REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE
composta dai seguenti magistrati:
Arturo Martucci di Scarfizzi Presidente estensore
Angela Silveri Consigliere relatore
Rita Loreto Consigliere
Marco Pieroni Consigliere
Pina M.A. La Cava Consigliere
Chiara Bersani Consigliere
Daniela Acanfora Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio sulle questioni di massima iscritte al n. 420/SR/QM del registro di Segreteria delle Sezioni riunite, deferite dal Procuratore generale con atto depositato il 15.9.2014, con riferimento ai seguenti giudizi:
1) n. 46290, pendente dinanzi alla Sezione I giurisdizionale centrale d’appello, proposto da MOROCUTTI Augusto, rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Fioravanti ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Mauro Pelo in Roma, Via G. Carducci n. 4, avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana n. 173/2013;
2) n. 5199 pendente dinanzi alla Sezione d’appello per la Regione Sicilia, proposto dal Procuratore regionale avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia n. 654/2014 del 20 maggio 2014.
Visti l’atto di deferimento e gli altri atti di causa.
Vista l’ordinanza del Presidente della Corte dei conti n. 16 del 18 dicembre 2013 ORDP-UOPROT-P, con la quale il Presidente della Corte dei conti ha individuato i criteri per la composizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti per l’anno 2014;
Vista l’ordinanza del Presidente della Corte dei conti n. 2 del 17 gennaio 2014 ORDP-UOPROT-P, con la quale il Presidente della Corte dei conti ha determinato, per l’anno 2014, la composizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale, di controllo, deliberante e consultiva;
Visti il decreto presidenziale n. 159 del 9 settembre 2014 con il quale sono stati costituiti i Collegi delle Sezioni riunite per le udienze previste per i mesi da ottobre a dicembre 2014, nonché il decreto di fissazione d’udienza e di nomina del relatore;
Uditi nella pubblica udienza del 10 dicembre 2014 il relatore, Consigliere Angela Silveri, l’Avv. Alessandro Fioravanti per Morocutti Augusto e il P.M. in persona del Vice Procuratore generale Sergio Auriemma.
RITENUTO IN FATTO
Con atto depositato il 15 settembre 2014 il Procuratore generale presso la Corte dei conti ha deferito a queste Sezioni riunite le seguenti questioni di massima:
1) “Se l’art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e successivamente rettificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche nella legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui dispone che «le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», debba intendersi riferito anche alle ipotesi di danni all’immagine discendenti da reati comuni, ovvero ai soli delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 355/2010, ordinanze n. 219/2011, n. 220/2011 e n. 286/2011)”;
2) “Se – ove si ritenga estesa la perseguibilità del danno all’immagine anche ai casi discendenti da reati comuni – la disposizione di legge (art. 17, comma 30-ter del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e successivamente rettificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche nella legge 3 ottobre 2009 n. 141) relativamente alla sussistenza ed eccepibilità della nullità preprocessuale o processuale concernente il danno all’immagine (nonché il correlato difetto di legittimazione del PM), debba ritenersi tuttora vigente, come desumibile dalla soluzione data dalle SS.RR. nella sentenza n. 13/QM/2011 del 3 agosto 2011”.
Nell’atto di deferimento si riferisce preliminarmente che:
a) la Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, con sentenza n. 173 del 14 maggio 2013 ha condannato Augusto Morocutti al pagamento, in favore della ASL n. 11 di Empoli, di euro 47.164,79 di cui euro 32.164,79 a titolo di danno patrimoniale diretto ed euro 15.000,00 per danno all’immagine; il convenuto, primario oculista e direttore del reparto oculistica presso l’ospedale di Empoli, era stato condannato con sentenza penale irrevocabile per i reati di truffa e falso (artt. 640-479 c.p.) per aver frodato la ASL attestando falsamente di aver effettuato interventi chirurgici in realtà da lui non realizzati, procurandosi un ingiusto profitto corrispondente al compenso corrispostogli dalla ASL; la sentenza è stata impugnata dal soccombente con appello (iscritto al n. 46290 r.g.) nel quale è stata, tra l’altro, dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, in quanto non ricorre nella specie alcuno dei delitti di cui all’art. 314 e segg. c.p., bensì un reato “comune” per il quale la norma esclude la risarcibilità del danno all’immagine;
b) la Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia, con sentenza n. 654 del 20 maggio 2014, ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno all’immagine azionata nei confronti di Santo Grasso dalla locale Procura; il convenuto, quale infermiere portantino dell’ospedale Papardo-Piemonte di Messina, era stato condannato con sentenza penale irrevocabile per i reati di millantato credito, truffa e minaccia (artt. 346 c. 2, 640 e 612 c.p.) per aver indotto diversi soggetti a consegnargli somme di denaro al fine di comprare i favori del direttore sanitario per il rilascio di una attestazione valida per l’assunzione come infermieri; la Procura regionale aveva chiesto un risarcimento del danno all’immagine quantificato in euro 37.500,00, pari al doppio della somma di denaro indebitamente percepita dal convenuto, come previsto dall’art. 1, comma 1 sexies, della legge n. 20 del 1994; i giudici di primo grado hanno ritenuto che l’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009 debba essere circoscritto alle sole fattispecie annoverate nell’art. 7 della legge n. 97 del 2001; la sentenza è stata impugnata dal Procuratore regionale con appello (iscritto al n. 5199 r.s.) nel quale si lamenta erronea interpretazione di detta normativa e si richiama giurisprudenza della Sezione I centrale d’appello (sent. n. 522 del 2014).
Il Procuratore generale emittente rammenta che:
1) la disposizione recata dal ripetuto comma 30 ter limita l’esercizio dell’azione erariale per il risarcimento del danno all’immagine ai «soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», prevedendo a tal fine la sospensione del decorso del termine di prescrizione fino alla conclusione del procedimento penale;
2) a sua volta, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevede che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato», aggiungendo che «resta salvo quanto disposto dall’art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo n. 271/1989»;
3) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 355 del 2010 e con successive ordinanze, ha dichiarato infondate le questioni sollevate con riferimento all’art. 17 comma ter, ritenendo «non palesemente arbitraria» la scelta del legislatore di delimitare il campo di applicazione dell’azione risarcitoria per danno all’immagine ai soli delitti contro la pubblica amministrazione, in tal senso dovendosi intendere il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001;
4) nello stesso solco interpretativo si sono mosse le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (sentenze n. 5756/2012, n. 26806/2009, n. 519/2010, n. 4309/2010, n. 16287/2010, n. 9188/2012, n. 14831/2011);
5) peraltro, alcune Sezioni regionali e centrali della Corte dei conti hanno ritenuto che la sentenza della Corte costituzionale n. 355 del 2010 lasci impregiudicata la possibilità di interpretare diversamente la norma denunciata, purché in aderenza ai principi costituzionali; hanno, quindi, ritenuto che l’art. 17, comma ter, debba essere interpretato nel senso che l’azione risarcitoria per danno all’immagine possa essere esercitata ogni qual volta sia stato commesso un reato contro la pubblica amministrazione genericamente inteso, ancorché diverso dai reati propri di cui al Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale; cita pronunce delle Sezioni territoriali e delle Sezioni d’appello che si sono espresse in un senso o nell’altro.
Tanto premesso, il Procuratore generale osserva - «in punto di rilevanza» - che nella specie sussiste il rapporto di pregiudizialità tra la questione che viene deferita e gli appelli pendenti dinanzi alla Sezione I centrale e alla Sezione d’appello siciliana, nei quali è in discussione l’applicabilità dell’art. 17, comma 30 ter, della legge n. 141 del 2009 a fattispecie di condanna penale irrevocabile per reati comuni (in specie, falso, truffa, millantato credito ecc.).
Ancora sulla «ammissibilità della questione di massima», il Procuratore generale osserva che nella fattispecie ricorre «una questione di particolare importanza» non disgiunta da una concorrente non uniformità giurisprudenziale, sia in primo grado che in appello. La «particolare importanza» è rappresentata – osserva il P.G. - dal permanere di non indifferenti problemi interpretativi pur dopo le pronunce (giuridicamente non vincolanti) della Corte costituzionale e dalla sopravvenienza di nuove norme in materia di danno all’immagine (art. 55 quinquies, comma 2, del d.lgs. 30.3.2001 n. 165, introdotto dall’art. 69 del d.lgs. 27.10.2009 n. 150; art. 1, comma 12, della legge 6.11.2012 n. 190, art. 46 del d.lgs. 14.3.2013 n. 33) che, già da sole, hanno ingenerato difficoltà interpretative e che, nel raccordo con l’art. 17, comma 30 ter, impattano sulla tematica dando luogo a difficoltà esegetiche eccedenti quelle normalmente connaturate al potere-dovere del giudice-interprete.
Evidenzia, in particolare, che il comma 1 sexies aggiunto all’art. 1 della legge n. 20 del 1994 dall’art. 1, comma 12, della legge n. 190 del 2012 ha già dato luogo a difformi interpretazioni; da un lato (Sez. Lombardia n. 47/2014; Sez. Puglia n. 388/2014) si sostiene che la disposizione abbia implicitamente abrogato l’art. 17, comma 30 ter, rendendo risarcibile il danno all’immagine in tutti i casi di reati comuni contro la PA e anche in assenza di una sentenza di condanna stricto iure, essendo sufficiente un giudicato penale (anche di patteggiamento o di prescrizione del reato); dall’altro (Sez. Emilia Romagna n. 57/2013) si ritiene che la legge anticorruzione abbia ulteriormente circoscritto la tipologia di illeciti da cui può derivare il danno all’immagine limitandolo alle sole ipotesi in cui vi sia stata illecita percezione di una somma di denaro o altra utilità.
Osserva che i problemi interpretativi posti dal raccordo tra la legge anticorruzione e l’art. 17, comma 30 ter, in combinato disposto con l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sono stati delineati da Cassazione penale, Sez. II, n. 14605 del 2014 di cui riporta ampi stralci e secondo cui, conclusivamente, la locuzione «un reato contro la stessa pubblica amministrazione» contenuto nell’art. 1, comma 1 sexies, della legge n. 20 del 1994 va inteso come riferito «ai delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale», a ciò conducendo anche la circostanza che «il prezzo dell’illecito mercimonio della propria funzione … è normalmente previsto come uno degli elementi tipici» di tali delitti.
Osserva, poi, che le questioni interpretative attengono ad un istituto giuridico – la perseguibilità del danno all’immagine – che investe un quadro normativo complesso sia di diritto sostanziale che processuale. Rammenta che con la sentenza n. 13/QM/2011 le Sezioni riunite, nel procedere ad una ricostruzione sistematica dell’istituto della nullità previsto dall’art. 17, comma 30 ter, hanno affermato che la sanzione della nullità riguarda fattispecie eterogenee, la prima riferibile all’individuazione delle fattispecie risarcibili (danno all’immagine), la seconda riferibile al potere requirente del P.M., e che comunque «si connette ad un difetto di legittimazione sostanziale (diritto potestativo) del P.M. a svolgere le sue funzioni requirenti». Rileva che, ove si dovesse ritenere che sia giuridicamente ammissibile la condanna per danno all’immagine da reato “comune”, si dovrebbe stabilire se tuttora persista il principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite, ovvero se esso «debba intendersi radicalmente superato dalla sopravvenuta giurisprudenza di alcune Sezioni semplici».
Evidenzia, ancora, che «gli effetti concreti generati dai contrasti giurisprudenziali appaiono … tali da minare la certezza del diritto». Indica, a mo’ di esempio, che: tra i destinatari di condanne penali irrevocabili per reati di truffa e falso ideologico, taluni sono stati ritenuti responsabili per danno all’immagine (Sez. I d’appello n. 372/2014) ed altri, invece, definitivamente assolti (Sez. III d’appello n. 658/2013); tra i destinatari di condanne penali definitive per reati di violenza sessuale, taluni sono stati ritenuti responsabili per danno all’immagine (Sez. I d’appello n. 1039/2013) ed altri, invece, definitivamente assolti (Sez. Trento n. 29/2011, passata in giudicato). Di qui la necessità di «… una soluzione uniforme al fine di evitare inammissibili differenziazioni tra vicende processuali identiche» (SS.RR. n. 4/QM/2010 e n. 13/QM/2011), nel rispetto del principio della certezza del diritto.
Nell’atto di deferimento si procede, quindi, ad analizzare le norme oggetto delle questioni di massima, osservando in sintesi che: 1) sebbene le indicazioni interpretative della Corte costituzionale non siano vincolanti, non possono essere svuotate di significato dal giudice di merito, che – ove intenda discostarsi da quelle indicazioni interpretative - dovrebbe almeno individuare parametri costituzionali diversi; 2) l’interpretazione estensiva valorizza oltre misura l’art. 129 disp. att. c.p.c., fatto salvo dall’art. 7 della legge n. 97/2001, così snaturando il testuale rinvio «ai soli casi previsti» dall’art. 7 e, cioè, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. (artt. 314-335 c.p.); 3) posto che l’art. 7 della legge n. 97/2001 si compone di due periodi – il primo che individua i casi in cui è possibile esercitare l’azione erariale per danno all’immagine, il secondo in cui vengono ricondotti i modi dell’azione – secondo l’orientamento fatto proprio dalla Sezione I d’appello i «casi» sono comunque quelli previsti dall’art. 7, mentre il riferimento ai «modi» condurrebbe a ritenere esperibile l’azione per danno all’immagine anche per qualunque reato che ha cagionato un danno all’erario; 4) tale interpretazione non sarebbe sostenibile, in quanto si perverrebbe a ritenere che la norma di cui è destinatario il P.M. penale possa, al contempo, indicare i modi di esercizio dell’azione contabile.
Si procede, quindi, ad una ampia e articolata contestazione dei passaggi motivazionali contenuti nella sentenza della Sez. I centrale n. 522 del 2014, con particolare riguardo all’assunto secondo cui sussisterebbe una «differente azionabilità del danno all’immagine a seconda che discenda da un reato proprio o da un reato comune, con conseguente diverso regime prescrizionale». Si osserva, in sintesi, che «rimangono difficilmente identificabili … le ragioni per cui il danno all’immagine discendente da reato comune … diverrebbe procedibile per effetto del “mero inizio dell’azione penale” e indipendentemente dal successivo esito della stessa …, laddove viceversa il danno all’immagine da reato proprio è – per espressa voluntas legis – perseguibile dall’inquirente contabile solo in presenza di un giudicato penale di condanna». Si evidenziano le incongruenze di una tale interpretazione, anche con riguardo alla prescrizione che rimane sospesa ex lege fino al passaggio in giudicato della condanna penale per un reato proprio, mentre - «a seguire l’opzione ermeneutica anzidetta» - per i reati comuni continuerebbe il suo corso senza subire alcuna sospensione.
Un’ulteriore conseguenza della interpretazione “estensiva” sarebbe il totale svuotamento del frammento di norma sulla nullità degli atti istruttori o processuali posti in essere in violazione delle disposizioni recate dal ripetuto comma 30 ter.
Si osserva, poi, che l’opzione interpretativa di cui trattasi ha «inevitabili riflessi … in punto di giurisdizione contabile», in quanto – come evidenziato dalla Corte costituzionale – al di fuori dei casi tassativamente previsti, la risarcibilità del danno all’immagine non è consentita dinanzi ad alcuna autorità giudiziaria; e, quindi, la ritenuta perseguibilità del danno all’immagine anche per i reati comuni «implica … un’estensione della giurisdizione contabile al di là dei confini, sostanziali e processuali, di risarcibilità dell’immagine pubblica quali delineati dalla norma di legge come interpretata dalla Corte costituzionale». Richiama, al riguardo, quanto argomentato da Cassazione penale, Sez. 2ª, nella sentenza n. 14605 del 2014 ove, con riferimento all’interpretazione di cui trattasi, si parla di «irrazionale torsione ermeneutica». Richiama, altresì, la diversa pronuncia della Sez. 3ª della Cass. pen. (n. 5481/2014), osservando che nella specie è stato fatto un generico rinvio alla giurisprudenza contabile fautrice di un’interpretazione estensiva.
Si osserva, ancora, che «le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale circa il modo costituzionalmente corretto di interpretare la legge valgono come precedente autorevole cui spetta non una forza legale, ma almeno una forza di fatto, proporzionale al consenso che i suoi argomenti riescono a suscitare». Richiama, al riguardo, la sentenza costituzionale n. 371 del 1998 sulla limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di solo o colpa grave e rammenta che anch’essa era di rigetto e che «allora … non vi fu alcuna reazione ad opponendum».
Nell’atto di deferimento si evidenzia, infine, che l’esegesi espansiva potrebbe essere censurata innanzi la Corte di Cassazione su ricorso di parte ex art. 362 c.p.c., sotto il profilo dell’eccesso di potere giurisdizionale, per carenza assoluta di giurisdizione. È vero che la Corte regolatrice, con la sentenza n. 9937 del 2014, ha ritenuto che la questione della perseguibilità del danno all’immagine è questione meramente interna alla giurisdizione della Corte dei conti; peraltro, nella specie la pronuncia è stata resa «in tema di sopravvenienza temporale» della normativa in discussione.
Conclusivamente, il P.G. reputa che l’orientamento estensivo della risarcibilità del danno all’immagine pubblica al di là dei casi testualmente previsti dall’art. 17, comma 30 ter, siccome interpretato dalla Corte costituzionale, ponga problemi di irragionevolezza di diritto sostanziale per tutte le ragioni fin qui evidenziate. Osserva, in particolare, non essere sostenibile che una disposizione di attuazione del codice di procedura penale possa interpretarsi nel senso di:
1) ampliare l’ambito oggettivo (di diritto sostanziale) di risarcibilità di una pretesa avente tutt’altra natura (danno erariale) ed oggetto (immagine pubblica);
2) costituire condizione di procedibilità dell’azione erariale per danno all’immagine da reato comune;
3) differenziare la disciplina sulla prescrizione e sulla procedibilità dell’azione erariale per lo stesso danno in base alla sua provenienza (se da reato proprio: giudicato penale di condanna; se da reato comune: mera imputazione penale).
Alla pubblica udienza del 10 dicembre 2014 l’Avv. Fioravanti ha dichiarato di condividere motivazioni e conclusioni dell’atto di deferimento del Procuratore generale; il P.M. d’udienza, dopo aver esaurientemente illustrato l’atto di deferimento, aggiungendovi proprie conducenti argomentazioni a conforto, ha poi depositato giurisprudenza di riferimento.
Il giudizio è stato quindi trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Devono essere preliminarmente vagliati i profili riguardanti l’ammissibilità e la rilevanza delle questioni di massima proposte.
Non v’è dubbio che le questioni in rassegna rivestono quel carattere di particolare importanza richiesto dalla legge in quanto, sul punto controverso, è intervenuto il Giudice delle Leggi e vi è stata una produzione normativa sopravvenuta in materia di danno all’immagine, segnatamente con la legge n. 190/2012, così ponendosi problemi ermeneutici di non poco momento; ciò, in disparte il fatto che sussiste contrasto tra le interpretazioni adottate dalla Prima e dalla Terza Sezione Centrale d’Appello (cfr. sentenze nn. 1039/2013; 379/2014; 522/2014, per la Prima Sezione; sentenze nn. 426/2012; 658/2013; 716/2013, per la Terza Sezione), oltre al contrasto in “senso orizzontale” (di per sé non conducente ai fini di una remissione ove si tratti dell’unico contrasto su di un punto di diritto) tra numerose Sezioni giurisdizionali regionali.
Gli esposti contrasti giurisprudenziali, dunque, oltre a rilevare “ex se” (almeno quello tra le Sezioni centrali d’Appello) testimoniano altresì ulteriormente quella particolare importanza della questione che già si configura autonomamente per il su accennato intervento della Consulta (su cui si tornerà), per lo “ius superveniens” nella materia “de qua” e per lo stato di diffusa incertezza interpretativa che si percepisce nella giurisprudenza contabile nel suo insieme.
Anche la rilevanza della questione, che attiene al rapporto di pregiudizialità tra il principio di diritto enunciabile dalle Sezioni riunite e la risoluzione del merito dei giudizi sottostanti, non appare dubbia in quanto sia la sentenza della Sezione regionale per la Toscana n. 173/2013, poi appellata dalla parte privata e pendente presso la Prima Sezione centrale d’Appello, sia la sentenza della Sezione regionale per la Sicilia n. 654/2014, poi appellata dal Procuratore regionale e pendente presso la Sezione d’Appello per la Sicilia, riguardavano (nel primo caso, con una condanna e, nel secondo caso, con una assoluzione, sempre per danno all’immagine della P.A.) reati comuni (truffa e falso nel primo caso; millantato credito, truffa e minaccia, nel secondo caso) e non reati contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale.
Pertanto, dalla enunciazione del punto di diritto sulle questioni indicate in epigrafe, dipenderà anche l’esito dei giudizi di merito sottostanti a tanto vincolati in virtù del principio nomofilattico.
Accertata l’esistenza delle preliminari condizioni di ammissibilità del deferimento in rassegna, reputano le Sezioni riunite, prima di affrontare il cuore delle proposte questioni, di dover precisare il senso e la portata dei quesiti, il primo dei quali – del tutto propedeutico e condizionante il secondo – investe il riferimento della norma di cui al menzionato art. 17, comma 30 ter, (delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo c.p.) anche ad altri reati comuni.
Da una lettura complessiva dell’impianto argomentativo sotteso alla formulazione conclusiva del quesito, può correttamente ritenersi che per reati comuni debbano intendersi solo quelli che non siano già ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo c.p., che pur ne contiene alcuni.
Secondo la comune accezione, per reati comuni si intendono quelli commissibili dal “quisque de populo”, essendo del tutto irrilevante la eventuale specifica qualifica dell’autore del reato stesso che invece dà corpo alla categoria dei reati propri (che, a loro volta, sogliono distinguersi in reati propri esclusivi, semiesclusivi e non esclusivi; ma tale tripartizione dottrinaria non ha alcun interesse ai fini che ne occupano).
Orbene, i reati contemplati dal Capo I del Titolo II del Libro Secondo, comprendono gli articoli del c.p. che vanno dal 314 al 335 bis, così come integrati dalla legislazione via via intervenuta.
Si noterà che gli artt. 316 ter, 334 c.p. e 335 c.p., contenendo la formula “chiunque…”, non possono considerarsi reati propri, bensì sono annoverabili tra quelli comuni, ma risultano peraltro inseriti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale; con la conseguenza che anche da tali specifici reati può dunque discendere l’eventuale risarcimento del danno all’immagine della P.A.; ovviamente, sempre che i reati stessi siano compiuti da pubblici agenti, poiché, diversamente, non si radicherebbe la giurisdizione contabile.
Pertanto, in tal senso e con le precisazioni di cui innanzi, va esaminato il primo quesito la cui soluzione è propedeutica a quella – eventuale – sul secondo.
Queste Sezioni riunite sono chiamate a svolgere una funzione nomofilattica che, quindi, per intuibili motivi sistematici, non può prescindere da un quadro di riferimento generale costituito non solo dal tessuto ordinamentale, e dai principi che vi sono sottesi, ma anche dagli enunciati di carattere ermeneutico provenienti dal Giudice delle leggi e dalla Suprema Corte, in quanto l’eventuale scostamento da tali parametri dovrebbe radicarsi in profondi argomenti interpretativi o nuove prospettazioni prima non vagliate e, comunque, nel dovuto rispetto delle attribuzioni e delle scelte riservate al legislatore dalla Carta costituzionale; in mancanza di ché, si rischierebbe di indulgere a operazioni ermeneutiche espansive che appaiono eventualmente e eccezionalmente praticabili solo per colmare vistose lacune normative ritenute fortemente pregiudizievoli sotto il profilo ordinamentale, sostanziale e processuale.
Ciò premesso sotto un profilo metodologico, non sembra superfluo accennare alla circostanza che la responsabilità amministrativo-contabile, tradizionalmente ritenuta di natura risarcitoria, anche se con proprie indubbie peculiarità, ha subìto graduali ma costanti ripensamenti in senso sanzionatorio, sia a livello normativo che sotto il profilo ermeneutico. Basti pensare alla recente introduzione di forme di responsabilità sanzionatorie per gli amministratori degli enti locali (sanzioni sia di natura personale che pecuniaria) e ad alcune sentenze del Giudice delle leggi (cfr. Corte costituzionale n. 473/1998 e n. 371/1998) e delle stesse Sezioni riunite (cfr. SS.RR. n. 12/QM/2007) ove è stato ritenuto che l’indole e il paradigma stesso della responsabilità amministrativa supera la mera forma risarcitoria.
Tanto si è voluto richiamare a solo a titolo esemplificativo, senza che sia necessario soffermarsi a passare in rassegna la cospicua giurisprudenza di merito e i vasti contributi dottrinali che hanno cominciato a manifestarsi dopo la nuova conformazione della responsabilità amministrativa di cui alle note riforme del 1994/1996 (personalità della responsabilità, intrasmissibilità della stessa agli eredi, salve, ovviamente, le eccezioni previste dalla stessa normativa, per non dire degli aspetti processuali ove campeggia la figura del P.M. contabile quale titolare esclusivo della stessa azione a tutela delle finanze pubbliche).
È apparso opportuno accennare a questa evoluzione concettuale solo per cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia.
Non occorre qui disquisire sulla differenza tra interpretazione analogica ed estensiva, né sulla circostanza – di ovvia constatazione – che i suddetti principi si riferiscono all’ordinamento penale ed, in modo particolare, ai reati: fattispecie del tutto distinte da quelle di responsabilità amministrativa che, lo si ricorda, ha proprie e del tutto particolari connotazioni che giustificano l’affidamento della relativa “cognitio” al giudice speciale Corte dei conti.
Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile.
In virtù di tali considerazioni, appare conforme ai principi generali dell’ordinamento che l’ermeneusi delle norme in rassegna avvenga secondo criteri di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 della Preleggi (“significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e la “intenzione del legislatore”).
Sarebbe dunque fuorviante adombrare, sia pure dialetticamente, una “contrapposizione” tra due tesi: l’una, cosiddetta “estensiva” ai reati comuni e, l’altra, “restrittiva”, limitata ai reati previsti dal Capo I, del Titolo II del Libro Secondo del Codice penale.
Si tratta, invero, solo di valutare attentamente il dato normativo secondo un canone di stretta interpretazione, anche mediante una lettura anche costituzionalmente orientata.
Questa impostazione è stata anche quella seguita dalla Corte costituzionale e, con qualche eccezione, dalla Suprema Corte.
Il Giudice delle Leggi, con la nota sentenza n. 335/2010, cui sono poi seguite numerose ordinanze di manifesta inammissibilità di analoghe questioni proposte da varie Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti (cfr. Ordinanze Corte cost. n. 219/2011; n. 220/2011; n. 221/2011; n. 286/2011), ha dichiarato in parte inammissibili e in parte non fondate le variegate questioni di costituzionalità proposte da numerose Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti afferenti la presunta illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30 ter, periodi secondo, terzo e quarto, del D.L. 1°.7.2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge n. 102/2009, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera e, numero 1, del D.L. n. 103/2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 141/2009.
Si tratta, in sintesi, della stessa questione testé sottoposta alle Sezioni riunite e va notato che le numerose Sezioni giurisdizionali territoriali remittenti hanno dubitato della vulnerazione di molti parametri costituzionali che sono stati poi scrutinati dal Giudice delle leggi (artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103 e 113 Cost.); di guisa che può dirsi che la questione stessa sia stata riguardata dalla Corte costituzionale sotto ogni aspetto: e ciò rende significativamente rilevante la pronuncia resa per il percorso motivazionale che ne costituisce il tessuto.
Tanto si è voluto sottolineare poiché non è apparso particolarmente conducente disquisire sulla natura della suddetta pronuncia (di rigetto, interpretativa di rigetto, etc.) per potersene poi inferire la portata, vincolante o meno, per i giudici remittenti e, indirettamente, per queste Sezioni riunite chiamate a formulare il principio di diritto.
Può anche teoricamente convenirsi sulla non vincolatività “strictu sensu” della sentenza in rassegna, ma ciò che il Collegio ritiene rilevante è la portata dei principi ivi espressi alla luce dell’ampiezza dello scrutinio dei parametri costituzionali la cui violazione era stata invocata da numerose Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.
Giova, quindi, in sintesi, riportare i principali passaggi motivazionali della citata sentenza n. 335/2010.
Innanzitutto, è stato escluso che per il danno all’immagine ad un ente pubblico possa esservi un giudice diverso dalla Corte dei conti adita in sede di giudizio di responsabilità; ma proprio per tale motivo è chiaro che la “ratio” della norma in questione è stata quella “di circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza di lesioni all’immagine dell’amministrazione”.
Altro punto saliente affrontato dalla Corte costituzionale è quello del bene giuridico che, con la normativa in questione, il legislatore ha inteso tutelare.
Ebbene, tale tema è stato affrontato sotto vari profili, sia in relazione alla discrezionalità del legislatore, per il quale è stata esclusa ogni manifesta irragionevolezza, sia con riferimento alla peculiarità del soggetto tutelato P.A. – enti pubblici (che non è equiparabile alla persona umana i cui diritti fondamentali hanno diversa collocazione nella Carta costituzionale) a cui fanno capo il prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici pubblici.
Sono, dunque, proprio i principi di imparzialità e di buon andamento della P.A. – beni direttamente tutelati nell’art. 97 della Costituzione – ed i suoi corollari consistenti nei canoni di efficienza ed efficacia che costituiscono l’oggetto della protezione approntata dalla normativa in rassegna.
Si tratta di affermazioni rilevanti per la risoluzione della questione oggetto di quesito poiché il precipitato complessivo che ne discende afferisce alla non arbitrarietà della scelta operata dal legislatore nel circoscrivere i reati da cui può derivare il “vulnus” all’immagine della P.A. in relazione alla percezione esterna che si ha del modello di azione pubblica ispirato ai principi e ai canoni che trovano la loro tutela ultima nell’art. 97 della Costituzione, con la conseguenza che, fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa in rassegna appare arbitraria.
Anche la Suprema Corte ha enunciato importanti e conducenti principi, sia pure sotto diversi profili.
Innanzitutto, va rilevato come più volte la Corte di Cassazione a Sezioni unite civili abbia sottolineato il fatto che il legislatore del 2009 ha inteso circoscrivere, sul piano sostanziale e processuale, i casi in cui può azionarsi il danno all’immagine di una P.A., escludendo ogni ampliamento del relativo ambito (tra le più recenti, cfr. sentenze nn. 14831/2011; 5756/2012; 9188/2012; 20728/2012).
La Suprema Corte, in sede penale, è pervenuta ad arresti di varia natura.
Le Sezioni unite penali della S.C. si sono specificamente occupate dei rapporti tra l’art. 316 ter (norma inserita tra quelle che possono produrre danno all’immagine della P.A.) e i reati di truffa e falso secondo principi di specialità o sussidiarietà (cfr. sentenze n. 16568/2007 e n. 7537/2011).
Vi è innanzitutto da osservare che, in un caso, si tratta di statuizione antecedente la normativa del 2009 in questione e che anche nel secondo caso, non viene affrontato specificamente il tema oggi in discussione.
Si è voluto accennare a quest’ultima giurisprudenza per dirimere possibili dubbi sulla portata della iniziale formulazione dell’art. 316 ter: “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640 bis” o della formulazione dell’art. 323 c.p. “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, poiché potrebbe ritenersi che, sia pur indirettamente, queste ultime norme possano far rientrare reati diversi (comuni) nel novero di quelli da cui può discendere un danno all’immagine della P.A..
Tale soluzione però non appare innanzitutto compatibile con l’impianto normativo che dispone la “circoscrizione” di una tipologia di reati voluta dal legislatore; inoltre, per potersi parlare di assorbimento, specialità o sussidiarietà, occorre, dal punto di vista fattuale, che la fattispecie soggetta ad accertamento comprenda sia i fatti previsti dall’art. 640 bis c.p., o altri più gravi, rispetto agli artt. 316 ter e 323 c.p., che quelli previsti dall’art. 316 ter, dallo stesso art. 323 c.p. che, appunto, rinviano all’art. 640 bis c.p. o ad altri più gravi reati, onde potersi poi compiere valutazioni di assorbimento, specialità o sussidiarietà. Va, pertanto, considerato che, ai fini della circoscrizione dei reati in questione, l’ottica va centrata più sulle fattispecie incriminatrici legali che non sui dati fattuali.
Pertanto, le considerazioni compiute dalla S.C. penale in termini di assorbimento, specialità o sussidiarietà, pur pregevoli in termini generali penalistici, non appaiono conducenti alla risoluzione del quesito in rassegna per i motivi innanzi espressi, in disparte profili di possibile irrilevanza per i giudizi sottostanti riferentesi agli artt. 346, c.2, 479, 612 e 640 codice penale.
La Cassazione penale, non a Sezioni Unite (Sezione Terza e Sezione Seconda) si è anche occupata del problema della circoscrivibilità del danno d’immagine ai soli reati previsti dall’art. 7 della legge n. 97/2001 o anche a reati comuni, nonché delle questioni attinenti ai rapporti con la nuova formulazione dell’art. 1, L. n. 20/1994 come integrato dalla legge n. 190/2012 e, infine, della cosiddetta tesi del “doppio binario” di cui meglio si dirà in proseguo.
Ebbene, la Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 5481/14) ha affermato potersi ritenere sussistente il danno all’immagine della P.A. anche in presenza di reati comuni, con ciò aderendo alla tesi “estensiva”, ma aggiunge, subito dopo, che non era questo il caso che ne occupava in quella occasione.
Infatti, dal contesto della pronuncia si evince che i reati erano stati commessi da privati e non da pubblici dipendenti.
Inoltre, nella stessa sentenza si afferma che il “danno d’immagine, sia esso perseguito dinanzi alla Corte dei conti, o davanti ad altre autorità giudiziarie, va considerato come danno patrimoniale da perdita d’immagine di tipo contrattuale avente natura di danno conseguenza….”
Alla luce di quanto sopra esposto il Collegio ritiene che i passaggi motivazionali della suddetta sentenza non possano costituire utile principio ispiratore per la risoluzione del quesito in rassegna, sia perché attengono a fattispecie criminose poste in essere da soggetti privati, sia perché la definizione del danno d’immagine della P.A. come “patrimoniale” non è affatto pacifica ed è in primo luogo contraddetta dal Giudice delle leggi con la nota e ricordata sentenza n. 335/2010, sia infine perché in quella sentenza si ipotizza un danno d’immagine azionabile innanzi a un giudice anche diverso dalla Corte dei conti.
Di diversa valenza, invece, ai fini che qui ne occupano, è la pronuncia resa dalla Seconda Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 4605/14) poiché tocca puntualmente molti aspetti della questione testé affrontata da queste Sezioni riunite.
Dopo aver richiamato la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 355/2010, la Suprema Corte esclude che la legge n. 190/2012, usando l’espressione “reato contro la pubblica amministrazione”, abbia abrogato tacitamente l’espressione di cui al combinato disposto degli artt. 17 L. n. 141/2009 e 7 L. n. 97/2001 (“delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del Codice penale”) poiché non ha regolato “ex novo” l’intera materia (ipotesi prevista dall’art. 15 delle Preleggi), bensì ha inserito solo alcuni commi che insistono sul “quantum” dovuto in caso di danno all’immagine (il doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente); di guisa che le due normative restano del tutto compatibili e, quindi, il termine “reato contro la P.A.” deve ritenersi riferito ai delitti contro la P.A. di cui si discute e previsti dal Capo I, Titolo II del Libro secondo c.p..
Altro aspetto trattato dalla Suprema Corte è quello relativo ai rapporti con l’art. 129 Disp. Att. c.p.p. che, secondo una originale interpretazione, definita dalla stessa Suprema Corte come una “irrazionale, torsione ermeneutica”, porterebbe a configurare il cosiddetto “doppio binario”: per i delitti previsti dall’art. 314 ss c.p. occorrerebbe il passaggio in giudicato della sentenza, mentre, per gli altri reati comuni, l’azione risarcitoria per danno all’immagine della P.A. non necessiterebbe di tale irreversibilità della sentenza.
La Suprema Corte ritiene al riguardo che l’art. 129 Disp. Att. c.p.p. citato non influisce in alcun modo sulla problematica in esame, limitandosi a prevedere il generale obbligo per il P.M. di informare il Procuratore generale presso la Corte dei conti.
Conclude, la Suprema Corte, nel senso che la P.A. può chiedere il risarcimento del danno d’immagine al proprio dipendente (se l’azione è esercitata innanzi alla Corte dei conti, il vincolo inerente la speciale categoria dei reati in questione riguarda il P.M. contabile agente) nei soli casi in cui sia intervenuta condanna irrevocabile “per uno dei reati previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale”.
Si è voluto ripercorrere, anche se succintamente, il quadro giurisprudenziale offerto sia dalla Corte costituzionale che dalla Suprema Corte poiché si ritiene che la pronuncia richiesta a questo organo giurisdizionale nomofilattico non possa prescinderne; ciò non perché si sia in presenza di effetti vincolanti – che si escludono – ma per intuibili esigenze di prudente ragionevolezza nell’opera di interpretazione di norme giuridiche che, pur in ossequio al principio del libero convincimento, deve tuttavia tener conto dell’ermeneusi giurisprudenziale proveniente dal Giudice delle Leggi e dal Giudice regolatore della legittimità e della giurisdizione.
È pur vero che il “thema decidendum” non si pone in stretti termini di giurisdizione, sia perché riguarda l’azionabilità del danno all’immagine da parte del P.M. contabile, colpita da una esplicita sanzione di nullità, sia perché le questioni di giurisdizione sfuggono, in ultima analisi, a queste Sezioni riunite; ma è altrettanto vero che il solco tracciato dalla citata giurisprudenza è tale che, in caso di scostamento da parte di queste Sezioni riunite, verosimilmente si verificherebbe la riproposizione delle questioni, sia innanzi alla Corte costituzionale che alla Suprema Corte, e ciò con intuibile “vulnus” ad un principio di certezza del diritto che appare precettivo non solo per la funzione legislativa, ma soprattutto per l’attività di discernimento esegetico affidata alla funzione giurisdizionale.
Si impone quindi ora a questo Collegio una duplice operazione ermeneutica: la possibilità di una adesione non acritica alle massime giurisprudenziali passate in rassegna; lo sviluppo di ulteriori propri argomenti decisivi.
Quanto al primo aspetto, sembra al Collegio che i passaggi motivazionali del Giudice delle leggi, tutti intesi a ritenere non vulnerato il principio di razionalità da parte del Legislatore nello “scegliere” alcuni reati, e non altri, da cui poter far discendere un danno all’immagine della P.A., siano del tutto condivisibili poiché è stato esattamente individuato nell’art. 97 della Costituzione – che enuncia i canoni del buon andamento e della imparzialità e da cui discendono i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’“agere” amministrativo – le norme poste a tutela del bene che il legislatore ha inteso proteggere.
Ciò non esclude che il legislatore possa individuare altri beni giuridici tutelabili e, quindi, altri reati cui collegare un possibile danno d’immagine alla P.A., ed è forse auspicabile una rimeditazione sul punto; ma resta il fatto che discrezionalità del legislatore è stata ritenuta correttamente esercitata, costituendo pertanto un limite preciso ad un non consentito sconfinamento della funzione giurisdizionale.
Su un parallelo versante si pone l’adesione di questo Collegio a quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha motivatamente delimitato l’area dei delitti da cui può derivare un danno d’immagine della Pubblica Amministrazione.
Infatti, in disparte il pressoché uniforme orientamento della Cassazione civile, si è notato in precedenza che alcune sentenze della Cassazione penale non appaiono conducenti, mentre altre, come quella sulla circoscrizione dei reati “de quibus” (Seconda Sezione penale della Cassazione n. 14605/2014), hanno svolto un “iter” argomentativo del tutto condivisibile, marcando il punto della “voluntas legis” limitata ai soli casi previsti dalla normativa, escludendo fuorvianti ipotesi di cosiddetto “doppio binario” e fornendo adeguata interpretazione dei rapporti con la legge n. 190/2012.
Si tratta di passaggi motivazionali condivisibili poiché appaiono ispirati da una visione sistematica dell’intero quadro normativo esaminato.
Conclusivamente, la Suprema Corte, sia in sede civile (Sezioni riunite) che in sede penale, sia pure in modo non univoco, ma con statuizioni articolate e conducenti ai fini specifici che ne occupano, ha tracciato una chiara delimitazione dei soli reati da cui può discendere un danno risarcibile all’immagine alla Pubblica Amministrazione.
Tuttavia, queste Sezioni riunite ritengono utile svolgere qualche propria ulteriore riflessione.
Si è spesso insistito sulla espressione “nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97”, inferendosene la presunta conseguenza che per i “casi”, valga l’obbligo di comunicazione del P.M. penale limitatamente ai delitti accertati con sentenza irreversibile previsti nel Capo I, Titolo II del Libro secondo; mentre, “i modi” indicherebbero il generale obbligo del P.M. penale di comunicare al P.M. contabile l’esercizio dell’azione penale, discendente dall’art. 129 Dis, . Att.ne c.p.p. per tutti i reati, con la conseguenza che la disposta salvezza del predetto art. 129 disp. Att.ne c.p.p. consentirebbe l’azionabilità del danno all’immagine alla Pubblica Amministrazione per tutti i reati comuni.
Questa interpretazione di una parte della giurisprudenza contabile, contrastata peraltro da altra giurisprudenza, finisce però con il frazionare la norma in rassegna in due tronconi, laddove sembra più conforme ad una esegesi organica, leggere la norma in senso unitario nel senso di un precetto unico che è volto a delimitare l’area dei delitti da cui il legislatore ammette possa derivarne un danno d’immagine della Pubblica Amministrazione “nei soli casi e modi previsti dall’art. 7”; precetto – quest’ultimo – che va ad aggiungersi, quindi, all’obbligo di informativa discendente dall’art. 129 Disp. Att.ne c.p.p. che permane nella sua valenza generale originaria senza assurgere ad un ruolo di discrimine che darebbe corpo ad un inammissibile “doppio binario” e che vanificherebbe, snaturandolo, il limite stesso voluto dal legislatore che finirebbe con il perdere il proprio significato, per non dire di una abnorme diversità del regime della prescrizione (in tal senso depone significativamente anche lo stesso atto di deferimento del Procuratore generale che esclude ogni ipotesi di “doppio binario”).
Circa l’ulteriore perplessità derivante dall’espressione contenuta in alcune delle norme incriminatrici comprese tra quelle di cui al Capo I, del Titolo II del Libro secondo c.p., “…salvo che il fatto costituisca più grave reato…” (espressione – quest’ultima – che, se latamente intesa, porterebbe ad includere nel novero numerosi altri reati), si è già detto in precedenza, a commento di alcune sentenze della Cassazione penale.
Resta qui da aggiungere che allorché il legislatore ha circoscritto l’ambito dei delitti da cui può discendere un danno d’immagine per la Pubblica Amministrazione ha fatto riferimento a fattispecie incriminatrici astratte ben delimitate; la salvezza relativa ad altri reati “più gravi” non fa che confermare l’ “intentio legis” di limitare e circoscrivere l’area dei reati contro la Pubblica Amministrazione da cui può discendere un danno all’immagine della Pubblica Amministrazione stessa, ferma la considerazione decisiva che, negli altri reati comuni eventualmente configurabili, diversi sono i beni tutelati (non quelli presidiati dall’art. 97 Cost., come ritenuto dalla Corte costituzionale).
Valga, infine, una considerazione di carattere generale.
La problematica della risarcibilità del danno d’immagine della Pubblica Amministrazione è stato oggetto di giurisprudenza contabile pretoria, poi approfondita e sviluppata sotto vari profili: quello del danno-evento piuttosto che del danno-conseguenza; quello della riferibilità all’art. 2059 c.c. o all’art. 2043 c.c., “sub specie” (sia pure riferito alla Pubblica Amministrazione) di danno “esistenziale” (figura, questa, elaborata e poi delimitata dalla giurisprudenza civile; quella della configurabilità quale danno patrimoniale o non patrimoniale, ma con riflessi patrimoniali.
Ora, in disparte tale ricca, seppure non omogenea, giurisprudenza contabile, sulla quale non è qui il caso di indulgere, si deve constatare che il legislatore ha sì previsto alcune speciali ipotesi di danno all’immagine per la Pubblica Amministrazione (art. 55 quinquies, comma 2 del d.lgs n. 165/2001, così come integrato dall’art. 59, comma 1, del d.lgs. n. 150/2009; art. 46 del d.lgs. n. 33/2013), ma la disciplina organica avente ad oggetto la configurabilità di un danno all’immagine per la Pubblica Amministrazione specificamente collegato a fattispecie criminose è stata introdotta con l’art. 17, comma ter., D.L. n. 78/2009 più volte citato e testé in discussione.
Ebbene, è certamente degno di nota che la prima volta in cui viene ammessa, per diritto positivo, una risarcibilità di danno all’immagine per la Pubblica Amministrazione collegata a fattispecie criminose, il legislatore abbia voluto circoscrivere tali reati ai soli delitti previsti dagli artt. 314 e ss. c.p. e non ad altri, come pure, in tale specifica occasione, avrebbe potuto fare.
Tale scelta del legislatore, intervenuta per la prima volta in rapporti tanto delicati quali quelli tra azione del P.M. contabile e reati penali in punto di danno all’immagine alla Pubblica Amministrazione (sino ad allora nel dominio della sola giurisprudenza), è senz’altro elemento significativo e di ausilio esegetico per queste Sezioni riunite.
È indubbio che vengano continuamente in evidenza fattispecie odiose di reati, specie contro la persona, che reclamerebbero una rimeditazione in termini di discredito che ne discende per la Pubblica Amministrazione; ma tale valutazione non può che competere al legislatore, né il giudice può intaccare tale sfera di attribuzione, che la Costituzione riconosce al Parlamento, a meno di non voler scivolare, come si è accennato all’inizio del percorso motivazionale testé sviluppato, verso una sorta di interpretazione “creativa” non ancorata a significativi dati normativi e non ammessa in presenza di un dettato normativo di per sé esaustivamente chiaro e comunque corroborato dalle statuizioni della Corte Costituzionale e da conducenti affermazioni della Corte Regolatrice.
Conclusivamente, il principio di diritto che si enuncia in risposta al primo dei quesiti proposti è il seguente: l’art. 17, comma 30 ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale;
Quanto al secondo quesito, esso è posto in via subordinata ed eventuale ad una risposta affermativa (in termini di perseguibilità del danno all’immagine anche ai casi discendenti da reati comuni).
Pertanto, attesa la risposta data al primo quesito, il secondo quesito resta assorbito e non v’è pronuncia da rendere.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE
così decide in ordine alle questioni di massima proposte:
1) l’art. 17, comma 30 ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale;
2) assorbita dalla risposta al primo quesito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 10 dicembre 2014.
Il Presidente estensore
Arturo Martucci di Scarfizzi
Depositata in Segreteria in data 19 marzo 2015
Il Direttore della Segreteria
(Pietro Montibello)