Corte di Cassazione sentenza n. 373 del 13/01/2016.
Dichiarazione emendabile in sede di impugnazione della cartella di pagamento

La dichiarazione dei redditi, in quanto momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione e non fonte dell'obbligo tributario, né atto assimilabile ad una confessione, non può precludere al contribuente di dimostrare, in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva, l'inesistenza, anche parziale, di presupposti di imposta erroneamente dichiarati, purché siano osservati forme e termini previsti per l'istanza di rimborso, la quale può essere presentata, oltreché in caso di errore materiale, in quello di inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento, operando in maniera indifferenziata in tutte le ipotesi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell'errore nel versamento all'an o al quantum del tributo.

 

Svolgimento del processo

L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi, avverso la sentenza n. 16/34/09 della CTR del Piemonte, con la quale, confermando la sentenza di primo grado, fu accolto il ricorso della contribuente B.P. srl avente ad oggetto l'impugnazione della cartella esattoriale n. 073/2006/194023/67, con la quale l'Agenzia delle Entrate aveva provveduto al recupero dell'Irpeg conseguente al mancato versamento relativo a quanto esposto dalla contribuente nella dichiarazione annuale Irpeg per l'esercizio 2002.

La CTR, in particolare, nel ritenere l'emendabilità dell'errore commesso dalla contribuente nella

dichiarazione a fini Irpeg, consistente nell'aver indicato l'importo contenuto nel rigo relativo all'adeguamento agli studi di settore, notevolmente diverso da quello risultante dalle scritture contabili della società, ed evidentemente riconducibile al difettoso funzionamento del software, affermava che il termine entro cui esercitare tale rettifica doveva ritenersi quello previsto dall'art. 38 Dpr 602/73, che costituisce rimedio generale per tutte le azioni di indebito.

La contribuente resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso l'Agenzia denunzia la falsa applicazione dell'art. 38 Dpr 602/73 in presentato un'istanza di rimborso ma una dichiarazione rettificativa della propria dichiarazione dei redditi.

Con il secondo motivo si denunzia violazione dell'art. 2 comma 8 bis Dpr 322/1988 in relazione all'art. 360 n. 3) cpc, chiedendo alla Corte di dire se "alla presente fattispecie si applichi o no la norma giuridica, ricavata dall'art. 2 comma 8 bis Dpr 322/1998, secondo cui "la rettifica delle subdichiarazioni non di mera scienza contenute nella dichiarazione dei redditi non può essere effettuata dal contribuente oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo."

I due motivi che, in virtù dell'intima connessione, vanno unitariamente esaminati, sono infondati.

Ed invero, secondo il consolidato orientamento della S.C., cui intende darsi senz'altro continuità, la dichiarazione dei redditi del contribuente, affetta da errore, sia esso di fatto che di diritto, commesso dal dichiarante nella sua redazione è - in linea di principio - emendabile e ritrattabile, quando dalla medesima possa derivare l'assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico.

Ciò in quanto la dichiarazione dei redditi non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza "e di giudizio, modificabile in ragione dell'acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti, e costituisce un momento dell' "iter" procedimentale volto all'accertamento dell'obbligazione tributaria.

Un sistema legislativo che intendesse negare in radice la rettificabilità della dichiarazione, darebbe invero luogo a un prelievo fiscale inedito e, pertanto, non compatibile con i principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53, comma primo, Cost.) e dell'oggettiva correttezza dell'azione amministrativa (art. 97, comma primo, Cost.) (Cass. Ss.Uu. 15063/2002).

Come questa Corte ha già affermato, la dichiarazione dei redditi, in quanto momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione e non fonte dell'obbligo tributario né atto assimilabile ad una confessione, non può precludere al contribuente di dimostrare, in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva, l'inesistenza, anche parziale, di presupposti di imposta erroneamente dichiarati, purché siano osservati forme e termini previsti dall'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, disposizione che, autorizzando la presentazione dell'istanza di rimborso, oltreché in caso di errore materiale, in quello di "inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento", opera in maniera indifferenziata in tutte le ipotesi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell'errore nel versamento, all' "an" o al "quantum" del tributo.

Il contribuente può dunque contestare la debenza del tributo, frutto di errore nella dichiarazione presentata, anche in sede d'impugnazione della cartella di pagamento, nonostante la scadenza del termine di cui all'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, atteso che le dichiarazioni dei redditi sono, in linea di principio, sempre emendabili, anche in sede processuale, ove per effetto dell'errore commesso derivi, in contrasto con l'art. 53 Cost., l'assoggettamento del dichiarante ad un tributo più gravoso di quello previsto dalla legge (Cass. 4049/2015).

La facoltà, attribuita al contribuente dall'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, come introdotto dall'art. 2 del d.P.R. 7 dicembre 2001 n. 435, di emendare i propri errori mediante apposita dichiarazione integrativa entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, non interferisce, infatti, sull'effettivo esercizio del diritto al rimborso, né sulla facoltà di emendare i propri errori da parte del contribuente, in quanto deve ritenersi correlata al rispetto di detto limite temporale la sola possibilità di portare in compensazione il credito eventualmente risultante dalla dichiarazione dell'anno precedente.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Respinge il ricorso.

Condanna l'Agenzia delle Entrate alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida 4.000,00 € per compensi, oltre a rimborso forfettario per spese generali, in misura del 15%.

 

 

Corte di Cassazione sentenza n. 4049 depositata il 27 febbraio 2015. Dichiarazione emendabile anche in sede di impugnazione dell'atto impositivo.

Le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, né costituiscono titolo dell'obbligazione tributaria, ma sono dichiarazioni di scienza, sicché possono, in linea di principio, essere liberamente emendate e ritrattate dal contribuente, sin in sede processuale, se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l'assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico. Ne discende che il contribuente che abbia, in dichiarazione, assoggettato propri redditi ad imposta che ritiene non dovuta e provveduto al relativo versamento, in via di autotassazione, può chiederne la restituzione nel termine previsto dall'art. 38 del D.P.R. n. 602 del 1973. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4049 depositata il 27 febbraio 2015.


IL FATTO
Il caso trae origine da un ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con la quale, in una controversia concernente l'impugnazione di una cartella di pagamento, notificata ad una S.r.l. in liquidazione, e concernente IRAP dovuta e non versata per l'anno d'imposta 2001 – è stato sostenuto che, premessa la inclusione, ai fini della determinazione della base imponibile dell'IRAP, delle plusvalenze non derivanti da operazioni di cessione di azienda, nella fattispecie, la contribuente era incorsa in un errore formale nella compilazione della dichiarazione dei redditi, presentata nell'anno 2002 e relativa ai redditi prodotti nell'anno 2001, avendo indicato, al "rigo IQ1, tra le variazioni in aumento" l'importo "inerente alla sopravvenienza realizzata per la cessione d'azienda", provvedendo soltanto successivamente a presentare istanza di modifica del Modello Unico.
Ad avviso della Corte territoriale la contribuente, attivatasi per correggere l'errore, non era incorsa in alcuna decadenza, avendo "pieno diritto di chiedere l'applicazione dell'autotutela" al fine di non versare somme indebite, il cui pagamento avrebbe comportato in ogni caso il diritto del contribuente a rimborso.

Nel ricorso per cassazione, l'Agenzia delle Entrate censura la decisione dei giudici d'appello, in relazione all'art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322/1998, non avendo fatto corretta applicazione di tale normativa, che imponeva al contribuente, al fine di correggere gli errori e le omissioni a suo danno, relative alle dichiarazioni dei redditi ai fini IRAP, di presentare una dichiarazione integrativa non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo (che nella specie era l'anno 2002).

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate. Sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nel senso che, di regola, le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, né costituiscono titolo dell'obbligazione tributaria, ma sono dichiarazioni di scienza, sicché possono, in linea di principio, essere liberamente emendate e ritrattate dal contribuente, sin in sede processuale, se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l'assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico (cfr., anche, l'art. 53 Cost.).
Ne discende che il contribuente che abbia, in dichiarazione, assoggettato propri redditi ad imposta che ritiene non dovuta e provveduto al relativo versamento, in via di autotassazione, può chiederne la restituzione nel termine previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 (v., tra le altre, Cass. 29738/08, Cass. 1708/07, Cass. 4238/04), e per l'esercizio dell'istanza di rimborso non può ritenersi ostativa la scadenza del termine previsto dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis (introdotto dal D.P.R. n. 435 del 2001, art. 2, con effetto dall'1 gennaio 2002), che, incidendo sull'esercizio della "connessa, ma distinta, facoltà del contribuente di procedere ad emenda della dichiarazione resa mediante dichiarazione integrativa" non interferisce minimamente sull'esercizio del diritto al rimborso (Cass. 14932/2011).
In particolare, l'ultimo periodo della disposizione ("L'eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi del D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 11") rivela la specificità funzionale della dichiarazione integrativa.

I suddetti principi sono stati di recente affermati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 19537/2014: "In tema di imposte sui redditi, in base all'art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, coma introdotto dall'art. 2 del D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435, il contribuente è titolare della generale facoltà di emendare i propri errori mediante apposita dichiarazione integrativa, la quale, agli effetti dei termini di decadenza e stante la mancanza di modifiche allo specifico e autonomo regime delle restituzioni, non interferisce sull'effettivo esercizio del diritto al rimborso, atteso che l'ultimo inciso della disposizione citata, nel prevedere come termine ultimo per la presentazione della dichiarazione integrativa quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, correla al rispetto di detto limite temporale la sola possibilità di portare in compensazione il credito eventualmente risultante. Ne consegue che l'istanza di rimborso può essere proposta anche oltre il termine di presentazione della dichiarazione del periodo di imposta successivo".

Quindi la contribuente poteva, anche in sede di impugnazione della cartella di pagamento, contestare la debenza del tributo, in quanto frutto di un errore, della dichiarazione dei redditi presentata, emendabile.

Da qui il rigetto del ricorso dell'ufficio.

Le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono atti negoziali o dispositivi, né costituiscono titolo dell'obbligazione tributaria, ma sono dichiarazioni di scienza, sicché possono, in linea di principio, essere liberamente emendate e ritrattate dal contribuente, sin in sede processuale, se, per effetto di errore di fatto o di diritto commesso nella relativa redazione, possa derivare l'assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico. Ne discende che il contribuente che abbia, in dichiarazione, assoggettato propri redditi ad imposta che ritiene non dovuta e provveduto al relativo versamento, in via di autotassazione, può chiederne la restituzione nel termine previsto dall'art. 38 del D.P.R. n. 602 del 1973.

 

Corte di cassazione sentenza 19537 del 2014. Non è tardiva la dichiarazione integrativa presentata oltre il termine della dichiarazione del periodo d'imposta dell'anno successivo a quello per il quale era stato commesso l'errore

Con sentenza n. 19537/0014, la Corte di Cassazione ha riaffermato un importante principio in tema di rettifica di errori nella dichiarazione, in particolare precisando che il contribuente è titolare della generale facoltà di emendare i propri errori mediante apposita dichiarazione integrativa, la quale, agli effetti dei termini di decadenza e stante la mancanza di modifiche allo specifico e autonomo regime delle restituzioni, non interferisce sull'effettivo esercizio del diritto al rimborso, atteso che la legge, nel prevedere come termine ultimo per la presentazione della dichiarazione integrativa quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, correla al rispetto di tale limite temporale la sola possibilità di portare in compensazione il credito eventualmente risultante.


Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra l'Agenzia delle Entrate e un contribuente. La Commissione tributaria regionale, in conferma della sentenza CTP, ha respinto l'appello del contribuente ribadendo la legittimità del silenzio-rifiuto già opposto dall'Ufficio avverso l'istanza di rimborso IRPEF avanzata per l'anno 2002, presentata contestualmente alla dichiarazione rettificativa alla dichiarazione dei redditi per lo stesso anno. Ritiene la CTR che il rimborso era stato legittimamente negato, in ragione della tardività della predetta dichiarazione integrativa, presentata invero oltre il termine della dichiarazione del periodo d'imposta dell'anno successivo a quello per il quale era stato commesso l'errore. Né l'istanza di contestuale rimborso dell'imposta versata in eccedenza poteva permettere, con il suo più lungo termine di 48 mesi a decorrere dal pagamento o dal saldo, di recuperare la ritualità della dichiarazione integrativa, presentata solo nel 2006 e non nel 2004, trattandosi di istituti diversi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il contribuente, in particolare sostenendo che in astratto, la dichiarazione a favore del contribuente è emendabile con la dichiarazione integrativa ovvero con l'istanza di rimborso, ma in concreto, scelta la prima via, anche il rimborso non sarebbe stato più possibile, benchè formalmente oggetto di istanza contestuale alla dichiarazione rettificativa, ciò sul presupposto del censurato ritardo solo di quest'ultima.
La Cassazione ha accolto il ricorso, enunciando un interessante principio di diritto, già affermato in precedenza dalla Corte Suprema, ma che merita di essere qui ricordato perché di assoluto rilievo per gli operatori. La possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione, allegando errori di fatto o di diritto, incidenti sull'obbligazione tributaria, ma di carattere meramente formale, è esercitabile anche in sede contenziosa per opporsi alla maggiore pretesa dell'Amministrazione finanziaria, ed anche oltre il termine previsto per l'integrazione della dichiarazione (fissato in quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo), poiché questa scadenza opera, atteso il tenore letterale della disposizione, solo per il caso in cui si voglia mutare la base imponibile, ma non anche quando venga in rilievo un errore meramente formale.
Si tratta invero, puntualizzano i giudici della Suprema Corte, di un principio generale che non penalizza il contribuente il quale accompagni l'istanza di rimborso di quanto erroneamente dichiarato e versato, perché oltre il dovuto, ad una dichiarazione rettificativa di precedente dichiarazione rispetto al contribuente che invece, all'opposto, eviti la citata emenda e direttamente avanzi domanda di rimborso: se non operasse, per entrambe le situazioni, l'identica attrazione dell'esercizio del relativo diritto nella stessa (più lata) sfera decadenziale di cui all'art. 38, D.P.R. n. 602/1973, si attuerebbe un sacrificio non giustificabile della prima figura di contribuente. Invero, il contribuente che insta per il rimborso e però rettifica la precedente dichiarazione, al pari del mero istante in rimborso, evidenzia un credito e tuttavia, a differenza del secondo, presta un diverso e più intenso grado di collaborazione e trasparenza dichiarativa, adottando un modello enunciativo dell'intera propria situazione reddituale di maggiore analiticità, così esponendosi non solo ai controlli sulla dichiarazione ma altresì alle correlate responsabilità.
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza. L'istanza di rimborso può essere proposta anche oltre il termine di presentazione della dichiarazione del periodo d'imposta successivo.

 

 

L'emendabilità della dichiarazione dei redditi (Cass., n° 7294 dell'11 maggio 2012, e Cass., n° 12338 del 17 luglio 2012)
La Suprema Corte, dopo le recenti pronunce n° 5399/12 e n° 5852/12, affronta nuovamente il tema afferente la rettifica della dichiarazione dei redditi, affermando che la possibilità di "ritrattare" la medesima è ammessa limitatamente per gli errori "riconducibili ad una non corretta esternazione di scienza e di giudizio", escludendo – di conseguenza – l'emendabilità della dichiarazione in caso di "errori riferibili ad una manifestazione di volontà negoziale".

 

La Cassazione pone dei limiti all'emendabilità delle dichiarazioni dei redditi. Se agli errori commessi è quindi possibile sempre porvi rimedio, ben diversa è la situazione quando l'errore riguarda una "manifestazione di autonomia negoziale del soggetto". Si legge nelle motivazioni della sentenza, "L'affermazione di una generale ed automatica emendabilità degli errori commessi dal contribuente nella redazione della dichiarazione, tuttavia, non può ritenersi estesa alla dichiarazione dei redditi "tout court", ma deve correttamente circoscriversi alla indicazione di quei dati, relativi alla quantificazione delle poste reddituali positive o negative, che integrino errori tipicamente materiali (ad es. errori di calcolo od anche errata liquidazione degli importi), ovvero anche formali (concernenti la esatta individuazione della voce del modello da compilare nella quale collocare la posta), rimanendo a tali ipotesi estranea la concreta fattispecie in esame in cui – come riconosciuto peraltro dalla stessa società ricorrente – il contribuente, con la stessa dichiarazione, viene ad esercitare una facoltà di opzione riconosciutagli dalla norma tributaria (art. 102 TUIR nel testo vigente "ratione temporis"), potendo, alternativamente, scegliere liberamente o di portare in diminuzione dal reddito dichiarato le perdite (maturate nel precedente quinquennio), oppure di riportare nelle dichiarazioni relative ai successivi anni di imposta le perdite (verificatesi non anteriormente al quadriennio) non utilizzate per la compensazione. Tale opzione integra esercizio di un potere discrezionale di scelta nell' "an" e nel "quando" riconducibile ad una tipica manifestazione di autonomia negoziale del soggetto che è diretta ad incidere sulla obbligazione tributaria e sul conseguente effetto vincolante di assoggettamento alla imposta, e dunque eventuali errori della volontà espressa dal contribuente assumono rilevanza soltanto ove sussistano i requisiti di essenzialità e riconoscibilità ex art. 1428 c.c., norma che trova applicazione, ai sensi dell'art. 1324 c.c., anche agli atti negoziali unilaterali diretti ad un destinatario determinato (cfr. Corte Cass. III sez. 1.10.1993 n. 9777. In termini, con riferimento alla opzione prevista dall'art. 36 bis del Dpr n. 633/72 per avvalersi del regime di dispensa dagli obblighi di fatturazione e registrazione relativi ad operazioni esenti, esercitata mediante la dichiarazione annuale IVA: cfr. Corte Cass. I sez. 273.1997 n. 2732; id. I sez. 19.9.1997 n. 9310; id. I sez. 5.11.1998 n. 11102)".

 

Sentenza n. 5852 dell’8 marzo 2013 (ud. del 23 ottobre 2012) della Corte Cass., Sez. civ. V

Svolgimento del processo

L’Agenzia dell’Entrate - Ufficio di ..., con avviso di accertamento, notificato il 19.12.2001, provvedeva a rettificare la dichiarazione dei redditi presentata da ... per l’anno di imposta 1996. In particolare, la rettifica riguardava la voce relativa al reddito di lavoro autonomo dichiarato dal contribuente che veniva rideterminato a seguito della rilevata non congruità dei ricavi riportati in dichiarazione rispetto a quelli risultanti dall’applicazione dei parametri previsti dalla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181.

Il contribuente e ..., coniuge responsabile in solido L. 13 aprile 1977, n. 114, ex art. 17, impugnavano il suddetto avviso di accertamento con ricorso che veniva accolto dalla Commissione di prima la istanza la quale riteneva l’accertamento illegittimo ed infondato quanto ai presupposti di fatto.

Proposto appello dall’Agenzia delle Entrate la Commissione Tributaria Regionale con sentenza n. ..., depositata il ..., in riforma della sentenza impugnata, ritenuto legittimo l’accertamento determinava i maggiori ricavi nella misura, già accettata dallo stesso Ufficio in contraddittorio con il contribuente di lire ....

Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi, ... e ..., illustrato da successiva memoria deposita ex 378 c.p.c..

L’Agenzia delle Entrate depositava atto di costituzione.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 400 del 1998, art. 17, comma 4, relativamente alla ritenuta applicabilità dei parametri previsti dal D.P.M.C. del 29.1.1996 nonché, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione su un punto decisivo della controversia.

Secondo la prospettazione difensiva la Commissione Tributaria Regionale, nel ritenere la legittimità dei parametri previsti dall’indicato D.P.M.C., avrebbe fatto riferimento unicamente ad una pronuncia di questa Corte, pronunciata in diversa materia (legittimità di accertamento induttivo basato su percentuali di ricarico), omettendo sostanzialmente di pronunciare sulla questione dedotta della illegittimità dei DPMC in quanto adottati nella carenza del parere del Consiglio di Stato come previsto dalla L. n. 400 del 1998, art. 17.

1.1 Il motivo attinente al vizio motivazionale è infondato.

Il rinvio operato dalla Commissione Tributaria Regionale ad una pronuncia di questa Corte riguarda ovviamente la motivazione in diritto di detta sentenza e, quindi, esula dalle ipotesi

Sentenza n. 5852 dell’8 marzo 2013 (ud. del 23 ottobre 2012) della Corte Cass., Sez. civ. V

contemplate dal vizio dedotto concernenti solo il rinvio per relationem a motivazione “in fatto” di altra decisione.

1.2 Egualmente infondato il dedotto vizio per violazione di legge.

Al decreto del Presidente dei Consiglio dei Ministri,, di cui si tratta, non è attribuibile natura normativa, ma solo quella di atto amministrativo per indicare la determinazione dei presupposti sulla base dei quali procedere all’accertamento dei ricavi e, quindi, dell’imposizione per i soggetti passivi delle varie imposte.

La fonte normativa istitutiva dell’accertamento eseguito sulla base di parametri va rinvenuta nella L. n. 549 del 1995, art. 3, commi da 181 a 189, e tale normativa, oltre a prevedere l’applicazione dei parametri per la definizione delle imposte D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. D), e la competenza del Dipartimento delle Entrate presso il Ministero delle finanze ad elaborarli, al comma 186, prevede la procedura per l’approvazione degli stessi: “I parametri di cui al comma 184, sono approvati con decreti del presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro delle Finanze da pubblicare nella Gazzetta ufficiale entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Il Ministero delle finanze provvede alla distribuzione gratuita anche tramite le associazioni di categoria e degli ordini professionali, dei supporti meccanografici contenenti i programmi necessari per il calcolo dei ricavi o dei compensi sulla base dei parametri”.

Conseguentemente, essendo stata prevista per l’emissione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri in questione, per espressa disposizione di legge, una procedura speciale e derogatoria rispetto a quella statuita dalla L. n. 400 del 1988, art. 17, non è invocabile, nella specie, tale ultima norma (cfr. Cass. Sez. 5^ n. 27656 del 2008; id n. 16055 del 2010).

2. Con il secondo motivo, si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., e dell’art. 2729 c.c., nonché, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, contraddittoria ed omessa motivazione su punti decisivi della controversia con riferimento all’applicazione delle metodologie parametriche di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate e di rettifica del reddito del contribuente in assenza di indagini preliminari da parte dell’ufficio ovvero di emersione di differenze sostanziali tra i dati raccolti a seguito di tali indagini ed i dati dichiarati dal contribuente ed, in assenza, quindi, di altri elementi che possano generare presunzioni aventi il carattere della gravità, precisione e concordanza.

In particolare i ricorrenti sostengono che lo scostamento parametrico dei ricavi non può assurgere a dignità di prova poiché privo dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, ed, in particolare, che ai fini dell’applicazione delle metodologie settoriali e parametriche di accertamento è imprescindibile che l’Ufficio svolga preliminarmente quelle indagini a cui è facultato dal

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D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, dalle quali devono emergere differenze sostanziali tra i dati raccolti e quelli contabilizzati e dichiarati dal contribuente. In altri termini, sempre secondo la prospettazione difensiva, i parametri non possono costituire essi stessi elementi sufficienti a motivare l’accertamento ma sono semplici indizi che, unitamente e a completamento di altri elementi acquisiti dall’ufficio, possono tutti insieme generare presunzioni semplici aventi i caratteri della gravità precisione e concordanza.

L’accertamento impugnato, aggiungono i contribuenti, era invece fondato esclusivamente sulle acritiche risultanze di mere elaborazioni statistico-matematiche che prescindevano dalla effettiva capacità contributiva del soggetto accertato e non potevano costituire di per sè sole presunzioni gravi, precise e concordanti in violazione dell’art. 53.

2.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte, con pronuncia a Sezione Unite (n. 26635 del 18/12/2009) ha statuito che “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.

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Sentenza n. 5852 dell’8 marzo 2013 (ud. del 23 ottobre 2012) della Corte Cass., Sez. civ. V

In particolare, poi, le Sezioni Unite hanno puntualizzato che quel che da sostanza all’accertamento mediante l’applicazione dei parametri è il contraddittorio con il contribuente dal quale possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica dell’impresa la “presunzione” indotta dal rilevato scostamento del reddito dichiarato dai parametri.

2.2. Nel caso a mano, la Commissione Tributaria Regionale ha pronunciato facendo corretta applicazione dei principi, sopra illustrati, laddove da un canto ha rilevato che l’accertamento trovava la sua fonte non nella mera applicazione dei parametri e nello scostamento da questi dei redditi dichiarati ma dallo stesso confronto dei dati contabili presentati dal contribuente il quale solo per l’anno in esame (1996) aveva dichiarato compensi incassati in misura (inferiore) totalmente diversa da quella (superiore) dichiarata negli anni precedenti e successivi; dall’altro ha rilevato come il contraddittorio fosse stato regolarmente instaurato e si fosse, peraltro, concluso in senso parzialmente favorevole al contribuente (avendo l’Ufficio proposto, sulla base dei documenti apprestati dallo stesso contribuente, una nuova determinazione dei compensi detraendo l’importo delle fatture emesse nel 1997 relative ad attività prestata nel 1996 e riducendoli del 20% a fronte della ridotta attività lavorativa).

3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, relativamente alla pronuncia fondata dalla Commissione su norma di legge e principi non richiamati dall’Agenzia delle Entrate in atto di appello.

I ricorrenti lamentano che la C.T.R., nel decidere la controversia abbia fatto riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, norma che non era stata richiamata dall’Ufficio il quale, nell’atto di appello avrebbe espressamente precisato che “nel caso de quo la rettifica del reddito avviene ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3”.

3.1. Il motivo non merita accoglimento.

Dalla lettura della sentenza appellata (ed in particolare dallo svolgimento del processo) emerge che, con il primo motivo di appello, l’Ufficio aveva invocato, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, proprio il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, mentre dalla motivazione non si coglie neppure l’esistenza della denunciata ultrapetizione laddove, peraltro, i ricorrenti non hanno neppure riportato il relativo passo motivazionale. Ma, soprattutto, va rilevato che, in nessun caso, l’applicazione di diversa norma di legge rispetto a quella invocata a sostegno dell’impugnazione (così come genericamente dedotto in motivo) integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., afferente alla diversa ipotesi di mancata, ovvero non corrispondente, statuizione in ordine alle domande od eccezione proposte.

4. Con il quarto motivo, i ricorrenti - deducendo omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, su un punto decisivo della controversia - impugnano la sentenza della Commissione Tributaria emiliana, nella parte in cui ha ritenuto equo determinare il maggior

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Sentenza n. 5852 dell’8 marzo 2013 (ud. del 23 ottobre 2012) della Corte Cass., Sez. civ. V

reddito del contribuente nella misura in un primo tempo accettata dall’ufficio in sede di contraddittorio svoltosi preliminarmente all’accertamento.

Secondo la prospettazione difensiva la C.T.R., nel determinare i maggiori ricavi, sarebbe incorsa in omessa motivazione, non dando conto delle ragioni per cui riteneva equo determinare il maggior reddito nella misura proposta dall’Ufficio e non accettata da esso contribuente.

4.2. Il motivo è infondato.

Il riferimento specifico operato, nella sentenza impugnata, alla proposta formulata dall’Ufficio ed alla documentazione presentata dal contribuente in sede di contraddittorio, integra esplicitazione, sufficiente ed idonea, dei motivi che hanno condotto la C.T.R. a determinare i maggiori ricavi.

5.In conclusione il ricorso va rigettato ed, in ossequio al principio della soccombenza, i ricorrenti condannati alla refusione in favore dell’Agenzia delle Entrate dei compensi di lite come liquidati in dispositivo.

P .Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti alla refusione in favore dell’Agenzia delle Entrate dei compensi di lite che liquida in Euro ..., oltre spese prenotate a debito.