Allontanamento del minore dalla famiglia ex art. 403 c.c. e responsabilità del sindaco

Cassazione Civile, Sez. III, 16 ottobre 2015, n. 20928 - Pres. Salmè - Est. Lanzillo - Comune No- va Milanese c. B.F.

Il carattere gravemente colposo delle condotte commissive ed omissive degli assistenti sociali, determinanti l’allontanamento del minore dal proprio nucleo familiare in assenza di ragioni tali da giustificare un tale prov- vedimento, configura la responsabilità dell’Amministrazione comunale per fatto dei propri dipendenti e l’obbligo della stessa di risarcire i genitori del minore che abbiano subito la lesione della integrità e della serenità del loro nucleo familiare. In ipotesi siffatte, dunque, il Comune è chiamato a rispondere ex art. 2049 c.c. sulla base di una fattispecie di responsabilità che gli è addebitabile oggettivamente, per effetto della condotta col- posa dei suoi dipendenti, nell’esercizio delle loro specifiche funzioni e non anche ex art. 2043 c.c. per la illicei- tà del provvedimento di allontanamento di cui all’art. 403 c.c. Ne consegue che ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria non assume rilievo l’omessa prova degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c., né la circostanza che il provvedimento non sia stato fatto oggetto di annullamento

Nell’ambito della tutela minorile, l’art. 403 c.c. prevede l’intervento della pubblica autorità a favo- re dei minori, affermando che quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è al- levato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone, che per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi, sono incapaci di provvedere alla sua educazione, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione.

Sono sorte questioni sull’identificazione della Pubblica Autorità, indicata nella norma in esame, dopo la concorde esclusione del Tribunale per i minorenni.

La prevalente dottrina è che tale Pubblica Autorità possa essere identificata nell’autorità di pubblica sicurezza, come confermato anche dall’art. 13 Cost. che demanda a tale autorità, in casi di necessità ed urgenza tassativamente previsti dalla legge, il potere di adottare provvedimenti provvisori, tali da non incidere sull’altrui libertà personale.

Si ritiene altresì competente ad adottare tali tipi di provvedimenti (di carattere non afflittivo, ma preordinato alla realizzazione dell’interesse di chi li “subisce”) l’autorità amministrativa che operi in materia di assistenza dei minori. Ne consegue che legittimati all’assunzione degli interventi “a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia” non sono i singoli operatori sociali, bensì l’autorità da cui dipende il servizio di assistenza sociale comunale per minori, come appunto il Sindaco.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 9 giugno – 16 ottobre 2015, n. 20928
Presidente Salmé – Relatore Lanzillo

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 21 aprile 2005 B.F. ed Bo.El. , in proprio e quali esercenti la potestà parentale sui figli minori, A. e G. , hanno convenuto davanti al Tribunale di Monza il Comune di Nova Milanese, in persona del Sindaco in carica, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., in relazione al comportamento illecito degli addetti ai servizi sociali, i quali – basandosi esclusivamente sulle dichiarazione di una maestra d’asilo, che aveva ritenuto di ravvisare il sospetto di molestie sessuali parte del padre sulla minore G. , nata nel (OMISSIS) – avevano ottenuto dal Sindaco un provvedimento di allontanamento della minore dalla casa familiare e di affidamento al Comune, emesso ai sensi dell’art. 403 cod. civ. il 26 maggio 2004, e ratificato dal Tribunale per i minorenni il giorno successivo.
A seguito di ulteriori indagini anche tramite CTU, il Tribunale dei minori aveva poi disposto con decreto 29 novembre 2004, il rientro in famiglia della bambina, con il supporto di un Centro specializzato, e con successivo decreto 8 giugno 2005 aveva revocato ogni provvedimento a tutela di G. , dando atto che gli accertamenti condotti nei sei mesi in cui la bambina era stata allontanata dalla famiglia non avevano fatto emergere “elementi compatibili con la possibile sussistenza di molestie sessuali ai suoi danni”, né contenuti atti a far ipotizzare disturbi della personalità od altri aspetti patologici.
Da qui la domanda risarcitoria dei familiari.
Il Comune ha resistito alle domande, che il Tribunale ha accolto, condannando il convenuto al risarcimento dei danni.
Proposto appello principale dal Comune e incidentale dagli attori in primo grado, con sentenza 28 giugno – 14 settembre 2011 n. 2525 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, ponendo a carico del Comune le spese del grado.
Il soccombente propone sei motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso gli intimati.

Motivi della decisione

1.- È logicamente e giuridicamente preliminare ad ogni altra questione l’esame del sesto motivo di ricorso, che denuncia violazione degli art. 99 e 100 cod. proc. civ., sul rilievo che la domanda di risarcimento dei danni proposta dagli attori avrebbe dovuto essere indirizzata contro lo Stato e non contro il Comune, in quanto il Sindaco, nell’emettere l’ordinanza provvisoria e urgente di cui all’art. 403 cod. civ., ha agito quale ufficiale del governo e non quale rappresentante della comunità locale, essendo in questione la tutela dei diritti della famiglia e delle persone nell’ambito della comunità familiare, materia la cui regolamentazione è riservata allo Stato.
1.1.- L’eccezione è inammissibile.
Va premesso che essa attiene non alla legittimazione passiva in senso tecnico – cioè all’individuazione del soggetto titolare della capacità processuale di rappresentare la parte nel giudizio e legittimato a subire gli effetti della decisione (Cass. civ. Sez. 3, 23 ottobre 2014 n. 22503) – bensì alla titolarità del rapporto controverso, cioè all’individuazione del soggetto a cui si addebita la responsabilità per i danni.
L’eccezione è infatti diretta a dimostrare che il soggetto responsabile dei danni non è il Comune, ma lo Stato, per avere il Sindaco agito nell’esercizio dei poteri che gli spettano quale ufficiale del governo, anziché quale rappresentante e amministratore dell’ente locale.
In quanto tale, attiene al merito della controversia ed è quindi soggetta alle preclusioni di legge, dettate per ciascun grado di giudizio (Cass. civ. Sez. 3, 14 giugno 2006 n. 13756; Cass. civ. Sez. 1, 29 settembre 2006. n. 21192, fra le tante), fra le quali l’avvenuta formazione del giudicato interno.
Nella specie il Tribunale ha respinto l’eccezione, con sentenza che non risulta essere stata per questa parte impugnata.
Il ricorrente non ha dedotto (e men che mai dimostrato) di avere proposto specifico motivo di appello contro questo capo della sentenza di primo grado; né il motivo di impugnazione figura fra le conclusioni delle parti, precisate nell’apposita udienza e trascritte nella sentenza di appello.
La questione non può essere quindi riproposta in questa sede.
2.- Con il primo motivo di ricorso il Comune denuncia violazione degli art. 101, 115, 116, 194 e 195 cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 3 e 24 Cost., sul rilievo che gli addebiti di incompetenza rivolti al personale dei Servizi sociali si fondano esclusivamente sulla CTU psicodiagnostica, redatta dal Dott. R.A. , in violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa di esso ricorrente, trattandosi di perizia redatta nel corso del giudizio svoltosi davanti al Tribunale dei minori, giudizio al quale il Comune è rimasto estraneo, e diretta ad accertare non gli asseriti inadempimenti del personale dei Servizi sociali, bensì solo “la situazione psico-emotiva, affettiva, relazionale della minore anche in rapporto alle figure genitoriali“.
Lamenta che la Corte di appello non abbia preso in esame le censure da esso rivolte alla perizia R. , i cui rilievi avrebbero la mera valenza di pareri personali, privi di ogni riscontro oggettivo e animati da sterili intenti di polemica nei confronti della psicologa del Comune.
Quanto agli impedimenti frapposti ai contatti fra la minore e la famiglia, fa rilevare che, quanto meno a decorrere dal 7 luglio 2004, data del decreto con cui il Tribunale dei minori ha disposto la CTU, l’incarico di regolare i rapporti della piccola G. con genitori e parenti è stato affidato allo stesso CTU, il quale ha per la prima volta incontrato e visitato la bambina solo nel settembre successivo, dopo apposita istanza dei genitori per sollecitarlo a provvedere.
3.- Il motivo non è fondato.
3.1.- La Corte di appello ha tratto argomento a dimostrazione dell’imperizia degli operatori dei Servizi sociali non solo dalla relazione del CTU, ma dalla stessa difesa del Comune, che ha presentato l’assistente sociale e la psicologa come vittime del comportamento della maestra C. , dipendente statale, la quale ha costruito il quadro accusatorio a carico del padre di G. , ed ha rilevato che ciò costituisce la prima ammissione (involontaria) “...del deficit di professionalità degli operatori dei Servizi sociali di Nova Milanese, evidentemente incapaci di condurre una verifica rigorosa e critica della segnalazione proveniente da un soggetto, quale la maestra C. , della cui affidabilità...chiunque avrebbe avuto motivo di dubitare, sol che avesse brevemente riflettuto sull’inaccettabilità del comportamento di un’educatrice che aveva condotto per almeno sei mesi...una sua personalissima ed assai discutibile istruttoria sull’ipotesi di molestie sessuali alla piccola G. da parte del padre, suggerendo alla bambina le risposte più confacenti alla conferma della tesi accusatoria ed omettendo inspiegabilmente, di coinvolgere i genitori, a fronte di un sospetto tanto grave, come anche di informare l’autorità deputata alla repressione dei reati (la polizia giudiziaria, il pubblico ministero presso il Tribunale ordinario), riuscendo in tal modo a violare tanto i doveri connessi alla funzione educativa quanto l’obbligo giuridico, che incombe su tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, di denunciare i reati dei quali siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni” (Sentenza di appello, pag. 8-9).
Trattasi di valutazioni e di addebiti di responsabilità fondati sulla considerazione complessiva dei comportamenti del personale del Comune, che vanno oltre il problema dell’attendibilità degli accertamenti peritali: attendibilità che peraltro il Tribunale dei minori – all’esito della completa istruttoria – ha riscontrato e confermato, restituendo la bambina alla famiglia.
3.2.- Va soggiunto che il ricorrente non ha specificato in questa sede, a supporto dei suoi giudizi di inaffidabilità del parere del Dott. R. , quali prove e quali documenti fossero stati acquisiti dal personale del Comune, al fine di giustificare l’allarme circa la sussistenza di una situazione di pericolo per la bambina, tale da imporre la richiesta al Sindaco del radicale e traumatico provvedimento di allontanamento dalla famiglia. Questa Corte si rende conto della delicatezza e della problematicità delle questioni oggetto di causa e delle difficoltà che le istituzioni a tutela dei minori possono incontrare nel formulare ex ante, sulla base di quanto sia possibile conoscere ed accertare a priori, il giudizio relativo alla sussistenza di situazioni di pericolo per i minori: con la consapevolezza dei danni che potrebbero derivare dal mancato, tempestivo intervento di tutela, ove poi le accuse si rivelino fondate.
Resta il fatto che la valutazione circa il carattere più o meno giustificato del comportamento degli operatori sociali inevitabilmente investe gli accertamenti, i documenti e le risultanze istruttorie acquisiti agli atti, sulla base dei quali i giudici del merito hanno espresso il loro giudizio.
Tali accertamenti, documenti, ecc., non sono in alcun modo richiamati nel ricorso, al fine di dimostrare l’ipotetica pesantezza degli indizi di pericolo, acquisiti dal Comune; la fondatezza in concreto degli addebiti di inattendibilità rivolti alla perizia R. , e conseguentemente l’asserita illogicità, insufficienza o inadeguatezza della motivazione della Corte di appello, che ne ha recepito le valutazioni.
Il ricorrente neppure spiega perché non sia stata interessata della vicenda l’autorità giudiziaria, a cui spetta il compito di procedere alle opportune indagini, al fine di chiarire quale sia l’effettiva situazione del minore, nei casi dubbi.
3.3.- Il potere del Sindaco di intervenire direttamente sull’ambiente familiare ai sensi dell’art. 403 cod. civ. è previsto per i casi di “abbandono morale e materiale” (trascuratezza, mancanza di cure essenziali, percosse, ambiente insalubre o pericoloso, ecc.) ed in genere per situazioni di disagio minorile che siano palesi, evidenti o comunque di agevole e indiscutibile accertamento, al fine di adottare in via immediata i provvedimenti di tutela contingibili e urgenti, che si appalesino necessari.
L’autorità amministrativa non ha invece poteri di indagine e di istruttoria sul singolo caso, in relazione a vicende delicate e complesse quali quella di cui trattasi, nata dall’interpretazione da parte di terzi delle parole – non si sa quanto spontanee o sollecitate – di una bambina di cinque anni, prive di ogni oggettivo riscontro.
L’ente amministrativo deve in tal caso rivolgersi – ovviamente con la tempestività e l’urgenza del caso – alle istituzioni specificamente competenti in materia, quali il Tribunale per i minorenni e se del caso il pubblico ministero, come ha ben rilevato la sentenza impugnata.

Si ricorda che si è a suo tempo discusso se la legge 4 maggio 1983 n. 184 sull’adozione speciale, ed in particolare l’art. 2 della legge stessa, relativo all’affidamento a terzi dei minori privi di un ambiente familiare idoneo, avesse implicitamente abrogato l’art. 403 cod. civ., e la soluzione è stata negativa proprio in base al rilievo che l’art. 403 si riferisce esclusivamente agli interventi urgenti, da realizzare nella fase anteriore ai provvedimenti relativi all’affidamento, e che deve essere per il resto coordinata con le disposizioni della legge sull’adozione speciale, il cui art. 9 impone ai pubblici ufficiali, agli incaricati di pubblico servizio ed in genere al personale che venga a conoscenza di situazioni di pregiudizio per il minore di segnalare tali situazioni al procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, a cui spetta il compito si procedere alle relative indagini (cfr. Cass. civ. Sez. 1, 10 agosto 2007 n. 17648, in particolare § 4 della motivazione).
Non si può che condividere quindi il giudizio della Corte di appello, secondo cui il personale del Comune è incorso da un lato in imperizia nel gestire la vicenda, facendo affidamento sui sospetti di persona priva della competenza richiesta per la valutazione del caso, anziché percepire la delicatezza della situazione e la necessità di procedere ad ulteriori ed approfondite indagini da parte degli organi giudiziari competenti; dall’altro lato in negligenza ed incuria, avendo – su tali precarie basi – sollecitato un provvedimento grave e traumatico quale l’allontanamento della minore dalla famiglia per vari mesi.
3.4.- Quanto all’addebito al Comune di Nova Milanese di avere impedito ogni contatto della bambina con i familiari, nel periodo del suo ricovero in comunità protetta, vero è che dopo la nomina del CTU l’incarico di regolare i rapporti con i genitori è stato affidato al medico-psicologo incaricato.
Ma la Corte di appello ha accertato che – prima ancora della nomina del CTU – i genitori di B.G. hanno più volte sollecitato un incontro con la bambina (con istanze 22 giugno e 5 luglio 2004 al Tribunale dei minori), e che ancora in data 8 luglio 2004 i Servizi sociali di Nova Milanese hanno dato parere negativo, affermando che l’incontro appariva prematuro e tale da pregiudicare “la presa in carico” della bambina ed “eventuali altre sue rivelazioni” (pag. 5 della sentenza).
Il ricorrente non può disattendere, quindi, il giudizio di responsabilità a suo carico per le decisioni assunte fino alla suddetta data, considerato il carattere non certo esaustivo della giustificazione addotta (che fra l’altro dimostra il persistere dell’ingiustificato orientamento inquisitorio e colpevolista, pur in mancanza di adeguate indagini e nonostante il sopraggiunto intervento del Tribunale per i minori); considerato altresì che il periodo di tempo non breve, già decorso dall’allontanamento della bimba dalla famiglia è stato anche il periodo iniziale, allorché il trauma del distacco ha presumibilmente avuto l’incidenza maggiore su tutti i soggetti coinvolti.
4.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2043 cod. civ., assumendo che la Corte di appello avrebbe emesso il giudizio di responsabilità a suo carico in mancanza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, avendo il Sindaco emesso un provvedimento che rientra nella sua competenza e che non è stato impugnato o annullato; non essendo stati dimostrati il dolo o la colpa del personale, il cui accertamento sarebbe indispensabile ai fini dell’addebito di responsabilità alla pubblica amministrazione per gli atti inerenti all’esercizio delle sue funzioni; né il nesso causale fra il preteso illecito e il danno, che dovrebbe considerarsi interrotto dal provvedimento del Tribunale dei minori che ha ratificato l’ordinanza del Sindaco, prima dell’allontanamento della bambina dalla famiglia.
5.- Il motivo è inammissibile, perché non congruente con le ragioni della decisione, in quanto tutte le censure sono articolate sull’erroneo presupposto che l’illecito addebitato al Comune consista nel fatto di avere emesso il provvedimento di allontanamento di cui all’art. 403 cod. civ..
Al contrario, come ha ben rilevato la Corte di appello, l’illecito attribuito dagli attori al Comune non consiste nella mera adozione di un provvedimento illegittimo, quanto piuttosto nella responsabilità per il fatto dei suoi dipendenti, le cui condotte commissive ed omissive sono state ritenute gravemente colpose e lesive del diritto degli attori all’integrità ed alla serenità del loro nucleo familiare (Sentenza, pag. 7).
Il Comune è stato chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sulla base di una fattispecie di responsabilità che gli è addebitabile oggettivamente, per effetto della condotta colposa dei suoi dipendenti, nell’esercizio delle loro specifiche incombenze.
Irrilevante è il fatto che il provvedimento non sia stato impugnato o annullato, perché non esso, bensì i suoi presupposti, cioè il comportamento colposo degli operatori dei Servizi sociali, del cui comportamento il Comune è tenuto a rispondere, costituiscono la ragione della condanna.
Parimenti irrilevante, per la stessa ragione, è il fatto che il provvedimento sia stato ratificato dal Tribunale per i minorenni (né il ricorrente ha prospettato a carico dello stesso un ipotetico concorso di colpa).
6.- Il terzo motivo è assorbito nella parte in cui ripropone, sotto il profilo dei vizi di motivazione, le medesime censure già formulate con il primo motivo, circa il credito che la Corte di appello avrebbe ingiustificatamente attribuito alla perizia R. .
È assorbito, oltre che inammissibile, nella parte in cui censura il fatto che la Corte di appello non abbia proceduto a più approfondita istruttoria sulla vicenda, tramite l’ammissione delle prove dedotte dalle parti, considerato che le ragioni addotte a sostegno della condanna e sopra richiamate sono state ritenute esaustive, con motivazione ineccepibile e non soggetta a censura in questa sede.
7.- Con il quarto motivo, denunciando violazione degli art. 2043, 2059 e 1226 cod. civ., il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia confermato la sentenza del Tribunale, la quale ha attribuito ad ognuno dei danneggiati, in aggiunta al risarcimento del danno biologico, somme di vario importo a compenso di imprecisati “danni non patrimoniali diversi da quelli morali”. Donde la violazione dei principi enunciati da questa Corte circa la necessità di quantificare le varie voci di danno non patrimoniale in un’unica somma, evitando duplicazioni risarcitorie (Cass. civ. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972) e di fornire specifica dimostrazione dei danni stessi. 7.1.- Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha motivato la sua decisione sul rilievo che il primo giudice ha basato le sue conclusioni in punto liquidazione sulle risultanze di specifica CTU, finalizzata alla valutazione della sussistenza di eventuale danno biologico da patologia psichica collegabile in rapporto causale con gli eventi per cui è causa, e che “...nell’obiettiva difficoltà di ancorare la misura del risarcimento a parametri utilizzati per i casi simili, posto che vicende del genere di quella dedotta in causa non sono per fortuna frequenti, le determinazioni sul punto del primo giudice (Euro 50.000,00 per A. e 60.000,00 per G. ) rappresentano un equilibrato e ragionevole compromesso fra l’esigenza di assicurare un ristoro effettivo della sofferenza cagionata ai due bambini da un trauma affettivo che potrebbe segnare l’intera loro vita e la necessità di evitare che l’azione risarcitoria possa essere strumentalizzata allo scopo di trame un ingiustificato profitto”.
Trattasi di motivazione congrua e logica che preclude ogni riesame in questa sede del giudizio, essenzialmente equitativo, formulato dalla Corte di merito.
Va peraltro ricordato che l’esigenza di includere in un’unica somma le varie voci risarcitorie che compongono i danni non patrimoniali non sta ad escludere che la somma complessivamente liquidata ai danneggiati debba essere integralmente satisfattiva. Le tabelle elaborate dai Tribunali – ivi incluse quelle del Tribunale di Milano, ritenute preferibilmente applicabili su tutto il territorio nazionale – svolgono indubbiamente un’utile funzione al fine di evitare eccessive disparità di trattamento e di garantire un certo grado di certezza e di prevedibilità delle decisioni, in una materia in cui non esistono parametri obiettivi di valutazione.
Esse offrono, tuttavia, criteri meramente indicativi e debbono essere adattate alle peculiarità del singolo caso, soprattutto quando non siano ravvisabili precedenti specifici, come nella specie.
La giurisprudenza del 2008 non ha cancellato il danno morale per riassorbirlo nel danno biologico, ma ha solo disposto che si provveda alla liquidazione congiunta delle varie voci di danno, ferma restando la necessità che la somma complessivamente liquidata sia adeguata.
La fattispecie del danno morale come “voce autonoma”, integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, ha trovato del resto conferma e rinnovato riconoscimento negli interventi normativi – quali il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 e il D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181 – che distinguono, concettualmente ancor prima che giuridicamente, tra danno c.d. biologico e danno morale.
Da tale distinzione, quindi, il giudice di merito non può prescindere, trovando essa la sua giustificazione in una fonte abilitata a produrre diritto (Cass. civ. Sez. 3, 12 settembre 2011 n. 18641; Cass. civ. Sez. 3, 12 dicembre 2008 n. 20191. Parimenti, nel senso che il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è compreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, Cass. civ. Sez. 3, 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ. Sez. Lav. 16 ottobre 2014 n. 21917).
Sotto ogni profilo la sentenza impugnata deve essere quindi confermata.
8.- Il quinto motivo – che denuncia violazione degli art. 2043 e 2049 cod. civ. per avere la Corte di appello addebitato al Comune la responsabilità per l’operato della maestra d’asilo, C.R. , che non è dipendente del Comune, bensì dello Stato – è inammissibile perché non congruente con le ragioni poste a base della decisione.
Il Comune è stato ritenuto responsabile non per il comportamento della maestra d’asilo, bensì per l’improntitudine del personale addetto ai suoi Servizi sociali, che non ha saputo esercitare alcun vaglio critico sulle dichiarazioni e sulle convinzioni della suddetta maestra.
Trattasi di valutazione in fatto adeguatamente motivata, quindi non suscettibile di riesame e di censura in questa sede.
Né il Comune ha fatto valere in giudizio un ipotetico concorso di colpa della C. e, per essa, dello Stato o dell’ente per il quale essa rendeva le sue prestazioni: unico aspetto in relazione al quale la censura in oggetto avrebbe potuto avere una sua rilevanza e trovare una sua giustificazione.
9.- Il ricorso non può che essere respinto.
10.- Considerata la natura della controversia e la complessità delle questioni trattate; considerato che il Comune è chiamato a rispondere per comportamenti dei suoi dipendenti che – ancorché colposi – sono stati probabilmente sollecitati da eccesso di zelo in un settore di primaria importanza per la collettività, qual’é quello della difesa dei minori, si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del presente giudizio.
11.- Ricorrono i presupposti di cui all’art. 52, 2 comma, d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196 in materia di protezione dei dati personali, per disporre che sia apposta sull’originale della sentenza, a cura della Cancelleria, un’annotazione volta a precludere l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi delle parti del presente giudizio, ed in particolare dei ricorrenti, nel caso di riproduzione della sentenza in qualsiasi forma, su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica o con ogni altro mezzo, per finalità di informazione.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, ai sensi dell’art. 52, 2 comma, d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196 in materia di protezione dei dati personali, sia apposta sull’originale della sentenza, a cura della Cancelleria, un’annotazione volta a precludere l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi delle parti del presente giudizio, ed in particolare dei ricorrenti, nel caso di riproduzione della sentenza medesima in qualsiasi forma, per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici, o mediante reti di comunicazione elettronica, o con ogni altro mezzo, per finalità di informazione.