La riforma dei compensi spettanti agli avvocati dello Stato è stata operata dal legislatore nell'ottica del contenimento della spesa pubblica finalizzato anche al pareggio di bilancio, principio affermato a livello comunitario e recepito nell'art. 81 Costituzione. La norma di cui all'art. 9 del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 non ha natura tributaria in quanto la disposizione non realizza un'acquisizione che venga a fornire copertura a pubbliche spese, ma determina un definitivo risparmio degli esborsi gravanti sulla collettività (TAR puglia n. 170 del 2016)

 

 

sul ricorso numero di registro generale 1963 del 2015, proposto da:
Antonio Livio Tarentini, Grazia Caterina Matteo, Antonella Roberti Vancheri, Simona Libertini, Salvatore Colangelo, Gabriella Marzo, Alessandra Invitto, Dorian De Feis, rappresentati e difesi dagli avv. Massimo Luciani e Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso l'Avv. Ernesto Sticchi Damiani in Lecce, Via 95 Rgt Fanteria, 9;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato, Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Lecce, Via Rubichi;

per l'accertamento del diritto alla integrale corresponsione dei compensi professionali senza le decurtazioni e limitazioni previste dall'art. 9 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, sostituito dalla legge di conversione n.114 del 2014, con conseguente condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento delle somme dovute

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri, di Ministero dell'Economia e delle Finanze, a mezzo di Avvocatura dello Stato e di Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2015 la dott.ssa Jessica Bonetto e uditi per le parti i difensori Ernesto Sticchi Damiani, anche in sostituzione di Massimo Luciani, Giovanni Pedone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
I ricorrenti, tutti Avvocati dello Stato attualmente in servizio presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato con sede in Lecce, hanno agito in giudizio per l'accertamento del diritto alla integrale corresponsione dei compensi professionali, senza le decurtazioni e limitazioni introdotte dall'art. 9 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, così come sostituito dalla legge di conversione n. 114 del 2014.
In fatto gli istanti hanno allegato che:
- nell'esercizio delle proprie funzioni di rappresentanza e difesa in giudizio e di consulenza su questioni tecnico-giuridiche relative all'attività delle Pubbliche Amministrazioni, sino alle modifiche introdotte dal D.L. n. 90 del 24 giugno 2014 e poi dalla legge di conversione n.114 del 2014, il loro status giuridico era regolato dal R.D. n. 1611 del 1933, dalla legge n. 97 del 1979 e dalla legge n. 103 del 1979, normativa che prevedeva il seguente trattamento economico: una quota fissa, commisurata a ruolo, titolo e grado del personale dell'Avvocatura (equiparata, relativamente al quantum, al trattamento dei magistrati dell'ordine giudiziario); una quota variabile riconosciuta in funzione dell'esito delle controversie patrocinate (nel caso di Pubblica Amministrazione "vittoriosa", l'Avvocatura dello Stato doveva riscuotere le competenze di avvocato liquidate nei confronti delle controparti con sentenza od ordinanza oppure pattuite per rinuncia o transazione e ripartire le somme così raccolte per sette decimi tra gli avvocati di ciascun ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati dello Stato; nei casi di transazione dopo sentenza favorevole alle Amministrazioni dello Stato o di pronunciata compensazione delle spese con Amministrazioni non soccombenti, l'Erario corrispondeva all'Avvocatura la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che sarebbero state liquidate nei confronti del soccombente);
- detto regime era stato parzialmente modificato dall'art. 1, comma 457, della l. 27 dicembre 2013, n. 147 che aveva disposto una riduzione temporanea dei compensi liquidati a seguito di sentenza che riconosceva le pubbliche Amministrazioni non soccombenti;
- sull'impianto normativo appena descritto era intervenuto l'art. 9 del d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, convertito nella legge n. 114 dell'11 agosto 2014 che aveva così disposto: i compensi professionali corrisposti dalle P.A., ivi compresa l'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del tetto massimo degli emolumenti di cui all'art. 23 ter del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201; è abrogato il comma 457 dell'art. 1 della l. n. 147 del 2013; nell'ipotesi di sentenza favorevole con condanna della controparte alle spese, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle rispettive Amministrazioni, eccezion fatta per gli avvocati e i procuratori dello Stato; nelle ipotesi di sentenza favorevole con condanna della controparte nelle spese, il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato; un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato; il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all'articolo 1, comma 431, della l. n. 147 del 2013; nei casi di pronunciata integrale compensazione delle spese, ai dipendenti della P.A., ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento già previsto; è demandata ai regolamenti dell'Avvocatura dello Stato la fissazione dei criteri di riparto delle somme recuperate, in base al rendimento individuale e secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto della puntualità negli adempimenti processuali;
- con comunicazione di servizio n. 104 del 2014 il Segretario generale aveva disposto che nel caso di sentenza favorevole con compensazione delle spese non si sarebbero più dovuti inviare i relativi provvedimenti all'Ufficio VIII – liquidazione e recupero onorari.
I ricorrenti, avendo l'art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, così come convertito dalla legge n. 114 del 2014, determinato una modifica peggiorativa dei compensi loro spettanti sia nel caso di liquidazione delle spese legali a carico delle controparti che nel caso di compensazione delle spese, hanno instaurato l'odierno giudizio per sentire dichiarato il loro diritto all'integrale corresponsione degli onorari professionali secondo la previgente normativa, sul presupposto della ritenuta illegittimità costituzionale dell'art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, così come convertito dalla legge n. 114 del 2014, per i seguenti profili:
- violazione degli artt. 3 (principio di ragionevolezza), 97 (principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione) e 36 della Costituzione per avere la norma in esame giustificato la decurtazione dei compensi con la necessità di ridurre la spesa pubblica e premiare la produttività dei professionisti, mentre in realtà da detta disciplina non deriva alcun risparmio certo di spesa (l'eventuale riduzione della spesa pubblica può essere accertata solo a "consuntivo") e l'apportata riduzione stipendiale non può che disincentivare l'impegno degli Avvocati dello Stato, con conseguente danno al buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 della Costituzione); inoltre, la disposizione in esame viola il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) tra Avvocati dello Stato ed altri Avvocati (del libero foro e di altre amministrazioni pubbliche), avendo la norma introdotto la decurtazione degli onorari solo per primi (corresponsione solo del 50% delle somme liquidate in favore dell'Amministrazione in caso di vittoria della causa ed azzeramento dei compensi in caso di transazione e compensazione delle spese con Pubblica Amministrazione); infine la norma, nel disporre che i compensi corrisposti agli Avvocati dello Stato "sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'art. 23 ter del D.L. 201 del 2011", ha erroneamente equiparato tali compensi ai comuni "emolumenti" e "retribuzioni nell'ambito dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni", con ciò privando di adeguata remunerazione (in violazione dell'art. 36 della Costituzione) parte dell'attività svolta dagli Avvocati dello Stato, specie per i casi nei quali il superamento del tetto retributivo risulta determinato semplicemente dall'erogazione unitaria dei compensi relativi all'attività svolta in più anni;
- violazione degli artt. 3, 23 e 53 della Costituzione per avere il legislatore introdotto un vero e proprio "prelievo tributario" nascondendolo dietro la parvenza della "decurtazione retributiva", in violazione dei principi costituzionali che regolano l'imposizione fiscale, quali la riserva di legge e la capacità contributiva;
- violazione degli artt. 3, 4, 23, 36, 42 e 117 della Costituzione per avere la norma in discussione operato una riduzione dei compensi spettanti agli Avvocati dello Stato nei casi di transazione, compensazione ed anche vittoria della Pubblica Amministrazione, con ciò determinando l'effetto, da un lato, di non riconoscere ai professionisti una "remunerazione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto" e, dall'altro, di creare un "indebito ed ingiustificato arricchimento dello Stato" in palese violazione dell'art. 1 del Primo Protocollo della CEDU (e quindi dell'art. 117 della Costituzione) e dell'art. 23 Costituzione che tutelano il diritto ai propri beni, compresi i compensi per prestazioni professionali, e ne vietano la limitazione in assenza di un "motivo inderogabile di interesse generale" che giustifichi tale scelta;
- violazione dell'art. 77 della Costituzione per avere il legislatore introdotto una vera e propria riforma ordinamentale del trattamento economico spettante agli Avvocati dello Stato con decreto legge, in assenza dei necessari presupposti della necessità ed urgenza.
I ricorrenti hanno censurato altresì la disciplina introdotta dall'art. 9 del d.l. 90 del 2014 - così come convertito nella legge n. 114 del 2014 - per ritenuta incompatibilità con gli artt. 3 e 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, nella parte in cui la norma in esame dispone che le decurtazioni sopra citate trovano applicazione "relativamente alle sentenze depositate successivamente all'entrata in vigore del presente decreto" oppure "a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e contratti collettivi di cui al comma 5 da adottare entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto...", e quindi anche con riguardo all'attività difensiva svolta prima dell'entrata in vigore del decreto se relativa a giudizi conclusisi con sentenze pubblicate dopo l'entrata in vigore del decreto; inoltre, i ricorrenti hanno contestato alle Amministrazioni resistenti di avere, con la comunicazione di servizio dell'Avvocatura dello Stato n. 104 del 2014, interpretato in senso ulteriormente peggiorativo detta disciplina, stabilendo la non contabilizzazione in loro favore degli onorari relativi a tutti i provvedimenti giurisdizionali con compensazione delle spese di lite, anche recanti data anteriore all'entrata in vigore del decreto legge n. 90 del 2014.
Infine, i ricorrenti hanno contestato alle controparti le modalità di corresponsione degli onorari, lamentando la violazione delle norme sui termini sul pagamento, condotta dalla quale sarebbe derivato loro un danno ingiusto da quantificarsi in corso di causa, previa acquisizione della documentazione elencata in via istruttoria.
Le amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio contestando le doglianze ex adverso articolate in ordine all'asserita incostituzionalità della disciplina introdotta dall'art. 9 del D.L. 90 del 2014 - così come convertito nella legge n. 114 del 2014 - e, per quanto riguarda la domanda risarcitoria formulata in relazione alle pretese violazioni connesse alle modalità di pagamento degli onorari, ne hanno eccepito l'assoluta genericità, oltre che infondatezza.
La causa, all'esito dell'udienza del 10 dicembre 2015, è stata trattenuta in decisione.
Ad avviso del collegio, sulla base delle difese assunte dalle parti e dei principi applicabili alla materia, il ricorso va respinto.
L'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014, la cui compatibilità costituzionale è stata messa in discussione dai ricorrenti, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 114 del 2014, stabilisce alcune variazioni rispetto alla previgente disciplina dei compensi professionali liquidati agli Avvocati dello Stato e degli altri enti pubblici sia in caso di sentenze nelle quali l'amministrazione sia risultata vittoriosa e la controparte sia stata condannata alla rifusione delle spese di lite in favore dell'Amministrazione e sia nell'ipotesi di pronunce che abbiano disposto la compensazione delle spese di lite.
In particolare la norma così recita:
"1. I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni.
2. Sono abrogati il comma 457 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e il terzo comma dell'articolo 21 del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. L'abrogazione del citato terzo comma ha efficacia relativamente alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione.
4. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati e procuratori dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5. Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, da attribuire previa procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all'articolo 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni.
5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013. Nei giudizi di cui all'articolo 152 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.
7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1ogennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato.
9. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare minori risparmi rispetto a quelli già previsti a legislazione vigente e considerati nei saldi tendenziali di finanza pubblica".
In relazione alla disposizione in esame i ricorrenti hanno sollevato diversi dubbi di costituzionalità, ad avviso del collegio tutti manifestamente infondati per le ragioni che seguono.
Quanto agli artt. 3, 97 e 36 della Costituzione, secondo i ricorrenti la norma contestata sarebbe incostituzionale in quanto nessuna delle ragioni poste dal legislatore alla base della scelta di ridurre i compensi degli Avvocati dello Stato sarebbe fondata e realmente perseguibile con la disciplina in esame.
In particolare, sostengono i ricorrenti, per quanto riguarda l'affermata necessità di ottenere con la modifica normativa in discussione un risparmio della spesa pubblica, l'inidoneità della disposizione a raggiungere tale obiettivo si evincerebbe dalla stessa relazione tecnica del Ministero dell'Economia e delle Finanze di accompagnamento della norma, dove si legge che sotto il profilo finanziario "gli eventuali maggiori risparmi derivanti dalla presente disposizione verranno accertati a consuntivo", con conseguente non pronosticabilità nei documenti di programmazione e di bilancio dei risparmi di spesa sperati.
La tesi, tuttavia, non coglie nel segno, essendo evidente che la relazione tecnica del MEF alla quale i ricorrenti fanno riferimento, ha rinviato "a consuntivo" l'accertamento dei risparmi di spesa ottenibili attraverso la riduzione dei compensi agli Avvocati dello Stato, in risposta al generale principio di prudenza nelle previsioni di finanza pubblica, valevole a maggior ragione nello specifico caso in discussione caratterizzato dall'intrinseca non prevedibilità a priori dell'esito dei contenziosi di cui è parte la Pubblica Amministrazione.
Peraltro, che la riforma in questione sia idonea a determinare un concreto risparmio della spesa pubblica trova conferma nelle stesse doglianze articolate dai ricorrenti i quali si lamentano, infatti, proprio delle minori somme che lo Stato riconoscerà loro per l'attività difensiva svolta sia nei giudizi che vedono l'Amministrazione vittoriosa con condanna della controparte alla rifusione delle spese e sia nelle ipotesi di compensazione delle spese di lite.
Del pari manifestamente infondata è la questione di costituzionalità articolata in relazione all'art. 97 della Costituzione, atteso che detto principio, per consolidata giurisprudenza costituzionale, opera in materia di organizzazione dell'amministrazione e non può, invece, essere invocato in materia di trattamenti economici per affermarne l'intangibilità (vedi le sentenze della Corte Costituzionale n. 304 e n. 314 del 2014 e i precedenti ivi richiamati quali l'ordinanza n. 263 del 2002, l'ordinanza n. 205 del 1998 e la sentenza n. 273 del 1997).
Peraltro, l'obbligo da parte degli Avvocati dello Stato di difendere adeguatamente lo Stato e gli altri enti pubblici garantendo adeguati standard qualitativi e quantitativi nello svolgimento del proprio compito trova la propria ragion d'essere nel rapporto che si instaura tra l'ente e il professionista all'atto dell'assunzione in servizio e non può essere certo parametrato esclusivamente all'ammontare del compenso in quota variabile riconosciuto al difensore, a maggior ragione tenuto conto che quest'ultima viene in ogni caso remunerata con una quota fissa di notevole entità (pari al trattamento economico riconosciuto ai magistrati dell'ordine giudiziario ex artt. 23 del R.D. n.1611 del 1923, 9 della legge n. 97 del 1979 e Tabella B della legge n. 103 del 1979) e quindi tale da costituire compenso adeguato non solo per l'attività non difensionale svolta dagli Avvocati dello Stato, ma anche per il principale compito da essi svolto della difesa in giudizio della Pubblica Amministrazione.
Non può, infatti, sollevarsi alcun dubbio sul rilievo, sulla complessità e sull'impegno che l'attività svolta dai magistrati (finalizzata alla tutela degli interessi dell'intera collettività) comporta e sull'adeguatezza del trattamento economico loro riconosciuto a fronte di tale gravoso impegno.
Da ciò deriva che la parte fissa del trattamento economico assicurato agli Avvocati dello Stato (pari, come detto, al trattamento economico assicurato ai magistrati) deve ritenersi adeguata anche al rilievo, alla complessità e all'impegno connessi alla tutela giudiziale ed extragiudiziale degli interessi della Pubblica Amministrazioni da parte degli Avvocati dello Stato ai quali, peraltro, anche in forza dell'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014, continua comunque ad essere garantito, sebbene in misura minore rispetto a prima, un'ulteriore compenso in quota variabile (pari al 50% delle somme recuperate dallo Stato nel caso di vittoria dell'Amministrazione in giudizio con condanna della controparte alla rifusione delle spese di lite), aggiuntivo rispetto a quello fisso pari al trattamento dei magistrati ordinari, che trova la propria ragion d'essere nel beneficio economico che l'attività difensiva ha portato alle casse pubbliche e nella ripartizione che di tale beneficio ha voluto dare il legislatore, ferma restando l'adeguatezza per l'attività prestata della parte fissa di trattamento economico loro riconosciuta.
Il rilievo attinente alla consistenza ingente del compenso fisso riconosciuto agli Avvocati dello Stato, non inciso dalla normativa in esame, assume importanza anche in ordine ad un altro profilo di incostituzionalità (ex art. 3 della Costituzione) sollevato dai ricorrenti, concernente la lamentata disparità di trattamento che dall'art 9 deriverebbe tra Avvocati dello Stato ed Avvocati del libero foro o di altre amministrazioni ai quali le decurtazioni (corresponsione solo del 50% delle somme liquidate dal giudice in favore dell'Amministrazione vittoriosa e recuperate ed azzeramento dei compensi in caso di compensazione delle spese) non si applicano.
Invero, gli avvocati pubblici diversi da quelli dello Stato sono stati anch'essi colpiti da misure di riduzione del trattamento economico e, in ogni caso, risultano destinatari di una parte fissa della retribuzione molto più bassa di quella riconosciuta agli Avvocati dello Stato (le amministrazioni resistenti hanno al riguardo allegato che dai dati medi annui "lordo dipendente" desunti dal conto annuale 2013 relativi alle due categorie, si evince una retribuzione fissa media per gli Avvocati dello Stato pari a € 152.000 ed una retribuzione media per i professionisti legali II livello degli enti pubblici non economici pari ad € 48.000).
Quanto, invece, agli avvocati del libero foro è evidente la non comparabilità delle due posizioni, atteso che gli Avvocati dello Stato sono dipendenti pubblici e, come tali, risultano beneficiari anche di un trattamento economico fisso (come detto pari a quello dei magistrati dell'ordine giudiziario e di importo superiore rispetto a quello di altre categorie del pubblico impiego), mentre gli avvocati del libero foro, in quanto privati professionisti, sono tenuti ad organizzare la propria attività con mezzi propri, sopportandone quindi anche tutti i rischi.
Infine, palesemente destituita di pregio è la censura inerente l'asserita incompatibilità dell'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014 con l'art. 36 della Costituzione, laddove prevede che i compensi corrisposti agli Avvocati dello Stato "sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'art. 23 ter del D.L. 201 del 2011".
Secondo i ricorrenti tale disposizione, nell'equiparare erroneamente gli "emolumenti" spettanti agli Avvocati dello Stato per l'attività difensiva svolta alle altre "retribuzioni" riconosciute nell'ambito dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, produrrebbe l'effetto di privare di adeguata remunerazione (in violazione dell'art. 36 della Costituzione) parte dell'attività svolta dagli Avvocati dello Stato, a maggior ragione tenuto conto del fatto che il superamento del tetto retributivo per gli Avvocati dello Stato potrebbe essere determinato semplicemente dall'erogazione unitaria dei compensi relativi all'attività svolta in più anni.
La tesi non può essere condivisa.
Invero, il legislatore nel prevedere la computabilità degli onorari professionali ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'art. 23 ter del D.L. n. 201/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 214/2011, non ha affatto frainteso la natura di tali emolumenti, ma li ha giustamente equiparati alle altre "retribuzioni" ritenendo irrilevante ai fini della disciplina in esame la loro correlazione con l'attività di patrocinio legale concretamente espletata a monte e la variabilità e non predeterminabilità di tali somme, atteso che l'art. 23 ter, avendo come obiettivo quello di impedire il riconoscimento di trattamenti economici omnicomprensivi superiori a 240.000 euro annui lordi nell'ambito dei rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione, impone la computabilità di qualsiasi retribuzione o emolumento, comunque denominato, a prescindere dalla natura del compenso elargito.
Mentre il paventato rischio del superamento del tetto retributivo per effetto della mera erogazione unitaria dei compensi riferiti a due o più anni può ritenersi superato in forza della circolare n. 8 del 2012 del Dipartimento della Funzione Pubblica richiamata dalle amministrazioni resistenti che prevede, ai fini del computo degli emolumenti per la verifica del raggiungimento del limite, l'utilizzo del criterio di competenza; peraltro, sul punto i ricorrenti hanno formulate contestazioni del tutto astratte (non è stato prospettato alcun caso concreto nel quale l'utilizzo di tale criterio abbia determinato un cumulo "fittizio" per una annualità di più emolumenti riferiti ad anni diversi in ragione del metodo di contabilizzazione utilizzato dall'ente), sicché anche per tale ragione la doglianza non può essere accolta.
I ricorrenti hanno poi censurato l'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014 in relazione agli artt. 3, 23 e 53 della Costituzione, per avere a loro dire il legislatore introdotto con detta disciplina un vero e proprio "prelievo tributario" nascondendolo dietro la parvenza della "decurtazione retributiva", in violazione dei principi costituzionali che regolano l'imposizione fiscale, cioè quelli di riserva di legge e capacità contributiva.
Anche tali doglianze risultano, tuttavia, manifestamente prive di pregio.
Invero, con la norma in esame il legislatore si è limitato ad apportare delle modifiche alla disciplina dei compensi spettanti agli Avvocati dello Stato e non ha, invece, introdotto nell'ordinamento un nuovo tributo, difettando i requisiti a tal fine richiesti dalla Corte Costituzionale: "gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l'idoneità di tale soggetto all'obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964)" (sentenze n. 304 del 2013 e n. 154 del 2014).
La norma censurata, quindi, sulla base degli indici ora riportati, non può avere natura tributaria in quanto la disposizione non realizza un'acquisizione che venga a fornire copertura a pubbliche spese, ma determina un definitivo risparmio degli esborsi gravanti sulla collettività.

Manifestamente infondati sono poi i dubbi di costituzionalità sollevati dai ricorrenti ex artt. 3, 4, 23, 36, 42 e 117 della Costituzione, per avere la norma in discussione operato una riduzione dei compensi spettanti agli Avvocati dello Stato nei casi di transazione, compensazione ed anche vittoria della Pubblica Amministrazione, con ciò determinando l'effetto, da un lato, di non remunerare l'attività dei professionisti con una "remunerazione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto" e, dall'altro, di creare un "indebito ed ingiustificato arricchimento dello Stato" senza un "motivo inderogabile di interesse generale" alla base di tale scelta e quindi in palese violazione dell'art. 1 del Primo Protocollo della CEDU (e quindi dell'art. 117 della Costituzione) e dell'art. 23 Costituzione.
Invero, la riforma dei compensi spettanti agli avvocati dello Stato è stata operata dal legislatore nell'ottica del contenimento della spesa pubblica finalizzato anche al pareggio di bilancio, principio affermato a livello comunitario, recepito nell'art. 81 Costituzione e per la cui realizzazione la Corte Costituzionale ha già in passato dichiarato la legittimità di disposizioni analoghe (quali quelle di contenimento delle retribuzioni per tutti i pubblici dipendenti o quelle che negli ultimi anni hanno previsto il blocco degli adeguamenti retributivi e della contrattazione), emanate dal legislatore per ridurre la spesa pubblica, nell'ambito delle sue discrezionali scelte di politica economica tese al bilanciamento di tutti gli interessi costituzionalmente rilevanti (vedi ad esempio la sentenza della Corte Costituzionale, n. 304 del 2013).
Né può sostenersi l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014 per il fatto che nei casi di vittoria in giudizio dell'Amministrazione con condanna della controparte alla rifusione delle spese di lite, esso prevede la corresponsione all'Avvocato dello Stato solo del 50% delle spese legali riconosciute dal Giudice, con ciò privando, ad avviso dei ricorrenti, il difensore di un'adeguata e proporzionata remunerazione per l'attività difensiva svolta, arricchendo al contempo ingiustificatamente lo Stato.
Invero, anche tale misura trova piena giustificazione nell'esigenza di realizzare una complessiva riduzione degli esborsi pubblici mentre, per quanto riguarda la remunerazione spettante al professionista, la Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato (vedi sentenze n. 120 del 2012, n. 287 del 2006, n. 310 del 2013 e n. 154 del 2014) che il giudizio sulla conformità al parametro ex art. 36 della Costituzione, stante il principio di onnicomprensività della retribuzione, non va riferito alle singole componenti del trattamento economico riconosciuto all'interessato, ma alla retribuzione nel suo complesso, comprensiva, quindi, nel caso in esame, della quota fissa pari alla retribuzione spettante ai magistrati dell'ordinamento giudiziario che, come già detto, essendo di notevole entità, risulta idonea a remunerare non solo l'attività non difensionale prestata dagli Avvocati dello Stato, ma anche quella della difesa in giudizio della Pubblica Amministrazione.
Nella stessa ottica e per le stesse argomentazioni, ad avviso del collegio, risultano manifestamente infondate anche le censure di asserita incostituzionalità dell'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014 in relazione all'art. 1 del Primo Protocollo della CEDU (e quindi dell'art. 117 della Costituzione) e dell'art. 23 Costituzione laddove tutelano il diritto ai propri beni, compresi i compensi per prestazioni professionali, e ne vietano la limitazione in assenza di un "motivo inderogabile di interesse generale" alla base di tale scelta.
Infatti, la Corte EDU, in recenti pronunce richiamate anche dalle amministrazioni resistenti (Koufay e Adedy c. Grecia, Sez. I, 7 maggio 2013, nn. 57665/12 e 55657/12; Da Conceicao Mateus e Santos Juanario c. Portogallo, Sez. II, 8 ottobre 2013, nn. 62235/12 e 57725/12), ha affermato che le limitazioni al diritto riconosciuto dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU sono lecite se sorrette dal perseguimento della utilità pubblica, intesa nell'accezione più ampia e comprensiva, quindi, anche dell'esigenza di far fronte a contingenze economiche contrassegnate da uno stato di emergenza (quali la grave crisi economica che ha interessato il Paese negli ultimi anni), rispetto alle quali gli Stati vantano ampi margini di discrezionalità nella formulazione dei provvedimenti di politica economica.
Infine, sempre con riguardo alla disciplina a regime introdotta dal D.L. n. 90 del 2014, i ricorrenti hanno sollevato dubbi di costituzionalità in relazione all'art. 77 della Costituzione, contestando al legislatore di avere introdotto con decreto legge una vera e propria riforma ordinamentale del trattamento economico spettante agli Avvocati dello Stato con decreto legge, in assenza dei necessari presupposti della necessità ed urgenza.
Sul punto, tuttavia, la Corte Costituzionale ha costantemente affermato che il sindacato sulla legittimità dell'adozione, da parte del Governo, di un decreto legge deve essere limitato ai casi di "evidente mancanza" dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall'art. 77 della Costituzione, ovvero alle ipotesi di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione (vedi sentenze della Corte Costituzionale n. 171 del 2007, n. 128 del 2008, n. 83 del 2010, n. 93 del 2011, n. 22 del 2012 e n. 10 del 2015).
Nel caso in esame, invece, l'urgenza per il legislatore di adottare le misure in discussione, certamente sussisteva al momento dell'emanazione del decreto legge, risiedendo nell'esigenza di operare in tempi rapidi la riduzione della spesa pubblica
per superare il momento di crisi economica che interessava il Paese in generale e il comparto pubblico in particolare, caratterizzato dal notevole peso del debito pubblico.
I ricorrenti hanno censurato l'art. 9 del d.l. 90 del 2014 anche per ritenuta incompatibilità con gli artt. 3 e 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, nella parte in cui la disposizione in esame dispone che le decurtazioni sopra citate trovano applicazione "relativamente alle sentenze depositate successivamente all'entrata in vigore del presente decreto" oppure "a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e contratti collettivi di cui al comma 5 da adottare entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto...", e quindi anche con riguardo all'attività difensiva svolta prima dell'entrata in vigore del decreto se relativa a giudizi conclusisi con sentenze pubblicate dopo l'entrata in vigore del decreto; inoltre, i ricorrenti hanno contestato alle Amministrazioni resistenti di avere, con comunicazione di servizio dell'Avvocatura dello Stato n. 104 del 2014, interpretato in senso ulteriormente peggiorativo detta disciplina, stabilendo la non contabilizzazione in loro favore degli onorari relativi a tutti i provvedimenti giurisdizionali con compensazione delle spese di lite, anche se recanti data anteriore all'entrata in vigore del decreto legge n. 90 del 2014.
Quanto in particolare a quest'ultimo profilo i ricorrenti sostengono che l'Avvocatura dello Stato, con la comunicazione n. 104 del 20 novembre 2014, avrebbe erroneamente interpretato l'art. 9 del D.L. n. 90/2014 nel senso che la decurtazione degli onorari ivi prevista per le sole sentenze pubblicate dopo l'entrata in vigore del decreto, sarebbe stata estesa anche alle sentenze con compensazione delle spese di lite depositate prima della novella legislativa.
Sul punto, tuttavia, le amministrazioni resistenti hanno chiarito che il Segretario Generale dell'Avvocatura dello Stato, con la comunicazione di servizio predetta, ha in realtà esclusivamente invitato gli uffici competenti all'acquisizione e protocollazione delle sentenze presso i vari giudici a inoltrare direttamente agli avvocati le sentenze recanti la compensazione delle spese di lite senza più provvedere all'ormai inutile invio delle medesime sentenze anche all'Ufficio liquidazione (prima competente all'esazione degli onorari previsti dell'art. 21 del r.d. 1611/33), ma non ha in nessun modo stabilito che la nuova disciplina trovi applicazioni anche con riferimento alle sentenze con compensazione delle spese di lite pubblicate prima dell'entrata in vigore del D.L. n. 90 del 2014, circostanza che trova conferma nel fatto che la delibera in questione è stata adottata il 20 novembre 2014 (e cioè quasi cinque mesi dopo l 'entrata in vigore del citato art. 9), quando le sentenze antecedenti al 24 giugno erano verosimilmente già state tutte acquisite e conseguentemente avviate all'Ufficio liquidazione per la riscossione degli onorari (nessun principio di prova in senso contrario è stato offerto dai ricorrenti), con conseguente insussistenza di qualsiasi rischio di applicazione anche ad esse della disciplina dettata dall'art. 9 del D.L. n. 90 del 2014.
Con riferimento, invece, al primo aspetto sopra evidenziato (applicazione dell'art. 9 a tutti i procedimenti conclusisi con sentenza depositata dopo l'entrata in vigore del D.L. n. 90 del 2014, a prescindere dal fatto che l'attività difensiva dell'Avvocato dello Stato sia stata svolta prima di tale momento), ad avviso del collegio, nessun profilo di incostituzionalità pare configurabile, atteso che il diritto dell'Avvocato dello Stato alla quota di compenso variabile è ricollegato non al mero espletamento dell'attività difensiva, ma alla valutazione della stessa formulata dal giudice con la sentenza, diventando attuale (e ciò anche in base alla previgente disciplina) solo nel momento in cui al termine del procedimento il giudice - a seguito della valutazione dell'attività difensiva - dispone in sentenza la condanna della controparte alla rifusione delle spese di lite ovvero la compensazione delle stesse.
Né può ritenersi in tal modo leso il principio di legittimo affidamento, atteso che per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale nessuna norma costituzionale impedisce la modifica nel tempo dei diritti di natura economica connessi ai rapporti di durata anche di pubblico impiego, così come non esiste alcuna garanzia costituzionale che vieta l'introduzione in questa materia di norme retroattive (vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 304 del 2013 e i precedenti ivi richiamati quali le sentenze n. 31 e n. 1 del 2011; n. 302 del 2010; n. 228 del 2010; n. 74 del 2008).
Infine, i ricorrenti hanno contestato alle controparti la violazione delle norme e dei termini sul pagamento degli onorari, sostenendo che da tale condotta sarebbe derivato loro un danno ingiusto da quantificarsi in corso di causa, previa acquisizione della documentazione elencata in via istruttoria.
Le amministrazioni resistenti hanno eccepito l'assoluta genericità sia della richiesta istruttoria che della connessa domanda risarcitoria.
L'eccezione è fondata.
Invero, nel ricorso gli istanti non hanno in alcun modo precisato quali sarebbero i lamentati ritardi imputabili alle amministrazioni erogatrici dei compensi, né hanno allegato le pretese risarcitorie alle quali sarebbero riconducibili tali ritardi, profili indispensabili per il collegio al fine di vagliare la domanda istruttoria ed entrare nel merito della relativa pretesa risarcitoria, a maggior ragione tenuto conto della complessità del sistema che regola la corresponsione dei compensi agli avvocati dello Stato, così come descritto dalle amministrazioni resistenti nelle proprie memorie difensive.
Pertanto, conclusivamente, stante la manifesta infondatezza di tutte le censure di illegittimità costituzionale articolate in ricorso e ritenuta la genericità della domanda risarcitoria proposta con riferimento alle asserite violazioni dei termini di pagamento degli onorari, il ricorso deve essere respinto.
La novità delle questioni trattate giustifica, tuttavia, l'integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto.
- rigetta il ricorso;
- compensa le spese di lite.

 

 

T.A.R. Puglia, Sez. I, 20 gennaio 2016, n. 170