La Corte dei conti è pervenuta ad occuparsi del danno ambientale proprio nell’ambito della giurisdizione di responsabilità amministrativa, allargando il concetto di danno erariale al di là dei ristretti confini contabili e patrimoniali, e pervenendo ad un’interpretazione del medesimo come “...danno pubblico alla collettività...”.

In Italia, è stata la Corte dei conti a introdurre l’ipotesi risarcitoria per i danni causati all’ambiente e alle risorse naturali fin dagli anni ’70 del secolo scorso con la vicenda processuale del Parco nazionale d’Abruzzo, (Corte dei conti, Sez. I giurisd., n. 39/1973, poi confermata da SS.RR., n. 108/1975) e, soprattutto, con le pronunce sui c.d. fanghi rossi di Scarlino (Corte dei conti, Sez. I giurisd., 8 ottobre 1979, n. 61). In quella occasione il Giudice erariale affermò che lo Stato aveva un proprio interesse diretto alla salvaguardia dell’ambiente (nella specie, si trattava delle acque marine, tutelate allora dalla legge n. 963/1965) e che la compromissione di esso costituiva danno erariale ai sensi dell’art. 52 del regio decreto n. 1214/1934 e s.m.i. (Testo unico sulla Corte dei conti) in quanto “.... la nozione di danno erariale non comprendeva esclusivamente ipotesi finanziarie, quale l’alterazione e turbativa dei bilanci, ovvero patrimoniali, quali la distruzione, sottrazione e danneggiamento di beni demaniali, o il recupero di somme pagate per fatti lesivi commessi dai pubblici dipendenti, ma altresì la lesione di interessi più generali, di natura eminentemente pubblica (interessando tutta la categoria dei cittadini), purché suscettibili di valutazione economica”.


I punti principali di tale elaborazione giurisprudenziale possono così sintetizzarsi:
1) l’ambiente è un bene giuridico (in quanto le relative utilità ed i correlati interessi di godimento ed uso sono normativamente tutelati), pubblico (in quanto corrisponde a finalità pubbliche ed appartiene alla collettività) e patrimoniale (in quanto suscettibile di valutazione economica, sia sotto il profilo del depauperamento di un bene che costituisce patrimonio della collettività, sia sotto il profilo degli oneri finanziari che lo Stato stesso può essere chiamato a sostenere in dipendenza dell'evento lesivo);
2) in caso di violazione delle norme poste a tutela di tali beni ed interessi della collettività, da parte dei funzionari ed amministratori pubblici, si verifica un danno;
3) tale danno deve intendersi prodotto nei confronti dello Stato, poiché questo personifica gli interessi della collettività che è in esso organizzata;
4) la normativa in materia di responsabilità amministrativo-contabile di competenza della Corte dei conti, non dà alcuna qualificazione del danno pubblico, sicché è possibile concludere che esso sussiste non solo quando vi sia lesione del patrimonio pubblico stricto sensu, ma anche quando la lesione riguardi interessi che, appartenendo alla collettività organizzata nello Stato, formano oggetto di tutela e cura da parte della pubblica amministrazione (patrimonio pubblico latu sensu);
5) danno pubblico, in definitiva, non è soltanto il danno allo Stato-persona, ma anche il danno allo Stato-comunità.

 


In seguito sarà l’art. 18 della legge n. 349/1986 a codificare l’azione per danno ambientale, oggi delineata negli artt. 311-318 del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. (Codice dell’ambiente, parte VI, titolo III).

La materia del danno ambientale è stata fatta oggetto di una compiuta sistemazione normativa soltanto – come si è detto - nel 1986, allorché fu approvata la legge n. 349, istitutiva del Ministero dell’Ambiente.
L'art. 18 della legge, recependo nella sostanza, ancorché non compiutamente, i principi affermati dalla Corte dei conti, definiva la lesione dell’ambiente come «...qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte...», stabilendo che il risarcimento del danno in parola spettasse allo Stato.
Senonché, contrariamente all’originario disegno legislativo, che attribuiva alla magistratura contabile una competenza giurisdizionale esclusiva, addirittura erga omnes, la suddetta norma di legge, dopo un tormentato iter parlamentare, finì per attribuire la giurisdizione nella soggetta materia al giudice ordinario, anche con riguardo ai danni provocati da comportamenti di agenti pubblici, confinando pleonasticamente la potestas iudicandi della Corte dei conti alla sola ipotesi (peraltro difficilmente verificabile) di danno indiretto, disciplinata dall’art. 22 del T.U. n. 3/1957.

 


D’altra parte, la questione di legittimità costituzionale della suddetta norma, tempestivamente sollevata dalla Corte dei conti, fu risolta dal giudice delle leggi nel senso della sua manifesta infondatezza (sent. n. 641/1987) essendo stata ritenuta espressione della discrezionalità legislativa, anche per ciò che concerne il prospettato profilo dell’effettività della tutela apprestata (era stata, infatti, denunciata, tra l’altro, la violazione dell’art. 5 della Costituzione, nella parte in cui, pur essendo in gioco preminenti interessi pubblici appartenenti alla collettività, la titolarità dell’iniziativa giudiziale era stata, in buona sostanza, demandata alla discrezionalità dell’amministrazione locale danneggiata, piuttosto che ad un organo imparziale, quale è il Pubblico ministero presso la Corte dei conti).

Secondo il giudice delle leggi tale danno “è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta ad essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo”.


La conseguenza pratica è stata che, a seguito di tale intervento legislativo, non sono stati più celebrati giudizi di responsabilità per danno ambientale imputabile a fatto colposo o doloso di pubblici dipendenti ed amministratori, né dinanzi alla Corte dei conti, né, a quanto consta (ma com’era facilmente prevedibile), dinanzi ai Tribunali civili.

 

Codice dell’ambiente, approvato con il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.. Art 311 ss.


Siffatto riparto di competenze giurisdizionali è stato, tuttavia, significativamente modificato dal Codice dell’ambiente, approvato con il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
Il Codice, dopo aver definito il danno ambientale come «...qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima...» (art. 300), si occupa, agli artt. 311 ss., del relativo risarcimento.

Codice dell’ambiente, approvato con il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.. Art 300 c. 1- Concetto di danno ambinetale

 

ll d. lgs. n. 152/2006, nell'art. 300, comma 1, prevede che è danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima", sulla scorta della nozione comunitaria di "danno ambientale" posta dalla fondamentale direttiva n. 2004/35/CE, che qualifica il danno quale “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.
Tale direttiva consegue l’obbiettivo di stabilire una disciplina comune tra i diversi Stati per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a costi sopportabili per la società.

Codice dell’ambiente, approvato con il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.. Art 311 - Legittimazione


L’art. 311 attribuisce, in linea generale, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare la legittimazione ad attivarsi per il risarcimento del danno. Nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, unico legittimato all’azione per danno ambientale è lo Stato e per esso il Ministero dell’Ambiente (art. 299, comma 1, d. lgs. n. 152/2006), con esclusione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, oltre che dei privati e delle associazioni ambientalistiche. Questi possono solo presentare denunce e osservazioni, chiedendo l’intervento statale a tutela dell’ambiente. Il citato d. lgs. n. 152/2006, ha abrogato l’intero art. 18 della legge n. 349/1986, con la sola eccezione del comma 5, sul diritto di intervento in giudizio delle associazioni ambientaliste.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 235 del 2009, si era già pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.: pur dichiarando inammissibile la questione, aveva osservato che la disposizione censurata, sebbene non riconosca la legittimazione delle Regioni e degli enti locali a proporre l’azione risarcitoria per danno ambientale “neppure la esclude in modo esplicito”.

La questione è stata sottoposta nuovamente nel dicembre 2014 (ordinanza del 13 febbraio 2015) dal Tribunale di Lanusei, nell’ambito del noto procedimento penale concernente lo strano inquinamento di Quirra (art. 437, commi 1° e 2°, cod. pen.) e il Giudice delle Leggi è stato stavolta molto più puntuale, con la sentenza n. 126/2016.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 126 dell’1 giugno 2016, fissa un punto fermo in relazione all’esperimento dell’azione per danno ambientale nel nostro Ordinamento.

In primo luogo, la Corte evidenzia come l’espressa collocazione, a seguito della riforma del Titolo V, della materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” nell’art. 117, comma 2°, lettera s, cost. quale competenza esclusiva dello Stato, ha fotografato, una realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali (a partire dalla sentenza 247 del 1974). Inoltre, anche alla luce delle competenze trasversali in capo ai diversi Enti territoriali, viene quindi evidenziato e confermato il punto fermo del sistema elaborato dalla giurisprudenza circa la pluralità dei profili soggettivi del bene ambientale (sentenza n. 378 del 2007).

La Corte ha, poi, ripercorso la disciplina del danno ambientale, evidenziando il mutamento di prospettiva imposto dalle direttive europee, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione del danno e al ripristino ambientale: così, in sede di attuazione della direttiva, con il decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i., è emersa la priorità delle misure ripristinatorie rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”.

Nella stessa ottica, prima con l’art. 5 bis, del decreto-legge n. 135/2009 convertito nella legge n. 166/2009 − per rispondere a una procedura di infrazione comunitaria − si è precisato che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione “primaria”, “complementare” e “compensativa”, prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, ovvero attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte ovvero risultassero impossibili o eccessivamente onerose. Quindi, con l’art. 25, della legge n. 97/2013, si è ulteriormente riordinata la materia, eliminando i riferimenti al risarcimento “per equivalente patrimoniale” e imponendo per il danno all’ambiente “misure di riparazione” (specificate dall’Allegato 3 alla parte VI del Codice dell’ambiente).

La Corte costituzionale, ha, inoltre, individuato i soggetti tenuti al ripristino.
In prima battuta le misure sono a carico del responsabile del danno. Tuttavia, quando le misure risultino in tutto o in parte omesse, o comunque realizzate in modo incompleto o difforme, il Ministro dell’ambiente procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti

La riserva allo Stato del potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), oggetto di censura da parte del giudice remittente, viene reputata alla stregua di una conseguenza logica del cambiamento di prospettiva sopra ricordato. All’esigenza di unitarietà della gestione del bene “ambiente” non può infatti sottrarsi la fase risarcitoria. In termini di possibile iniziativa autonoma, la Corte sottolinea come la riserva allo Stato non escluda che, ai sensi dell’art. 311 del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i., sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti (Regioni, Enti locali). La norma ha mantenuto “il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi” (art. 313, comma 7°, secondo periodo).

Quindi, la Corte ha ricordato come già la Corte di cassazione abbia più volte affermato che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.

Infine, rispetto al profilo di censura sollevato con riferimento al rischio di un’inattività dello Stato, specie nel caso di sovrapposizione tra danneggiato e danneggiante, (nel caso di specie per la mancata costituzione di parte civile), lo stesso viene respinto con diversi argomenti: la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile o in via amministrativa; l’interesse giuridicamente rilevante di cui sono portatori gli altri soggetti istituzionali è preso in considerazione dall’art. 309 del Codice dell’ambiente secondo cui le Regioni, le Province autonome e gli enti locali, anche associati, oltre agli altri soggetti ivi previsti ”...possono presentare al Ministro ... denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente”.

Infine, ricorda la Corte costituzionale, tale interesse è suscettibile di tutela giurisdizionale già secondo principi generali, nonché in via peculiare secondo le norme dello stesso codice: infatti, l’art. 310 prevede espressamente l’azionabilità dinanzi al giudice amministrativo.

 

procedura di infrazione per inosservanza della direttiva 2004/35/CE

Nel 2008 la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione per inosservanza della direttiva 2004/35/CE, in relazione alla mancata previsione di ipotesi di responsabilità oggettiva, qualora il danno ambientale sia stato causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato III della direttiva, in violazione dell’art. 3, paragrafo 1, lettera a) e dell’art. 6 della stessa direttiva.
Inoltre la Commissione ha contestato il fatto che varie disposizioni del d. lgs. n. 152/2006 (artt. 311, 312 e 313) consentano che le misure di riparazione possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente pecuniario, in violazione degli articoli 1 e 7 e dell’allegato II della direttiva; la riparazione, primaria, complementare o compensativa costituisce, infatti, lo strumento ottimale per l’attuazione del fondamentale principio comunitario secondo cui “chi inquina paga”, al contrario del mero risarcimento pecuniario.
Si precisa che la riparazione primaria va intesa come qualsiasi misura di riparazione che riporti le risorse o i servizi naturali danneggiati alle condizioni originarie o verso le stesse condizioni.
Qualora ciò non avvenga, si provvederà alla riparazione complementare il cui scopo è di ottenere, anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali o di servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie.
La riparazione compensativa è avviata per compensare la perdita temporanea di risorse naturali e servizi in attesa del ripristino. La compensazione consiste in ulteriori miglioramenti alle specie ed agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo.
Nel caso in cui l'effettivo ripristino sia impossibile o eccessivamente oneroso, il valore monetario delle risorse o dei servizi perduti potrà essere quantificato, sempre però in vista di un “facere” - la riparazione del danno ambientale - non già al fine risarcitorio pecuniario equivalente. Con l’articolo 5-bis della legge n. 166/2009, è stato modificato l’art. 311, commi 2 e 3, del d. lgs. n.
152/2006, introducendosi l’espresso riferimento alle misure di riparazione, ferma restando la possibilità del risarcimento pecuniario in via sostituiva, qualora la riparazione venga omessa o risulti impossibile o eccessivamente onerosa.
Nel 2012 la Commissione europea ha nuovamente contestato il mantenimento in vigore di norme (articoli 311, 313, comma 2, e 314, comma 3, del d. lgs. n. 152/2006) le quali consentivano che le misure di riparazione potessero essere sostituite da risarcimenti pecuniari.
In relazione alle rinnovate contestazioni, è stato emanato l'art. 25 della legge n. 97/2013, con il quale è stato stabilito che, quando si verifica un danno ambientale, gli operatori responsabili che agiscono nell’ambito di particolari attività professionali “a rischio” sono oggettivamente obbligati all'adozione delle relative misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e solo quando costoro abbiano omesso o realizzato in modo incompleto o difforme le misure di riparazione prescritte, vengano determinati dal ministro dell’ambiente i costi delle attività necessarie a realizzare tali misure, costi che costituiscono non il risarcimento pecuniario ma il risarcimento per la mancata esecuzione delle riparazioni.In data 23/24.1.2014 la Commissione europea, in conseguenza delle modifiche apportate dall'art. 25 della legge n. 97/2013, ha disposto l’archiviazione delle procedure d'infrazione.

Giurisdizione del giudice contabile


Tuttavia, il successivo art. 313, al comma 6, prevede che «...nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, il Ministro (...), anziché ingiungere il pagamento del risarcimento per equivalente patrimoniale, invia rapporto all'Ufficio di Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio...».
Infine, l’art. 318 dispone l’abrogazione pressoché integrale dell’art. 18, della legge n. 349/1986.
Orbene, secondo la giurisprudenza prevalente, il complesso di queste norme ha, sostanzialmente, riattribuito alla Corte dei conti la giurisdizione sul risarcimento del danno ambientale, nei casi in cui lo stesso sia stato cagionato da un soggetto sottoposto alla giurisdizione contabile.
E’ stato, altresì, affermato l’importante principio secondo cui, in caso di danno ambientale provocato da amministratori o dipendenti pubblici il requirente contabile è tenuto ad attivarsi...anche in assenza della segnalazione del Ministro, il cui rapporto non può considerarsi, in assenza di un inequivoco disposto normativo, quale condizione di procedibilità dell’azione per danno erariale...» (cfr. Sez. giur. Molise n. 144/2010).
Deve, dunque, ritenersi che, allo stato, il Pubblico ministero contabile è nuovamente titolare (la prima volta, tuttavia, per effetto di una specifica, ancorché indiretta, previsione legislativa) del potere-dovere di promuovere l’azione per il risarcimento del danno ambientale provocato da pubblici amministratori e dipendenti, ed è, dunque, tenuto a prendere in considerazione e ad approfondire le vicende dannose che vengano portate a sua conoscenza.
Occorre precisare, però, che la concreta qualificazione di un fenomeno in termini di lesione dell’ambiente, alla stregua delle previsioni del Codice del 2006, non può prescindere dalle valutazioni espresse e dai provvedimenti emessi, in relazione alla medesima vicenda fattuale, dalle amministrazioni preposte alla tutela dell’ecosistema e del paesaggio.
Con la conseguenza che non potrà, ragionevolmente, ritenersi connotata da colpa grave (e, più a monte, di per sé stessa, dannosa) un’iniziativa che abbia ricevuto l’avallo degli uffici in questione.
Il che si verifica, ad esempio, per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, relativamente ai quali lo speciale procedimento autorizzatorio previsto dall’art. 12, commi 3 e 4 del D.lgs. n. 387/2003 impone lo svolgimento di una conferenza di servizi nella quale devono essere obbligatoriamente chiamati ad intervenire e ad esprimere il loro parere, generalmente vincolante, organi, sia statali (gli uffici periferici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), che regionali, istituzionalmente deputati, oltreché tecnicamente idonei, a valutare la compatibilità di tali iniziative imprenditoriali con l’integrità dell’ambiente (detto altrimenti, la loro “sostenibilità”).
E tanto, ovviamente, a condizione che detti uffici, così come tutti gli altri organismi pubblici coinvolti, a monte o valle, nella procedura autorizzatoria o certificativa, abbiano assunto le rispettive determinazioni nel pieno rispetto della disciplina generale sul procedimento amministrativo e di quella speciale e/o tecnica che governa la materia di competenza.
Diversamente, la valutazione da essi compiuta non sarebbe, ovviamente, preclusiva al perseguimento del danno ambientale o al paesaggio che ne sia conseguito, sempreché, s’intende, le violazioni normative o procedimentali eventualmente commesse siano suscettibili di essere qualificate, anch’esse, quanto meno, come gravemente colpose.
Il che si verificherebbe, ad esempio, laddove - per tornare all’esempio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti alternative - l’autorizzazione c.d. unica all’installazione e all’esercizio degli impianti ex art. 12, del D.lgs. n. 387/2003 sia stata rilasciata dal competente Servizio regionale, in difformità dai pareri obbligatori espressi in sede di conferenza di servizi dall’ufficio territoriale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali o dal servizio regionale preposto ai procedimenti di valutazione di impatto ambientale (VIA) o di valutazione ambientale strategica (VAS), ovvero, ancor peggio, se tali pareri non siano stati acquisiti o, addirittura, se gli impianti siano stati illegittimamente autorizzati al di fuori del procedimento di autorizzazione unica.

 

DOTTRINA

 

 

GIURISPRUDENZA

  • sentenza n. 1830/2008 della Corte dei Conti, Sez. Sardegna
  • “tale norma ha introdotto un chiaro discrimine nella giurisdizione in materia di danno ambientale, appartenente in via generale al giudice ordinario, salvo i casi in cui tale danno sia “provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti”, nel qual caso il Ministero non può agire autonomamente, ma deve limitarsi ad inviare “rapporto all'Ufficio di Procura regionale”, per l’azione di competenza dinanzi alla Sezione giurisdizionale della stessa Corte”.
  • Sez. Molise n. 144/2010
  • La materia del danno ambientale si inserisce nel quadro di espansione della giustizia contabile (cfr. Corte dei Conti, Sez. Sardegna sent. 1830/08), così come sancito dagli artt. 313, c. 6° e 318, c. 2 del d. lgs. 152/06 che attribuiscono nuove competenze alla Corte dei Conti in tale materia. Risulta ininfluente la mancanza di un rapporto del Ministero dell’Ambiente alla Procura regionale (da non considerarsi, in assenza di un inequivoco disposto normativo, quale condizione di procedibilità dell’azione per danno erariale).
  • Sez. Umbria n. 91/2011: Il d. lgl. n. 152/2006
  • affida alla cognizione della Corte dei conti il danno ambientale; infatti, da un lato, nel caso di danno all’ambiente provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione contabile, si prevede che il Ministero dell’Ambiente non agisca nei loro confronti con ordinanza-ingiunzione, ma invii rapporto alla Procura della Corte dei conti competente per territorio (art. 313, comma 6); dall’altro si abroga l’art. 18 della legge n. 349 del 1986, che limitava la giurisdizione della Corte al danno indiretto da spese sostenute dall’amministrazione per risarcire terzi dal danno ambientale da essa concausato (art. 318, comma 2, lett. a).
  • Sez. Toscana n. 273/2012
  • Anche a volere condividere la tesi difensiva circa la qualificazione come ambientale (e, perciò, soggetto, per il suo perseguimento, alla particolare disciplina di cui all’art. 313 del d. lgs. n. 152/2006) del danno contestato dalla Procura, la giurisdizione di questa Corte dei conti, a decorrere dall’entrata in vigore del più volte citato d. lgs., sarebbe ugualmente rinvenibile, anche in mancanza del “rapporto” del competente ministro, alla Procura regionale, attesa l’impossibilità, in assenza di una specifica norma, di considerare tale atto quale condizione di procedibilità per l’attivazione dell’azione per danno erariale (nei termini, Sez. giur. Molise n. 144/2010). In conclusione, nel respingere l’eccezione, il Collegio afferma, relativamente al presente giudizio, la giurisdizione di questa Corte.
  • Sez. Lazio n. 459/2013
  • L’esito declinatorio della giurisdizione di questa Corte trova nella specie conferma, versandosi in ipotesi di contestazione di “danno ambientale” in cui non sembra trovare spazio applicativo il sopraggiunto disposto normativo di cui all’art. 313 comma 6 del d.lvo n. 152 del 2006, visto che i soggetti investigati per reati ambientali sono soggetti diversi da quelli sottoponibili alla giurisdizione della Corte dei conti.

CASSAZIONE - giurisdizione

  • Cassazione a S.U., con sentenza n. 11229/2014
    “il danno ambientale è effettivamente tipologia di danno sottratto alla giurisdizione contabile dalla normativa applicabile ratione temporis (cfr. l'art. 18, comma 2, n. 349/1986) e, successivamente (cfr. gli artt. 313, comma 6 e 318 d.lgs. 152/2006), assoggettato a presupposti di procedibilità, che ne escludono la cognizione diretta da parte della Corte dei conti (cfr. Cass. 14846/11, 10733/98 e 7677/92)”.
  • PRIVA DI FONDAMENTO
  • Al contrario di quanto ritenuto dalla Cassazione, né l’art. 313, comma 6, né l’art. 318 del d.lgs. 152/2006 fanno il benché minimo accenno a “presupposti di procedibilità”. Vanno quindi condivise le conclusioni cui sono pervenute le Sez. Molise con sentenza n. 144/2010, Toscana con sentenza n. 273/2012: “Risulta ininfluente la mancanza di un rapporto del Ministero dell’Ambiente alla Procura regionale da non considerarsi, in assenza di un inequivoco disposto normativo, quale condizione di procedibilità dell’azione per danno erariale”.

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