Con la formula ‘abuso del diritto’ si tende ad indicare un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto, del diritto soggettivo, il cui riconoscimento, come si insegna, implica l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione, di libertà e di forza.
Come può evincersi dalla radice etimologica del termine (ab-uti), si ha abuso nel caso di uso anormale del diritto, che conduca il comportamento del singolo (nel caso concreto) fuori della sfera del diritto soggettivo esercitato, per il fatto di porsi in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico positivo. Un siffatto comportamento ‘abusivo’ costituisce, quindi, un illecito (a seconda dei casi aquiliano o contrattuale, se trattasi, rispettivamente, di diritto reale o di credito), sanzionato secondo le norme generali di diritto in materia.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni ’30 riteneva che l’abuso del diritto, più che essere una nozione giuridica, fosse un concetto di natura etico-morale, con la conseguenza che colui che ne abusava veniva considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.
Tale contesto culturale, unitamente alla preoccupazione per la certezza del diritto, attesa la grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell’abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che venisse trasfusa nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942 quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto”.
In questo modo il codice italiano si poneva in contrasto con la legislazione di altri ordinamenti, in particolare tedesco e svizzero, contenenti, per contro, una norma repressiva dell’abuso del diritto. Il modello tedesco reca, infatti, la regola, frutto di generalizzazione dell’antico divieto di atti di emulazione, secondo la quale “l’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri” ; l’art. 2 del codice civile svizzero ha adottato la più ampia formulazione secondo la quale “il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge”.
Il legislatore del ’42 ha, pertanto, preferito ad una norma di carattere generale norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti.Nella trama del codice civile può, infatti, rinvenirsi :
a) l’espressa indicazione di fattispecie abusive (art. 330, relativo all’abuso della potestà genitoriale ; art. 1015, relativo all’abuso del diritto di usufrutto ; art. 2793, relativo all’abuso della cosa da parte del creditore pignoratizio) ;
b) disposizioni sanzionatrici di alcuni atti, la cui ratio è ravvisabile nella esigenza di repressione di un abuso del diritto (art. 1059, comma 2, che impone al comproprietario, che - agendo ex se - ha concesso una servitù, di non impedire l’esercizio di tale diritto ; art. 1993, comma 2, c.c., cui vanno aggiunti gli artt. 21 l. camb. e 65 l. ass.) ;
c) disposizioni di maggiore ampiezza, considerate valide per intere categorie di diritti (art. 833, che, pur relativo al diritto di proprietà, è stato utilizzato come norma di repressione dell’abuso dei diritti reali in genere ; artt. 1175 e 1375 che, attraverso la clausola della buona fede, hanno consentito in tempi recenti alla giurisprudenza, su suggerimento della dottrina più avvertita, di sanzionare, in termini di illecito contrattuale, l’abuso di diritti relativi o di credito).
Sebbene in giurisprudenza emerga la tendenza ad utilizzare soprattutto gli artt. 1175 e 1375 per sanzionare come abusivi comportamenti contrastanti con le regole della correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori e contrattuali, e sebbene l’art. 833 sia stato talora ritenuto dai giudici espressione di un principio generale di divieto di esercizio abusivo del diritto, in dottrina si riscontra un animato dibattito circa la questione se le norme citate possano considerarsi specificazioni generali di un principio più generale, quello appunto dell’abuso del diritto, insito ed immanente all’ordinamento (e per questo non codificato), o se piuttosto siano settoriali e circoscritte, quasi un’eccezione alla regola generale per la quale l’esercizio del diritto è sempre legittimo (in ossequio al brocardo ‘qui iure suo utitur neminem laedit’) e non può, quindi, essere fonte di responsabilità.
E’ chiaro che si perviene a soluzioni opposte a seconda che si privilegi l’esigenza di certezza del diritto, ovvero l’esigenza di adeguare il dato positivo ai nuovi valori emergenti nella coscienza collettiva (e, tra questi, al principio di solidarietà sociale - art. 2 Cost. - e della funzione sociale della proprietà - art. 41 Cost. -).
Inizialmente, si è discusso, in giurisprudenza e in dottrina, di abuso del diritto con riguardo pressocchè esclusivo al campo dei diritti reali, coniando la definizione che potremmo definire classica di ‘abuso del diritto’, secondo la quale questo è ritenuto sussistente “ogniqualvolta un diritto attribuito dalla legge venga utilizzato dal suo titolare in modo non confacente alla funzione economico-sociale per la quale esso è stato protetto, allorchè quindi esso sia esercitato per realizzare finalità diverse da quelle per le quali il diritto è stato riconosciuto e contrastanti con valori protetti dall’ordinamento”. In questa tendenza ricostruttiva il parametro normativo di riferimento è stato prevalentemente l’art. 833 c.c. e la sanzione comminata per l’esercizio accertato abusivo del diritto si è esaurita nel riconoscimento della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c..
Nella più recente giurisprudenza si ravvisa la tendenza ad estendere la verifica di un possibile abuso all’area dei diritti di credito, individuando il criterio di accertamento nella clausola generale della buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente ampliamento dello spettro dei mezzi di tutela, allargati a ricomprendere quelli tipici dell’inadempimento contrattuale (considerando l’obbligo di buona fede come integrativo del contenuto del contratto).
Se ne può ricavare una nozione variegata di abuso del diritto, che, nel caso di diritti reali, descrive un comportamento che supera o addirittura mortifica la ratio della norma attributiva del diritto medesimo ; nel caso di diritti relativi, indica la violazione del dovere (contrattuale) di buona fede : in entrambi i casi, comunque, esprime una violazione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., di cui la buona fede nei rapporti obbligatori e contrattuali costituisce applicazione, secondo la migliore dottrina.
La Corte di Cassazione con sentenza 20106 del 2009 (Cass. III Civile, 18 settembre 2009, n. 20106) introduce la figura dell’abuso del diritto, criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva. La questione relativa all’abuso del diritto evoca,dunque, una violazione non di tipo formale: disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio. In questa prospettiva la clausola generale della buona fede è stata utilizzata proprio per scongiurare tali abusi:
1)
si sfata il mito per cui il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull’autonomia privata, poiché come è facilmente intellegibile rebus sic stantibus ciò che viene tutelato è non già l’interesse del contraente debole (con una, questa sì illecita, intromissione nell’autonomia privata), bensì un interesse metaindividuale dell’ordinamento.
2) il giudice di merito riconosce la impossibilità di considerare come obbligazioni sostanziali ed autonome gli obblighi di buona fede e correttezza mentre la Corte di Cassazione supera questo orientamento ritenendo tali obbligazioni integrate ipso iure dall’ordinamento in un negozio giuridico e la loro violazione può essere fonte anche di risarcimento del danno.
La conclusione della Cassazione è che ormai anche l’abuso del diritto è divenuto un criterio per valutare i rapporti negoziali, e che la buona fede con cui il giudice dovrà interpretare il contratto (art.1366 c.c.) impone a quest’ultimo nel caso in cui il negozio «evolva in chiave patologica» di riequilibrare gli interessi in gioco, passando al vaglio dei principi di ragionevolezza e proporzionalità il contratto, formalmente inteso, e la sua concreta esecuzione.
La Cassazione, negli anni sessanta (sent. 15/11/1960 n. 3040), aveva rinvenuto nell’art. 833 l’espressione di un principio generale di divieto dell’abuso del diritto di proprietà e, più in generale, di qualsiasi diritto.
Si era, infatti, ammesso che “il proprietario potesse commettere un illecito anche se dal suo contegno poteva ritrarre utilità, quante volte egli perseguisse scopi non rispondenti a quelli per i quali il diritto di proprietà è protetto dall’ordinamento positivo”
In questa occasione i giudici di legittimità avevano riconosciuto che del diritto di proprietà si potesse abusare anche con comportamenti omissivi, attraverso, ad es., “il mancato o anormale uso della facoltà di agire in difesa del diritto per rimuovere una situazione che risulti dannosa, non solo per il titolare del diritto stesso (legittimato ad agire in giudizio), ma anche per altri”.
Il passo in avanti compiuto dalla Suprema Corte stava nel superamento del principio ‘qui iure suo utitur neminem laedit’ : il danneggiante risponde per fatto illecito anche se ha agito ‘iure’, nell’esercizio del proprio diritto, se di questo egli ha abusato. La proprietà era ‘ius utendi’, non ‘ius abutendi’ ; si poteva, allora, coniare un nuovo brocardo : ‘qui iure suo abutitur alterum laedit’
L’innovazione stava, inoltre, nella portata generale che si riconosceva, oltre l’ambito dei contratti, al canone della buona fede, elevato a criterio di valutazione dell’esercizio di qualsiasi diritto soggettivo, e persino del diritto di proprietà.
L’abuso del diritto trovava sanzione, in questa fattispecie, unicamente nella responsabilità aquiliana del proprietario che del suo diritto aveva abusato.
La lettura data dalla Cassazione all’art. 833 nel citato arresto del ’60 non ha, tuttavia, trovato pratica applicazione negli anni successivi, essendo invalsa nella giurisprudenza di legittimità una sorta di ‘interpretatio abrogans’ della norma in questione, relegata entro confini piuttosto ristretti.
Il compimento di atti emulativi non è diretto a soddisfare alcun interesse meritevole di tutela ed in particolare quell'interesse economico in vista del quale il diritto di proprietà è riconosciuto, in quanto posto in essere non al fine di trarre una qualche utilità dal bene, ma semplicemente allo scopo di nuocere ad altri.
E’ infatti costante l’indirizzo secondo cui, perché un atto possa considerarsi emulativo (id est, abusivo), occorre la coesistenza di due elementi : uno di carattere soggettivo, consistente nell’animus nocendi o aemulandi, cioè nell’intenzione del proprietario di arrecare pregiudizio o molestia ad altri, con relativo onere probatorio a carico del danneggiato ; l’altro elemento, di carattere oggettivo, consistente nella totale assenza di utilità che derivi al proprietario dall’atto compiuto, sicchè basta ad escludere il carattere emulativo dell’atto l’esistenza di un’utilità anche minima, infinitesimale per il proprietario.
Il descritto indirizzo è stato portato alle estreme conseguenze da una pronuncia della Suprema Corte, sul finire degli anni novanta (Cass. sez. II civ. 20/10/1997 n. 10250), in cui si è ritenuta non emulativa la mancata potatura di piante ad alto fusto, che impedisce al proprietario del fondo vicino il godimento del panorama. I supremi giudici, discostandosi dal lontano precedente del ’60, escludono, innanzitutto, dal novero degli atti emulativi i comportamenti meramente omissivi, posto che il termine ‘atti’, che figura nell’art. 833, non potrebbe che intendersi riferito alle sole condotte positive.
Del resto, e in ciò viene ritenuto inesistente l’elemento oggettivo di cui s’è detto, anche un contegno omissivo, come la mancata potatura di piante, comporta comunque, si dice, un’utilità per il proprietario, ravvisabile nel risparmio di spese e di energie psicofisiche necessarie alla potatura.
Il citato orientamento, che ha inferto il “colpo di grazia ad una norma già agonizzante”, è aspramente criticato in dottrina, perché finisce col porre nel nulla l’ambito di applicazione dell’art. 833 e la possibilità, da esso consentita, di reprimere abusi del proprietario : se, infatti, anche un atto negativo, un semplice non facere comporta un’utilità per il proprietario, a maggior ragione sarà utile per costui un atto positivo.
La dottrina in particolare, ritiene che per evitare i risultati aberranti della giurisprudenza si debbano diversamente ricostruire i presupposti applicativi dell’art. 833 c.c.. Precisamente, quanto all’elemento oggettivo, per la qualifica dell’atto come emulativo basta una oggettiva sproporzione tra il pregiudizio altrui e l’utilità del proprietario. Quanto all’elemento soggettivo, si osserva come l’art. 833 c.c., nel suo tenore letterale, non attribuisca rilevanza alcuna all’animus nocendi, in quanto lo “scopo” di cui la norma parla indica chiaramente la finalità oggettiva dell’atto. Si ammette, quindi, la configurabilità dell’atto emulativo anche quando l’atto è stato compiuto non solo senza l’intenzione di nuocere, ma per errore (ammettendosi, però, così una sorta di responsabilità oggettiva del proprietario per i danni che siano derivati a terzi dal suo contegno abusivo).
Sulla stessa linea si pone quell’orientamento dottrinale che, pur ritenendo necessario (e sufficiente) per il carattere emulativo dell’atto, accanto all’elemento oggettivo della sproporzione, comunque un elemento soggettivo, costituito non già dal ‘dolo specifico’ del proprietario, bensì dalla semplice conoscenza, da parte di costui, delle conseguenze del proprio comportamento, esclude il relativo onus probandi a carico del danneggiato. La prova di detta conoscenza dovrebbe, infatti, dedursi, in via presuntiva mediante il procedimento di cui all’art. 2729 c.c., sulla base della suddetta sproporzione (anche qui si arriva sostanzialmente a riconoscere una responsabilità oggettiva o, con formula di fatto equivalente, con presunzione dell’elemento soggettivo, in capo al proprietario che oggettivamente ponga in essere comportamenti che rechino a terzi danni eccedenti la misura consentita dall’utile che il proprietario stesso ne ritrae).
Più sensibile alle istanze della dottrina si è, invece, mostrata la giurisprudenza di merito, la quale ha talora fatto proprio il secondo citato percorso interpretativo dell’art. 833.
La giurisprudenza ha sostanzialmente rinvenuto un’ipotesi di abuso del diritto nel caso del soggetto che, pur avendo acquistato per secondo, da un comune alienante, un immobile, si avvalga dello strumento della trascrizione per prevalere sul primo acquirente, trascrivendo per primo.
La Cassazione è giunta al riconoscimento della responsabilità extracontrattuale (sebbene ne siano controversi i presupposti) del soggetto in parola e, quindi, sostanzialmente, alla configurabilità di un abuso del diritto in tale materia, avendo disconosciuto l’operatività nell’ipotesi in questione del principio canonizzato nel brocardo “qui iure suo utitur neminem laedit”. Precisamente, Cass. 8/1/82 n. 79 ha chiarito che l’ingiustizia del danno arrecato al primo acquirente non trascrivente non è esclusa dalla constatazione che il secondo acquirente, sia egli di buona o mala fede, trascrivendo per primo esercita un suo diritto riconosciutogli dall’art. 2644 c.c..
In realtà, tale norma, essendo diretta alla tutela dell’interesse generale alla certezza della circolazione di determinate categorie di beni, non può legittimare un comportamento di per sé illecito perché diretto a privare un soggetto di un diritto già entrato nella sua sfera giuridica.
Sembra, allora, potersi parlare di esercizio abusivo del diritto, perché l’atto di esercizio persegue oggettivamente uno scopo (non meritevole di tutela) che è altro rispetto a quello cui la norma condiziona il riconoscimento e la tutela del diritto stesso.
La Cassazione ha, inoltre, ravvisato abuso del diritto nell’ipotesi di interruzione ingiustificata delle trattative, determinata dall’intervento di un terzo che, inserendosi appunto nelle altrui trattative, ha la meglio riuscendo a stipulare il contratto in fieri inter alios.
Fino agli anni ’60 la giurisprudenza non reputava antigiuridico ai sensi dell’art. 2043 c.c. il comportamento del soggetto che s’inserisce nelle trattative altrui concludendo un contratto “destinato” ad altri, in quanto riteneva una tale condotta esercizio di un diritto - causa di esclusione dell’antigiuridicità - in particolare del diritto alla libertà di iniziativa economica consacrato nell’art. 41 Cost..
A partire dagli anni ’60, invece, si è ravvisata in materia una fattispecie di abuso del diritto, in base al rilievo che chi si intromette nelle trattative inter alios actae intende perseguire un interesse non meritevole di tutela, perché realizzato in violazione del generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., applicabile anche nei rapporti tra privati.
Si è però osservato che siffatta disposizione non si presta ad una generalizzazione in grado di rappresentare una sistemazione della materia. Ne consegue che il dato testuale più prossimo resta quello costituito dalle norme sulla buona fede.
La valorizzazione della clausola generale della buona fede, che, com’è noto, informa l’intera materia contrattuale ed obbligazionale, ha condotto la giurisprudenza più recente ad individuare ipotesi di abuso del diritto anche in tale settore.
Ed invero il divieto di abuso del diritto non costituisce un'autonoma clausola generale, ma esprime una delle finalità della buona fede in senso oggettivo. Abuso del diritto e contrarietà a buona fede sono due principi che si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
Da tempo già la dottrina era concorde nel ravvisare nella responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. la sanzione per il comportamento abusivo della parte che avesse receduto ingiustificatamente dalle trattative: si trattava di una palese violazione del principio che vieta di ‘venire contra factum proprium’.
Proseguendo su tale linea, i giudici appaiono ora propensi ad utilizzare, ai fini di cui trattasi, altresì la buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 cc) . In particolare, intesa quest’ultima come oggetto di un obbligo che entra nel contratto integrandone il contenuto - specificandosi nel dovere (negativo) di non abusare della propria posizione al fine di non aggravare ingiustificatamente la condizione della controparte, nonché, si ritiene, nel dovere (positivo) di attivarsi per salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio delle proprie ragioni - si è visto nella violazione della buona fede un indice sintomatico di abuso del diritto, sanzionato nelle forme tipiche della responsabilità contrattuale o, talora, attraverso rimedi che potremmo definire di ‘esecuzione in forma specifica’.
Possono al riguardo citarsi alcuni casi, venuti all’attenzione della giurisprudenza, emblematici dell’indirizzo interpretativo sopra descritto.
►►► ►►► Celebre il caso Fiuggi: il Comune di Fiuggi aveva concesso ad una società la gestione delle sorgenti, prevedendo che il canone fosse rapportato al prezzo di vendita delle bottiglie di acqua minerale. Tuttavia, la società concessionaria era riuscita nel tempo a mantenere fisso tale prezzo nonostante l’inflazione galoppante, curando di vendere le bottiglie ad una società controllata, deputata a rivenderle a maggior prezzo. L’ “astuto accorgimento”, che evitava alla società concessionaria di subire aumenti del canone di concessione, fu giudicato quale violazione del canone di cui all’art. 1375 e, conseguentemente, quale inadempimento contrattuale, idoneo a giustificare la risoluzione del contratto. Il nesso con l’abuso del diritto era evidente : “all’eccezione ‘feci, sed iure feci’, opposta dalla società concessionaria, poteva essere dal concedente vittoriosamente replicato che dei propri diritti (del diritto di fissare liberamente il prezzo di vendita dell’acqua minerale, tanto da parte sua quanto da parte della controllata) essa aveva abusato, giacchè li aveva esercitati in modo da pregiudicare l’interesse della controparte contrattuale”
Ancora, il parametro di cui all’art. 1375 c.c. ha consentito un sindacato giudiziario sull’atto unilaterale del contraente posto in essere in esecuzione del contratto.
►►► ►►► Così, in materia di contratto di agenzia, la Cassazione (18/12/85 n. 6475) ha ritenuto che il diritto del preponente di rifiutare le proposte dell’agente va esercitato conformemente al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto ; conseguentemente, il rifiuto pregiudiziale di dare corso alle proposte dell’agente (cosiddetto rifiuto sistematico), violando il predetto principio, è fonte di risarcimento del danno.
►►► ►►► Più di recente, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato abuso del diritto nel comportamento della banca che receda in modo imprevisto ed arbitrario dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato ovvero a tempo determinato, ma in cui il recesso sia pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, esigendo l’immediato rientro. La Cassazione (21/5/97 n. 4538) ha, infatti, osservato che, se è vero che nel quadro della disciplina dettata dal codice civile è consentito alla banca (così come al cliente) di recedere in qualsiasi momento da un rapporto di apertura di credito a tempo indeterminato, con il solo obbligo di darne preavviso alla controparte, ex art. 1845, ult. cpv., così come è consentita la recedibilità ad nutum con riferimento ad ipotesi di apertura di credito a tempo determinato, in cui le parti, ex art. 1845, commi 1 e 2, abbiano previsto la deroga alla necessità della giusta causa ai fini dell’esercizio del recesso prima della scadenza, ciò, tuttavia, non implica la totale insindacabilità del modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca. Il diritto potestativo di recesso ad nutum deve, infatti, considerarsi illegittimo, quando, alla stregua di una valutazione secondo buona fede, appaia del tutto privo di ragione giustificatrice e ciò risulti provato dall’altra parte.
Precisamente, il recesso della banca è ritenuto assumere connotati del tutto imprevisti ed arbitrari, quando risulti in contrasto “con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca e all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta”.
In una successiva pronuncia (Cass., sez. I civ. 29/10/99 – 14/7/2000 n. 9321), i giudici di legittimità hanno esteso i superiori principi - id est, sindacato giudiziale della legittimità del recesso della banca, secondo il parametro di cui all’art. 1375 c.c., che ne misuri l’eventuale carattere imprevisto ed arbitrario - all’ipotesi di rapporto di apertura di credito a tempo determinato, in cui il recesso sia consentito in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti.
Secondo il disposto del primo e secondo comma dell’art. 1845 c.c., infatti, nel caso di apertura di credito a tempo determinato, la banca non può recedere prima della scadenza del termine se non per giusta causa, concedendo al cliente un termine di quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori. La norma fa, peraltro, salvo il patto contrario, sicchè le parti possono convenzionalmente derogare alla necessità della giusta causa ed è pacifico che sia derogabile anche il termine di quindici giorni per la restituzione.
Ora, si ritiene che, come le parti hanno facoltà di derogare alla necessità della giusta causa del recesso (ipotesi cui si riferiva la precedente pronuncia della Cassazione), così possono tipizzare le circostanze che legittimano l’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca.
Secondo i supremi giudici, la verifica in concreto dell’eventuale contrarietà a buona fede del recesso deve a maggior ragione ammettersi nell’ipotesi in cui le parti non abbiano derogato alla previsione della necessità della giusta causa, ma ne abbiano tipizzato alcune fattispecie.
In effetti, a voler riconoscere il controllo giudiziale anche in presenza delle fattispecie contrattualmente tipizzate di giusta causa, al ricorrere delle quali il recesso dovrebbe ritenersi senz’altro consentito e, a rigore, insindacabile, si corre il rischio di ledere l’autonomia contrattuale delle parti.
All’obiezione la Cassazione risponde che, considerato che la necessità della giusta causa “costituisce una sorta di antidoto all’abuso del diritto”, il sindacato sulla conformità dell’esercizio del potere di recesso al principio di buona fede, anche in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti del rapporto contrattuale, “non ha per effetto la sostituzione della regola negoziale con una regola giudiziale, con il conseguente stravolgimento dell’economia del contratto, attenendo tale sindacato non alla validità della clausola, che è data per presupposta, ma al comportamento esecutivo. Infatti, come è stato in altra occasione affermato (sent. 2503/91) in tema di esecuzione del contratto la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte”.
►►► ►►► Infine, sono state ravvisate ipotesi di esercizio abusivo del diritto di voto nell’ambito delle assemblee di società di capitali.
Abuso, innanzitutto, da parte della maggioranza assembleare, che approvi una deliberazione ispirata esclusivamente ad proprio interesse extrasociale. L’annullabilità di siffatte delibere viene fondata, dal Supremo Collegio (Cass. 26/10/95 n. 11151), non più sul parapubblicistico eccesso di potere della maggioranza, bensì, appunto, sull’abuso del diritto di voto. I supremi giudici muovono dalla premessa che, “con l’esercizio del diritto di voto, il socio dà esecuzione al contratto di società, sicchè il diritto di voto deve, a norma dell’art. 1375 c.c., essere esercitato secondo buona fede ; la conclusione è che il voto espresso per realizzare un interesse extrasociale, con danno per la minoranza, integra gli estremi dell’abuso del diritto”
La giurisprudenza di merito ha altresì ricostruito ipotesi di abuso del diritto da parte della minoranza assembleare. I soci che rappresentano almeno un quinto del capitale sociale hanno, infatti, il diritto di chiedere ed ottenere la convocazione dell’assemblea. Secondo i giudici, gli amministratori, lungi dal dover valutare esclusivamente i requisiti formali di cui all’art. 2367, comma 1, c.c., hanno il potere-dovere di respingere la richiesta della minoranza, laddove essa appaia illogica, immotivata, determinata da un velleitario spirito di ‘chicane’, ovvero dall’intento di ostacolare sistematicamente il regolare svolgimento dell’attività societaria.
Premesso che, come emerge dalle pronunce giurisprudenziali, all’abuso del diritto l’ordinamento consente di reagire anche al di fuori del modello dell’art. 2043 c.c., occorre verificare quando l’esercizio abusivo del diritto possa considerarsi fonte di responsabilità aquiliana.
Problematica è, soprattutto, l’individuazione degli elementi, descritti dall’art. 2043 c.c., del “danno ingiusto” e del “dolo” o “colpa” del danneggiante, quale necessaria componente soggettiva della condotta lesiva.
Quanto all’ingiustizia del danno, possono essere di aiuto le indicazioni contenute nella celebre sent. 500/99, in cui le Sezioni Unite, nello statuire la natura di norma primaria dell’art. 2043, non meramente sanzionatrice di precetti altrove posti nell’ordinamento giuridico, hanno devoluto al giudice di merito il compito di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, la lesione dei quali soltanto può integrare un danno “ingiusto”. Al fine di accertare il requisito in questione, il giudice deve istituire un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza.
Detta prevalenza, peraltro, va accertata alla stregua del diritto positivo. Nel nostro caso, tuttavia, una volta respinto il principio ‘qui iure suo utitur neminem laedit’, sostituito dall’opposto brocardo ‘qui iure suo abutitur alterum laedit’, non può invocarsi la tutela accodata all’interesse del danneggiante attraverso disposizioni specifiche che gli riconoscono la titolarità di un diritto soggettivo, risolvendo così in radice il conflitto a favore dell’autore dell’illecito, ma bisogna avere riguardo all’interesse al cui soddisfacimento è strumentale l’atto di esercizio del diritto. Occorre, cioè, verificare se detto interesse sia comunque preso in considerazione dall’ordinamento e lo si possa, quindi, considerare meritevole di protezione : la composizione del conflitto con il contrapposto interesse del danneggiato è, quindi, affidata alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si è verificata una rottura del “giusto” equilibrio intersoggettivo, e provvedere a ristabilirlo mediante il risarcimento. Si vuol dire che in tale indagine di natura comparativa, condotta alla luce del diritto positivo, si concreta l’accertamento del requisito dell’abusività, da considerare rilevante sub specie di “ingiustizia” del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c..
E’ probabilmente ad una siffatta indagine che si vuole alludere quando si ripete che si ha abuso del diritto allorchè si persegua una finalità che travalica lo scopo per il quale il diritto stesso è riconosciuto dall’ordinamento : in tal caso, si tende a realizzare un interesse che non appare meritevole di protezione e che pertanto non può prevalere, sacrificandolo, sull’interesse del danneggiato. La medesima idea è verosimilmente sottesa all’indirizzo dottrinale che, in sede di interpretazione dell’art. 833 c.c., richiede l’oggettiva sproporzione tra il vantaggio ricavato dal proprietario e il pregiudizio sofferto dal terzo : essa è sintomatica del superamento dei limiti di protezione del diritto e del fatto che l’interesse perseguito dal titolare è destinato a soccombere nel conflitto con quello del danneggiato.
In effetti, sembra che la comparazione tra i contrapposti interessi di danneggiante e danneggiato si renda necessaria anche quando, nel campo contrattuale, venga utilizzato il canone della buona fede come criterio di valutazione dell’esercizio del diritto, atto a distinguere tra uso ed abuso del proprio diritto (sebbene, in tali casi, i rimedi sanzionatori vengano rinvenuti al di fuori del modello di cui all’art. 2043 c.c.) .
Così, ad es., con riguardo alla questione, a lungo controversa in giurisprudenza, se debba considerarsi legittimo o meno il comportamento del creditore che agisca per l’adempimento parziale del suo credito, dando luogo ad una parcellizzazione dell’unico credito pecuniario in più domande da proporsi innanzi ad un giudice diverso ed inferiore rispetto a quello che sarebbe stato competente a conoscere dell’intero credito, un orientamento delle sezioni semplici della Cassazione ha dato risposta negativa al quesito “sulla base del rilievo che la clausola generale di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.) - operante anche nella fase patologica conseguente al mancato o inesatto adempimento - impedisce di considerare legittimo il comportamento del creditore che, attraverso una anomala tecnica di frazionamento nel tempo delle azioni giudiziarie, prolunghi arbitrariamente, concretando un vero e proprio abuso del diritto, il vincolo coattivo cui deve sottostare il debitore”. Il richiamo ai precetti di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. è, peraltro, integrato, ai fini della valutazione dell’abusività e, quindi, dell’ingiustizia del danno, da un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, del tipo sopra descritto : si afferma, infatti, che il citato comportamento del creditore arreca al debitore un “pregiudizio, non giustificato da un interesse oggettivamente apprezzabile e meritevole di tutela del creditore” (Cass. 6900/97 ; Cass. 7400/97 ; Cass. 11271/97).
Di recente, il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle Sezioni Unite (sent. 5/11/99 – 10/4/2000 n. 108), le quali hanno fatto proprio l’opposto orientamento che si pronunciava per la legittimità del frazionamento della pretesa creditoria in più azioni giudiziarie.
In tale occasione i supremi giudici ordinari hanno, innanzitutto, considerato fuor di luogo il richiamo ai principi di correttezza e buona fede : “non bisogna dimenticare - osservano - che la prima violazione degli anzidetti principi è stata compiuta, in via di ipotesi, dal debitore, il quale è inadempiente alla sua obbligazione”.
La Suprema Corte ha, quindi, contestato l’esattezza dell’esito del giudizio comparativo posto a base dell’accertamento del carattere abusivo della condotta del creditore. Osserva, infatti, che quello del creditore di chiedere giudizialmente un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, è un potere “non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni”.
Sotto il primo profilo, il ricorso ad un giudice inferiore, più celere nella definizione delle controversie e innanzi al quale la lite costa di meno, anche se la sua conclusione non è interamente satisfattiva della pretesa, viene considerato rispondente ad un apprezzabile interesse del creditore, il quale può anche, attraverso questo mezzo, sperare in un adempimento spontaneo da parte del debitore del debito residuo ed, eventualmente, nell’accertamento con effetto di giudicato della sussistenza del rapporto da cui il debito deriva, con indubbio vantaggio - pienamente legittimo - per le ulteriori azioni.
Sotto il secondo profilo, il debitore può adeguatamente tutelarsi, provvedendo a mettere in mora il creditore, offrendogli il pagamento dell’intera somma dovuta ovvero, laddove contesti nella sua interezza il proprio debito, può chiedere, con efficacia di giudicato, l’accertamento negativo circa il rapporto da cui si pretende sorto il debito, con devoluzione dell’intera controversia al giudice superiore ai sensi dell’art. 34 c.p.c. (anche qui, vedi al riguardo considerazioni correttive di cui a nota n. 2).
Ancora, nei casi sopra esaminati parimenti contrassegnati dal ricorso alla clausola della buona fede, i giudici mostrano evidentemente di non poter prescindere da una valutazione circa la meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito dall’autore del comportamento astrattamente abusivo, in rapporto con l’interesse del soggetto pregiudicato.
Così, non può considerarsi meritevole di protezione, alla stregua dell’ordinamento positivo, l’interesse extrasociale della maggioranza assembleare o l’interesse della banca che receda improvvisamente dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato, da considerare soccombente rispetto all’interesse del cliente, la cui aspettativa di disporre della provvista creditizia per tempo previsto va protetta in via preferenziale, perché ragionevolmente fondata su comportamenti usualmente tenuti dalla banca e sull’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto.
Quanto all’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2043 c.c., bisogna tener conto dell’orientamento dottrinale dominante che, risentendo in certa misura dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 833 c.c., ritiene necessaria, ai fini dell’abusività (e quindi dell’illiceità) dell’atto di esercizio del diritto, l’intenzione di nuocere. Ne deriverebbe una restrizione dell’ambito applicativo dell’art. 2043 c.c. ai comportamenti sorretti da un atteggiamento doloso, con esclusione degli atti colposi.
Di un simile orientamento c’è traccia nella comune opinione secondo la quale, in tema di doppia alienazione immobiliare, la responsabilità aquiliana del secondo acquirente-primo trascrivente va delimitata alle ipotesi di mala fede contrattuale, essendo tuttavia controverso se ad integrare quest’ultima occorra l’intento di arrecare danno al primo acquirente oppure basti la consapevolezza del pregresso acquisto non trascritto. Pacifico è, in ogni caso, che tale responsabilità non può estendersi fino a configurare un illecito colposo del secondo acquirente, il quale, ignaro della precedente vicenda contrattuale, faccia affidamento sulla prima legittimazione del suo dante causa. Si ammette, dunque, di essere di fronte ad un’ipotesi in cui l’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c. viene ristretto ai soli casi in cui il comportamento antigiuridico sia supportato dal coefficiente psichico del dolo : non è, infatti, ammissibile aggravare eccessivamente la posizione giuridica del secondo acquirente, facendo incombere su di lui l’obbligo di verificare l’assenza di un precedente atto dispositivo, anche perché quest’ultimo non risulta dai registri immobiliari. Quanto detto per l’ipotesi di doppia alienazione immobiliare, dai più considerata espressione di abuso del diritto, dovrebbe poter valere per gli atti di esercizio abusivo dei propri diritti, in genere.
Non manca, peraltro, chi, muovendo da una lettura in termini oggettivi del fenomeno dell’abuso del diritto, giunge sostanzialmente a ravvisare in capo all’autore dell’abuso una responsabilità di tipo oggettivo, con la conseguenza che il soggetto che ha risentito pregiudizio dall’atto abusivo potrà limitarsi a provare lo sviamento dal fine previsto dalla norma attributiva del diritto, secondo un parametro oggettivo di riscontro, nonché il nesso di causalità tra l’abuso e il pregiudizio subito, non essendo necessaria la dimostrazione di un atteggiamento doloso o colposo dell’autore dell’abuso.
La più recente giurisprudenza, volta a valorizzare il principio di buona fede ai fini dell’accertamento di un possibile abuso anche in campo contrattuale, ha smentito il diffuso convincimento che l’abuso del diritto non produca altra conseguenza se non l’obbligazione di risarcire il danno.
Assunto il dovere di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. come integrativo del contenuto stesso del contratto, la violazione di esso concreta un inadempimento contrattuale, con conseguente applicazione dei rimedi legislativamente previsti per reagire a quest’ultimo (quindi, oltre che 1218 c.c., anche 1453 - ris del c. per inadempiemnto - o 1460 c.c. - eccez. di inadempimento -). Si spiega allora come nel caso Fiuggi si sia pervenuti alla risoluzione del contratto eseguito mala fide, accordando alla parte lesa una più adeguata (rispetto a quella costituita dal mero risarcimento) protezione, consistente nella possibilità di rinegoziare il risolto contratto a più accorte condizioni.
Allorchè, invece, il principio di buona fede sia assunto, come pare potersi desumere dalla succitate pronunce giurisprudenziali, quale criterio indicativo di una mera modalità comportamentale estranea alla trama precettiva del regolamento contrattuale, i rimedi individuati dalla giurisprudenza contro il comportamento contrario a buona fede e, perciò, abusivo, sono sempre di tipo specifico, senza però involgere la sorte del contratto.
Si comprende, dunque, in questa prospettiva come
l’adozione di una delibera da parte di una maggioranza assembleare, che abbia esercitato il proprio di diritto di voto ex art. 2351 c.c. per realizzare un interesse extrasociale, sia sanzionata dall’annullamento di siffatta deliberazione ;
come il rimedio contro una richiesta di convocazione dell’assemblea, avanzata dalla minoranza assembleare per puro spirito di chicane, sia rappresentato dalla reiezione di una tale richiesta o dall’inefficacia della convocazione così - abusivamente - effettuata ;
come la conseguenza dell’esercizio arbitrario ed improvviso del diritto di recesso ad nutum della banca dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato sia la paralisi dell’effettorisolutivo del recesso medesimo.
Di ciò si ravvisa una previsione legislativa espressa nell’art. 1359 c.c., in rapporto con l’art. 1358, che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione. L’art. 1359, infatti, fingendo avverata la condizione mancata per causa imputabile a chi aveva interesse contrario al suo avveramento, fa scaturire dall’abuso del diritto così realizzato, non già la generica obbligazione di risarcire il danno, ma l’efficacia del contratto.
Costituisce, inoltre, una repressione forte (perché specifica) dell’abuso del diritto il diniego di protezione giuridica per chi del proprio diritto abusa, diniego concretantesi o nella reiezione della pretesa o della eccezione o, addirittura, nella perdita del diritto del quale si è abusato.
Appartengono al secondo modello norme come l’art. 330 c.c., che sanziona l’abuso della potestà genitoriale sui figli con la decadenza della potestà medesima, ovvero come l’art. 1015 c.c., che prevede la cessazione del diritto di usufrutto per il titolare che ne abbia abusato.
Rientrano nel primo modello, invece, il caso, prima esaminato, dell’azione volta ad ottenere l’adempimento parziale del credito pecuniario, che, ove ritenuta espressione di abuso del diritto, è sanzionata con la inammissibilità della domanda giudiziale, nonché il caso della abusiva rivendicazione giudiziaria di un diritto, allorchè cioè l’attore abbia adito il giudice nella consapevolezza di non poter ricavare alcuna utilità, allo scopo di nuocere all’avversario. La sanzione, anche in quest’ultima ipotesi, sarebbe teoricamente costituita dalla reiezione della domanda giudiziale ; tuttavia, bisogna tener conto del disposto dell’art. 96 c.p.c. che prevede una responsabilità risarcitoria in capo alla parte soccombente, che abbia agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave.
Un possibile rimedio, individuato dalla giurisprudenza, contro l'abuso del diritto è l'exceptio doli generalis, istituto di matrice romanistica che, secondo l'opinione dominante, trova riscontro nel diritto civile odierno in quanto espressione del principio di correttezza e di buona fede.
In particolare, l'exceptio doli può definirsi come un rimedio generale diretto a precludere l'esercizio fraudolento e sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall'ordinamento.
Pertanto l'istituto è diretto a provocare la reiezione dell’altrui pretesa o eccezione che si manifesti doloso esercizio di un diritto.
Per il diritto romano l’exceptio doli era rimedio generale, in grado di sventare ogni forma di abuso del diritto.
Sue moderne applicazioni sono:
►►► in materia di titoli di credito, gli artt. 1993, comma 2, c.c., 21 e 65 l. camb., 25 e 57 l. ass.. Tali norme, infatti, pur escludendo l’opponibilità al terzo possessore del titolo delle eccezioni personali ai precedenti possessori, la ammettono ove il possessore medesimo abbia agito intenzionalmente (o scientemente) a danno del debitore. E’, allora, possibile la c.d. exceptio doli generalis, essendosi in presenza di un abuso del diritto, posto che l’esercizio del diritto in questione (diritto di credito, connotato dal requisito dell’autonomia rispetto al rapporto fondamentale) travalica la finalità oggettiva della norma che ad esso accorda tutela (salvaguardia della sicurezza dei traffici e dell’affidamento dei terzi);
►►► in materia di contratto autonomo di garanzia, in quanto si riconosce al garante la possibilità di opporre tale eccezione nei confronti del beneficiario che escuta la garanzia senza avere alcun diritto in base al rapporto principale o comunque per un vantaggio ingiusto. Com’è noto, il contratto autonomo di garanzia è un contratto atipico che crea una garanzia personale, come la fideiussione, del tutto svincolata, però, dal rapporto garantito. L’interesse tutelato con la garanzia autonoma è quello all’esecuzione sicura e tempestiva della prestazione, non ritardata da contestazioni sul diritto garantito. Se, tuttavia, le contestazioni risultano già sicuramente fondate (in quanto esistono prove certe ed evidenti circa l’inesistenza o l’estinzione del credito garantito), il creditore che ciononostante si avvale della garanzia, realizza non più l’interesse all’adempimento sicuro e non ritardato, bensì quello (non meritevole di tutela) di appropriarsi di una prestazione non dovutagli.Si pensi ad esempio al caso in cui l'obbligazione sia già stata adempiuta o sia nulla per contrarietà a norme imperative. In questa ipotesi il giudice interviene sull'equilibrio contrattuale per ricondurlo ad equità. Allineandosi alla giurisprudenza francese, la giurisprudenza italiana di merito non è rimasta insensibile all’esigenza di tutela del garante contro un uso distorto della garanzia autonoma, riconoscendo al garante - pur nella inopponibilità delle eccezioni relative al rapporto tra debitore garantito e creditore - la possibilità di opporre l’exceptio doli nei confronti del beneficiario che escuta la garanzia senza averne alcun diritto in base al rapporto principale o, comunque, per un vantaggio ingiusto. Tuttavia, si afferma che il garante possa, anzi debba rifiutare il pagamento esclusivamente in presenza di una prova documentale o, comunque, di una prova certa, evidente e incontestabile dell’inesistenza del debito garantito ; si ammette anche che il garante possa richiedere al giudice la tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. nella forma dell’inibitoria dell’escussione della garanzia, ossia attraverso la sospensione temporanea del pagamento.
►►► in ambito processuale, ove la Corte di Cassazione ha stabilito che il frazionamento di un credito unitario in una pluralità di giudizi è contrario alla regola generale di correttezza e di buona fede e si risolve in abuso del processo, ostativo all'esame della domanda.
►►►in materia di società, nell’art. 2384, comma 2, c.c., che prevede l’inopponibilità ai terzi delle limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori risultanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, anche se pubblicate, salva la prova che i terzi abbiano intenzionalmente agito a danno della società
La tendenza giurisprudenziale odierna è nel senso di applicare il rimedio dell’exceptio doli generalis, in quanto basato sulle clausole generali di correttezza e buona fede, oltre le predette fattispecie legislative, come dimostrano le sue applicazioni in materia di contratto autonomo di garanzia.
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