi di common law l’interpretazione del contratto è stata a lungo caratterizzata dalla priorità del criterio della letteralità. Negli ultimi anni, nella ricostruzione della volontà contrattuale si tende a differenziare la interpretazione,intesa come esegesi della volontà espressa, dalla construction, diretta a ricostruire la volontà secondo criteri oggettivi. Una funzione correttiva è svolta dalla Golden Rule, secondo la quale l’interpretazione della volontà delle parti di un contratto deve evitare risultati assurdi).

L’articolo 1362 definisce l’interpretazione come indagine volta a ricercare la comune intenzione delle parti al momento della conclusione del contratto. La comune intenzione delle parti va intesa come valore giuridico espresso dal contratto, nel senso che proprio attraverso il contratto il legislatore attribuisce alle parti il potere di regolare i loro interessi. La prima regola del procedimento interpretativo riguarda la decifrazione del senso letterale delle parole alla luce degli altri fatti che valgono a svelare la comune intenzione. Il comma 2 dell’art. 1362 fornisce un sussidio a questa prima fase dell’operazione ermeneutica attribuendo rilevanza, per determinare la comune intenzione delle parti, al comportamento delle stesse, anteriore e successivo, alla conclusione del contratto (elementi extratestuali).


Hanno funzione sussidiaria al principio ex art.1362 le 3 regole contenute negli articoli:
1) 1363, secondo cui le clausole contenute in un testo complesso vanno interpretate anche con il metodo sistematico, cioè tenendo conto della posizione della clausola nel testo e della relazione tra la clausola oggetto dell’interpretazione e le altre clausole;
2) 1364, che impone di restringere il significato del contratto agli oggetti che risultano dall’indagine effettuata sullo stesso;
3) 1365, che consente di allargare il significato del contratto a casi a cui si può estendere secondo ragione.

Principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni del contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, escludendo, ove esse indichino un contenuto preciso, che l’interprete possa ricercare un significato diverso da quello letterale in base ad altri criteri ermeneutici, il ricorso ai quali presuppone la dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale (per Irti va tenuto distinto l’accordo che è il contenuto del contratto, oggetto dell’interpretazione, dalla comune intenzione che è il comportamento complessivo delle parti e il loro contegno anche al di fuori del contratto). Il significato prescelto dal giudice nella controversia interpretativa deve essere il più conforme non solo alle previsioni normative (interpretazione oggettiva) ma anche al criterio della buona fede dettato dall’art. 1366.

L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO E I CRITERI SUSSIDIARI.

Il criterio di valutazione secondo buona fede, ex art. 1366, esprime un dovere di comportamento esterno alla struttura contrattuale e rappresenta l’insieme degli obblighi specifici che scaturiscono di volta in volta da fattispecie determinate: detta, cioè, una regola di comportamento all’interprete.

L’articolo 1371, che rimette all’equità del giudice il compito di contemperare gli interessi delle parti ogni qual volta il senso del contratto resta oscuro, è una norma che ha funzione sussidiaria non distante alla regola di cui all’art. 1366 nella misura in cui lascia intravedere il fine avuto di mira dal legislatore nel dettare la disciplina del contratto: fine che è quello di ricercare una soluzione giusta del conflitto d’interessi, garantendo un oggettivo equilibrio nelle sfere patrimoniali dei contraenti. Secondo un orientamento della giurisprudenza il criterio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede ha carattere sussidiario rispetto a quello dell’interpretazione letterale: ciò significa che laddove alla luce di una interpretazione letterale del contratto risultasse già chiara l’intenzione delle parti, non sarebbe possibile fare ricordo a criteri di interpretazione oggettiva come quello della buona fede (in claris non fit interpretatio) ; in giurisprudenza affermano il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi riferimento a criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all’individuazione del comune intento dei contraenti. Verso la fine degli anni ’90 dello scorso secolo comincia a prende corpo l’idea secondo la quale la clausola della buona fede (1366) abbia carattere principale e non sussidiario e che, quindi, andrebbe applicata anche quando il contratto sia chiaro, correggendo in tal modo la volontà delle parti e in tal senso la buona fede è esterna alla struttura del contratto (ad esempio la sent. Cass. 2992/2004 ha dichiarato che la clausola secondo la quale il promittente alienante deve provvedere alla cancellazione dei vincoli sull’immobile al più tardi alla data del rogito deve essere intesa, perché sia conforme a buona fede, nel modo seguente: in tempo utile affinchè il promissario acquirente possa ottenere dalla banca la concessione di un mutuo ipotecario. Il contratto, benché chiaro sul piano letterale, è apparso incroguo in quanto lesivo dell’interesse del promissario acquirente a che il bene oggetto della promessa di vendita venisse liberato dal mutuo ipotecario in tempo utile per consentirgli di poter costituire egli stesso un’ipoteca su quel bene a garanzia del mutuo bancario indispensabile al pagamento del corrispettivo).

In sede di interpretazione, un ruolo importante è svolta dal principio di conservazione, ex art. 1367, per il quale il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. Questa norma è ritenuta di completamento di quanto disposto dall’art. 1362 in quanto tendente ad attribuire al contratto una portata conforme all’effettiva volontà delle parti.

Se l’interpretazione del contratto rappresenta lo strumento per commisurare il contenuto della determinazione volitiva alla situazione effettuale, non si può ignorare la partecipazione alla stessa situazione di altre fonti attraverso cui il legislatore protegge interessi collegati a situazioni soggettive che preesistono o precedono la conclusione del contratto (ad es. l’interesse della p.a; quello del lavoratore dipendente o del consumatore). Il dato problematico che sorge è quello della compatibilità tra i criteri interpretativi della volontà delle parti e quelli che presiedono l’interpretazione di effetti direttamente regolati dal legislatore.

Si pensi, ad esempio, ai contratti pubblici (quelli individuabili per il fatto che una parte è la pubblica amministrazione) nei quali la comune intenzione delle parti si sostanzia nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che ne funzionalizzano l’attività, finalizzata al perseguimento di interessi pubblici. In dottrina al fatto che le norme (articolo 2 e 6 ) dettate nel codice dei contratti pubblici richiamano il principio di correttezza che altro non sarebbe che una manifestazione della buona fede, da porre a base del’interpretazione del contratto pubblico. Ma quest’argomentazione è criticabile in quanto le norme richiamate riguardano le modalità e le condizioni di esercizio dei poteri pubblici e non condizionano la conformazione strutturale dell’atto. È allora il richiamo alla buona fede potrebbe richiamarsi non sulle norme citate ma in base alla regola, ex art. 1366, che riguarda la posizione dell’interprete rispetto al contratto. L’eventuale posizione della p.a. delle norme di correttezza e di buona fede non incidono sulla validità del contratto ma troverebbe rilievo sul piano delle invalidità dei provvedimenti amministrativi o del risarcimento del danno.

Rispetto alle norme codicistiche sull’interpretazione vi sono delicate questioni in materia di contratti di lavoro; vi è chi sostiene che il tema dell’interpretazione del contratto collettivo vada collocata nel diritto comune dei contratti (al riguardo ricordiamo la metafora di Carnelutti seconda la quale il contratto collettivo ha “il corpo del contratto e l’anima della legge); e chi sostiene il carattere di atto normativo del contratto collettivo con l’applicazione del canone interpretativo della legge. Se è indubbio che il contratto collettivo rientra nella nozione di contratto ex art. 1321 c.c., altrettanto vero è che esso è in grado di realizzare gli effetti tipici di un atto normativo, fungendo da fonte di regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro. All’interpretazione del contratto collettivo, allora, si applicano i criteri ex art. 12 delle preleggi (riferiti alla legge, atto normativo generale) o quelli ex art. 1362 e seguenti (riferiti al contratto, atto di autonomia privata)? La dottrina, difendendo la natura privatistica del contratto collettivo, ha affermato l’applicabilità dei criteri codicistici di ermeneutica contrattuale, ponendo l’accento sui criteri oggettivi, di cui agli articolo 1367-1371, in quanto più idonei a guidare l’interpretazione di un atto, quale il contratto collettivo, dalla rilevante attitudine regolativa. La giurisprudenza, invece, ha considerato il contratto collettivo alla stregua di una legge di categoria, stante la sua funzione di regolazione uniforme dei rapporti di lavoro, e ciò significa prospettare una interpretazione della norma di legge. Gli sviluppi legislativi più recenti (2006) hanno finito per sganciare sempre più l’inquadramento formale dei negozi di autonomia collettiva nel diritto comune dei contratti anche se non mancano interpretazioni dottrinali che cercano di dimostrare la compatibilità tra la qualificazione negoziale del contratto collettivo e il suo atteggiarsi quale atto normativo, soprattutto se si condivide la prospettiva dell’allargamento della nozione di norma, che può ricomprendere anche quelle poste da negozi giuridici privati. In questa prospettiva è stato rilevato che l’affievolimento delle distanze tra autonomia negoziale e legge sarebbe visibile proprio nel caso del contratto collettivo di lavoro. Gli articoli 34 e 35 del codice del consumo rappresentano le norme fondamentali d’interpretazione del contratto del consumo. Il richiamo alle norme del codice civile si ha solo in caso di lacune e nel caso in cui il contratto si è concluso sulla base di una trattativa individuale; l’articolo 34 dà rilievo alle clausole di un altro contratto collegato o dipendente e alle circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto. Non sembra che la comune intenzione delle parti possa essere strumento utile di indagine conoscitiva; l’articolo 35 cod.cons. impone che il contratto sia redatto in modo chiaro e comprensibile; ove ciò non fosse prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore.

 

 

 

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