Rassegna della giurisprudenza di legittimità anno 2016

 

CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI PARTE PRIMA IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI CAPITOLO I PERSONE E ASSOCIAZIONI (di Marina Cirese) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il diritto al nome ed all'identità personale. – 3. La tutela dell'immagine. – 4. Il diritto all'immagine professionale. – 5. Il trattamento dei dati personali. – 6. La titolarità del trattamento dei dati personali. – 7. Il consenso al trattamento dei dati personali. – 8. Riservatezza e diritto di cronaca. – 9. Il risarcimento del danno all'immagine. – 10. Le forme di tutela.

 

 

1. Premessa. Nell'attuale ordinamento, manca una fonte unitaria e con essa qualunque tipo di elencazione dei diritti della persona molti dei quali sono addirittura di elaborazione giurisprudenziale. Vi sono varie disposizioni contenute in diverse fonti (Costituzione, leggi ordinarie, leggi delegate, ordini d'esecuzione relativi all'applicazione dei trattati internazionali in materia di diritti umani di cui l'Italia è parte ecc.) che riguardano i diritti della persona e la loro rilevanza giuridica. Anche nel corso del 2016 si registrano numerose pronunce della Suprema Corte in tema di diritti della persona. 2. Il diritto al nome ed all'identità personale. Il diritto al nome ed all'identità personale trovano il loro riconoscimento costituzionale nell'art. 2, che tutela l'identità dell'individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Sul piano della normativa codicistica, invece, trova esplicito riconoscimento solo il diritto al nome e la tutela del correlato diritto all'identità personale è il frutto dell'estensione analogica delle norme positive esistenti in materia di tutela del diritto al nome ed all'immagine. Il diritto all'identità personale si configura come diritto ad essere riconosciuto secondo le proprie caratteristiche individuali, così come socialmente percepite ed ha le medesime forme di tutela del diritto al nome. In tale ambito si inquadra il diritto a conoscere le proprie origine biologiche.

1 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 25 settembre 2012, Godelli c. Gov. Italia, e della Corte cost., 18 novembre 2013, n. 278, la S.C., con Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021, si è pronunciata sul diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini e all'accesso ai dati personali della madre biologica con particolare riferimento al caso di decesso della madre. Il caso oggetto della pronuncia era quello di una donna che, esponendo di esser nata da madre che aveva chiesto di rimanere anonima e di essere stata adottata, aveva fatto istanza al tribunale per i minorenni di poter accedere ai dati riguardanti il parto contenuti nella cartella clinica. Accolta la richiesta della ricorrente, ottenuta la documentazione e constatato il decesso della madre biologica, il tribunale aveva respinto la richiesta dell'istante di conoscere il nominativo di quest'ultima sul presupposto della impossibilità di interpellarla in ordine alla persistente volontà di mantenere l'anonimato. La corte d'appello, adita in sede di reclamo, confermava la decisione escludendo che il decesso della madre potesse valutarsi come revoca implicita della volontà di mantenere l'anonimato. Nella pronuncia de qua la S.C., dopo un ampio excursus delle fonti internazionali e sovranazionali, definisce il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e alle circostanze della propria nascita quale diritto fondamentale della persona, previsto espressamente in diverse legislazioni europee, ricondotto dalla stessa Corte europea dei diritti dell'uomo nell'ambito di applicazione della nozione di vita privata e nella sfera di protezione dell'identità personale. Secondo il ragionamento svolto dalla Corte, è improprio parlare di conflitto di interessi o di diritti fondamentali, avendosi, invece, ponderazione tra diritti fondamentali con mero riferimento al diritto della madre alla scelta dell'anonimato (effettuata per svariate motivazioni: sanitarie, economiche, sociali) contrapposto al diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Dopo la nascita del figlio, non sussiste, invece, un diritto della madre a rimanere anonima; non è più il diritto alla vita ad essere in gioco, ma sempre il diritto alla scelta dell'anonimato che le ha consentito di portare a termine la gravidanza. Viene, a riguardo, richiamata la sentenza della Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184, laddove escludeva la possibilità di autorizzare il figlio all'accesso alle informazioni concernenti le proprie origini senza aver previamente verificato l'attuale volontà della madre.

Tale 2 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI norma comportava, secondo i giudici, la irreversibilità del segreto materno ed era destinata ad esporre il figlio alla inevitabile e definitiva perdita del suo diritto alla conoscenza delle proprie origini. L'irreversibilità del segreto si poneva, quindi, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. In applicazione dei principi sopra esposti, la S.C. afferma, quindi, che, nel caso di cd. parto anonimo, dopo la morte della madre, sussiste il diritto del figlio di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative alla identità personale della madre, non potendosi considerare operativo oltre il limite della vita della madre, il termine di cento anni dalla formazione del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio. Il principio è stato, quindi, ribadito da Sez. 1, n. 22838/2016, Acierno, in corso di massimazione, la quale ha altresì precisato che il trattamento dei dati personali della madre che ha partorito in anonimo e di cui si è venuti a conoscenza deve essere lecito e non lesivo dei diritti dei terzi.

3. La tutela dell'immagine. Oltre a ricevere tutela costituzionale, il diritto all'immagine è disciplinato dalla legislazione ordinaria che, all'art. 10 c.c., si occupa di definire l'abuso del diritto all'immagine imponendo il risarcimento dei danni e la cessazione dell'abuso da parte di chi espone o pubblica l'immagine di una persona o dei suoi congiunti nonché dagli articoli 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (cd. legge sul diritto d'autore). Tale diritto è tutelato altresì dalla normativa a tutela dei dati personali posto che la stessa immagine costituisce un dato personale che, in quanto tale, è garantito dalla normativa sulla privacy. L'art. 10 c.c. non offre una definizione del concetto di diritto all'immagine, attribuendo al titolare dello stesso specifiche prerogative e facoltà, ma si preoccupa esclusivamente di tutelare il diritto all'immagine in negativo, descrivendo il comportamento vietato dalla legge. La legge sulla protezione del diritto di autore, all'art. 96, individua nel consenso dell'interessato l'elemento che 3 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI esime dalla responsabilità civile il soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l'immagine altrui. Al riguardo Sez. 1, n. 01748/2016, Valitutti, Rv. 638445, chiarisce che il consenso alla pubblicazione della propria immagine è qualificabile quale negozio unilaterale che ha ad oggetto non il diritto all'immagine, ma solo l'esercizio di tale diritto, cosicché deve distinguersi tra il consenso e la pattuizione che lo contiene, rimanendo il consenso sempre revocabile. Laddove si faccia riferimento al consenso dell'interessato, il primo aspetto da affrontare, concerne la forma che deve rivestire la manifestazione di volontà. La normativa vigente non impone alcuna forma vincolata per la manifestazione del consenso, potendo esso prestarsi in forma espressa od implicita. Con riguardo ai contratti aventi ad oggetto la trasmissione del diritto all'utilizzazione dell'immagine, Sez. 1, n. 01748/2016, Valitutti, Rv. 638446, stabilisce che detti contratti vanno provati per iscritto ai sensi dell'art. 110 della l. n. 633 del 1941, al fine di dirimere i conflitti tra i pretesi titolari del medesimo diritto.

4. Il diritto all'immagine professionale. Corollario del diritto alla propria identità personale è il diritto all'immagine professionale. Al riguardo Sez. L, n. 08709/2016, Riverso, Rv. 639584, afferma che il diritto all'immagine professionale del lavoratore rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost., la cui risarcibilità va riconosciuta anche in presenza di lesioni di breve durata, nel caso di specie costituite dall'esercizio, da parte del lavoratore, privato della funzione di coordinamento, di mansioni dequalificanti, sia pure per un periodo limitato.

5. Il trattamento dei dati personali. Per trattamento dei dati personali si intende qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati. Rispetto alla definizione accolta dalla previgente legge 31 dicembre 1996, n. 675, è stato precisato espressamente che nella nozione di trattamento devono essere fatte rientrare anche le operazioni relative a dati non registrati in una banca dati. Sono dati personali le informazioni che identificano o rendono identificabile una persona fisica e che possono fornire dettagli sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, le sue relazioni personali, il suo stato di salute, la sua situazione economica, ecc. Particolarmente importanti sono: i dati identificativi, cioè quelli che permettono l'identificazione diretta, come i dati anagrafici e le immagini; i dati sensibili, cioè quelli che possono rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale; i dati giudiziari, ovvero quelli che possono rivelare l'esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale. Con riguardo ai dati del traffico telefonico, Sez. 1, n. 01625/2016, Lamorgese, Rv. 638562, stabilisce, applicando l'articolo 132 del Codice della privacy, nella versione risultante dalle modifiche apportate dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. con modif. nella l. 31 luglio 2005, n. 155, applicabile ratione temporis, che una volta trascorsi 24 mesi, è precluso ai privati l'accesso e il conseguente utilizzo dei dati del traffico telefonico per finalità di investigazioni difensive, in relazione a procedimenti penali per reati diversi da quelli indicati dall'articolo 407, comma 2, lettera a), c.p.p. Ciò posto, la Corte ritiene che la mancata conservazione dei dati da parte della società non abbia leso il diritto di difesa del ricorrente. Difatti, il bilanciamento del «diritto dei terzi coinvolti nei dati di traffico telefonico alla segretezza delle comunicazioni e il diritto di difesa al quale è funzionale l'esigenza investigativa dei privati richiedenti l'accesso» è stata effettuata direttamente e discrezionalmente dal legislatore, il quale ha individuato un lasso di tempo distinto a seconda della tipologia di reato interessato, trascorso il quale il diritto di accesso finalizzato alle esigenze investigative non può più essere esercitato. In tema di trattamento dei dati personali presenti nelle banche dati costituite sulla base degli elenchi telefonici, Sez. 1, n. 17143/2016, Genovese, Rv. 640918, statuisce che il cessionario di tali dati non può lecitamente utilizzarli per fini promozionali se non prova di avere inoltrato l'informativa prescritta dall'art. 13 del d.lgs. 5 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI n. 196 del 2003 per l'acquisizione del consenso degli interessati all'utilizzazione dei dati di loro pertinenza. Costituisce trattamento di dati personali anche l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale. La S.C. con Sez. 2, n. 13663/2016, Scarpa, Rv. 640210, stabilisce che il codice sulla protezione di dati personali impone al titolare dell'esercizio commerciale, dotato di videosorveglianza interna, di informare previamente gli utenti del trattamento, oralmente o per iscritto, che stanno per entrare in una zona videosorvegliata mediante cartello ben visibile e scritto a caratteri leggibili, da collocare fuori del raggio d'azione delle telecamere che consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al trattamento stesso. Al contrario, tale informativa preventiva non è richiesta, secondo Sez. 2, n. 01422/2016, Correnti, Rv. 638670, allorché l'utente fruisca di un meccanismo azionabile a sua iniziativa che consente l'erogazione di specifiche prestazioni programmate, dovendosi escludere tale informazione in ragione di tale automatismo e del consenso dell'interessato. Il caso sottoposto all'esame della Corte era quello di una società di gestione di impianti sciistici che non aveva assolto all'informativa ex art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003 in relazione ad etichette che al momento in cui gli sciatori si avvicinavano al tornello muniti di tesserino verificavano che non avessero superato il credito prepagato. Con Sez. 1, n. 10510/2016, Dogliotti, Rv. 639811, la Corte, pronunciandosi in tema di trattamento di dati sensibili, ha statuito che è illecita la pubblicazione su un sito internet liberamente accessibile al pubblico, di un provvedimento giurisdizionale indicante lo stato di salute del ricorrente, pur in assenza di un'espressa istanza in tal senso formulata dall'interessato ex art. 52 del Codice della privacy. Nel caso di specie, la Corte, cassando la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo, ha disposto la non pubblicazione dei dati dell'interessato all'interno del provvedimento di primo grado sulla base di quanto previsto dall'art. 22 del Codice della privacy e dalle "Linee guida del Garante della Privacy sul trattamento dei dati personali nella riproduzione dei provvedimenti giurisdizionali", i quali prevedono, rispettivamente, che i dati inerenti lo stato di salute non possono essere in alcun modo diffusi e che la salvaguardia del diritto alla riservatezza degli interessati attraverso l'oscuramento delle loro generalità non pregiudica la finalità di informazione giuridica Con Sez. 1, n. 18302/2016, Lamorgese, Rv. 641215, la Corte affronta il tema della legittimità dei controlli su personal computer, posta elettronica e telefoni da parte del datore di lavoro sui propri dipendenti, statuendo che è illegittima l'installazione di apparecchi e software che consentono controlli approfonditi sulla posta elettronica, sulle telefonate e sulla navigazione internet del lavoratore, se non sono preventivamente esperite le procedure di autorizzazione (sindacale o amministrativa) previste dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e se non sono rispettati gli ulteriori adempimenti previsti dal codice della privacy. Il caso sottoposto all'esame della Corte aveva visto contrapporsi l'Istituto poligrafico e Zecca dello Stato e il Garante per la privacy che aveva emesso un provvedimento vietando al Poligrafico «l'ulteriore trattamento, nelle forme della conservazione e della categorizzazione, dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione Internet, all'utilizzo della posta elettronica e alle utenze telefoniche chiamate dai lavoratori». In tema di trattamento di dati sanitari, la Corte, con Sez. 2, n. 15908/2016, Scarpa, Rv. 640578, stabilisce che, come previsto dall'art. 37 d.lgs. n. 196 del 2003 (che elenca, tra i soggetti obbligati, coloro che effettuano trattamenti ai fini di prestazioni per via telematica di servizi sanitari) va preventivamente notificato al Garante della privacy, il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute, effettuato da una struttura sanitaria pubblica o privata. Nel caso specifico, il trattamento dati consisteva nella raccolta di schede o di cartelle cliniche per ogni paziente, accessibile a diversi soggetti e consultabile on line. I casi di esclusione dalla notifica preventiva riguardano invece, secondo la Corte, i trattamenti di dati sanitari effettuati manualmente mediante archivi cartacei, oppure eseguiti nell'ambito di servizi di assistenza o consultazione sanitaria per via telefonica o, comunque, inseriti in banche dati non collegate a reti telematiche. Tale obbligo di notifica viene affermato, come statuito da Sez. 2, n. 08105/2016, Cosentino, Rv. 639672, anche per le cliniche o case di cura che trattano dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, facendoli confluire in banche dati, non rilevando né che tali banche dati abbiano una finalità generale (statistica o epidemiologica) e non siano specificamente dirette alla raccolta ed organizzazione di tali dati sensibili, né la mancanza di specializzazione della struttura.

7 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Con particolare riguardo alla circolazione stradale, Sez. 2, n. 08415/2016, Falabella, Rv. 639688, ha stabilito che la violazione della disciplina della tutela della riservatezza con riferimento all'utilizzo dei dispositivi elettronici per la rilevazione di violazioni al codice della strada non spiega alcun effetto sulla contestazione dell'illecito di cui si dolga il conducente del veicolo, siccome non preavvertito della presenza del dispositivo di rilevazione, e ciò in quanto l'informativa di cui all'art. 13 non è correlata funzionalmente alla prevenzione dell'infrazione al codice della strada, ma al rispetto di un obbligo di riservatezza. L'avviso in questione infatti non è diretto a orientare la condotta di guida del trasgressore, così da evitare che lo stesso incorra in una violazione delle norme che regolano la circolazione.

6. La titolarità del trattamento dei dati personali. Sez. 1, n. 10638/2016, Giancola, Rv. 639786, è intervenuta per riaffermare alcuni princìpi a tutela del consumatore quale utente del sistema bancario. Nella specie il cliente aveva chiamato in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano una banca, lamentando l'intrusione nel suo home banking, avendo disconosciuto una disposizione di bonifico eseguita con addebito sul suo conto corrente. La Corte giunge ad affermare il principio che in tema di ripartizione dell'onere della prova, al correntista abilitato a svolgere operazioni on line che agisca per l'abusiva utilizzazione delle sue credenziali informatiche, spetta soltanto la prova del danno come riferibile al trattamento del suo dato personale, mentre la banca risponde, quale titolare del trattamento, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non le sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore. Tale ricostruzione è coerente, peraltro, anche con gli obblighi previsti in capo al prestatore del servizio di pagamento in base ai quali, se l'utente nega di aver autorizzato un'operazione, l'onere di provarne la genuinità ricade essenzialmente sul prestatore medesimo. E nel contempo obbliga quest'ultimo a rifondere con sostanziale immediatezza il correntista in caso di operazione disconosciuta, tranne laddove vi sia un motivato sospetto di frode e salva la possibilità di dimostrare che l'operazione di pagamento era stata autorizzata, con il diritto di chiedere e ottenere dall'utilizzatore la restituzione dell'importo rimborsato.

8 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Con riguardo al diverso profilo afferente alla legittimazione passiva al trattamento dei dati personali, Sez. 1, n. 06927/2016, Lamorgese, Rv. 639326, si pronuncia in materia di dati contenuti nell'archivio della Centrale di allarme interbancaria (CAI). Al riguardo richiama il principio generale per il quale la Banca d'Italia, pur soggetto pubblico, non si sottrae alla disciplina in materia generale di protezione dei dati personali. In tale ambito, la Corte chiarisce anche la portata dell'art. 8, comma 2, lett. d), del Codice della privacy. Tale norma deroga alla possibilità di esercizio dei diritti sui propri dati personali da parte dell'interessato, stabilendo che i diritti di cui all'art. 7 non possono essere esercitati con richiesta al titolare o al responsabile o con ricorso ai sensi dell'art. 145 se i trattamenti di dati personali sono effettuati da un soggetto pubblico, diverso dagli enti pubblici economici, in base ad espressa disposizione di legge, per esclusive finalità inerenti alla politica monetaria e valutaria, al sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari, nonché alla tutela della loro stabilità. Chiarisce altresì la Corte che tale limitazione/deroga all'esercizio dei diritti sui propri dati si applica ai soli mezzi di ricorso di tipo amministrativo richiamati dall'art. 8, ovvero al ricorso al Garante quale Autorità amministrativa di controllo, e non può essere applicata anche alla diversa tutela di tipo giurisdizionale ex art. 152, rubricato "Autorità Giudiziaria ordinaria", non richiamata dalla norma nell'ambito di esclusione, con la conseguenza che la Banca d'Italia, pur nel perseguimento «in base ad espressa disposizione di legge, di esclusive finalità inerenti al sistema dei pagamenti ed al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari», può essere legittimata passiva nei casi di ricorso all'Autorità Giudiziaria per far valere la responsabilità civile per danni cagionati dal trattamento per segnalazione erroneamente effettuata. La Corte chiarisce, infine, che non è possibile distinguere tra «un concreto trattamento dei dati consistente nel loro esame, valutazione, inserimento nell'archivio, aggiornamento, etc. e una qualità meramente formale di titolare del trattamento, limitata alla semplice tenuta dell'archivio e alla verifica della regolarità formale delle segnalazioni, poiché la qualifica di titolare non può essere scissa in un livello concreto e in uno formale, essa implicando sempre il potere di prendere tutte le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità di trattamento», restando la Banca d'Italia pienamente soggetta, quale titolare del trattamento, all'esercizio dei diritti 9 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI previsti dall'art. 7 del Codice della privacy. Con riferimento alla posizione degli istituti di credito segnalanti ed al rapporto con la Banca d'Italia, la Corte conclude per l'esistenza di una contitolarità congiunta dei relativi trattamenti dei dati, sicché il ricorso al Garante volto ad ottenere la rettifica o la cancellazione di dati inseriti nel CAI va proposto dall'interessato tanto nei confronti della Banca d'Italia (titolare del trattamento dei dati nell'archivio centrale) quanto nei confronti dell'istituto di credito segnalante (titolare del trattamento della sezione remota del CAI)

. 7. Il consenso al trattamento dei dati personali. In tema di trattamento dei dati personali cd. comuni per finalità promozionali e commerciali mediante sms su utenze telefoniche mobili, Sez. 1, n. 09982/2016, Giancola, Rv. 639804, stabilisce che la prestazione del consenso al trattamento di tali dati non è soggetta al requisito della forma scritta, ma, a differenza che per i dati sensibili, può essere espressa anche oralmente, purché venga documentata per iscritto. Secondo la Corte, l'art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 196 del 2003 consente al titolare del trattamento, onerato della prova, di fare ricorso all'art. 2712 c.c. per dare riscontro scritto documentale dell'acquisizione da parte sua del consenso al trattamento dei dati personali comuni e, perciò, di avvalersi di registrazioni e riproduzioni anche informatiche da lui stesso attivate (e da correlare con la doverosa preventiva informativa resa all'utente, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs n. 196 del 2003). Sempre in ordine al consenso prestato dall'utente, Sez. 1, n. 02196/2016, Terrusi, Rv. 638406, si pronuncia in tema di telefonate provenienti da call center. Al riguardo stabilisce che i call center non potranno più utilizzare i numeri di cellulare trovati sul web (cosiddetta pratica dello web scraping o web data extraction) per chiamate con finalità commerciali, se l'utente non ha precedentemente concesso loro un'autorizzazione espressa. Viene quindi circoscritto alle sole chiamate ai telefoni fissi e senza risposta automatica il principio generale secondo cui le chiamate promozionali sono lecite, salvo diniego dell'utente (principio dell'opt-out); tale principio non vale invece per quelle sui dispositivi mobili. Aggiunge Sez. 1, n. 02196/2016, Terrusi, Rv. 638405, che il provvedimento con cui il Garante per la protezione dei dati personali prescrive, ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. b), e 154, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 196 del 2003 l'adozione di misure atte 10 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI ad eliminare il disagio derivante dalla reiterazione di chiamate su contatto abbattuto, non integra una sanzione amministrativa, cosicché il soggetto legittimato a sottoporre a controllo giurisdizionale la situazione soggettiva su cui il provvedimento ha inciso è lo specifico titolare destinatario della prescrizione e non invece qualunque titolare del trattamento di dati personali. 8. Riservatezza e diritto di cronaca. Sez. 1, n. 13161/2016, Giancola, Rv. 640218, si pronuncia in tema di diritto all'oblio, da intendersi quale diritto dell'individuo ad essere dimenticato e che mira a salvaguardare il riserbo imposto dal passare del tempo ad una notizia già resa di dominio pubblico. Tale diritto va oltre la tutela della privacy e nasce a seguito di elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali e principalmente delle Autorità Garanti europee. Come fondamento normativo del diritto all'oblio, il Codice della privacy prevede che il trattamento non sia legittimo qualora i dati siano conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti o trattati (art. 11 del d.lgs. n. 196/2003). Nel caso sottoposto alla Corte, il Tribunale di Chieti aveva condannato al risarcimento del danno per violazione del diritto all'oblio sia il direttore che l'editore di una testata giornalistica telematica per la permanenza a tempo indeterminato di un articolo su una vicenda giudiziaria di natura penale che aveva coinvolto i ricorrenti per un fatto avvenuto tempo addietro e che non si era ancora conclusa. I ricorrenti lamentavano il pregiudizio alla propria reputazione personale. La Corte, confermando la decisione del Tribunale, evidenzia che l'illecito trattamento di dati personali è stato specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato tempo prima e della sua diffusione sul web, quanto meno a decorrere dal ricevimento della diffida per la rimozione della pubblicazione dalla rete. La Corte evidenzia che il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell'operazione di trattamento, caratterizzata dalla capillarità della divulgazione dei dati trattati e dalla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale. 11 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Il tema del diritto all'oblio si correla all'esercizio del diritto di cronaca giornalistica. Difatti, presupposto perché un fatto privato possa divenire legittimamente oggetto di cronaca è l'interesse pubblico alla notizia. Ma una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l'interesse pubblico in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto, cosicché riproporre l'accadimento sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare. Il diritto all'oblio è quindi la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca. 9. Il risarcimento del danno all'immagine. La questione affrontata da Sez. 1, n. 01091/2016, Genovese, Rv. 638494, è se, una volta determinato il danno per la lesione del diritto alla reputazione e all'immagine, sia legittima un'automatica riduzione del quantum, a causa della pubblicazione della sentenza su un quotidiano. Nel caso sottoposto al suo esame la corte di merito aveva risposto in senso affermativo, facendo leva sulla portata riparatoria della suddetta misura. Al riguardo rileva, tuttavia, la Suprema Corte che, seppure la funzione riparatoria è nella legge ed è confermata dalla giurisprudenza, ciò non è sufficiente per ritenere legittima un'operazione di sottrazione aritmetica dall'importo del danno accertato di una somma (peraltro indeterminata) corrispondente al valore riparatorio insito nella pubblicazione della sentenza. In realtà, osserva la Corte, la pubblicazione costituisce «una modalità di risarcimento in forma specifica volta ad aggiungersi al risarcimento per equivalente al fine di assicurare, nei casi in cui il giudice la ritenga utile, la integrale riparazione del danno», al fine di contribuire a rimuovere il discredito gettato su un soggetto e di ricostruire la sua immagine pubblica. È significativo che la pubblicazione della sentenza sia un provvedimento, costituente oggetto di un potere discrezionale del giudice, che può essere disposto indipendentemente dall'esistenza o dalla prova di un danno attuale, trattandosi di una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito nel futuro. 10. Le forme di tutela. Sez. L, n. 06775/2016, Tria, Rv. 639149, ha stabilito che l'alternatività tra ricorso amministrativo e ricorso giudiziale disposta dell'art. 29, comma 2, l. n. 675 del 1996 12 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI riguarda esclusivamente le domande aventi un identico oggetto, che devono essere intese come quelle che se, in ipotesi, pendenti contestualmente avanti a più giudici, possono in via generale essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza. Secondo la Corte si tratta, quindi, delle domande giudiziali che richiedono interventi di natura preventiva, inibitoria o conformativa, potendo indicare il Garante modalità concrete di cessazione del trattamento illecito dei dati. Del resto, rileva la S.C., la lettura della normativa in generale porta ad escludere che al Garante sia attribuita la cognizione di domande risarcitorie che si devono ritenere coperte da riserva esclusiva di giurisdizione ordinaria le quali, infatti, sono destinate ad una declaratoria d'inammissibilità se proposte davanti al Garante, come risulta dalle numerose pronunce in tal senso emesse dal Garante stesso, nelle quali l'Autorità ha affermato la propria incompetenza al riguardo. Diversamente ragionando, dovrebbe ritenersi alternativamente che, scelta la strada della tutela inibitoria (e preventiva), sia negata quella risarcitoria; oppure che, nonostante il riconoscimento del trattamento illecito dei dati personali, l'interessato sia tenuto ad un'impugnazione del provvedimento del Garante al solo fine di richiedere il risarcimento del danno e non incorrere nella sanzione di tardività dell'azione. Mentre quest'ultima soluzione è in netto contrasto con il canone costituzionale della ragionevolezza, la prima introduce un impedimento all'ottenimento della tutela piena di un diritto fondamentale, del tutto incompatibile con l'art. 24 Cost., tanto più ove il lavoratore faccia valere nei confronti del datore di lavoro tutti i diritti soggettivi derivanti dal rapporto di lavoro. 13 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO CAPITOLO II EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO (di Rosaria Giordano) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Legittimazione attiva. – 3. Termine di decadenza per la proposizione del ricorso. – 4. Istanza di prelievo ed istanza di accelerazione come condizioni di proponibilità della domanda. – 5. Procedimento monitorio e fase di opposizione. – 6. Determinazione della durata del giudizio presupposto. – 7. Durata ragionevole del procedimento. – 8. Diritto all'indennizzo. 1. Premessa. Il diritto all'equa riparazione per l'irragionevole durata dei processi è stato, anche nel corso del 2016, posto al centro di numerose pronunce della Suprema Corte, alcune delle quali di particolare interesse in quanto affrontano questioni problematiche derivanti dalle innovazioni introdotte dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, sia in ordine al procedimento che ai presupposti ed ai criteri di liquidazione dell'indennizzo. 2. Legittimazione attiva. Pervenendo a conclusioni opposte a quelle affermate per la parte rimasta contumace nel processo di cognizione, Sez. 6-2, n. 00089/2016, Manna, Rv. 638571, ha chiarito che il debitore esecutato rimasto inattivo non ha diritto ad alcun indennizzo per l'irragionevole durata del processo esecutivo che è preordinato all'esclusivo interesse del creditore, sicché egli è soggetto al potere coattivo del creditore, recuperando solo nelle eventuali fasi d'opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la cui funzione è diretta a stabilire un separato ambito di cognizione, la pienezza della posizione di parte, con possibilità di svolgere contraddittorio e difesa tecnica. La legittimazione ad agire della persona offesa dal reato, relativamente all'irragionevole durata del procedimento di opposizione all'archiviazione, è stata invece negata da Sez. 6-2, n. 08291/2016, Manna, Rv. 639736, in quanto la stessa non assume, in detto giudizio, la necessaria veste, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europera per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, di parte di una causa civile, né, tantomeno, di destinataria di un'accusa penale. 3. Termine di decadenza per la proposizione del ricorso. L'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 stabilisce che la domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi 14 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento e' divenuta definitiva. Come noto, tale formulazione della disposizione è successiva alle modifiche introdotte dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, prima delle quali era possibile proporre la domanda di equa riparazione anche "lite pendente". Proprio in ordine all'attuale esclusione di tale possibilità, Sez. 6-2, n. 13556/2016, Manna, Rv. 640328, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo alla previa definizione del processo medesimo, in quanto il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha introdotto un sistema di rimedi preventivi diretti a impedire la stessa formazione del ritardo processuale, così aderendo alla sentenza di monito n. 30 del 2014 della Corte Costituzionale circa la violazione dei principi CEDU. Peraltro, la più recente Sez. 6-2, n. 26402/2016, Lombardo, in corso di massimazione, dissentendo espressamente da tale decisione, ha invece ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 4 della l. n. 89 del 2001, come sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8, paragrafo, 1, e 13, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In particolare, l'ordinanza di rimessione si fonda sull'assenza di tutela della parte durante il giudizio presupposto, anche laddove lo stesso abbia significativamente superato i termini di durata ragionevole, nonché – e soprattutto – sulla declaratoria di inammissibilità della domanda "lite pendente" anche nell'ipotesi in cui, nelle more della definizione del giudizio indennittario, il processo presupposto sia stato definito. Sotto altro profilo, le Sezioni Unite hanno chiarito da quando decorre il termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione allorché, in relazione alla tutela del medesimo diritto, si siano succeduti un giudizio di cognizione e la fase dell'esecuzione forzata. In particolare, Sez. U, n. 09142/2016, Bianchini, Rv. 639530, premesso che ai fini dell'equa riparazione per irragionevole durata, il procedimento di cognizione e quello di esecuzione devono essere considerati unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne 15 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO l'esercizio abusivo, ha affermato che, ove si sia attivata per l'esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente considerati come unicum, mentre, qualora abbia lasciato spirare quel termine, essa non può più far valere l'irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione. Il medesimo principio è stato sostanzialmente affermato da Sez. 6-2, n. 23187/2016, Rv. 641686, avuto riguardo al computo del termine necessario per la defizione dell'eventuale procedura di correzione dell'errore materiale da cui sia affetto il provvedimento conclusivo del processo presupposto, purché vi sia continuità tra tale procedimento ed il giudizio di cognizione cui afferisce. Sulla questione si segnala, inoltre, anche Sez. 6-2, n. 20697/2016, Manna, Rv. 641513, la quale ha ritenuto i principi enunciati dalla richiamata decisione delle Sezioni Unite applicabili anche con riguardo ai rapporti, nell'ambito del processo contabile, tra il giudizio di cognizione e quello di interpretazione di cui all'art. 78 del r.d. 7 dicembre 1934 n. 1214, che è equiparabile al processo esecutivo, in quanto volto a consentire l'esatto adeguamento del rapporto sostanziale al comando giurisdizionale, senza che assuma rilevanza la parte che abbia promosso lo stesso. Sotto altro profilo, Sez. 6-2, n. 21777/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha evidenziato che in tema di irragionevole durata delle procedure fallimentari, il termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda di equa riparazione decorre dalla data di definitività del decreto di chiusura del fallimento, coincidente con il decorso del termine per la proposizione del reclamo o con il rigetto del reclamo medesimo, se esperito, ovvero con la decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la decisione assunta in sede di reclamo. In materia di processo amministrativo si segnala, invece, Sez. 6-2, n. 07011/2016, Manna, Rv. 639662, per la quale il decreto di estinzione emesso ex art. 85, comma 1, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per rinuncia agli atti proveniente da entrambe le parti, riveste il carattere di definitività cui è subordinata, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, la proponibilità della domanda di equa riparazione, e ciò indipendentemente dal decorso del termine per l'opposizione prevista dal comma 3 del medesimo art. 85, in quanto il reclamo 16 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO resta in tal caso escluso dal difetto di interesse delle parti a proporlo contra factum proprium. In tema di irragionevole durata del processo penale, Sez. 6-2, n. 22818/2016, Giusti, Rv. 641682, ha chiarito che il "dies a quo" per la proponibilità della domanda di equa riparazione va individuato nella data di irrevocabilità della sentenza conclusiva del processo presupposto, evidenziando che tale momento coincide con lo spirare dei termini per impugnare detta decisione, ex art. 585 c.p.p. Con riferimento ai procedimenti nei quali trova applicazione l'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove consente la proponibilità della domanda indennitaria anche "lite pendente", è stato precisato, da Sez. 6-2, n. 15803/2016, Manna, Rv. 640711, che il ricorrente che si avvalga della facoltà di agire per l'equa riparazione prima della definizione del giudizio presupposto ha l'onere di proporre e coltivare la domanda per ogni profilo di danno già maturato, attesi i principi di unicità, concentrazione e infrazionabilità, sicché nell'eventuale nuovo procedimento volto a ottenere l'indennizzo per la durata ulteriore della causa egli non può far valere danni verificatisi nell'arco temporale coperto dalla prima domanda di riparazione. In generale, come evidenziato da Sez. 6-2, n. 21777/2016, Falaschi, Rv. 641542, l'intervenuta decadenza dall'azione indennitaria, per mancato rispetto del termine semestrale ex art. 4, della l. n. 89 del 2001, è rilevabile d'ufficio, anche in sede di legittimità, costituendo l'avvenuta proposizione della domanda entro detto termine una componente indefettibile del giudizio di equa riparazione, sia in negativo, quale causa preclusiva di una pronunzia sul merito della pretesa, sia in positivo, quale condizione di proponibilità della domanda. 4. Istanza di prelievo ed istanza di accelerazione come condizioni di proponibilità della domanda. Con riguardo all'istanza di prelievo da presentarsi nel processo amministrativo presupposto, sul piano processuale, Sez. 6-2, n. 00092/2016, Manna, Rv. 638570, ha statuito che l'istanza di prelievo, presentata dal difensore in forza del mandato ricevuto per la costituzione in giudizio, è valida finché è efficace la procura alla lite che la sorregge e, dunque, anche dopo la morte della parte rappresentata ove il procuratore, non dichiarando l'evento interruttivo, si avvalga della consequenziale ultrattività del mandato all'interno del medesimo grado di giudizio ai sensi dell'art. 300 c.p.c. 17 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO Sotto altro profilo, Sez. 6-2, n. 13554/2016, Manna, Rv. 640246, ha precisato che l'istanza di prelievo, anche quando condiziona ratione temporis la proponibilità della domanda di indennizzo, non incide sul computo della durata del processo, che va riferita all'intero svolgimento processuale e non alla sola fase seguente detta istanza. In tema di equa riparazione per la irragionevole durata di un procedimento penale, infine, Sez. 6-2, n. 23448/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha enunciato il principio per il quale la disposizione di cui all'art. 2, comma 2 quinquies, lettera e), della legge n. 89 del 2001 — a tenore della quale non è riconosciuto alcun indennizzo «quando l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini cui all'articolo 2-bis» — non è applicabile in relazione alle domande di equa riparazione relative a procedimenti penali che, alla data di entrata in vigore della stessa, avessero già superato la durata ragionevole di cui all'art. 2 bis della medesima legge. 5. Procedimento monitorio e fase di opposizione. La domanda di equa riparazione si propone, nelle forme del ricorso per ingiunzione, al Presidente della corte d'appello individuata ai sensi dell'art. 11 c.p.p. A riguardo, Sez. 6-2, n. 22708/2016, Abete, Rv. 641628, ha precisato che la competenza territoriale a decidere sulla domanda di equa riparazione spetta al giudice individuato sulla base degli artt. 11 c.p.p. e 3, comma 1, della l. n. 89 del 2001 (nel testo vigente "ratione temporis"), e tale criterio trova applicazione anche laddove la parte ricorrente sia un magistrato esercente la funzione nel medesimo distretto di corte di appello cui appartiene il giudice in tal guisa individuato, non determinandosi, in virtù di detta circostanza, alcuno spostamento di competenza, atteso che l'art. 30 bis c.p.c. va inteso in senso restrittivo (Corte cost. n. 147 del 2004) e che non si versa al cospetto di un'azione civile concernente le restituzioni e il risarcimento del danno da reato di cui sia stato parte un magistrato. Il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo è stato rimodellato dalla l. n. 134 del 2012, che ha l'strutturato secondo uno schema che ricalca, almeno in apparenza, quello del giudizio monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. e, dunque, su due fasi, l'una necessaria inaudita altera parte e l'altra, provocata dall'eventuale opposizione di una delle parti, a cognizione piena, sebbene nelle forme del procedimento in 18 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO camera di consiglio, volta all'accertamento in contraddittorio in ordine all'esistenza del diritto fatto valere dal ricorrente. In tale prospettiva, Sez. 6-2, n. 21658/2016, Manna, Rv. 641540, ha statuito che la struttura monitoria del procedimento di equa riparazione, come modificato dalla l. n. 134 del 2012, determina, ove non sia prevista una disciplina specifica, l'applicazione analogica delle norme di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c.: pertanto, quando in sede di opposizione ai sensi dell'art. 5 ter della l. n. 89 del 2001 proposta tardivamente si fa valere la nullità della notificazione del decreto, grava sull'opponente l'onere di provare, ai sensi dell'art. 650 c.p.c., che, a causa di detta invalidità, egli non abbia avuto tempestiva conoscenza del decreto e che, inoltre, non sia stato in grado di proporre tempestiva opposizione. Sotto distinto, ma concorrente, profilo, Sez. 6-2, n. 20695/2016, Manna, in corso di massimazione, ha chiarito che l'inefficacia del decreto ingiuntivo per la notificazione dello stesso oltre il termine previsto , deve essere fatta valere con l'opposizione di cui all'art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, la quale, instaurando il contraddittorio tra le parti, ha ad oggetto non solo l'eccezione d'inefficacia del decreto ma anche la fondatezza della domanda introdotta con il ricorso monitorio . Si segnala, inoltre, Sez. 6-2, n. 03159/2016, Manna, Rv. 638859, per la quale nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, come modificato dalla l. n. 134 del 2012, la notifica al Ministero del solo decreto ingiuntivo e non anche del ricorso, integra una nullità formale ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., poiché non realizza lo scopo dell'atto, costituito dalla piena conoscenza legale della domanda giudiziale da parte dell'amministrazione ingiunta, ma è suscettibile di sanatoria, con efficacia ex tunc, ove, a seguito dell'opposizione erariale, il ricorrente esegua tempestivamente la rinnovazione della notifica del ricorso disposta dalla corte d'appello ex art. 291 c.p.c. Peraltro, Sez. 6 -2, n. 24137/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha evidenziato che la notifica al Ministero del solo decreto ingiuntivo, e non anche del ricorso, non ne comporta l'inesistenza, ma solo la nullità per incompletezza, sicché, non essendo applicabile l'art. 188 disp. att. c.p.c., che presuppone una notificazione omessa o giuridicamente inesistente, in caso di opposizione da parte dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 5 ter della l. n. 89 del 2001, il vizio risulta sanato, non essendosi determinata alcuna lesione del diritto di difesa. Quanto alla statuizione sulle spese all'esito della fase di opposizione avverso il decreto ingiuntivo emanato nei confronti 19 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO dell'Amministrazione, poiché trovano applicazione residuale le regole proprie del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo di cui agli artt. 645 e ss. c.p.c., Sez. 6-2, n. 26851/2016, Manna, in corso di massimazione, ha evidenziato che nell'ipotesi di revoca, anche parziale, del provvedimento monitorio, il giudice decide delle spese sia della fase sommaria che di quella dell'opposizione, tenendo conto del principio di globalità (ossia valutando l'esito complessivo del giudizio), mentre nel caso di rigetto resta ferma la statuizione contenuta nel decreto, cui si aggiunge la decisione sulle spese relative alla fase dell'opposizione. In tema di compensazione delle spese processuali per soccombenza reciproca, Sez. 6-2, n. 26235/2016, Scalisi, in corso di massimazione, ha chiarito che detta ipotesi non può verificarsi nel procedimento di equa riparazione ove la domanda sia accolta in misura inferiore all'ammontare preteso, in quanto tale giudizio è connotato, a causa dell'assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, dal potere del giudice d'individuare in maniera autonoma l'indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono (come al dominio, così anche) alla previsione della parte, la quale, nel precisare l'ammontare della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale, non completa il "petitum" della domanda tematizzandola sotto il profilo quantitativo, ma sollecita (a prescindere dalle espressioni adoperate) l'esercizio di un potere di liquidazione interamente ufficioso. E' stato inoltre precisato da Sez. 6-2, n. 16392/2016, Petitti, Rv. 640835, rispetto ai compensi professionali spettanti ai difensori, che nei giudizi di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il giudice, purché non scenda al di sotto degli importi minimi, può ridurre il compenso sino alla metà ex art. 9 del d.m. n. 140 del 2012, senza necessità di specifica motivazione. E' stato poi precisato, da parte di Sez. 6-2, n. 23187/2016, Petitti, Rv. 641687, che, ai fini della liquidazione delle spese processuali, la natura contenziosa del processo camerale per l'equa riparazione, già affermata in relazione alla previgente tariffa di cui al d.m. n. 127 del 2004, deve essere ribadita anche in relazione alla tariffa di cui al d.m. n. 55 del 2014. Sempre in tema di spese processuali, si segnala Sez. 6-2, n. 02587/2016, Scalisi, la quale ha statuito che, in tema di equa riparazione, configura abuso del processo la condotta di coloro che, avendo agito unitariamente nel processo presupposto, in tal modo dimostrando la carenza di interesse a diversificare le rispettive posizioni, propongano contemporaneamente, con identico 20 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO patrocinio legale, distinti ricorsi per ottenere l'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, così da instaurare cause inevitabilmente destinate alla riunione in quanto connesse per oggetto e titolo. Ne deriva che è legittima la decisione che, a seguito della riunione di distinti ricorsi presentati dal medesimo difensore, per conto di soggetti aventi la stessa posizione nel processo a quo, ha ritenuto il giudizio come unitario ab origine, liquidando le spese di lite con un importo unico. Quanto alle sanzioni pecuniarie che possono essere poste a carico della parte ricorrente nell'ipotesi di inammissibilità o manifesta infondatezza della domanda di equa riparazione, Sez. 6-2, n. 05433/2016, Manna, Rv. 639210, ha ritenuto manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., l'eccezione d'illegittimità costituzionale dell'art. 5 quater della l. n. 89 del 2001, in quanto, senza alcun automatismo, rientra nel potere discrezionale del giudice valutare se sussistono i presupposti per disporre una sanzione pecuniaria a carico della parte nelle ipotesi di declaratoria di inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza e la previsione di detta sanzione, pur costituendo un deterrente rispetto alla proposizione dell'azione, è compatibile con i parametri costituzionali ed in particolare con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che, per realizzarsi concretamente, presuppone misure volte a ridurre i rischi di abuso del processo. 6. Determinazione della durata del giudizio presupposto. Su un piano generale, è stato chiarito da Sez. 6-2, n. 26630/2016, Petitti, in corso di massimazione, che, sebbene in linea di principio il "dies a quo" dell'introduzione del giudizio con atto di citazione debba individuarsi nella notifica dello stesso, peraltro, ove l'incompleta o erronea notificazione dell'atto introduttivo sia imputabile alla parte, non può addebitarsi all'amministrazione della giustizia la necessità di procedere alla rinnovazione della notifica ovvero all'integrazione del contraddittorio (sicché il relativo periodo non può essere computato ai fini della determinazione della durata irragionevole del processo presupposto). Sez. 6-2, n. 26208/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha inoltre precisato che anche la fase del giudizio introdotto dinanzi ad un giudice dichiarato incompetente, a seguito di tempestiva riassunzione, deve essere valutata per la determinazione della durata del giudizio ed ai fini della quantificazione dell'indennizzo. Per altro verso, Sez. 6-2, n. 26833/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha affermato che la regola per la quale non si 21 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO computa nel periodo di durata del processo presupposto la fase che va dalla pubblicazione della sentenza alla proposisizione dell'impugnazione, pur se destinata ad essere applicata ai giudizi introdotti successivamente all'11 settembre 2012, esprime tuttavia un chiaro elemento interpretativo della "ratio" della legge sull'equa riparazione, da ritenersi operante anche per il periodo anteriore alla sua entrata in vigore, in assenza di una previsione legislativa di segno contrario, non potendosi addebitare all'amministrazione della giustizia il lasso di tempo di stasi processuale, nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo. Sez. 6-2, n. 15734/2016, Manna, Rv. 640574, ha evidenziato che, ai fini dell'equa riparazione, la durata del processo di esecuzione include i tempi impiegati per definire i rimedi cognitivi o esecutivi, come la fase di reclamo avverso l'ordinanza che dichiari l'estinzione della procedura. Sempre ai fini dell'equa riparazione per violazione del termine ragionevole, Sez. 6-2, n. 13819/2016, Manna, Rv. 640247, ha affermato che la durata del procedimento di insinuazione al passivo fallimentare si computa dalla proposizione dell'istanza di ammissione - tempestiva o tardiva - fino all'emanazione del relativo provvedimento, non potendosi cumulare a tale periodo quello del precedente svolgimento della procedura concorsuale, perché a questo il creditore è rimasto estraneo. 7. Durata ragionevole del procedimento. Nell'ambito di un processo instaurato ai sensi della legge cd. Pinto, per ottenere l'indennizzo da irragionevole durata di un altro processo, Sez. 6-2, n. 16857/2016, Petitti, Rv. 640830, ha chiarito che la durata complessiva dei due gradi di giudizio è ragionevole ove non ecceda il termine di un anno per grado, anche alla luce della sentenza n. 36 del 2016 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 2, comma 2 bis, della l. n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del processo di equa riparazione in primo grado. Più in generale, Sez. 6-2, n. 19938/2016, Manna, Rv. 641698, ha chiarito che, in tema di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, sebbene il comma 2 bis dell'art. 2 abbia individuato standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest'ultimo sia stato articolato in vari gradi e fasi, occorre effettuare una valutazione sintetica e complessiva della durata dello stesso, non potendosi attribuire altro significato alla previsione di un termine massimo di durata ragionevole dell'intero giudizio effettuata dall'art. 2, comma 2 ter, della stessa l. n. 89 del 2001. 22 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO 8. Diritto all'indennizzo. Sulla scorta del generale principio per il quale, ai fini del riconoscimento dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo, il danno non patrimoniale si presume, mentre quello patrimoniale deve essere oggetto di puntuale allegazione e prova, Sez. 6-2, n. 12864/2016, Manna, Rv. 640090, ha affermato che l'irragionevole durata della procedura concorsuale di per sè non causa al fallito un lucro cessante, in quanto egli non è privato della capacità di svolgere attività lavorativa, né l'eventualità che i proventi siano appresi all'attivo fallimentare rappresenta un danno ingiusto. Per converso, come evidenziato da Sez. 6-2, n. 18333/2016, Petitti, Rv. 641072, la dichiarazione di estinzione del giudizio contabile presupposto per mancata riassunzione in esito all'interruzione per decesso della parte o del difensore non esclude la sussistenza del danno non patrimoniale in quanto, diversamente, verrebbe attribuita rilevanza ad una circostanza sopravvenuta, quale l'estinzione, sorta successivamente al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Ancora, Sez. 6-2, n. 14047/2016, Picaroni, Rv. 640212, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per irragionevolezza. dell'art. 2 bis, comma 3, della l. n. 89 del 2001, in quanto tale norma, garantendo una più stretta relazione tra il significato economico della domanda giudiziale e il patema d'animo che la parte subisce in attesa della definizione, persegue la ratio di evitare sovracompensazioni. Si segnala, poi, l'importante precisazione resa da Sez. 6-2, n. 09100/2016, Petitti, Rv. 639461, che ha evidenziato che l'elenco di cui all'art. 2, comma 2 quinquies, della legge n. 89 del 2001 in ordine alle cause di esclusione dell'indennizzo non è tassativo, sicché l'indennizzo può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche in assenza della condanna per responsabilità aggravata, a cui si riferisce la lett. a), potendo il giudice del procedimento di equa riparazione, già prima delle modifiche di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, autonomamente valutare la temerarietà della lite, come si desume, peraltro, dalla lett. f), che attribuisce carattere ostativo ad ogni altra ipotesi di abuso dei poteri processuali. Sulla questione è stato anche chiarito, da Sez. 6-2, n. 22150/2016, Falaschi, 641722, che il patema d'animo derivante dalla situazione di incertezza per l'esito della causa è da escludersi anche nell'ipotesi di "temerarietà sopravvenuta", ovvero quando la 23 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE PER L'IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO consapevolezza dell'infondatezza delle proprie pretese sia derivata, rispetto al momento di proposizione della domanda, da circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio prima che la durata del processo abbia superato il termine di durata ragionevole. La successiva decisione Sez. 6-2, n. 24604/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha precisato che, nell'ipotesi di "temerarietà sopravvenuta" della lite, il diritto all'equa riparazione è subordinato alla circostanza che, già prima che la controversia divenisse temeraria, era stato superato il termine di ragionevole durata del processo presupposto. Sotto altro profilo, è stato chiarito, da Sez. 6-2, n. 24743/2016, Petitti, in corso di massimazione, che il diritto all'equa riparazione va riconosciuto, nella ricorrenza delle condizioni cui è subordinato il conseguimento dell'indennizzo, anche in favore della parte che, nel processo presupposto, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, limitatamente alla parte di detto giudizio svoltasi anteriormente alla dichiarazione di non fondatezza della questione. Quanto al diritto dell'imputato ad ottenere l'equa riparazione per irragionevole durata del processo, Sez. 6-2, n. 26630/2016, Criscuolo, in corso di massimazione, ha evidenziato che detto diritto all'indennizzo sussiste nell'ipotesi di proposizione di appello volto ad ottenere la piena assoluzione nel merito, atteso che la differenza tra una definizione del processo penale in rito ed una assoluzione nel merito non si palesa come priva di rilevanza, quanto meno sul piano morale e per ciò che attiene all'interesse dell'imputato alla tutela della propria reputazione sociale, sicché il protrarsi del processo in grado di appello non consente di affermare che la lite avesse rivestito ormai carattere bagatellare o che la posta in gioco, sempre per l'imputato, fosse del tutto irrilevante e tale da fargli perdere ogni concreto interesse. 24 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI CAPITOLO III I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI (di Marina Cirese) SOMMARIO: 1. I diritti dello straniero. – 2. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario. – 3. La tutela della coesione familiare ed il ricongiungimento familiare. – 4. L'espulsione dello straniero ed il sindacato del giudice ordinario. – 5. Aspetti processuali. 1. I diritti dello straniero. Anche nel corso del 2016 la S.C. si è più volte pronunciata sul tema dei diritti degli stranieri extracomunitari. Sez. 6-1, n. 13252/2016, De Chiara, Rv. 640224, accogliendo l'impugnazione proposta da una cittadina peruviana che aveva visto respingere dal giudice di pace il ricorso avverso il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti, ove denunciava la violazione di alcune norme di diritto, derivanti dalla necessità di osservare un rigido protocollo post-operatorio in seguito a un intervento chirurgico, ribadisce che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero, che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedisce l'espulsione nei confronti di colui che dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita. Sez. L, n. 17397/2016, Doronzo, Rv. 641001, inserendosi nel solco dell'indirizzo già consolidatosi, afferma la equiparazione tra cittadini italiani residenti in Italia e stranieri titolari di carta o di permesso di soggiorno, ai fini del diritto alle prestazioni assistenziali (nel caso di specie l'assegno sociale), senza richiedere, in aggiunta, il requisito della stabile dimora in Italia. Ed, invero, si afferma che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, ove si versi, come nel caso di specie, in tema di provvidenza destinata a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Alla luce di questi principi, pertanto, la tesi secondo cui l'allontanamento anche solo temporaneo dello straniero farebbe venir meno il diritto alla 25 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI prestazione per il principio della "inesportabilità" delle prestazioni assistenziali introdurrebbe un limite al diritto non previsto dalla legge e discriminatorio in ragione della oggettiva diversità della posizione dello straniero extracomunitario rispetto al cittadino italiano. Sez. U, n. 07951/2016, Giusti, Rv. 639287, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. 5 aprile 2002, n. 77, sancisce che è discriminatorio il comportamento della P.A. che inserisca tra i requisiti per l'accesso ad un bando di selezione di volontari, da impiegare in progetti di servizio civile nazionale, il possesso della cittadinanza italiana e che avverso tale condotta, il soggetto leso può promuovere l'azione di cui all'art. 44, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Sempre in tema di prestazioni assistenziali Sez. L, n. 00593/2016, Tricomi, Rv. 638229, statuisce che il cittadino straniero, titolare del solo permesso di soggiorno, ha il diritto di vedersi attribuire l'indennità di accompagnamento, ove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge, per effetto di Corte cost., 30 luglio 2008, n. 306, Corte cost., 23 gennaio 2009, n. 11, Corte cost., 28 maggio 2010, n. 187, e Corte cost., 15 marzo 2013, n. 40, che hanno espunto l'ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno. Ciò in quanto, secondo la S.C., se è consentito al legislatore nazionale subordinare l'erogazione di prestazioni assistenziali alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, quando tali requisiti non siano in discussione, sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono nei soli confronti dei cittadini extraeuropei particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani. 2. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario. Pronunciandosi in tema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario, Sez. 6-1, n. 14157/2016, Ragonesi, Rv. 640261, dando continuità ad un indirizzo già consolidatosi, stabilisce che requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione "personale e diretta" nel Paese d'origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un gruppo sociale, ovvero per le opinioni politiche professate specificando che il relativo onere probatorio, 26 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI che riceve un'attenuazione in funzione dell'intensità della persecuzione, incombe sull'istante, per il quale è tuttavia sufficiente provare anche in via indiziaria la "credibilità" dei fatti da esso segnalati. Affinché l'onere probatorio (che grava in ogni caso sullo straniero, seppure in modo attenuato) possa ritenersi assolto, gli elementi allegati devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza desumibili dai dati anche documentali offerti. In tema di protezione sussidiaria, Sez. 6-1, n. 25463/2016, Bisogni, in corso di massimazione, nel solco della precedente giurisprudenza della Corte, afferma che la costrizione ad un matrimonio non voluto costituisce grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia, ai fini del riconoscimento di tale misura, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorché le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato o una sua parte consistente non possano o non vogliano fornire protezione adeguata. Sez. 6-1, n. 26641/2016, De Chiara, in corso di massimazione, chiarisce che la protezione umanitaria non può essere riconosciuta per il semplice fatto di versare in non buone condizioni di salute, occorrendo invece che tale condizione sia l'effetto della grave violazione dei diritti umani dell'interessato nel paese di provenienza non rilevando le buone prospettive di integrazione in Italia in mancanza del diritto di soggiornarvi. Con riguardo al profilo processuale, Sez. 6-1, n. 13830/2016, Mercolino, Rv. 640348, stabilisce che le controversie in materia di protezione internazionale instaurate in data successiva all'entrata in vigore del d.lgs. 10 settembre 2011, n. 150 sono assoggettate al rito sommario di cognizione ai sensi degli artt. 19 e 36 di tale decreto, con la contestuale abrogazione del rito speciale già disciplinato dall'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. Ne consegue, pertanto, con il venir meno della disciplina speciale dettata da quest'ultima disposizione nonché dell'assenza di norme specifiche riguardanti il ricorso per cassazione nel caso in cui il giudizio di primo grado si sia svolto con il rito sommario, l'assoggettamento dell'impugnazione alla disciplina ordinaria dettata dal codice di procedura civile e la necessità che il ricorso debba essere notificato alla controparte a cura del ricorrente. In tema di protezione internazionale dello straniero, Sez. 6-1, n. 23576/2016, Ragonesi, in corso di massimazione, stabilisce che dal momento della pubblicazione e prima ancora della notificazione, la sentenza del tribunale di rigetto del ricorso contro il provvedimento negativo della Commissione territoriale, proposto ai 27 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI sensi dell'art. 35 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, fa venire meno l'effetto sospensivo dell'esecutività del diniego stesso, sicché fa divenire attuale l'obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale. Tale obbligo si traduce nel dovere, per il Prefetto, di provvedere ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, salvo che venga proposto reclamo alla Corte d'Appello e venga accolta l'istanza di sospensione. 3. La tutela della coesione familiare ed il ricongiungimento familiare. Sez. 6-1, n. 03004/2016, Genovese, Rv. 638574, ha ribadito il principio secondo cui in tema di immigrazione, il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero avente figli minori che abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, al tribunale per i minorenni il rinnovo dell'autorizzazione al soggiorno per gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico degli stessi, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui all'art. 5, comma 5, e 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, ove non contenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare. Con riguardo alla diversa ipotesi del cittadino straniero coniugato con cittadino italiano, Sez. 6-1, n. 13831/2016, Mercolino, Rv. 640349, ha avuto modo di precisare l'ambito applicativo della disciplina dettata dal d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30, chiarendo che la stessa si riferisce alla sola ipotesi di rinnovo di un precedente titolo di soggiorno, e distinguendola da quella di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, riguardante invece l'ipotesi di prima richiesta del titolo di soggiorno alla scadenza del periodo di tre mesi previsto dall'art. 6 del d.lgs. n. 30 del 2007. La Corte ha quindi affermato che il coniuge del cittadino italiano (o di altro Stato membro dell'Unione Europea), dopo aver trascorso nel territorio nazionale il trimestre di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno prescritta dall'art. 10 del d.lgs. n. 30 del 2007, restando soggetto, sino al momento in cui non ottenga detto titolo (avente valore costitutivo per l'esercizio dei diritti nell'Unione Europea) alla disciplina dettata dalla legislazione nazionale e, segnatamente, dall'art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché dall'art. 28 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, in virtù della quale, ai fini della concessione e del mantenimento dei permessi di soggiorno per coesione familiare, è imposta la sussistenza del requisito della convivenza effettiva. Nella specie, la Corte aveva confermato il provvedimento impugnato in quanto era emerso che la ricorrente, 28 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI allontanatasi dal territorio nazionale poco dopo la celebrazione del matrimonio, vi aveva fatto ritorno dopo oltre nove anni, senza mai intraprendere la convivenza con il marito. In tema di ricongiungimento familiare, Sez. 1, n. 10072/2016, De Chiara, Rv. 639673, ha affermato che l'attribuzione della tutela su di un minore per via negoziale è inidonea all'accoglimento della domanda di ricongiungimento familiare, ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non essendo tale tutela equiparabile a quella disciplinata dal diritto italiano, giudizialmente disposta in favore dei minori privi di genitori in grado di esercitare nei loro confronti la responsabilità genitoriale e, dunque, di rappresentarli legalmente. Nella specie, la ricorrente chiedeva il ricongiungimento con la nipote, minorenne, dal cui padre le era stata concessa la tutela in virtù di mero atto negoziale. Quanto ai profili processuali, Sez. 6-1, n. 13815/2016, Bisogni, Rv. 640303, ha chiarito che l'impugnazione avverso l'ordinanza reiettiva del permesso di soggiorno per motivi familiari di cui all'art. 30, comma 1, lett. a), del d.lgs .n. 286 del 1998 , va proposta con atto di citazione e non già con ricorso, precisando che, nel caso di erronea introduzione del giudizio, la tempestività del gravame va verificata con riferimento non solo alla data di deposito dell'atto ma anche a quella di notifica dello stesso alla controparte, che deve avvenire nel rispetto del termine di cui all'art. 702 quater c.p.c. a pena di inammissibilità, senza che sia possibile peraltro alcuna conversione del rito in appello. 4. L'espulsione dello straniero ed il sindacato del giudice ordinario. Sez. 6-1, n. 04794/2016, De Chiara, Rv. 639018, sottolinea che nel giudizio introdotto con il ricorso avverso il provvedimento espulsivo il giudice ordinario ha piena cognizione dei fatti di causa, che può e deve accertare anche grazie alla produzione di prove non esibite a suo tempo all'autorità amministrativa, secondo le regole generali valevoli per i giudizi davanti a tale giudice, finalizzati appunto, grazie alla pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa, a correggere eventuali lacune o errori del procedimento amministrativo. Nel caso sottopostole, in particolare, la Corte ha annullato la decisione impugnata laddove il giudice aveva ritenuto irrilevante l'esistenza, sul passaporto del ricorrente, di un visto d'ingresso in quanto non esibito al momento dell'espulsione. Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104, si colloca nel solco dell'orientamento secondo cui il provvedimento di espulsione 29 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI dello straniero è obbligatorio e a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento ovvero nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego. In particolare, chiarisce che al giudice investito dell'impugnazione del provvedimento di espulsione non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo. Tale sindacato spetta, secondo la Corte, unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l'impugnazione dei provvedimenti del questore non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile. Nel solco di tale orientamento, Sez. 6-1, n. 25799/2016, Acierno, in corso di massimazione, ribadisce che il sindacato giurisdizionale sull'espulsione non può estendersi alla valutazione dei presupposti della revoca del permesso di soggiorno né l'inespellibilità ex art. 19, comma 2, del d.lgs n. 286 del 1998, può trovare applicazione quando il titolo di soggiorno fondato su tale divieto sia stato revocato per difetto di altri presupposti. Con riguardo al sindacato del giudice di pace sul decreto espulsivo, Sez. 6-1, n. 05367/2016, Acierno, Rv. 639027, afferma il principio secondo cui il giudice ordinario, dinanzi al quale sia stato impugnato il provvedimento di espulsione, sul presupposto che la cittadina straniera si era trattenuta nel territorio dello Stato senza aver presentato la dichiarazione di presenza di cui all'art. 5, comma 2, d.lgs n. 286 del 1998 o richiesto il permesso nei termini prescritti, non può in via interpretativa modificare la contestazione facendovi rientrare la diversa fattispecie dell'irregolare presenza per mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Ciò in quanto tale fattispecie è fenomenicamente e giuridicamente diversa e poiché il provvedimento di espulsione ha carattere vincolato, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità e poiché le ipotesi di violazione che possono giustificare l'espulsione sono rigorosamente descritte 30 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI dalla vigente normativa, sicché il giudice di pace non può accertare l'esistenza di una causa espulsiva non contestata. Con riguardo al sindacato sul decreto di espulsione Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641169, afferma che, nel caso di provvedimento espulsivo emesso a seguito di reingresso irregolare dello straniero nel territorio dello Stato, di cui all'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, l'emissione del decreto di espulsione ha carattere di automaticità, con esclusione di qualsivoglia potere discrezionale del prefetto al riguardo. Pertanto, il provvedimento espulsivo del prefetto è sindacabile solo ove gli accertamenti di fatto su cui è fondato siano erronei o mancanti, o il cittadino straniero non abbia potuto esercitare la propria opzione in ordine alla richiesta di rimpatrio mediante partenza volontaria. Né tale decreto può essere dichiarato illegittimo solo perché esso non contenga un termine per la partenza volontaria, così come previsto dalla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, in quanto tale mancanza può incidere sulla misura coercitiva adottata per eseguire l'espulsione, ma non sulla validità del provvedimento espulsivo. Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641171, afferma, inoltre, che, mentre spetta al prefetto stabilire se sussistono le condizioni per concedere, con il provvedimento di espulsione, il termine per la partenza volontaria, rientra nella competenza del questore indicare, in tale evenienza, le condizioni per la permanenza medio tempore dello straniero nel territorio nazionale, ovvero, qualora venga disposta l'espulsione immediata, decidere se provvedere all'accompagnamento coattivo immediato, al trattenimento presso il centro di identificazione ed espulsione (CIE) o all'intimazione ex art. 14, comma 5 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Pertanto non vi è contraddittorietà, secondo la Corte, tra il diniego di concessione di partenza volontaria e la mancata adozione di misure di controllo, che restano applicabili, alternativamente o cumulativamente, dal questore solo nell'ipotesi in cui sia stata accolta dal prefetto la richiesta di rimpatrio volontario. Con riguardo all'espulsione amministrativa, Sez. 6-1, n. 08984/2016, Genovese, Rv. 639502, chiarisce che la ricorrenza dell'ipotesi di trattenimento illegale nel territorio dello Stato, di cui all'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, comporta l'emissione del decreto di espulsione con carattere di automaticità, salvo il solo caso di tardiva presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, con esclusione di qualsivoglia potere discrezionale del prefetto al riguardo e senza che assumano alcun 31 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI rilievo né la circostanza che lo straniero sia entrato regolarmente in Italia, né che vi svolga attività lavorativa, in assenza dell'attivazione della specifica procedura di sanatoria al riguardo. Può viceversa inibire l'esercizio del potere espulsivo nel caso di intervenuta scadenza del permesso di soggiorno oltre il limite temporale stabilito nell'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. .n. 286 del 1998, come affermato in Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640100, il mancato rifiuto esplicito o per facta concludentia di ricevere l'istanza di rinnovo, ancorché tardivamente proposta, del permesso di soggiorno scaduto, che può integrare una causa di addebitabilità all'Amministrazione della permanenza illegale, purché lo straniero fornisca la prova del comportamento dilatorio ed ostruzionistico. D'altra parte, afferma Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640099, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, la spontanea presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno oltre il termine di sessanta giorni dalla sua scadenza non consente l'espulsione automatica, che può essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, mentre il ritardo nella presentazione può costituirne solo un indice rivelatore, nel quadro di una valutazione complessiva, della situazione in cui versa l'interessato. 5. Aspetti processuali. Si registrano alcune pronunce della Corte in tema di trattenimento dello straniero, misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell'articolo 13 della Costituzione. Con d.l. 14 settembre 2004, n. 241, convertito con modificazioni nella legge 12 novembre 2004 n. 271, la competenza è stata attribuita al giudice di pace. Il procedimento di convalida del trattenimento è analogo a quello della convalida dell'accompagnamento alla frontiera ed è disciplinato dall'art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998. Al riguardo, Sez. 6-1, n. 08268/2016, De Chiara, Rv. 639487, stabilisce che ai sensi dell'art. 14, comma 4, d.lgs. n. 286 del 1998, che fa applicazione dell'art. 13 Cost., il decreto di convalida del trattenimento deve essere emesso dal giudice entro le quarantotto ore successive alla comunicazione del trattenimento stesso, a pena di inefficacia di quest'ultimo. A fini del controllo della sua osservanza, è indispensabile, che risulti non soltanto il giorno, ma 32 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI anche l'ora in cui il decreto è emesso. Ove il decreto sia emesso all'udienza, è sufficiente l'indicazione dell'ora in cui questa si è svolta nel relativo verbale; ove, invece, il decreto sia emesso con distinto provvedimento, è necessario che sia precisata l'ora del suo deposito in cancelleria, posto che il provvedimento emesso fuori udienza viene ad esistenza soltanto con il deposito. Nel caso in cui tale precisazione manchi, il provvedimento è nullo per difetto di un requisito essenziale ai fini del raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.). Con riferimento alla proroga del trattenimento, Sez. 6-1, n. 07158/2016, De Chiara, Rv. 639310, chiarisce che ai fini della tempestività della proroga del trattenimento in un CIE, è sufficiente che essa sia disposta nel termine originario di scadenza del trattenimento, mentre il decorso, tra la corrispondente richiesta e la sua convalida da parte del giudice di pace, di un tempo superiore alle quarantotto ore, non ne inficia la validità, non ponendosi alcuna esigenza di rispetto dell'articolo 13, comma 3, Cost., atteso che il giudice non interviene per convalidare un provvedimento restrittivo già emesso dal questore, ma emette egli stesso il provvedimento restrittivo. Con riguardo alla proroga del trattenimento, inserendosi nel solco di una consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, Sez. 6- 1, n. 12709/2016, De Chiara, Rv. 640098, stabilisce che al procedimento giurisdizionale sulla richiesta di proroga del trattenimento presso il CIE si applicano le stesse garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell'audizione del trattenuto, previste per il procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento, senza necessità di specifica richiesta del trattenuto di essere sentito dal giudice. In tema di misure alternative al trattenimento di cui all'art. 14, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, Sez. 6-1, n. 20108/2016, De Chiara, in corso di massimazione, stabilisce che il possesso di passaporto o di altro documento equipollente o il pregresso rilascio di permesso di soggiorno per richiesta di asilo non è requisito indispensabile per l'adozione di dette misure. Con riguardo al rapporto tra il giudizio sul provvedimento di espulsione e l'accertamento in sede penale dei fatti, che sarebbero a base della valutazione di pericolosità dell'espulso, Sez. 6-1, n. 12711/2016, De Chiara, Rv. 640097, afferma la ricorrenza di un rapporto di connessione e non di pregiudizialità in senso tecnico giuridico ex art. 295 c.p.c. 33 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI In tema di traduzione del decreto di espulsione nella lingua madre del destinatario, Sez. 6-1, n. 13824/2016, Mercolino, Rv. 640376, statuisce che la traduzione del decreto di espulsione nella lingua ufficiale del Paese al quale appartiene lo straniero soddisfa il requisito posto dall'art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, in termini di presunzione legale di conoscenza, non rilevando che l'espellendo possa essere non in grado di intendere tale lingua, dovendo escludersi che dalla citata norma possa ricavarsi la necessità della traduzione in un dialetto locale da lui comprensibile. Sez. 6-1, n. 22145/2016, De Chiara, in corso di massimazione, chiarisce che deve escludersi un potere del giudice di "sindacare" la norma di legge (art. 13, comma 7, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) che impone la traduzione del decreto espulsivo in lingua nota alla persona espulsa; né la necessità della traduzione in tale lingua può essere superata dall'avvenuta traduzione in altra lingua (nella specie quella francese) nota alla maggioranza degli abitanti del paese di origine dell'interessato, senza neppure affermare, e tantomeno motivare, sulla circostanza che tale lingua sarebbe nota anche a quest'ultimo. 34 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI CAPITOLO IV LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI (di Paolo Di Marzio) SOMMARIO: 1. Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, fondo patrimoniale, impresa familiare. – 2. La crisi del matrimonio, la separazione dei coniugi e l'addebito. – 3. Gli accordi dei coniugi separati. – 4. L'affidamento ed il collocamento dei figli minori. – 5. Divorzio e diritti patrimoniali dell'ex coniuge. – 6. La casa familiare. – 7. L'assegno di mantenimento per il coniuge. – 8. Il mantenimento dei figli. – 9. I figli nati fuori dal matrimonio – 10. Il disconoscimento di paternità. – 11. Convivenza more uxorio: doveri morali e sociali e risarcimento del danno. – 12. Incapacità naturale, conseguenze. – 13. Lo stato di abbandono e l'adottabilità. – 14. L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption). – 15. Parto anonimo e diritto alle origini. – 16. Il bambino con due madri. 1. Il regime patrimoniale della famiglia: comunione legale, fondo patrimoniale, impresa familiare. La Suprema Corte ha statuito che qualora il coniuge, titolare di un bene conferito ad un fondo patrimoniale, agisca contro un suo creditore, chiedendo la declaratoria dell'illegittimità dell'iscrizione ipotecaria perché eseguita sul bene al di fuori delle condizioni di cui all'art. 170 c.c., ha l'onere di allegare e provare che il debito sia stato contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia e che il creditore fosse a conoscenza di tale circostanza, anche nel caso di iscrizione ipotecaria ex art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, Sez. 3, n. 01652/2016, Scrima, Rv. 638354. Nella medesima decisione la S.C. ha pure chiarito che l'art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell'esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all'iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, sicché l'esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, se il debito sia stato da loro contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero – nell'ipotesi contraria – purché il titolare del credito, per il quale l'esattore procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l'eventuale iscrizione comunque effettuata, Sez. 3, n. 01652/2016, Scrima, Rv. 638354. In tema di benefici fiscali, ha chiarito il giudice di legittimità, l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge 12 febbraio 1987, n. 74, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154), spetta per gli atti esecutivi degli 35 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di "negoziazione globale" attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell'ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv., con modif., nella l. 10 novembre 2014, n. 162), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi. La S.C., nella fattispecie esaminata, ha ritenuto la spettanza del beneficio rispetto al trasferimento, concordato tra i coniugi, di una porzione di immobile, che, in costanza di matrimonio, era stato dai medesimi acquistato pro quota in regime di separazione dei beni, Sez. 5, n. 02111/2016, Napolitano, Rv. 639235. In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell'art. 9 della l. 2 dicembre 1975, n. 576 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l'onere – posto a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell'impresa familiare che dell'entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, Sez. L, n. 05224/2016, Torrice, Rv. 639221. Nella stessa decisione la S.C. ha pure statuito che la partecipazione agli utili per la collaborazione nell'impresa familiare, ai sensi dell'art. 230 bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa ("beni acquistati" con essi, "incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento") in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall'azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti bensì ad essere reimpiegati nell'azienda o utilizzati per l'acquisto di beni, Sez. L, n. 05224/2016, Torrice, Rv. 639222. In tema di comunione legale tra i coniugi, ha deciso la Cassazione, gli atti di disposizione di beni mobili non richiedono il consenso del coniuge non stipulante, essendo posto a carico del disponente unicamente un obbligo di ricostituire, a richiesta dell'altro, la comunione nello stato anteriore al compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l'equivalente del bene 36 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione, mentre non è stabilita alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia, per cui l'atto compiuto in assenza del consenso del coniuge resta pienamente valido ed efficace. Il principio è stato enunciato dalla Corte in una fattispecie avente ad oggetto un preliminare di vendita di quote di s.r.l., Sez. 1, n. 09888/2016, Nazzicone, Rv. 639724. In tema di lavoro familiare, ai fini dell'individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell'art. 230 bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all'art. 732 c.c., al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l'impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto, Sez. L, n. 17639/2016, Esposito, Rv. 640823. In tema di riscossione coattiva delle imposte, l'iscrizione ipotecaria è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall'art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l'obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l'estraneità a tali bisogni, ma grava sul debitore che intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale l'onere di provare l'estraneità del debito alle esigenze familiari e la consapevolezza del creditore. Sez. 5, n. 22761/2016, Meloni, Rv. 641645. 2. La crisi del matrimonio, la separazione dei coniugi e l'addebito. In tema di separazione personale dei coniugi, la Corte ha precisato che la pronuncia di addebito richiesta da un coniuge per le violenze perpetrate dall'altro non è esclusa qualora risulti provato un unico episodio di percosse, trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l'equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona, Sez. 6-1, n. 00433/2016, Bisogni, Rv. 638437. In tema di separazione personale tra coniugi, ha deciso il giudice di legittimità, il mutamento di fede religiosa, e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall'art. 19 Cost., non può di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che l'adesione al nuovo credo religioso non si 37 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore previsti dagli artt. 143 e 147 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per l'interesse della prole. In conseguenza, la Corte ha escluso l'addebitabilità della separazione al marito in ragione della adesione di quest'ultimo alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova, non potendo attribuirsi rilievo all'impegno assunto in sede di celebrazione del matrimonio religioso di conformare l'indirizzo della vita familiare ed educare i figli secondo i dettami della religione cattolica, estraneo alla disciplina civilistica del vincolo, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641024. 3. Gli accordi dei coniugi separati. Gli accordi tra i coniugi modificativi delle disposizioni contenute nel decreto di omologazione della separazione ovvero nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nell'art. 1322 c.c., sono validi ed efficaci, anche a prescindere dal procedimento ex art. 710 c.p.c., qualora non superino i limiti di derogabilità posti dall'art. 160 c.c. e purché non interferiscano con l'accordo omologato, ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti agli interessi ivi tutelati, Sez. 2, n. 00298/2016, Matera, Rv. 638452. 4. L'affidamento ed il collocamento dei figli minori. In tema di affidamento dei minori, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice della separazione, ha chiarito la S.C., è costituito dall'esclusivo interesse morale a materiale della prole, previsto in passato dall'art. 155 c.c. ed oggi dall'art. 337 quater c.c. il quale, imponendo di privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore, richiede un giudizio prognostico circa la capacità del singolo genitore di crescere ed educare il figlio, da esprimersi sulla base di elementi concreti attinenti alle modalità con cui ciascuno in passato ha svolto il proprio ruolo, con particolare riguardo alla capacità di relazione affettiva, nonché mediante l'apprezzamento della personalità del genitore. Il giudice di legittimità ha confermato nella fattispecie la sentenza di merito, ritenendo che la scelta spirituale di uno dei genitori di aderire ad una confessione religiosa diversa da quella cattolica, quella dei Testimoni di Geova, non potesse costituire ragione sufficiente a giustificare l'affidamento esclusivo dei figli minori all'altro genitore, in presenza di emergenze 38 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI probatorie per le quali entrambi i coniugi risultano legati ai figli e capaci di accudirli nella quotidianità, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641025. Il coniuge separato che intenda trasferire la residenza lontano da quella dell'altro coniuge, ha specificato la Corte, non perde l'idoneità ad avere in affidamento i figli minori, sicché il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all'interesse della prole il collocamento presso l'uno o l'altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario. Nel caso sottoposto al suo esame, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di appello di privilegiare la collocazione dei minori presso la madre in ragione dell'età prescolare degli stessi, Sez. 1, 18087/2016, Giancola, Rv. 641020. 5. Divorzio e diritti patrimoniali dell'ex coniuge. In caso di divorzio, sono assoggettate alla disciplina di cui all'art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 le somme corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cd. incentivi all'esodo), atteso che dette somme non hanno natura liberale né eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto, Sez. 6-1, n. 14171/2016, Bisogni, Rv. 640497. Il diritto ad una quota della indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, previsto dall'art. 12 bis della l. n. 898 del 1970 a favore del coniuge divorziato che sia titolare di assegno e che non sia passato a nuove nozze, ha specificato la S.C. che sussiste con riferimento agli emolumenti collegati alla cessazione di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che si correlino al lavoro dell'ex coniuge, sicché, nel caso di indennità spettante all'agente generale di un'agenzia di assicurazioni, tale diritto spetta unicamente ove l'attività dell'agente si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale e non sia svolta attraverso una struttura organizzata, anche a livello embrionale, con ampi margini di autonomia, riguardo alla scelta dei tempi e dei modi di esercizio, e con assunzione di rischio a proprio carico, Sez. 6-1, n. 17883/2016, Mercolino, Rv. 641026. 6. La casa familiare. La Corte ha confermato che il coniuge assegnatario della casa familiare, perché affidatario della prole minorenne – o maggiorenne non autosufficiente – può opporre al 39 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI comodante, che chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all'assegnatario, ancorché diverso) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha – in assenza di una espressa indicazione della scadenza – una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari (nella specie, relative a figli minori) che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile, Sez. 3, n. 02506/2016, Rossetti, Rv. 638982. La qualificazione giuridica di un immobile come "casa familiare", ai sensi dell'art. 155 quater c.c. (applicabile ratione temporis), postula, laddove non risulti in modo inequivoco che, prima del conflitto familiare, vi fosse una stabile e continuativa utilizzazione dello stesso da parte del nucleo costituito da genitori e figli, che la destinazione suddetta sia stata impressa dalle parti non solo in astratto (con l'acquisto in comunione), ma anche in concreto, mediante la loro convivenza nell'immobile. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto doversi qualificare come "casa familiare" l'immobile acquistato in comproprietà dai genitori, che lì avevano iniziato la convivenza, prima della nascita del figlio, nella prospettiva di farne il luogo ove avrebbero vissuto insieme. La Cassazione ha escluso la rilevanza, al fine del mutamento di una siffatta destinazione, del temporaneo allontanamento dall'abitazione per il contrasto insorto tra i coniugi dopo la nascita, Sez. 1, n. 03331/2016, Acierno, Rv. 638708. In tema di agevolazioni tributarie, il giudice di legittimità ha chiarito che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale, in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta "prima casa", ma una modalità di utilizzazione dello stesso correlata ai giudizi di separazione e di divorzio, che resta svincolata dalla corresponsione di alcun corrispettivo e, quindi, priva di intento speculativo, Sez. 5, n. 05156/2016, Cirillo, Rv. 639234. 40 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI In materia di assegnazione della casa familiare, ha statuito la S.C., l'art. 155 quater c.c. (applicabile ratione temporis), laddove prevede che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'art. 2643» c.c., va interpretato nel senso che entrambi non hanno effetto riguardo al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull'immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, il quale perciò può far vendere coattivamente l'immobile come libero, Sez. 3, n. 07776/2016, Barreca, Rv. 639499. L'assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l'immobile non appartenga in via esclusiva, ha osservato la Cassazione, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l'altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione se ne deve tenere conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all'uno o all'altro coniuge ovvero venduto a terzi, Sez. 2, n. 08202/2016, Parziale, Rv. 639528. In tema d'imposta di registro e dei relativi benefici per l'acquisto della prima casa, la S.C. ha deciso che il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui ove l'immobile acquistato sia adibito a tale destinazione non rileva la diversa residenza di uno dei coniugi in regime di comunione legale, essendo gli stessi tenuti non ad una comune sede anagrafica, ma alla coabitazione. Deve essere, peraltro, accertata l'effettiva destinazione a residenza principale della famiglia e, cioè, la coabitazione dei coniugi nell'immobile, non essendo sufficiente che uno solo di essi abbia trasferito la sua residenza nel relativo comune di ubicazione, Sez. 5, n. 13335/2016, Zoso, Rv. 640345. In tema di agevolazioni tributarie, la Corte ha poi riaffermato che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare, in adempimento di una condizione della separazione consensuale, non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici "prima casa", atteso che, pur non essendo essenziale per addivenire alla separazione o al divorzio, è diretto a sistemare globalmente i rapporti fra coniugi, nella prospettiva di una definizione tendenzialmente stabile della crisi, ed è, quindi, un atto relativo a tali procedimenti, che può fruire dell'esenzione di cui 41 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI all'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, salva la contestazione da parte della Amministrazione, onerata della relativa prova, della finalità elusiva, Sez. 5, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344. In tema di agevolazioni "prima casa", la Corte ha chiarito che il requisito della mancanza di titolarità su tutto il territorio nazionale del diritto di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà di un'altra casa acquistata col medesimo beneficio, di cui all'art. 1, nota II bis, lett. c, della parte I della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non può essere inteso, atteso il chiaro tenore letterale della disposizione, come mancanza di disponibilità effettiva di essa, sicché non sussiste ove l'immobile di proprietà del contribuente sia stato assegnato, in sede di separazione o divorzio, al coniuge separato o all'ex coniuge, in quanto affidatario di prole minorenne, Sez. 6-1, n. 14673/2016, Napolitano, Rv. 640515. In materia di divorzio, la sentenza che ponga a carico del marito l'obbligo di mantenimento della ex moglie e revochi l'assegnazione della casa coniugale a quest'ultima, contestualmente affermando che il bene segua "il normale regime civilistico", ha chiarito la Corte, va intesa nel senso che la casa torna nel godimento esclusivo della stessa ex moglie, in quanto ne era unica proprietaria, essendo tale interpretazione l'unica desumibile, oltre che dal tenore letterale del disposto, anche dalla piena corrispondenza di una simile conseguenza con l'imposizione, sempre al marito, dell'assegno di mantenimento. In applicazione di questo principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva accolto l'opposizione a precetto per il rilascio dell'immobile, intimato dal marito a carico dell'ex moglie, rilevando come l'assenza di una statuizione espressa di assegnazione in suo favore della casa coniugale escludesse l'esistenza di un titolo dotato del requisito della certezza che lo legittimasse a procedere ad esecuzione forzata, Sez. 3, n. 15373/2016, Frasca, Rv. 641292. La Corte ha specificato pure che l'assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 155 c.c. previgente e art. 155 quater c.c., ovvero in forza della legge sul divorzio, non può essere considerata in occasione della divisione dell'immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l'immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell'esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario e, diversamente, si realizzerebbe una indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza 42 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI alcun vincolo e per il prezzo integrale, Sez. 2, n. 17843/2016, D'Ascola, Rv. 641168. 7. L'assegno di mantenimento per il coniuge. In sede di divorzio, ai fini della determinazione dell'assegno per il coniuge bisognoso deve tenersi conto dell'intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, di qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso l'uso di una casa di abitazione, determinante un risparmio di spesa, salvo che l'immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi, in tale ultima ipotesi, di una situazione precaria ed essendo le difficoltà di liberazione, da parte del proprietario, un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali, Sez. 6-1, n. 00223/2016 Genovese, Rv. 638050. La S.C. ha anche chiarito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 156, comma 1, c.c., per contrarietà agli artt. 3 e 29 Cost., laddove, nell'ipotesi di addebito della separazione ad entrambi i coniugi, esclude il diritto all'assegno di mantenimento, atteso che il legislatore, esercitando un legittimo apprezzamento discrezionale, ha inteso sanzionare l'inosservanza dei doveri nascenti dal matrimonio e rafforzare il vincolo matrimoniale, riconducendo a tale violazione la perdita di quel dovere di assistenza che sopravvive alla separazione, peraltro non privando completamente di tutela il coniuge economicamente più debole, cui vengono comunque garantiti il diritto agli alimenti e, in caso di morte del coniuge, quello ad un assegno vitalizio in sostituzione della quota di riserva, Sez. 1, n. 01259/2016, Bisogni, Rv. 638493. La Corte ha quindi ribadito quanto affermato da Sez. 1, n. 06855/2015, Dogliotti, Rv. 634861, e pertanto che l'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell'art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua 43 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo, Sez. 6-1, n. 02466/2016, Bisogni, Rv. 638605. In tema di separazione personale dei coniugi, l'attitudine al lavoro dei medesimi, quale elemento di valutazione della loro capacità di guadagno, può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno di mantenimento, solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata che, nel quantificare l'assegno di mantenimento riconosciuto alla moglie, aveva valutato il titolo di studio universitario e l'abilitazione professionale da lei posseduti ma anche le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali, Sez. 6-1, n. 6427/2016, Mercolino, Rv. 639189. La corresponsione dell'assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, ha chiarito il giudice di legittimità, è satisfattivo di qualsiasi obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, il quale, quindi, non può avanzare successivamente ulteriori pretese di contenuto economico, né può essere considerato, all'atto del decesso dell'ex coniuge, titolare dell'assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, a una sua quota, Sez. L, n. 09054/2016, Doronzo, Rv. 639581. 8. Il mantenimento dei figli. In tema di spese straordinarie sostenute nell'interesse dei figli, la Corte ha specificato che il mancato preventivo interpello del coniuge divorziato può essere sanzionato nei rapporti tra i coniugi ma non comporta l'irripetibilità delle spese, nel caso di specie relative all'iscrizione ad un corso sportivo ed all'attività scoutistica, effettuate nell'interesse del minore e compatibili con il tenore di vita della famiglia, Sez. 6-1, n. 02467/2016, Bisogni, Rv. 638634. In materia di separazione personale dei coniugi, la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, ha deciso la Suprema Corte, pur non determinando automaticamente una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati dalla precedente unione, deve essere valutata dal giudice 44 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite in quanto comporta il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico, Sez. 6-1, n. 14175/2016, Bisogni, Rv. 640498. 9. I figli nati fuori dal matrimonio. La Corte ha escluso la validità del riconoscimento di figlio naturale contenuto in una scrittura privata che non possa qualificarsi come un testamento olografo, non evincendosi univocamente da essa la volontà del de cuius di voler determinare l'effetto accertativo della filiazione dopo la propria morte. È stato perciò ribadito che l'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento, purché di questo abbia contenuto, forma e funzione, la quale ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, da parte dell'autore, del proprio generale potere di disporre mortis causa. L'autore della dichiarazione, nel caso di specie, si era limitato a scrivere che una certa persona era sua figlia, Sez. 2, n. 01993/2016, Scarpa, Rv. 638788. 10. Il disconoscimento di paternità. Il termine annuale per la proposizione della domanda di disconoscimento della paternità naturale è assoggettato alla sospensione per il periodo feriale di cui all'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, applicabile anche ai termini di decadenza di carattere sostanziale, ma con rilevanza processuale, quale quello ex art. 244 c.c., qualora la possibilità di agire in giudizio costituisca, per il titolare che deve munirsi di una difesa tecnica, l'unico rimedio idoneo a far valere il suo diritto, senza che assuma rilievo la maggiore o minore brevità del termine decadenziale di volta in volta sancito per intraprendere l'azione, Sez. 1, n. 01868/2016, Lamorgese, Rv. 638489. 11. Convivenza more uxorio: doveri morali e sociali e risarcimento del danno. Le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., ha spiegato la Corte, sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano come adempimento di un'obbligazione naturale, ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne consegue che, in un tale contesto, l'attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente more uxorio assume una siffatta connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, 45 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest'ultimo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all'azienda del convivente, in quanto fonte di arricchimento esclusivo dello stesso in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato, Sez. 1, n. 01266/2016, Valitutti, Rv. 638320. La sofferenza provata dal convivente more uxorio, in conseguenza dell'uccisione del figlio unilaterale del partner, ha chiarito il giudice di legittimità, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l'attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, il quale non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione, Sez. 3, n. 08037/2016, Rossetti, Rv. 639520. 12. Incapacità naturale, conseguenze. L'annullamento delle dimissioni del lavoratore perché presentate in stato di incapacità naturale presuppone non solo la sussistenza di un quadro psichico connotato da aspetti patologici ma anche l'incidenza causale tra l'alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al recesso. La Corte ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza di appello che non aveva ammesso la consulenza tecnica di ufficio richiesta dal dipendente di una ASL, non valutando adeguatamente un certificato medico, di poco precedente le dimissioni, rilasciato da altra ASL, dal quale risultava che il dimissionario era affetto da patologia psicotica con marcata disabilità neurologica e relazionale, Sez. L., n. 01070/2016, Balestrieri, Rv. 638516. La Corte ha deciso che risponde, ai sensi dell'art. 2047, comma 1, c.c., dei danni cagionati dall'incapace maggiorenne non interdetto, colui che abbia liberamente scelto di accogliere l'incapace nella propria sfera personale, convivendo con esso ed assumendone spontaneamente la sorveglianza, sicché, per dismettere tale responsabilità, è necessaria una determinazione di volontà uguale e contraria, che può essere realizzata anche trasferendo su altro 46 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI soggetto l'obbligo di sorveglianza, sì da sostituire all'affidamento volontario preesistente un altro quanto meno equivalente, la cui idoneità va verificata dal giudice con valutazione prognostico- ipotetica ex ante riferita al momento "del passaggio delle consegne". È stata perciò confermato il provvedimento impugnato, che aveva riconosciuto il trasferimento del dovere di sorveglianza su un incapace maggiorenne da un genitore all'altro nella decisione della madre di non proseguire la convivenza con il figlio e nella contestuale libera e consapevole decisione del padre di portarlo con sé a vivere in campagna, in luogo astrattamente idoneo all'esercizio della sorveglianza in condizioni addirittura preferibili a quelle in precedenza offerte dalla madre, Sez. 3, n. 01321/2016, Rubino, Rv. 638648. In tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica (nella specie, demenza senile grave), la S.C. ha statuito che, accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, iuris tantum, anche nel periodo intermedio, sicché la parte che sostiene la validità dell'atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia, Sez. 2, 04316/2016, Scarpa, Rv. 639411. 13. Lo stato di abbandono e l'adottabilità. L'adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisce una misura eccezionale (una extrema ratio), cui è possibile ricorrere non già per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ivi compreso l'affidamento familiare di carattere temporaneo, ai fini della tutela del superiore interesse del figlio, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639328. Nella stessa decisione la Corte ha specificato che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è consentito solo in presenza di fatti gravi ed indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure espressi da esperti della materia, non basati su precisi elementi fattuali idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio e di cui il giudice di merito deve dare conto, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639327. Inoltre, ai fini dell'accertamento dello stato 47 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI di abbandono quale presupposto della dichiarazione di adottabilità, non basta che risultino insufficienze o malattie mentali, anche permanenti, o comportamenti patologici dei genitori, essendo necessario accertare la capacità genitoriale in concreto di ciascuno di loro, a tal fine verificando l'esistenza di comportamenti pregiudizievoli per la crescita equilibrata e serena dei figli e tenendo conto della positiva volontà dei genitori di recupero del rapporto con essi, Sez. 1, n. 07391/2016, Lamorgese, Rv. 639329. In tema di adozione, il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell'ambito della propria famiglia, sancito dall'art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha chiarito la S.C., impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia, come extrema ratio – a causa dell'irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza. È stata, pertanto, disposta la revocazione di una sua precedente decisione e, procedendo al giudizio rescissorio, ha cassato la sentenza di merito che aveva desunto l'inadeguatezza dei genitori da un singolo episodio di abbandono della figlia minore nell'auto parcheggiata sotto casa, benché fosse stata successivamente esclusa qualsivoglia situazione di pericolo derivata da tale situazione, nonché da un riferimento, affatto generico, all'avanzata età dei genitori, Sez. 1, n. 13435/2016, Nazzicone, Rv. 640326. 14. L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption). In tema di adozione in casi particolari, ha statuito il giudice di legittimità, l'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 183 del 1994, integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l'adozione del minore tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l'unica previsione della condicio legis della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», che va intesa, in coerenza con lo stato dell'evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come 48 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI impossibilità "di diritto" di procedere all'affidamento preadottivo e non di impossibilità "di fatto", derivante da una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnico- giuridico. La mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, inoltre, implica che l'accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto, senza che l'esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l'impossibilità dell'affidamento preadottivo) che in concreto (l'indagine sull'interesse del minore), possa svolgersi dando rilievo, anche indirettamente, all'orientamento sessuale del richiedente ed alla conseguente relazione da questo stabilita con il proprio partner, Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640133. 15. Parto anonimo e diritto alle origini. Nel caso di cd. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, ha deciso la S.C., dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278) e l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta, Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021. La S.C. ha pure precisato che il diritto del figlio adottivo a conseguire l'informazione circa l'identità dei genitori biologici concerne l'attuazione dello sviluppo della personalità individuale, in relazione al profilo del completamento dell'identità personale, ed è pertanto tutelato ai sensi dell'art. 2 della Costituzione. Il diritto all'oblio della madre, che abbia domandato di non essere nominata in occasione del parto, non si estingue completamente con la morte, ma a seguito di quest'evento non è più possibile interpellarla per accertare che la sua determinazione non sia cambiata. In una simile 49 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI. PROFILI SOSTANZIALI evenienza il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini deve essere valutato prevalente e deve essergli riconosciuta la possibilità di conoscere l'identità della madre biologica, Sez. 1, n. 22838/2016, Acierno. 16. Il bambino con due madri. La Corte ha deciso che il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l'ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non contrastano con l'ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, del superiore interesse del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione dello status filiationis, validamente acquisito all'estero, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641310. Nella medesima decisione la S.C. ha affermato che l'atto di nascita straniero, validamente formato, da cui risulti la nascita di un figlio da due madri, per avere l'una donato l'ovulo e l'altra partorito, non contrasta, di per sé, con l'ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell'ordinamento italiano dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40, rappresentando quest'ultima una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641311. Ancora nella stessa sentenza, la Corte ha pure statuito che la procedura di maternità assistita tra due donne legate da un rapporto di coppia, con donazione dell'ovocita da parte della prima e conduzione a termine della gravidanza ad opera della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non costituisce una fattispecie di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma integra un'ipotesi di genitorialità realizzata all'interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641312. 50 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI CAPITOLO V SUCCESSIONI E DONAZIONI (di Dario Cavallari) SOMMARIO: 1. La delazione ereditaria. – 2. L'accettazione beneficiata. – 3. La rinunzia all'eredità. – 4. La reintegrazione della quota riservata ai legittimari. – 5. Il testamento. – 6. La divisione ereditaria. – 7. Il retratto successorio. – 8. La collazione. – 9. Il pagamento dei debiti ereditari. – 10. Le donazioni. 1. La delazione ereditaria. In tema di delazione ereditaria, è stato chiarito da Sez. 2, n. 14566/2016, Scarpa, Rv. 640378, come configuri patto successorio, vietato ex art. 458 c.c., l'accordo con il quale i contraenti ripartiscono fra di loro le quote di proprietà di un immobile oggetto dell'altrui futura successione morti causa, con l'intesa di restare in comunione ai sensi dell'art. 1111, comma 2, c.c. 2. L'accettazione beneficiata. Sono state emesse, in materia, alcune interessanti pronunce di carattere processuale. Così è stato chiarito da Sez. 2, n. 08104/2016, Cosentino, Rv. 639459, che, in pendenza della procedura concorsuale di liquidazione dell'eredità beneficiata, il divieto di promuovere procedure individuale riguarda solo le azioni esecutive, sicché i creditori ereditari possono esercitare contro l'erede azioni di accertamento e di condanna al fine di ottenere un titolo giudiziale azionabile per soddisfarsi sul residuo della procedura concorsuale. Inoltre, Sez. 6-2, n. 13820/2016, Falaschi, Rv. 640211, ha precisato che il decreto con cui il tribunale, accertata la difficoltà dei coeredi di completare la liquidazione, autorizzi la vendita concorsuale non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, in ragione della sua natura non decisoria e non definitiva. 3. La rinunzia all'eredità. Sez. 6-2, n. 08519/2016, Giusti, Rv. 639634, ha ribadito che, per l'impugnazione della rinunzia ereditaria, è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori che si verifica quando, al momento dell'esercizio dell'azione, fondate ragioni, come l'intervenuta dichiarazione di fallimento, facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori. 51 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI 4. La reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Con riferimento alla rinuncia all'azione di riduzione ad opera del legittimario totalmente pretermesso, Sez. 2, n. 03389/2016, Picaroni, Rv. 638782, ha chiarito che questa diverge dalla rinuncia all'eredità, non potendo il riservatario essere qualificato chiamato all'eredità prima dell'accoglimento della domanda di riduzione. Se ne ricava che il creditore del summenzionato legittimario che intenda esperire l'azione ex art. 524 c.c. deve prima impugnare tale rinunzia all'azione di riduzione. Merita del pari di essere menzionata Sez. 2, n. 04445/2016, Lombardo, Rv. 638994, la quale ha stabilito che, per determinare la porzione disponibile e le quote riservate, occorre avere riguardo alla massa dei beni appartenenti al defunto al tempo della morte, senza che sia possibile distinguere tra donazioni anteriori e posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario e fra la posizione dei figli e quella del coniuge del de cuius. Pertanto, il coniuge sopravvenuto rispetto ai figli può domandare la riduzione di tutte le donazioni poste in essere in favore di questi ultimi, pur se precedenti al matrimonio e concernenti figli nati da altro coniuge o fuori dal matrimonio. Inoltre, Sez. 2, n. 05320/2016, D'Ascola, Rv. 639182, ha precisato che, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell'asse ereditario, stabilire l'esistenza e l'entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell'integrazione spettante al legittimario leso, per cui quest'ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro, nonostante l'esistenza nell'asse di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene, riferito al tempo dell'ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali. Infine, Sez. 2, n. 04721/2016, Lombardo, Rv. 639177, ha specificato che l'ordine da seguire nella riduzione delle disposizioni lesive della quota legittima è tassativo ed inderogabile, con la conseguenza che può procedersi alla riduzione delle donazioni, dalla più recente alla più risalente, solo dopo avere ridotto tutte le disposizioni testamentarie ed avere verificato che tale riduzione non è sufficiente a soddisfare il diritto del legittimario leso. 5. Il testamento. Sono state emesse alcune pronunce di particolare rilievo concernenti l'istituto del legato. Così Sez. 2, n. 01720/2016, D'Ascola, Rv. 638591, ha affermato che il legato di azienda ha ad oggetto, salvo diversa 52 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI volontà del testatore, il complesso unitario dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, compresi i rapporti di debito-credito, con la conseguenza che il legatario è tenuto al pagamento dei debiti aziendali, ancorché nei limiti del valore dell'azienda medesima. Quanto al legato in sostituzione di legittima, Sez. 2, n. 01996/2016, Scarpa, Rv. 638786, ha chiarito che, poiché la mancata rinuncia al lascito rappresenta un atto di gestione del rapporto successorio da parte del beneficiario, confermativo dell'attribuzione patrimoniale già verificatasi, è inammissibile l'azione surrogatoria proposta dal creditore dell'istituito per ottenere la legittima. Ciò perché tale azione postula l'inerzia del debitore, che va esclusa in presenza di un comportamento positivo, pur se pregiudizievole per le ragioni creditorie, tramite cui il debitore manifesti la volontà di gestire il suo patrimonio. In tema di legato modale, secondo Sez. 2, n. 04444/2016, Migliucci, Rv. 639401, l'inadempimento del modus ad opera del legatario legittima il beneficiario, al pari dei prossimi congiunti, benché eredi, a proporre, oltre all'azione di adempimento, quella di risoluzione, ex art. 648, comma 2, c.c., avendo egli interesse, ove sia anche erede, a conseguire il vantaggio patrimoniale derivante dalla restituzione della res e a soddisfare le esigenze morali perseguite dal de cuius rimaste irrealizzate a causa dell'inadempimento dell'onerato. In ordine alla redazione del testamento, Sez. 2, n. 01993/2016, Scarpa, Rv. 638788, ha stabilito che l'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento purché ne abbia il contenuto, la forma e la funzione; quest'ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, ad opera dell'autore, del proprio generale potere di disporre mortis causa, con la conseguenza che non può essere considerato un testamento olografo una scrittura privata che contenga il riconoscimento di figlio naturale. Relativamente ai profili processuali, Sez. 2, n. 04452/2016, Criscuolo, Rv. 639106, ha ribadito che, nel giudizio di impugnazione di un testamento olografo per nullità, sussiste litisconsorzio necessario anche nei confronti di tutti gli eredi legittimi, atteso che l'eventuale accoglimento della domanda porterebbe alla dichiarazione di invalidità del testamento ed alla conseguente apertura della successione legittima. Per ciò che riguarda la forma del testamento, Sez. 2, n. 10613/2016, Falabella, Rv. 640050, ha precisato che l'inesatta indicazione della data, dovuta ad errore materiale del testatore, può, 53 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI benché la stessa sia impossibile, essere rettificata dal giudice, ricorrendo ad altri elementi intrinseci alla scheda testamentaria. Infine, Sez. 2, n. 12241/2016, Scarpa, Rv. 640057, si è occupata delle funzioni dell'esecutore testamentario, chiarendo che il termine annuale previsto dall'art. 703 c.c. riguarda solo il possesso dei beni ereditari, ma non l'amministrazione degli stessi, la cui gestione egli deve proseguire finché non siano esattamente attuate le disposizioni testamentarie, salvo contraria volontà del legislatore od esonero giudiziale. 6. La divisione ereditaria. Sez. 2, n. 03933/2016, Criscuolo, Rv. 638975, ha confermato che, passata in giudicato la sentenza che ha disposto lo scioglimento della comunione, determinando i lotti, questi entrano da tale momento nel patrimonio di ciascun ex comunista, benché ne sia stato disposto il sorteggio; sicché, pur se la loro individuazione in concreto avverrà solo dopo l'adempimento di detto incombente formale, gli eventi successivi che dovessero interessare i beni rientranti in ogni lotto produrranno da subito i loro effetti nei confronti di colui al quale lo stesso verrà poi assegnato in sede di sorteggio, senza dare luogo ad ulteriori aggiustamenti o conguagli. È stato pure ribadito da Sez. 2, n. 05603/2016, Abete, Rv. 639280, che il giudice, ai sensi dell'art. 720 c.c., può attribuire per l'intero un bene non comodamente divisibile non solo nella porzione del coerede con quota maggiore ma, altresì, in quelle di più coeredi che tendano a rimanere in comunione, come titolari della maggioranza delle quote. Inoltre, secondo Sez. 2, n. 05869/2016, Abete, Rv. 639208, e Sez. 2, n. 06931/2016, Parziale, Rv. 639451, il principio dell'universalità della divisione ereditaria non è inderogabile, essendo possibile una divisione parziale sia quando, al riguardo, esista un accordo fra le parti, sia qualora tale divisione sia stata domandata da una delle parti e le altre non amplino la domanda, chiedendo, a loro volta, la divisione dell'intero asse. La sentenza della Sez. 2, n. 06931/2016, Parziale, Rv. 639452, ha ulteriormente precisato che la somma dovuta dal condividente assegnatario di un immobile non facilmente divisibile a titolo di conguaglio in favore di quello non assegnatario ha natura di debito di valore sicché, sorgendo al momento dell'assegnazione del bene, va rivalutata, anche d'ufficio, all'epoca della decisione della causa di divisione, senza che ne derivi l'alterazione del petitum della 54 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI controversia, poiché la rivalutazione incide soltanto sulla concreta quantificazione della quota in termini monetari. Sempre in un'ottica processuale, Sez. 2, n. 10856/2016, Falabella, Rv. 639962, ha chiarito che la richiesta di attribuzione di beni determinati non costituisce domanda nuova e può essere avanzata per la prima volta in appello, salvo che non sia stata formulata da uno dei condividenti nel corso del giudizio di primo grado, eventualità che ne precluderebbe agli altri la proposizione successiva. Al riguardo, Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, ha specificato che l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur se soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta in corso di causa e pure in appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta la extrema ratio voluta dal legislatore. Con un'ulteriore pronuncia concernente i profili processuali riconnessi alla divisione, Sez. 2, n. 16802/2016, Falabella, Rv. 640839, ha stabilito che la divisione, anche transattiva, può essere impugnata solo con l'azione di annullamento per dolo o violenza ovvero con quella di rescissione per lesione, fatti salvi i limiti di cui all'art. 764, comma 2, c.c., e non anche per errore sulle qualità di un cespite. 7. Il retratto successorio. Per Sez. 2, n. 17520/2016, Criscuolo, Rv. 641099, la domanda di retratto successorio ex art. 732 c.c. nei confronti degli acquirenti di una quota non è preclusa dal precedente esercizio dell'azione di divisione giudiziale verso gli stessi soggetti, poiché entrambe le azioni sottendono la validità dell'atto traslativo ed il giudicato sulla domanda divisoria non preclude l'esame dell'istanza del retrattante, il cui accoglimento determina un fenomeno di surrogazione soggettiva legale con efficacia ex tunc, assimilabile, quanto agli effetti, rispetto all'esito del giudizio divisionale, ad una sorta di confusione. Con riferimento ai presupposti del retratto successorio, Sez. 2, n. 05865/2016, Falaschi, Rv. 639410, ha affermato che la denuntiatio dell'alienazione della quota al coerede ex art. 732 c.c. costituisce una proposta contrattuale nei confronti dello stesso e, quindi, va realizzata in forma scritta e notificata con modalità idonee 55 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI a documentarne il giorno della ricezione da parte del destinatario, ai fini dell'esercizio della prelazione. Nel caso in cui uno degli eredi alieni ad un estraneo la quota indivisa dell'unico cespite ereditario, Sez. 2, n. 08692/2016, Falaschi, Rv. 639757, ha ribadito che deve presumersi che l'alienazione concerna la quota che lo riguarda. Ne consegue che il coerede può esercitare il diritto di prelazione ex art. 732 c.c., salvo che il retrattato dimostri, in base ad elementi concreti della fattispecie ed intrinseci al contratto, che la vendita ha ad oggetto un bene a sé stante, non assumendo alcun valore il comportamento del retraente, estraneo al contratto medesimo. Infine, Sez. 2, n. 16314/2016, Giusti, Rv. 641007, ha confermato che il coerede può rinunciare alla prelazione ex art. 732 c.c. non solo dopo la denuntiatio, ma anche preventivamente e, pertanto, in epoca precedente rispetto ad una alienazione solo genericamente progettata. 8. La collazione. In materia di collazione Sez. 2, n. 03932/2016, Criscuolo, Rv. 638875, ha affermato che i beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso sono soggetti a collazione solo se sia accertata la natura simulata del relativo atto traslativo in accoglimento di specifica domanda in tal senso del coerede che chiede la divisione. In questo caso, il termine di prescrizione dell'azione di simulazione inizia a decorrere in maniera diversa a seconda dell'oggetto della domanda. Infatti, se essa è proposta dall'erede nella qualità di legittimario che faccia valere il suo diritto alla riduzione della donazione lesiva della sua quota di riserva, detto termine decorre dall'epoca dell'apertura della successione. Se, al contrario, l'azione è esperita al solo fine di acquisire il bene donato alla massa ereditaria e senza addurre alcuna lesione di legittima, la prescrizione decorre dal compimento dell'atto che si assume simulato, subentrando l'erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex art. 1417 c.c., nella medesima posizione del defunto. Inoltre, Sez. 2, n. 20041/2016, Falabella, Rv. 641699, ha stabilito che, ove il relictum sia costituito da un unico bene, i prelevamenti devono essere effettuati stralciando dallo stesso la quota corrispondente al valore dei beni oggetto del conferimento per imputazione, atteso che la mancanza, nell'asse ereditario, di beni della stessa natura di quelli che sono stati così conferiti dagli eredi donatari, non esclude il diritto degli eredi non donatari al prelevamento, che si attua, ex art. 725 c.c., solo per quanto 56 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI possibile, con oggetti della stessa natura e qualità di quelli non conferiti in natura. 9. Il pagamento dei debiti ereditari. Per ciò che riguarda il pagamento dei debiti e pesi ereditari, Sez. 2, n. 01994/2016, Scarpa, Rv. 638787, ha confermato che le spese per onoranze funebri rientrano tra i pesi ereditari, con la conseguenza che, colui che ha anticipato tali spese ha diritto ad ottenerne il rimborso da parte degli eredi, sempre che non si tratti di spese eccessive, sostenute contro la loro volontà. In un'ottica processuale, Sez. 2, n. 04199/2016, Criscuolo, Rv. 639278 e Sez. 6-2, n. 08487/2016, Scalisi, Rv. 639756, hanno chiarito che l'azione per il pagamento di un debito ereditario non determina, in presenza di una pluralità di eredi, una situazione di litisconsorzio necessario, non sussistendo un rapporto unico ed inscindibile, poiché ogni coerede è tenuto a soddisfare i debiti ereditari pro quota. 10. Le donazioni. Innanzitutto, Sez. U, n. 05068/2016, Petitti, Rv. 638985, ha precisato che la donazione di cosa anche solo in parte altrui è nulla per difetto di causa. Se ne ricava che la donazione del coerede avente ad oggetto la quota di un bene indiviso compreso nella massa ereditaria è nulla e, qualora nell'atto di donazione sia affermato che il donante è consapevole dell'altruità del bene, vale come donazione obbligatoria di dare. Quindi, in tema di contratto atipico di vitalizio alimentare, Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639695, evidenzia come la relativa alea comprende anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante. Pertanto, il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene, mediante la conclusione di un successivo contratto c.d. di mantenimento, quale compenso per la maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza morale e materiale da prestare, è privo di causa. Infatti, tale ulteriore attribuzione patrimoniale elimina il rischio, connaturale al precedente contratto, di sproporzione tra le due prestazioni, con la conseguenza che la causa di scambio finisce per dissimulare quella di liberalità. Sempre in materia di vitalizio improprio o assistenziale, Sez. 2, n. 15904/2016, Manna, Rv. 640569, ha confermato che la differenza fra questo ultimo contratto e la donazione è da cogliere nell'elemento della aleatorietà, in quanto caratterizzato dall'incertezza obiettiva iniziale circa la durata di vita del beneficiario ed il rapporto tra valore complessivo delle prestazioni dovute 57 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI dall'obbligato e valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo. Ne deriva che l'originaria macroscopica sproporzione del valore del cespite rispetto a quello delle prestazioni fa presumere lo spirito di liberalità tipico della donazione, eventualmente gravata da un modus. Inoltre, Sez. 2, n. 10262/2016, Falabella, Rv. 639822, ha ribadito che la donazione remuneratoria consiste in un'attribuzione gratuita, compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dovere adempiere alcun obbligo giuridico, morale o sociale, e con il fine di compensare i servizi resi dal donatario. In particolare, Sez. 2, n. 19578/2016, Cosentino, Rv. 641356, ha chiarito che la donazione rimuneratoria differisce dall'obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., la quale sussiste qualora siano accertati la ricorrenza di un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e lo spontaneo adempimento di tale dovere con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Con riferimento alla compravendita di un bene ad un prezzo inferiore a quello effettivo, Sez. 2, n. 10614/2016, Scalisi, Rv. 640051, ha escluso che questa realizzi, di per sé, un negotium mixtum cum donatione, occorrendo non solo una sproporzione tra le prestazioni di entità significativa, ma pure la consapevolezza, da parte dell'alienante, dell'insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, così da porre in essere un trasferimento volutamente funzionale all'arricchimento della controparte acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto. Secondo Sez. 2, n. 22013/2016, Grasso, Rv. 641570, l'ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all'onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, in base alla coscienza comune, dovrebbero, invece, improntarne l'atteggiamento, e costituisce formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali. Infine, è stato affermato da Sez. 2, n. 18280/2016, D'Ascola, Rv. 641076, che la liberalità d'uso prevista dall'art. 770, comma 2, c.c., trova fondamento negli usi invalsi a seguito dell'osservanza di 58 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI un certo comportamento nel tempo, di regola in occasione di festività e ricorrenze anche celebrative, nelle quali sono comuni le elargizioni. La relativa individuazione deve avvenire tenendo in particolare conto dei legami esistenti fra le parti, il cui vaglio, sotto il profilo della proporzionalità, va operato pure in base alla loro posizione sociale ed alle condizioni economiche dell'autore dell'atto. 59 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO PARTE SECONDA I BENI CAPITOLO VI I DIRITTI REALI E IL POSSESSO (di Gian Andrea Chiesi) SOMMARIO: 1. Proprietà pubblica. - 1.2. Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione 2. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 3. Azioni a tutela della proprietà. - 4. Comunione di diritti reali. - 4.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria - 5. Usufrutto. - 6. Servitù prediali. - 6.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. - 7. Tutela ed effetti del possesso. - 7.1. Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi- possessorie. 1. Proprietà pubblica. Gli interventi della Corte in materia hanno coinvolto, principalmente, l'individuazione del regime giuridico applicabile a singole categorie di beni. Così, in tema di sdemanializzazione, Sez. 2, n. 04827/2016, Abete, Rv. 639183, esaminando il caso di una "trazzera" di Sicilia, mai destinata al passaggio degli armenti (come evincibile dalla mancata rilevazione, sui luoghi di causa, di tracce della stessa sede stradale), ha ribadito il principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, per cui la perdita del carattere demaniale può avvenire anche tacitamente, indipendentemente - cioè - da un formale atto di sclassificazione, quale conseguenza della cessazione della destinazione del bene al passaggio pubblico, in virtù di atti univoci ed incompatibili con la volontà di conservare quella destinazione; nella medesima occasione la Corte ha altresì chiarito che il relativo accertamento da parte del giudice di merito è - ove immune da vizi logici e giuridici - incensurabile in sede di legittimità. Si è occupata, poi, della cd. "accessione fluviale", Sez. U, n. 04013/2016, Chiarini, Rv. 638597, la quale ha osservato che, affinché tale modo di acquisto a titolo originario operi a favore de proprietari latistanti alle rive di un corso d'acqua, sia ex art. 941 c.c. (alluvione cd. "propria", consistente nell'incremento dei fondi posti lungo le rive dei fiumi con particelle di terra staccate da altri fondi lentamente e impercettibilmente dalla forza naturale dell'acqua), sia ex art. 942 c.c. (alluvione cd. "impropria", consistente nell'abbandono lento da parte del fiume di una parte del terreno 60 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO facente parte dell'alveo, con ritiro da una riva e incremento dell'altra), nella formulazione anteriore alla l. n. 37 del 1994, «l'incremento di superficie della proprietà rivierasca è escluso se costituisce effetto, ancorché lento, di attività antropica, in quanto, pur se a causa del tempo trascorso sia cessata la funzione pubblica di protezione delle aree golenali e di supporto e contenimento del fiume (ma non il rischio di aumento della velocità dell'acqua e d'impoverimento delle falde acquifere), è rimesso al titolare del demanio idrico il potere di disporre la sdemanializzazione del terreno già appartenente all'alveo per acquisirlo al patrimonio disponibile». Quanto, invece, alle caratteristiche necessarie affinché un bene, appartenente ad ente pubblico, possa essere ricondotto al patrimonio indisponibile dello stesso, in quanto destinato ad un pubblico servizio, ex art. 826, comma 3, c.c., Sez. U., n. 06019/2016, De Chiara, Rv. 638987, ha evidenziato la necessità, a tal fine, della compresenza del doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell'effettiva e attuale destinazione del bene medesimo al pubblico servizio, specificando altresì che, in difetto di tali condizioni, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta a un rapporto di concessione amministrativa ma, «inerendo ad un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del "nomen iuris" che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrasi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario». Di particolare interesse il principio affermato da Sez. 2, n. 21298/2016, Abete, in corso di massimazione, che, in materia sanitaria, chiarisce che, a seguito della soppressione delle USL., i beni già di proprietà dei disciolti enti ospedalieri ed oggetto di trasferimento, ex art. 66, della legge 23 dicembre 1978, n. 833, al patrimonio del Comune ove detti beni sono ubicati, con vincolo di destinazione in favore delle USL medesime, concorrono a formare il patrimonio delle A.O. subentrati agli enti originariamente espropriati, stante la previsione dell'art. 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (applicabile ratione temporis) che, in attuazione dell'art. 1 della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e diversamente 61 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO dal richiamato art. 66, non sancisce alcun criterio territoriale per il trasferimento della relativa proprietà. Si occupa, infine, della cd. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, Sez. 1, n. 04851/2016, Lamorgese, Rv. 639095, che ne individua le caratteristiche, chiarendo che essa «consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima». 1.2. Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione. Sul versante processuale, Sez. 2, n. 15938/2016, Criscuolo, Rv. 640718, ha chiarito che nei giudizi ove si controverta in ordine all'accertamento ed all'esistenza di usi civici o di demanio comunale, qualunque cittadino appartenente alla collettività interessata a detto accertamento può intervenire in giudizio, anche in grado d'appello, giacché la sentenza emananda fa stato anche nei suoi confronti, in quanto partecipe della comunità titolare degli usi o delle terre demaniali oggetto di contestazione; nella medesima occasione la Corte ha altresì precisato che, trattandosi di intervento volontario, l'interveniente è sempre legittimato a proporre ricorso per cassazione. Sotto diverso profilo, invece, Sez. 1, n. 13858/2016, Terrusi, Rv. 640302, partendo dalla premessa per cui, a fronte delle decisioni assunte dalla P.A. in materia di viabilità urbana, il cittadino che non sia beneficiario di uno specifico provvedimento concessorio, può vantare solo un interesse di fatto all'uso del bene demaniale in conformità alla sua destinazione, ha perciò negato la sussistenza di un diritto, giuridicamente tutelabile, all'utilizzazione di una strada nelle medesime condizioni che la caratterizzavano in precedenza, laddove un Comune - nell'esercizio delle proprie competenze amministrative e, dunque, in vista di finalità pubblico interesse, inerenti la manutenzione, il controllo e la regolamentazione delle strade pubbliche - abbia proceduto all'apposizione di una barriera spartitraffico con funzione di contenimento e protezione delle semicarreggiate. Peculiare, poi, il caso affrontato da Sez. 3, n. 04902/2016, Spirito, Rv. 639387, che risolve l'interferenza tra rapporti di stampo 62 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO privatistico e pubblicistico aventi ad oggetto beni demaniali nel senso per cui, pacifico che questi ultimi possono formare oggetto di un contatto di locazione, l'eventuale carattere abusivo dell'occupazione, ad opera del locatore, del terreno demaniale concesso in locazione non comporta l'invalidità del contratto, che vincola reciprocamente le parti contraenti all'adempimento delle obbligazioni assunte, pur dovendosi escludere qualsivoglia pregiudizio per la P.A., cui spettano le eventuali iniziative a tutela della particolare destinazione del bene. Ha infine affrontato la sorte delle limitazioni al diritto di proprietà, quale conseguenza della ricerca di beni di interesse archeologico, Sez. 1, n. 14177/2016, Campanile, Rv. 640494, la quale, evidenziato come l'occupazione temporanea a fini di ricerca archeologica sia diretta a realizzare l'interesse pubblico alla conservazione del patrimonio storico-artistico e la promozione della cultura e della ricerca, costituendo, pertanto, attività lecita della P.A., esclude che, in tal caso, il privato possa invocare l'integrale ristoro del pregiudizio subito, giacché la proprietà del bene che riveste interesse storico, artistico ed archeologico nasce già conformata in ragione del superiore interesse della cultura. 2. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. Per quanto concerne, anzitutto, le ipotesi di esenzione dal rispetto delle distanze legali, Sez. 2, n. 00144/2016, Lombardo, Rv. 638534, chiarisce che la nozione di "costruzione", agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore". Nella specificazione, pertanto, del concetto di "corpo di fabbrica" Sez. 2, n. 18282/2016, D'Ascola, Rv. 641075, ha escluso da esso (e, al contempo, dall'osservanza della normativa sulle distanze) gli "sporti" - elementi, cioè, con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda) - e ricomprendendovi, invece, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni (come i balconi), costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza. Sulla scorta di tale ultima considerazione, peraltro, Sez. 2, n. 05594/2016, Manna, Rv. 639403, in fattispecie disciplinata dalla l. n. 1150 del 1942, come modificata dalla l. n. 765 del 1967, ha osservato che «poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di 63 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 2 aprile 1968 [...] stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte»; analogamente, poi, Sez. 2, n. 00859/2016, Scarpa, Rv. 638365, ricomprende, tra gli elementi da considerare ai fini del computo delle distanze tra costruzioni, i pianerottoli di collegamento dei balconi ed i cd. "setti", in quanto strutture accessorie di un fabbricato, non meramente decorative, ma dotate di dimensioni consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile. Delimita - in via generale - il campo di applicabilità dell'art. 873 c.c. ai soli fabbricati che, sorgendo da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggiano, anche solo in minima parte, Sez. 2, n. 09649/2016, Migliucci, Rv. 639696, la quale, da un lato, fonda tale conclusione sulla ratio della richiamata disposizione codicistica (consistente nell'evitare intercapedini dannose) e, dall'altro, ne fa discendere, quale conseguenza, la necessità di misurazione della distanza tra i fabbricati in maniera lineare e non radiale, come invece previsto per le vedute. Del pari, esclude l'applicabilità dell'art. 873 c.c. all'ipotesi di ristrutturazione edilizia realizzata mediante trasformazione di una finestra in porta-finestra per accedere al lastrico solare dell'edificio, Sez. 2, n. 10873/2016, Scarpa, Rv. 639895, che motiva tale conclusione sulla scorta della considerazione per cui detto intervento, non comportando aumenti di superficie o di volume, non configura una "nuova costruzione". Sono, infine, ugualmente sottratte al rispetto dell'art. 873 c.c. le costruzioni erette su suolo pubblico, in confine con i fondi dei proprietari frontisti (nella specie, un'edicola realizzata su di un marciapiede, in attuazione di un piano comunale di localizzazione prescrivente una distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 9, del d.m. n. 1444 del 1968), essendo le stesse soggette, come chiarito da Sez. 2, n. 02863/2016, Lombardo, Rv. 639279), solo alle disposizioni delle leggi e dei regolamenti che specificamente le riguardano. Quanto, poi, alle deroghe all'applicazione della normativa sulle distanze, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638774, affrontando il caso di tubi del riscaldamento posizionati, all'interno 64 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO di un edificio condominiale e rispetto alle unità immobiliari di proprietà esclusiva aliena, a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 889 c.c., si sofferma sui rapporti tra norme sulle distanze e disciplina del condominio, evidenziando come le prime trovano applicazione solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica, di per sé, il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini. In tema di realizzazione di parcheggi sulla base della cd. "legge Tognoli", inoltre, Sez. 2, n. 11998/2016, Scalisi, Rv. 640213, precisa che la deroga alla disciplina delle distanze ex art. 9 della l. n. 122 del 1989 vale solo per le autorimesse e i parcheggi realizzati, per l'intera altezza, al di sotto dell'originario piano di campagna, tutelando le prescrizioni urbanistiche in tema di altezze, distanze e volumetria degli edifici valori specifici, quali aria, luce e vista. Quanto, invece, alle ipotesi di applicazione della normativa sulle distanze, Sez. 2, 21755/2016, Parziale, in corso di massimazione, individua nel programma di fabbricazione l'atto normativo regolatore a carattere generale, integrativo del regolamento edilizio a decorrere dalla sua pubblicazione mediante affissione nell'albo pretorio, che rappresenta, fino all'approvazione del piano regolatore generale, lo strumento tipico e normale di sistemazione urbanistica e del territorio: ne discende che i vincoli imposti dallo stesso perimetrano il piano di lottizzazione che, ove se ne discosti, risulta adottato in deroga del primo, senza il rispetto delle modalita' di approvazione cui quest'ultimo soggiace. Laddove, poi, il regolamento locale non preveda distanza alcuna ovvero contempli distanze inferiori a quelle minime prescritte per le zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, Sez. 2, n. 15458/2016, Lombardo, Rv. 640709, chiarisce che la disciplina prevista dal d.m. citato deve ritenersi automaticamente inserita nello strumento locale, con immediata sua operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento medesimo rispetto all'art. 873 c.c.. Ove, infine, le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, Sez. 2, n. 23136/2016, Scarpa, Rv. 641684, rileva che la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal comma 1 65 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva. In tema di sopraelevazione, invece, Sez. 2, n. 09646/2016, Oricchio, Rv. 639697, specifica che, ove determini un incremento della volumetria del fabbricato, essa va qualificata come nuova costruzione e, pertanto, deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima. Si occupa della diversa disciplina applicabile a "ricostruzioni" e "nuove costruzioni" Sez. 2, n. 00472/2016, Oricchio, Rv. 638211 che evidenzia come, laddove ove lo strumento urbanistico locale non contenga una norma espressa che estenda alle prime le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le seconde, la disciplina dettata per queste ultime trova applicazione solo relativamente a quella parte del fabbricato ricostruito che eccede i limiti di quello preesistente. Si soffermano, infine, sugli effetti delle sopravvenienze normative in materia di distanze legali due pronunzie: anzitutto Sez. 2, n. 15298/2016, Lombardo, Rv. 640596, la quale, partendo dalla generale considerazione per cui la valutazione del carattere restrittivo dello ius superveniens va effettuata non in astratto, ma in concreto, verificando le conseguenze che all'edificante derivano dall'applicazione della nuova disciplina, chiarisce che la nuova disciplina, ove escluda il principio della prevenzione ed imponga una distanza dal confine, non si applica al convenuto che risulti costretto, per l'effetto, ad arretrare il fabbricato; quindi, Sez. 3, n. 12987/2016, Frasca, Rv. 640426, per cui lo ius superveniens più favorevole al costruttore non si applica in presenza di una sentenza passata in giudicato che, accertata la violazione delle distanze legali, abbia conseguentemente ordinato la demolizione dell'edificio, giacché la nuova normativa - a meno che non affermi espressamente di voler incidere sui rapporti processuali definiti - non può avere effetto sulla statuizione demolitoria da eseguire in forza del giudicato. 3. Azioni a tutela della proprietà. La probatio diabolica che accompagna l'esercizio dell'azione di rivendicazione trova una mitigazione nell'ipotesi, esaminata da Sez. 2, n. 08215/2016, Falabella, Rv. 639670, in cui convenuto spieghi una domanda ovvero un'eccezione riconvenzionale, invocando un possesso ad 66 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO usucapionem iniziato successivamente al perfezionarsi dell'acquisto ad opera dell'attore in rivendica (o del suo dante causa): in tal caso, infatti, l'onere probatorio gravante su quest'ultimo si riduce alla prova del suo titolo d'acquisto, nonché della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il thema disputandum all'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non già all'acquisto del bene medesimo da parte dell'attore. Ancora in tema di attenuazione dell'onere della prova gravante sull'attore in rivendicazione, Sez. 2, n. 00694/2016, Picaroni, Rv. 638681, sottolinea che, laddove il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l'attore è tenuto a provare solamente l'esistenza di un valido titolo di acquisto da parte sua, l'appartenenza del bene al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché che tale appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto. La tematica dell'onere della prova e delle modalità di suo assolvimento è approfondita, inoltre, da Sez. 2, n. 06740/2016, Falabella, Rv. 639454, che, in tema di azione di regolamento di confini e con specifico riferimento all'ipotesi di due fondi limitrofi costituenti lotti separati di un appezzamento originariamente unico, afferma che la fonte primaria di valutazione è rappresentata dall'esame dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà e del frazionamento agli stessi allegato, potendo il giudice di merito ricorrere ad ogni altro mezzo di prova solo qualora, sulla base delle risultanze dei predetti elementi, il confine risulti comunque incerto. In proposito, tuttavia, le contestazioni relative alle risultanze catastali possono originare un "doppio binario" di giurisdizione: ed infatti, confermando il consolidato orientamento di legittimità, Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, osserva che, mentre appartengono alla giurisdizione del G.O. le controversie tra privati, o tra privati e P.A., aventi ad oggetto l'esistenza ed estensione del diritto di proprietà, controversie nelle quali le risultanze catastali possono essere utilizzate a fini probatori, qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, anche al fine di adeguarle all'esito di un'azione di rivendica o regolamento di confini, la giurisdizione è devoluta al giudice tributario, ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, in considerazione diretta incidenza degli atti catastali sulla determinazione dei tributi. 67 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO Quanto al petitum che qualifica l'azione di regolamento di confini, Sez. 2, n. 14131/2016, Manna, Rv. 640183 chiarisce, giacché essa mira ad un accertamento qualificato ed al recupero della porzione di terreno illegittimamente occupata e non già ad imporre il compimento di opere, ne consegue che, ove ai fini recuperatori si renda necessaria la demolizione di un muro, il giudice non può, in difetto di una domanda ad hoc, imporre la ricostruzione del muro stesso sulla linea di confine accertata. È invece insito nell'accertamento sotteso a tale azione il rilascio della porzione di fondo indebitamente occupata: sicché - osserva Sez. 2, n. 06148/2016, Manna, Rv. 639399 - l'attore è dispensato dall'avanzare un'espressa domanda in tal senso. Diversamente è da dirsi, invece, nel caso in cui sia il convenuto che, oltre a resistere alla domanda altrui, intenda anche ottenere la restituzione del terreno ingiustificatamente occupato in eccedenza dall'attore: in tal caso - precisa Sez. 2, n. 00852/2016, Migliucci, Rv. 638680, egli ha l'onere di formulare tempestivamente apposita domanda riconvenzionale che, anche sotto il profilo probatorio, ha contenuto analogo e reciproco a quella proposta dall'attore. Quanto all'onere della prova che connota l'actio negatoria servitutis, Sez. 2, n. 00476/2016, Scarpa, Rv. 638639, rimarca che il proprietario del fondo servente che ammetta l'esistenza legittima della servitù, deducendo solo che la stessa debba esercitarsi con determinate modalità ed entro certi limiti, deve provare l'esistenza delle une e degli altri. Esclude la ricorrenza di un atto emulativo, nella richiesta di ripristino dell'impianto di riscaldamento centralizzato, Sez. 2, n. 01209/2016, Migliucci, Rv. 638683, osservando che l'atto vietato ex art. 833 c.c. presuppone lo scopo esclusivo di nuocere o di recare pregiudizio ad altri, in assenza di una qualsiasi utilità per il proprietario, mentre non è riconducibile a tale categoria un atto comunque rispondente ad un interesse del proprietario, essendo comunque preclusa al giudice una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco o la formulazione di un giudizio di meritevolezza e prevalenza fra gli stessi. Si sono interessate, infine, dell'ambito di operatività dell'art. 844 c.c., tre pronunzie: Sez. 2, n. 16074/2016, Cosentino, Rv. 640687, estende la tutela contemplata dalla richiamata disposizione anche ai fondi rustici, non rilevando, ai fini dell'apprezzamento della tollerabilità delle immissioni sonore, l'accatastamento dell'immobile, giacché anche un fabbricato rurale può essere adibito ad uso abitativo di chi coltiva il fondo e, in ogni caso, pur se destinato 68 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO esclusivamente a lavorazioni agrarie, resta comunque imprescindibile l'esigenza di tutelare le persone che in esso svolgono le suddette attività; quindi, Sez. 3, n. 20198/2016, Vincenti, in corso di massimazione, che, pronunziandosi in tema di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni sonore prodotte dalla movimentazione di vagoni ferroviari, effettuata sulla base di un apprezzamento in concreto ancorato al criterio del c.d. "differenziale", di cui alla disciplina "generale" dettata dall'art. 4, comma 1, del decreto del Presidente del consiglio dei ministri 14 novembre 1997, e non sulla base dei criteri previsti dalla disciplina "specifica" in materia di inquinamento acustico da traffico ferroviario, chiarisce che la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6 ter del decreto legge 30 dicembre 2008, n. 208, conv. con modificazioni in legge 27 febbraio 2009, n. 13, al quale non può , dunque, aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c., con l'effetto di escludere l'accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilita', dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento dell'interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione; infine, Sez. 2, n. 23245/2016, Orilia, Rv. 641663, la quale, nel delineare gli strumenti a disposizione del proprietario del fondo danneggiato da immissioni intollerabili provenienti dal fondo altrui, chiarisce che l'azione, di natura reale, per l'accertamento della illegittimità delle immissioni e l'eliminazione, mediante modifiche strutturali, delle cause originanti le stesse, va proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale tali immissioni provengono e la stessa può essere cumulata con la domanda, proponibile verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., volta a conseguire il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato. 4. Comunione di diritti reali. Si occupa delle conseguenze derivanti dalla ricostruzione conseguente al sisma del 1968 nel Belice, Sez. 2, n. 01722/2016, D'Ascola, Rv. 638590, la quale chiarisce che il fabbricato ricostruito da uno solo degli originari comproprietari di un edificio distrutto in detto cataclisma è di esclusiva proprietà di costui, giacché l'assegnazione dell'area sostitutiva e del contributo statale al comproprietario, ex art. 4, del d.l. n. 79 del 1968, conv. in l. n. 241 del 1968, non implica ipso iure, in caso di estraneità degli altri comunisti all'attività edificatoria, 69 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO l'acquisto da parte di costoro della comproprietà del nuovo immobile, generando, al più, rapporti creditori tra le parti. Ribadendo, poi, un principio costante in materia di locazione della cosa comune, Sez. 2, n. 01986/2016, Saclisi, Rv. 638785, afferma che, in simile ipotesi, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, rilevando l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione, pertanto, nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non potendo essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti. 4.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria. Fermi gli approfondimenti del caso nei capitoli specificamente dedicati alla comunione ed alla disciplina delle successioni, meritano menzione alcuni arresti della Corte di carattere squisitamente processuale. Seguendo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, enunziato anche nel corso dell'anno 2016 da Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833 e per cui, proposta un'azione, di natura reale, volta alla demolizione di un immobile in comunione, la domanda va indirizzata nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, giacché, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data, Sez. 2, n. 08468/2016, Scarpa, Rv. 639705, afferma il medesimo principio in caso di domanda di demolizione di un bene rientrante nel regime di comunione legale tra coniugi, benché formalmente acquistato o venduto da uno solo di essi: l'azione reale, infatti, va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, litisconsorti necessari dal lato passivo, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli. Particolarmente copiosa, poi, la giurisprudenza in materia di scioglimento della comunione. Anzitutto Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, chiarisce che l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur tendenzialmente soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta in corso di giudizio, e anche in grado di appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda 70 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l'extrema ratio voluta dal legislatore. Allorché si verta in ipotesi di divisione ereditaria, poi, Sez. 2, n. 05603/2016, Rv. 639280, evidenzia come il giudice possa attribuire, per l'intero, un bene non comodamente divisibile, ai sensi dell'art. 720 c.c., non solo nella porzione del coerede con quota maggiore, ma anche nelle porzioni di più coeredi che tendano a rimanere in comunione, come titolari della maggioranza delle quote. Sempre riguardo alla medesima tematica, invece, Sez. 2, n. 15466/2016, Criscuolo, Rv. 640589, individua nella sentenza che approva il progetto di divisione, disponendo il sorteggio dei lotti, un provvedimento di natura definitiva quanto alla domanda di scioglimento della comunione, giacché risolve tutte le questioni ad essa relative, senza che assuma contrario rilievo l'omessa pronuncia sulle spese di giudizio. 5. Usufrutto. Si occupano di usufrutto due pronunzie della Seconda sezione: anzitutto Sez. 2, n. 08911/2016, Falabella, Rv. 639894, la quale, sulla scorta della premessa per cui la durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario o, qualora sia concesso pro quota ad una pluralità di soggetti (e in assenza di usufrutto congiuntivo, che comporta l'accrescimento a favore dei superstiti), quella di ciascuno di essi per la quota attribuita l'usufruttuario, ai sensi degli artt. 979 e 980 c.c., osserva che, laddove con atto inter vivos l'usufruttario ceda il suo proprio (o la quota a spettantegli) per un certo tempo o per tutta la sua durata, in tal caso il diritto limitato di godimento è suscettibile di successione mortis causa, ove il cessionario deceda prima del cedente, perdurando fino a quando rimanga in vita quest'ultimo; quindi, Sez. 2, n. 07710/2016, Scarpa, Rv. 639450 che afferma l'ammissibilità dell'usufrutto successivo cd. "improprio" - configurabile allorché il costituente trasferisca, per atto inter vivos diverso dalla donazione, la nuda proprietà di un immobile, riservando a sé e, per il periodo successivo alla propria morte, ad uno o più terzi, l'usufrutto sul bene, così da farne coincidere la durata con la vita del più longevo degli usufruttuari - il quale non viola il divieto ex art. 698 c.c., giacché la fattispecie negoziale costitutiva dei diversi usufrutti si perfeziona con la conclusione del contratto, rappresentando la premorienza del costituente un fatto puramente accidentale e non causale rispetto alla produzione degli effetti. 71 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO 6. Servitù prediali. Va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 02853/2016, Falabella, Rv. 638969 che, occupandosi in linea generale dei modi di costituzione delle servitù prediali, ne afferma la tipicità, per l'effetto chiarendo, da un lato, che il riconoscimento, da parte del proprietario di un fondo, della fondatezza dell'altrui pretesa circa la sussistenza di una servitù mai costituita è irrilevante ove non si concreti in un negozio idoneo a far sorgere la servitù in via convenzionale; dall'altro, che è ugualmente inidonea a costituire la servitù la confessione di uno dei comproprietari del fondo servente circa l'esistenza della stessa, non essendo ipotizzabile l'estensione a terzi di effetti inesistenti. Indugia, più nello specifico, sulla costituzione delle servitù per destinazione del padre di famiglia, Sez. 2, n. 02853/2016, Falabella, Rv. 638968, la quale osserva che essa non è invocabile allorché separazione dei due fondi sia operata da chi è proprietario esclusivo di uno di essi e solo comproprietario dell'altro, mancando in tal caso il requisito dell'appartenenza di entrambi i fondi al medesimo proprietario. È, invece, Sez. U, n. 02949/2016, Chiarini, Rv. 638356 a chiarire quali sono, relativamente all'ambito applicativo dell'art. 1062 c.c., gli elementi necessari per la costituzione della servitù di presa d'acqua, occorrendo che l'originario unico proprietario abbia impresso un'oggettiva situazione di subordinazione o servizio tra i fondi, mediante collocazione nel fondo servente di tubazioni di conduzione dell'acqua che, fuoriuscendo dalla fonte o dallo sbocco ed essendo idonee ad irrigare il fondo dominante nel quale confluiscono, siano visibili e stabilmente destinate a soddisfare le esigenze idriche del fondo dominante. Tanto, in accordo con il principio generale - indicato anche da Sez. 2, n. 06592/2016, Scarpa, Rv. 639605 in tema di servitù di veduta - per cui la costituzione di una servitù prediale per destinazione del padre di famiglia postula che le opere permanenti (consistenti, nella specie esaminata dalla S.C., nell'apertura e nelle opere di asservimento) destinate al suo esercizio, predisposte dall'unico proprietario, preesistano al momento il cui il fondo viene diviso fra più proprietari. Sempre in tema di modalità di costituzione delle servitù, poi, Sez. 2, n. 11563/2016, Migliucci, Rv. 640339, ha ritenuto inammissibile l'imposizione coattiva di una servitù di gasdotto, atteso il carattere tipico delle servitù coattive e la non estensibilità a tale ipotesi dell'art. 1033 c.c., dettato in tema di servitù di acquedotto coattiva, trattandosi di situazioni non assimilabili sotto il 72 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO profilo strutturale e funzionale per la pericolosità (non ricorrente per il trasporto delle acque) insita nell'attraversamento sotto terra della fornitura di gas. Restando in tema di costituzione coattiva di servitù, con particolare riferimento al passagio coattivo, Sez. 2, n. 10269/2016, Giusti, Rv. 639969, osserva che l'indennità dovuta al proprietario del fondo servente dal proprietario del fondo dominante non rappresenta il corrispettivo dell'utilità conseguita da quest'ultimo quanto, piuttosto, un indennizzo risarcitorio da ragguagliare al danno cagionato al primo: conseguentemente la sua determinazione non può avvenire facendo esclusivamente riferimento al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù, dovendosi - piuttosto - tenere altresì conto di ogni altro pregiudizio subìto dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e di veicoli. Sempre in tema di passaggio coattivo, Sez. 2, n. 25352/2016, Grasso, in corso di massimazione, rileva che, all'atto della costituzione della servitù deve aversi riguardo non tanto alla maggiore o minore lunghezza del percorso, bensì alla sua onerosità in rapporto alla situazione materiale e giuridica dei fondi, con la conseguenza che può risultare meno oneroso un percorso più lungo quando esso sia già in gran parte transitabile e richieda solo l'allargamento in brevi tratti per consentire il passaggio. Ampia e varia, poi, è stata la giurisrudenza della Corte in tema di modalità di esercizio delle servitù: meritano menzione, in particolare, due pronunzie. Innanzitutto Sez. 2, n. 09031/2016, D'Ascola, Rv. 639893, per cui, la maggiore gravosità, per il fondo servente, dell'esercizio della servitù, che costituisce condizione per il trasferimento del peso in luogo diverso da quello originariamente fissato, ex art. 1068, comma 2, c.c., «può dipendere, oltre che da un fatto estraneo all'attività dei proprietari dei fondi interessati, anche dall'utilizzazione del fondo servente da parte del suo proprietario e dal modificarsi della percezione di gravosità che sia obbiettivamente verificabile, attribuendo rilievo la norma, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata, principalmente alla condizione del proprietario del fondo servente. Nella valutazione, rimessa al suo apprezzamento, della maggiore gravosità, il giudice di merito deve tenere conto di quella umana e ragionevole tolleranza che dovrebbe presiedere all'esercizio di ogni diritto». Quindi, Sez. 2, n. 10604/2016, Scalisi, Rv. 639956, per cui «una innovazione apportata al fondo servente non può essere considerato di per sè costitutivo di una limitazione della servitù se 73 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO non costituisca anche un danno effettivo per il fondo dominante, in quanto l'esercizio della servitù è informato al criterio del minimo mezzo, nel senso che il titolare di essa ha il diritto di realizzare il beneficio derivantegli dal titolo o dal possesso senza appesantire l'onere del fondo servente oltre quanto sia necessario ai fini di quel beneficio». Con riferimento, infine, alle modalità di estinzione delle servitù e, in specie, di quelle negative e continue, accomunate dalla peculiarità per cui il loro esercizio non implica lo svolgimento di alcuna specifica attività da parte del relativo titolare, Sez. 2, n. 03857/2016, Falaschi, Rv. 638834 individua il dies a quo di decorrenza del relativo termine di prescrizione nel giorno in cui è stato compiuto un fatto impeditivo dell'esercizio del diritto medesimo. 6.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. Confermando la consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, Sez. 6-2, n. 06622/2016, Rv. 639635, chiarisce che tanto l'actio confessoria quanto la negatoria servitutis danno luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, le azioni predette siano dirette anche ad una modificazione della cosa comune, che non potrebbe essere disposta od attuata pro quota in assenza di uno dei contitolari del diritto dominicale; diversamente ove una delle azioni predette sia volta a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non è configurabile un litisconsorzio necessario, né dal lato attivo, né da quello passivo. Aggiunge, inoltre, Sez. 2, n. 25342/2016, Falaschi, in corso di massimazione, che la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione al fine di esigere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c. e, pertanto, ove la parte convenuta per l'eliminazione di vedute poste a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 905 c.c. affermi il diritto a mantenerle, la stessa ha l'onere di provare l'avvenuto acquisto, a titolo negoziale od originario, della relativa servitù, a nulla rilevando la mera preesistenza di fatto di tali aperture. 7. Tutela ed effetti del possesso. La S.C. si è soffermata più volte sull'istituto dell'accessione del possesso, ex art. 1146, comma 2, c.c.., non solo per ribadire - come fatto da Sez. 2, n. 19724/2016, Cosentino, Rv. 641210 - la necessità, ai fini della sua 74 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO operatività, di un titolo astrattamente idoneo al passaggio della proprietà od altro diritto reale sul bene, ma soprattutto per affermarne - come operato da Sez. 2, n. 19788/2016, Falaschi, Rv. 641211 - la compatibilità, nella sussistenza di tale imprescindibile condizione, con il sistema tavolare. Il possesso (o la detenzione), inoltre, può essere conservato solo animo, purché - osserva Sez. 2, n. 01723/2016, D'Ascola, Rv. 638592, il possessore (o il detentore) sia in grado di ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa pena, ove tale possibilità sia di fatto preclusa da altri o da una obiettiva mutata situazione dei luoghi, perdita del possesso (o della detenzione) nel momento stesso in cui è venuta meno l'effettiva disponibilità della cosa. Esclude, poi, che la mera convivenza configuri, in capo alle persone che convivono con chi possiede il bene, un potere sulla cosa che possa essere qualificato come possesso sulla medesima, Sez. 2, 12023/2016, Scalisi, Rv. 641688. In tema di possesso utile ai fini dell'usucapione, Sez. 2, n. 08213/2016, Orilia, Rv. 639669 esclude che la mera mancata riconsegna del bene al comodante, nonostante le reiterate richieste di questi, a seguito di estinzione del comodato sia idonea a determinare l'interversione della detenzione in possesso, traducendosi, piuttosto, nell'inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, suscettibile, in sé, di integrare un'ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale all'obbligo restitutorio gravante per legge sul comodatario. Del pari, allorché nella promessa di vendita venga convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, Sez. 2, n. 05211/2016, Lombardo, Rv. 639209 esclude che si realizzi un'anticipazione degli effetti traslativi, fondandosi la disponibilità conseguita dal promissario acquirente sull'esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori: conseguentemente, la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem ove non sia dimostrata una interversio possessionis nei modi previsti dall'art. 1141 c.c. In senso opposto, invece, Sez. 2, n. 04945/2016, Giusti, Rv. 639599, ha evidenziato che la relazione di fatto esistente tra la res e colui che ne abbia conseguito la disponibilità a seguito di contratto di vendita concluso con il falsus procurator va configurata in termini di possesso e non di detenzione, giacché in tal caso il negozio, benché inefficace, è comunque volto a trasferire la proprietà del bene ed è, 75 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO pertanto, idoneo a far ritenere sussistente, in capo all'accipiens, l'animus rem sibi habendi ai fini dell'usucapione ordinaria; nella stessa occasione è stato però chiarito che tale conclusione non vale ove si intenda far valere l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., possibile solo se l'inidoneità del titolo derivi dall'avere alienante disposto di un immobile altrui e non anche dalla sua invalidità od inefficacia. D'altra parte, Sez. 2, n. 15927/2016, Lombardo, Rv. 640720, in conformità con il consolidato orientamento di legittimità sul punto, ribadisce che gli atti di diffida e di messa in mora (come, nella specie esaminata dalla S.C., la richiesta per iscritto di rilascio dell'immobile occupato) sono idonei ad interrompere la prescrizione unicamente dei diritti di obbligazione, ma non anche del termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale. 7.1. Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie. Di particolare rilievo Sez. 2, n. 19720/2016, Abete, Rv. 641096 che, analiticamente affrontando la questione, delinea il regime applicabile ai provvedimenti possessori emessi all'esito della fase interdittale, cui non faccia seguito il giudizio di merito: la Corte, infatti, prendendo esplicitamente posizione sul punto afferma che essi, pur restando, ex art. 669 octies, ultimo comma, c.p.c., sono tuttavia inidonei ad acquisire efficacia di giudicato, non avendo carattere decisorio, come le misure cautelari per le quali opera detta disposizione, e stante l'omesso richiamo, compiuto invece per altre ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria, agli effetti di cui all'art. 2909 c.c.. Del pari, Sez. 2, n. 02300/2016, Matera, Rv. 638830, chiarisce che la sentenza resa sulla domanda possessoria non può avere autorità di cosa giudicata nel giudizio petitorio caratterizzato da diversità di petitum e causa petendi, giacché l'esame dei titoli costitutivi dei diritti fatti valere dalle parti è compiuto nel procedimento possessorio al solo fine di dedurre elementi sulla sussistenza del possesso, restando impregiudicata ogni questione sulla conformità a diritto della situazione di fatto oggetto di tutela. Quanto, invece, ai presupposti per l'esperimento dell'azione di manutenzione, ove l'azione sia esperita in via preventiva, Sez. 2, n. 02291/2016, Parziale, Rv. 638831) esclude da essi l'"astratto" pericolo di pregiudizio al possesso occorrendo pur sempre, anche in tal caso, un comportamento che ponga in serio e concreto pericolo il preesistente stato di fatto. 76 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO In linea con i precedenti di legittimità sul punto, infine, Sez. 2, n. 04198/2016, Matera, Rv. 639277, la quale osserva come l'eccezione feci, sed iure feci è ammessa, nel giudizio possessorio, solo ove tenda a far valere lo ius possessionis e non anche lo ius possidendi, non potendosi la prova del possesso desumere, in seno a tale procedimento, dal regime, legale o convenzionale, del corrispondente diritto reale. In relazione, da ultimo, ai procedimenti nunciatori, vanno segnalate due interessanti pronunzie della Corte: nella prima, occasione, Sez. 2, n. 05336/2016, Scalisi, Rv. 639407, ha chiarito che, esperita l'azione di danno temuto, il legittimato passivo va individuato, non solo, nel titolare del diritto reale, ma anche nel possessore ed in colui che, in ogni caso, abbia la disponibilità del bene da cui si assume che derivi la situazione di pericolo di danno grave, in quanto l'obbligo di custodia e manutenzione sussiste in ragione dell'effettivo potere fisico sulla cosa; e Sez. 2, n. 21301/2016, Falabella, in corso di massimazione, la quale, in considerazione, della struttura unica, ancorché bifasica, dei procedimenti nunciatori - pur dopo la novella di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353 - ha osservato che «le domande possessorie di merito proposte oltre il termine annuale fissato ex artt. 1168 e 1170 c.c. non sono soggette alla decadenza ivi prevista, alla duplice condizione che l'interessato, che abbia agito ai sensi degli artt. 1171 o 1172 c.c., abbia tempestivamente chiesto, in tale sede, l'adozione di provvedimenti provvisori e le successive domande possessorie concernano la medesima lesione del possesso trattata con la denuncia di nuova opera o con quella di danno temuto; tanto, ancorché il giudice, nel definire il solo procedimento nunciatorio, manchi di rinviare la causa per il merito possessorio e quest'ultimo costituisca oggetto di un procedimento successivamente introdotto, a iniziativa di chi lamenti lo spoglio o la turbativa del possesso». 77 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO CAPITOLO VII COMUNIONE E CONDOMINIO (di Cesare Trapuzzano) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il godimento della cosa comune. – 3. La responsabilità del condominio. – 4. Le parti comuni nel condominio di edifici. – 5. Le innovazioni. – 6. La ripartizione delle spese condominiali. – 7. L'amministratore. – 8. L'assemblea. – 9. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari. – 10. Il regolamento di condominio. 1. Premessa. La materia della comunione e del condominio negli edifici, oggetto di significative pronunce della S.C. anche nel 2016, rivela all'attualità particolare interesse alla luce dell'entrata in vigore, a decorrere dal 18 giugno dell'anno 2013, della legge 11 dicembre 2012, n. 220, la quale ha introdotto Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, intervenendo, in particolare, sugli artt. 1117, 1118, 1119, 1120, 1122, 1124, 1129, 1130, 1131, 1134, 1136, 1137, 1138 e 2659 c.c., nonché sugli artt. 63, 64, 66, 67, 68, 69 e 70 disp. att. c.c., sull'art. 2, comma 1, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, sull'art. 26, comma 2, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, sull'art. 2 bis, comma 13, del decreto legge 23 gennaio 2001, n. 5 (convertito in legge 20 marzo 2001, n. 66) e sull'art. 23, comma 1, c.p.c.; risultano, inoltre, inseriti gli artt. 1117 bis, 1117 ter, 1117 quater, 1122 bis, 1122 ter, 1130 bis c.c., gli artt. 71 bis, 71 ter, 71 quater e 165 bis disp. att. c.c., e l'art. 30 della medesima l. n. 220 del 2012, il quale rimane a sé stante. Fermo il regime transitorio, dettato dall'art. 32 l. n. 220 del 2012, è utile confrontare gli approdi giurisprudenziali degli ultimi mesi con le prospettive interpretative determinate dalla vigenza della disciplina novellata. 2. Il godimento della cosa comune. In forza delle disposizioni dedicate alla comunione ordinaria, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Ai sensi dell'art. 1102, comma 2, c.c., il comunista non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri comunisti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, ai sensi dell'art. 1104, comma 1, c.c. Con riferimento all'amministrazione della cosa comune, regolata dall'art. 1105 c.c., 78 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO tutti i partecipanti hanno diritto di concorrervi in via disgiuntiva. Le innovazioni dirette al miglioramento della cosa comune o a renderne più comodo o redditizio il godimento possono essere disposte con la maggioranza prescritta dall'art. 1108, comma 1, c.c., purché non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa. Infine, ciascuno dei partecipati può sempre domandare lo scioglimento della comunione ai sensi dell'art. 1111 c.c. In applicazione dei principi innanzi esposti in ordine all'uso della cosa comune, Sez. 2, n. 01986/2016, Scalisi, Rv. 638785, ha precisato che, qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti. Secondo Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833, l'azione, di natura reale, volta alla demolizione di un immobile in comunione va proposta nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, giacché, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data. Pertanto, ove il litisconsorte pretermesso proponga opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di condanna alla demolizione resa in grado di appello, il giudice che accerti la fondatezza dell'opposizione deve provvedere ex artt. 406 e 354 c.p.c. In tema di sospensione del processo, Sez. 6-1, n. 04183/2016, De Chiara, Rv. 638863, ha ritenuto che tra due giudizi riguardanti, rispettivamente, lo scioglimento di una comunione immobiliare e l'usucapione di uno degli immobili da dividere, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che va intesa in senso non meramente logico, ma tecnico giuridico, in quanto determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell'altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo si riflette necessariamente, condizionandola, su quella del secondo. Con riguardo all'aspetto delle spese, Sez. 2, n. 10864/2016, Scarpa, Rv. 639964, ha sostenuto che esula dall'ambito di operatività 79 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO dell'art. 1110 c.c., che attiene alle sole spese necessarie per la conservazione della cosa comune, la domanda di rimborso delle spese derivanti dalla prestazione di un servizio condominiale di fornitura di acqua potabile a vantaggio di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva ed alla conseguente ripartizione interna del consumo unitario dell'intero complesso, come fatturato dall'ente erogatore, sulla base dei contatori di sottrazione installati nelle singole porzioni ovvero dei rispettivi valori millesimali. 3. La responsabilità del condominio. Al condominio quale ente di gestione è riferito un arresto che si è soffermato sulla negazione dell'imputazione della responsabilità aquiliana in conseguenza dell'integrazione di condotte riconducibili al portiere dello stabile. Al riguardo, Sez. 3, n. 11816/2016, De Stefano, Rv. 640238, ha evidenziato che il condominio non è responsabile, ex art. 2049 c.c., per le lesioni personali dolose causate da un pugno sferrato dal portiere dell'edificio condominiale ad un condomino (o ad un inquilino) in occasione dell'accesso del primo nell'appartamento del soggetto leso per ispezionare tubature ed escludere guasti ai beni comuni o limitare i danni da essi producibili, difettando il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le mansioni esercitate, posto che in queste non rientra alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone presenti nell'edificio condominiale, né tali condotte corrispondono, neanche sotto forma di degenerazione ed eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse al loro ordinario espletamento. 4. Le parti comuni nel condominio di edifici. In tema di condominio, l'art. 1117 c.c. individua specifici beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio. Tale elenco non è né tassativo né omogeneo. Infatti, il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso ovvero nel fatto che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune. Pertanto, accanto ai beni necessariamente o strutturalmente condominiali si collocano i beni solo funzionalmente ed occasionalmente condominiali. La presunzione di comproprietà si riferisce esclusivamente ai beni la cui destinazione al servizio collettivo non si ponga in termini di assoluta necessità. Solo in questi casi la loro qualificazione in termini di beni comuni può essere derogata da un titolo da cui risulti il contrario. 80 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO Per converso, il diritto sulle parti comuni necessarie o strutturali non può essere oggetto di abdicazione, ai sensi dell'art. 1118 c.c. In primo luogo, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638774, ha stabilito che, in tema di condominio, le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini. Ne deriva che, anche con riferimento ai tubi dell'impianto di riscaldamento, l'art. 889 c.c. è derogabile solo ove la distanza prevista sia incompatibile con la struttura degli edifici condominiali. Ancora, Sez. 2, n. 03858/2016, Picaroni, Rv. 639063, ha rilevato che, in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la l. n. 13 del 1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell'interesse generale, l'accessibilità agli edifici, sicché il diritto al mantenimento ed all'uso dei dispositivi antibarriera (nella specie, un dispositivo servo scale), installati (anche provvisoriamente) in presenza di un soggetto residente portatore di handicap, non costituisce un diritto personale ed intrasmissibile del condomino disabile, che si estingue con la morte dello stesso. Sez. 2, n. 04127/2016, Falabella, Rv. 639402, ha puntualizzato che sussiste condominio parziale ex lege, in base alla previsione di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., ogni qualvolta un bene, rientrante tra quelli ex art. 1117 c.c., sia destinato, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, al servizio e/o godimento esclusivo di una parte soltanto dell'edificio condominiale; tale figura risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale, sicché il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate. Secondo Sez. 2, n. 05551/2016, Matera, Rv. 639340, in materia di condominio degli edifici, lo spazio aereo sovrastante a cortili comuni - la cui funzione è di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano - non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo 81 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell'art. 840, comma 3, c.c., l'utilizzazione, ancorché parziale, a proprio vantaggio, della colonna d'aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa. Sez. 2, n. 06154/2016, Scarpa, Rv. 639400, ha rilevato che lo spazio sottostante il suolo di un edificio condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, va considerato di proprietà comune, per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c., sicché, ove il singolo condomino proceda, senza il consenso degli altri partecipanti, a scavi in profondità del sottosuolo, così attraendolo nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, si configura uno spoglio denunciabile dall'amministratore con l'azione di reintegrazione. Inoltre, Sez. 2, n. 06143/2016, Parziale, Rv. 639396, ha chiarito che, per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento. Sez. 2, n. 09035/2016, Orilia, Rv. 639879, ha affermato che, nel caso in cui si discuta della natura condominiale di un bene immobile successivamente sottoposto a sequestro, ai sensi degli artt. 2 ter e 2 quater della l. n. 575 del 1965, trova applicazione il principio secondo il quale la rivendicazione dell'esistenza di diritti sorti su un bene oggetto di un provvedimento ablativo, privi di collegamento con l'attività dell'indiziato di appartenenza a consorteria mafiosa, camorristica o similare ovvero in collusione con esso, deve essere fatta valere in sede civile, non potendo il terzo intervenire nel procedimento di prevenzione o in sede di esecuzione davanti al giudice penale. Ancora, Sez. 2, n. 13450/2016, Scarpa, Rv. 640127, ha specificato che, in tema di condominio negli edifici, il corridoio di accesso alle singole unità immobiliari si presume comune ex art. 1117, n. 1, c.c., sicché è onere del condomino che ne vanti la proprietà esclusiva indicare il titolo relativo nell'atto costitutivo del 82 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO condominio. Sempre in tema di beni comuni, Sez. 2, n. 19215/2016, Falaschi, Rv. 641289, ha chiarito che l'utilizzazione in via esclusiva di un bene comune da parte del singolo condomino in assenza del consenso degli altri condomini, ai quali resta precluso l'uso, anche solo potenziale, della res, determina un danno in re ipsa, quantificabile in base ai frutti civili tratti dal bene dall'autore della violazione. Sez. 6-2, n. 22285/2016, Scalisi, Rv. 641693, ha precisato che l'art. 1118 c.c., come modificato dalla l. n. 220 del 2012, consente al condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato - di riscaldamento o di raffreddamento - condominiale, ove una siffatta condotta non determini notevoli squilibri di funzionamento dell'impianto stesso o aggravi di spesa per gli altri condomini, e dell'insussistenza di tali pregiudizi quel condomino deve fornire la prova, mediante preventiva informazione corredata da documentazione tecnica, salvo che l'assemblea condominiale abbia autorizzato il distacco sulla base di una propria, autonoma valutazione del loro non verificarsi. Sez. 2, n. 25775/2016, Parziale, in corso di massimazione, ha osservato che, con riferimento ad un edificio unico sul piano strutturale-costruttivo, al cui interno sussistano due diversi ed autonomi condominii, confinanti e con distinti accessi, è illegittima l'opera di collegamento effettuata dal proprietario di immobili tra loro attigui, ma ciascuno collocato in uno dei due diversi condominii, poiché l'esistenza di due distinti condominii implica che il muro che divide i due immobili (almeno per una parte di esso) deve essere ritenuto perimetrale, sicché esso è comune ai condomini facenti parte di ciascun condominio e non rientra nella proprietà esclusiva delle due unità attigue. In ultimo, Sez. 2, n. 27360/2016, Grasso, in corso di massimazione, ha puntualizzato la distinzione tra condominio, anche se minimo, e comunione ordinaria, chiarendo che nel condominio sono individuabili in via peculiare due situazioni soggettive affatto dissimili: per un verso, il condomino gode della piena ed esclusiva proprietà del volume costituito dalla propria unità (abitativa o meno); per altro verso, le parti comuni - cioè quelle che rendono indissolubile la struttura e ne assicurano la permanenza in vita (fondamenta, tetto, muri di chiusura, scarichi, ecc.) o che a questa sono asservite (corti, aiuole, accessi, recinzioni, ecc.) - sono soggette a comunione funzionale indissolubile. Per contro, nella comunione (situazione, questa, precaria, in quanto condizionata al 83 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO non esercizio del diritto alla divisione da parte dei comunisti, salvo l'eccezione di cui all'art. 1112 c.c.) il singolo comproprietario gode di una quota del tutto. (In applicazione di tale criterio distintivo, la S.C. ha riformato la sentenza impugnata, ritenendo la sussistenza del condominio minimo con riferimento ad un unico corpo di fabbrica, dotato di fondamenta unitarie, all'interno del quale prendono vita due appartamenti a schiera, separati per linea verticale, da terra al soffitto della mansarda, da una parete divisoria, in assenza di giunto di dilatazione, con la conseguente applicazione della diciplina del condominio quanto ai lavori riguardanti il rifacimento del muro di contenimento dell'area sulla quale insiste il fabbricato e la corte collocata a piano terra, posta a livello superiore rispetto alla restante area, al cui fondo insiste altra corte). 5. Le innovazioni. Il vincolo di destinazione da cui sono avvinti i beni e servizi comuni, in ragione dell'accentuata preminenza dell'interesse collettivo sugli interessi individuali dei singoli condomini, connota altresì la disciplina in tema di innovazioni. La S.C. si è occupata, al riguardo, dell'ampiezza del concetto di innovazioni di cui all'art. 1120 c.c., volte al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. In questa prospettiva, Sez. 2, n. 11034/2016, Falabella, Rv. 639944, ha puntualizzato che, in tema di condominio, costituisce innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c., l'assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito, di posti auto all'interno di un'area condominale, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, con conseguente nullità della relativa delibera. Sez. 6-2, n. 17350/2016, Falaschi, Rv. 640894, ha poi rilevato che, in materia di condominio negli edifici, le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista. 84 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO 6. La ripartizione delle spese condominiali. Il vincolo di destinazione innanzi evocato, quanto alla regolamentazione delle innovazioni, governa inoltre i criteri di ripartizione delle spese di manutenzione. Infatti, con riferimento alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, l'art. 1123, comma 1, c.c. prevede che esse sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Al riguardo, Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. 639821, ha rilevato che, in tema di condominio negli edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio. Ancora, Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641639 ha evidenziato che, in tema di condominio negli edifici, le spese del riscaldamento centralizzato sono legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, ove manchino sistemi di misurazione del calore erogato in favore di ciascuna di esse, che ne consentano il riparto in proporzione all'uso. Inoltre, secondo Sez. 2, n. 18759/2016, Cosentino, Rv. 641283, il condomino che, in mancanza di autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, abbia anticipato le spese di conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso purché ne dimostri, ex art. 1134 c.c., l'urgenza, ossia che le opere, per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, dovevano essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza 85 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO impugnata, che aveva riconosciuto il diritto al rimborso delle spese sostenute per opere di tinteggiatura e di intervento sugli impianti tecnologici, ritenendole, al contrario, non urgenti ma volte solo ad un miglioramento dell'immagine "commerciale" del condominio). 7. L'amministratore. All'amministratore compete l'esecuzione delle deliberazioni dell'assemblea nonché tutta l'attività di ordinaria amministrazione. La S.C. si è occupata specificamente dei temi relativi alla nomina e revoca dell'amministratore, all'individuazione dei suoi poteri ed attribuzioni nonché alla determinazione della sua rappresentanza. In particolare, Sez. 2, n. 02242/2016, Migliucci, Rv. 638829, ha precisato che la nomina dell'amministratore del condominio è soggetta all'applicazione dell'art. 1392 c.c., sicché, salvo siano prescritte forme particolari e solenni per il contratto che il rappresentante deve concludere, la procura di conferimento del potere di rappresentanza può essere verbale o tacita, e può risultare, indipendentemente dalla formale investitura assembleare e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 c.c., dal comportamento concludente dei condomini, che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi a lui abitualmente in detta veste, senza metterne in discussione i poteri di gestione e di rappresentanza del condominio. (Fattispecie relativa a nomina anteriore all'entrata in vigore della legge n. 220 del 2012). Inoltre, Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639968, ha rilevato che l'amministratore di condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che rientrano nell'ambito delle proprie attribuzioni, non necessita di alcuna autorizzazione assembleare che, ove anche intervenga, ha il significato di mero assenso alla scelta già validamente compiuta dall'amministratore medesimo. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 16260/2016, Scarpa, Rv. 641005, ha affermato che l'amministratore di condominio, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, nonché impugnare la decisione del giudice di primo grado, per tutte le controversie che rientrino nell'ambito delle sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., quali quelle aventi ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di un'obbligazione assunta dal medesimo amministratore per conto dei partecipanti, ovvero per dare esecuzione a delibere assembleari, erogare le spese occorrenti ai fini della manutenzione delle parti comuni o l'esercizio dei servizi 86 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO condominiali. 8. L'assemblea. L'assemblea dei condomini è l'organo deliberativo del condominio. L'art. 1135 c.c. ne regola le attribuzioni, oltre a quelle stabilite dagli artt. precedenti. In particolare, l'assemblea provvede all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini nonché all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione. Il successivo art. 1136 c.c. disciplina, invece, la costituzione dell'assemblea e la validità delle sue deliberazioni. In proposito, Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639967, ha precisato che, in tema di condominio negli edifici, il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all'iniziativa dell'amministratore nell'esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 c.c., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., riposa sulla "normalità" dell'atto di gestione rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell'assemblea condominiale. Sempre Sez. 2, n. 10865/2016, Scarpa, Rv. 639966, ha sostenuto che, in tema di condominio negli edifici, la delibera assembleare che abbia ad oggetto un contenuto generico e programmatico (quale, nella specie, la ricognizione del riparto dei poteri tra singoli condomini, amministratore ed assemblea) non necessita, ai fini della sua validità, che il relativo argomento sia tra quelli posti all'ordine del giorno nell'avviso di convocazione, trattandosi di contenuti non suscettibili di preventiva specifica informativa ai condomini e, comunque, costituenti possibile sviluppo della discussione e dell'esame di ogni altro punto all'ordine del giorno. 9. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Ai sensi dell'art. 1137 c.c., le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria, chiedendone 87 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO l'annullamento, nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. Tuttavia, nessun termine è stabilito per far valere la radicale nullità di tali delibere, vizio che può essere rilevato anche d'ufficio dal giudice. Sul tema, Sez. 2, n. 00305/2016, Criscuolo, Rv. 638022, ha puntualizzato che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità d'ufficio dell'invalidità delle sottostanti delibere non opera allorché si tratti di vizi implicanti la loro nullità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda. Per converso, Sez. 2, n. 03354/2016, Migliucci, Rv. 638789, ha affermato che l'ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, ex art. 63 disp. att. c.c., è limitato alla verifica dell'esistenza ed efficacia della sottostante delibera assembleare di approvazione e riparto della spesa e non si estende alle questioni concernenti la validità della stessa. In ordine a tale aspetto, Sez. 2, n. 22573/2016, Cosentino, Rv. 641638, ha ulteriormente rilevato che l'annullamento della delibera assunta dall'assemblea dei condomini, derivante dall'omessa convocazione di uno di essi, può ottenersi solo con il tempestivo esperimento di un'azione ad hoc, non potendo tale doglianza formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiesto per il pagamento delle spese deliberate dall'assemblea medesima. Sez. 6-2, n. 00751/2016, Giusti, Rv. 638362, ha sostenuto che è legittima la deliberazione dell'assemblea condominiale che addebiti integralmente al condomino moroso le spese legali liquidate a suo carico nel decreto ingiuntivo emesso in favore del condominio, ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., trattandosi di atto ricognitivo di un provvedimento giudiziale provvisoriamente esecutivo. Ancora, Sez. 2, n. 02859/2016, Lombardo, Rv. 639108, ha chiarito che, in tema di condominio, l'impugnativa di una delibera assembleare proposta da una pluralità di condomini determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione, sicché, ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre, ex art. 331 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, 88 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO quali parti di una causa inscindibile. Sez. 2, n. 16081/2016, Scarpa, Rv. 640789, ha ritenuto che la produzione delle delibere assembleari condominiali a corredo di una domanda monitoria avverso un condomino non è idonea a soddisfare l'onere di comunicazione agli assenti ex art. 1137 c.c., né comporta il sorgere della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., che postula il recapito all'indirizzo del condomino del verbale contenente le decisioni dell'assemblea, né, comunque, obbliga quest'ultimo ad attivarsi per acquisire e conoscere il testo delle deliberazioni stesse, la cui conoscibilità, pertanto, non è ancorata alla data di notificazione del decreto ingiuntivo. Inoltre, Sez. 2, n. 05814/2016, Picaroni, Rv. 639417, ha osservato che, in tema di condominio, poiché le attribuzioni dell'assemblea sono limitate alla verifica ed all'applicazione dei criteri stabiliti dalla legge, è nulla, anche se assunta all'unanimità, la delibera che modifichi il criterio legale di ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare stabilito dall'art. 1126 c.c., ove i condomini non abbiano manifestato l'espressa volontà di stipulare un negozio dispositivo dei loro diritti in tal senso: tale nullità può essere fatta valere, ex art. 1421 c.c., da chiunque vi abbia un concreto interesse, compreso il condomino che abbia partecipato, con il suo voto favorevole, alla formazione di detta delibera. Infine, Sez. 2, n. 25791/2016, Orilia, in corso di massimazione, ha precisato che, ove il verbale dell'assemblea sia spedito al condomino assente a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ed il destinatario non sia reperito, il termine di trenta giorni per la proposizione dell'impugnazione decorre dal decimo giorno successivo alla data del rilascio dell'avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore. 10. Il regolamento di condominio. In base alla previsione dell'art. 1138 c.c., è prescritta l'adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci. Il regolamento, che costituisce espressione dell'autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una "convenzione" intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro "atti di acquisto", ad un testo di 89 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO regolamento predisposto dall'originario proprietario alienante. In proposito, Sez. 2, n. 13184/2016, Migliucci, Rv. 640181, ha rilevato che il condomino può dividere il suo appartamento in più unità ove da ciò non derivi concreto pregiudizio agli altri condomini, salva eventuale revisione delle tabelle millesimali; non osta che il regolamento contrattuale del condominio preveda un certo numero di unità immobiliari, qualora esso non ne vieti la suddivisione. Ancora, Sez. 2, n. 21024/2016, Manna, Rv. 641640, ha ritenuto che la previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull'estensione ma sull'esercizio del diritto di ciascun condomino, va ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obbligazioni propter rem, difettando il presupposto dell'agere necesse nel soddisfacimento d'un corrispondente interesse creditorio; ne consegue che l'opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti va regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l'indicazione, nella nota di trascrizione, delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 c.c., non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale. Sez. 2, n. 21307/2016, Criscuolo, Rv. 641656, ha altresì sostenuto che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti. (Nella specie, la S.C. ha riformato la decisione impugnata che, dalla presenza di una clausola del regolamento di condominio espressamente limitativa della destinazione d'uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, aveva tratto l'esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti, uno dei quali era stato invece adibito a ristorante-pizzeria, mediante scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra). Inoltre, Sez. 2, n. 25790/2016, Orilia, in corso di 90 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO massimazione, ha puntualizzato che, secondo la formulazione dell'art. 69 disp. att. c.c., il diritto di chiedere la revisione delle tabelle millesimali è condizionato alla ricorrenza di uno o di entrambi i presupposti indicati, ossia di un errore ovvero di un'alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano, con la conseguenza logica che, in base alla regola generale di distribuzione dell'onere probatorio, la prova della sussistenza delle condizioni che legittimano la modifica incombe su chi intende modificare le tabelle, quanto meno con riferimento agli errori oggettivamente verificabili. 91 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ CAPITOLO VIII L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ (di Roberto Mucci) SOMMARIO: 1. Le questioni di giurisdizione. – 2. L'indennità di espropriazione. A) Criteri legali di valutazione. – 2.1. (segue) B) Interessi. – 2.2. (segue) C) Stima del bene. – 3. L'espropriazione di fondi agricoli. – 4. L'indennità per il proprietario non espropriato. – 5. L'espropriazione parziale. – 6. L'opposizione alla stima. – 7. L'occupazione temporanea e d'urgenza. – 8. Le espropriazioni illegittime. A) Occupazione sine titulo. – 8.1. (segue) B) Acquisizione cd. sanante. 1. Le questioni di giurisdizione. In applicazione del criterio basato sulla distinzione tra carenza di potere e illegittimo esercizio del potere, ai fini della corretta ricognizione delle situazioni giuridiche soggettive conoscibili dal giudice ordinario e da quello amministrativo nell'ambito delle rispettive giurisdizioni, Sez. U, n. 08062/2016, Vivaldi, Rv. 639449, dando seguito al consolidato indirizzo di legittimità (Sez. U, n. 08987/1990, Lipari, Rv. 469141; Sez. 1, n. 24041/2006, Ceccherini, Rv. 593187), ha affermato che l'incompetenza del sindaco che ha emesso il provvedimento di occupazione d'urgenza in luogo del presidente della giunta regionale è censurabile davanti al giudice amministrativo e non davanti al giudice ordinario, trattandosi di incompetenza relativa e non di carenza assoluta di potere, in quanto il vizio non priva l'atto della capacità di degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo. Ancora in relazione alla legittimità del provvedimento ablativo, Sez. 1, n. 10720/2016, Sambito, Rv. 639814, ribadendo anche in questo caso consolidati principi (Sez. U, n. 10362/2009, Salvago, Rv. 607608), ha chiarito che la doglianza relativa all'ammontare dell'indennizzo e ai criteri della relativa quantificazione non attiene alla legittimità del provvedimento ablativo, ma si concreta in un'opposizione alla stima che, in base all'art. 54 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A»), appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e, quindi, alla speciale competenza in unico grado della corte di appello. Dirimendo un conflitto negativo di giuridizione in fattispecie relativa alla domanda risarcitoria e indennitaria avanzata (in via alternativa e cumulativa) dai proprietari frontisti di un'area espropriata per la realizzazione della linea ferroviaria dell'alta 92 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ velocità, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 02052/2016, Frasca, Rv. 638281 e 638282), interrogandosi sul concetto di "comportamento" della P.A. e sulla sua riconducibilità all'esercizio del potere amministrativo (a tale specifico riguardo v. Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, e Sez. U, n. 12179/2015, Mammone, Rv. 635540, entrambe nella Rassegna 2015), hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. ove, nella prospettazione attorea, fonte del danno non siano né il "se" né il "come" dell'opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della P.A. (o del suo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall'esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire. Quanto poi alle controversie sulle indennità dovute dalla P.A. al titolare del bene non espropriato (ex artt. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Disciplina delle espropriazioni per causa di utilità pubblica», e 44 del d.P.R. n. 327 del 2001), esse non rientrano nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistica. Per un verso, infatti, nei confronti del beneficiario, terzo proprietario, confinante con l'opera pubblica ed estraneo al procedimento espropriativo, non è configurabile un rapporto diretto con l'amministrazione-autorità, nel cui ambito possa individuarsi una posizione d'interesse legittimo soggetta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo; per altro verso, anche tenendo conto del carattere indennitario della prestazione, comunque collegata ad un procedimento espropriativo, l'art. 34, comma 3, lett. b), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 98 (recante «Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59») prevede una riserva di giurisdizione ordinaria per la determinazione delle indennità conseguenti all'adozione di atti di natura espropriativa. Sempre con riferimento al concetto di comportamento posto in essere dalla P.A. in carenza di potere, ovvero in via di mero fatto, in fattispecie di sconfinamento nell'esecuzione di opere pur presidiate da una valida dichiarazione di pubblica utilità (ma limitatamente ai terreni che formavano oggetto), Sez. U, n. 25044/2016, Manna, in corso di massimazione, ha dichiarato la giurisidizione del giudice ordinario, configurandosi un'occupazione cd. usurpativa e precisando altresì 93 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ l'irrilevanza, su tale sistema di riparto, dell'istituto della cd. acquisizione sanante (v. oltre). In tema di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (su cui v. oltre, § 7.1), si è già dato conto nella Rassegna 2015 delle questioni di giurisdizione agitatesi a seguito dell'entrata in vigore della citata norma che, come è noto, ha superato il vaglio di costituzionalità di cui a Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71 (si v. l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-1, n. 15816/2015, Cristiano, non massimata), nonché di Sez. U, n. 22096/2015, Di Palma, Rv. 638169, che, sulla scorta della ritenuta natura indennitaria del ristoro ex art. 42 bis cit., ha affermato in subiecta materia la giurisdizione del giudice ordinario. Orbene, Sez. U, n. 15283/2016, De Chiara, Rv. 640701-640702, decidendo sulle questioni poste dalla citata ordinanza interlocutoria, ha ulteriormente chiarito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario non solo la controversia relativa alla determinazione e corresponsione dell'indennizzo previsto in relazione alla fattispecie di acquisizione sanante ex art. 42 bis cit., ma anche quella avente ad oggetto l'interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto, ai sensi del comma 3, ultima parte, di detto articolo, «a titolo di risarcimento del danno», giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una voce del complessivo «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale» di cui al precedente comma 1, secondo un'interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. Da tale principio le Sezioni Unite ne hanno tratto il corollario sistematico della devoluzione delle controversie relative alla determinazione e corresponsione dell'indennizzo, globalmente inteso, previsto per l'acquisizione sanante alla competenza in unico grado della corte di appello, che costituisce la regola generale prevista dall'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità dovute, nell'ambito di un procedimento espropriativo, a fronte della privazione o compressione del diritto dominicale dell'espropriato, dovendosi interpretare in via estensiva l'art. 29 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»), tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto – quale quello dell'acquisizione sanante – introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva. 94 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Infine, ancora con riferimento al tema della riconducibilità del comportamento della P.A. all'esercizio del potere amministrativo – e sulla scorta delle già citate Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, e Sez. U, n. 12179/2015, Mammone, Rv. 635540 – Sez. U, n. 15284/2016, De Chiara, Rv. 640700, chiamata a pronunciarsi in fattispecie di dichiarazione di pubblica utilità illegittima in quanto priva dei termini iniziali e finali dei lavori e delle procedure di esproprio, ha dichiarato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia avente ad oggetto la restituzione di un suolo, ovvero il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del medesimo, occupato d'urgenza, per l'esecuzione di un intervento di edilizia residenziale pubblica in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché illegittima, «stante il collegamento della realizzazione dell'opera fonte di danno con la dichiarazione suddetta, senza che rilevi la qualità del vizio da cui sia affetta quest'ultima». Per il resto, in fattispecie di cessione in proprietà di lotti inclusi in un piano di zona per l'edilizia economica e popolare e correlato conguaglio dei costi di espropriazione delle aree ricadenti nel piano, Sez. U, n. 20419/2016, Giancola, Rv. 641219, avuto riguardo al criterio del petitum sostanziale per il contenuto meramente patrimoniale della controversia e dando continuità all'insegnamento di Sez. U, n. 17142/2011, Salmè, Rv. 618577, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ex art. 10 della l. 18 aprile 1962, n. 167 (recante «Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare»), su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, sulla quantificazione di tale corrispettivo, nonché sull'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A. In una fattispecie di espropriazione "sostanziale" atipica (rilascio di concessioni edilizie in favore di cooperative incaricate degli interventi di edilizia residenziale pubblica con privazione dei proprietari degli altri lotti, non materialmente ablati, dei rispettivi diritti di edificabilità per le volumetrie comprese nel piano di lottizzazione), Sez. U, n. 25039/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario atteso che la pretesa aveva riguardato un indennizzo da attività lecita, non un risarcimento da espropriazione illegittima. 95 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ 2. L'indennità di espropriazione. A) Criteri legali di valutazione. In generale sul tema della determinazione dell'indennità di espropriazione, dando continuità all'indirizzo espresso da Sez. 6-1, n. 20457/2013, Cristiano, Rv. 627878, e in applicazione dei principi fissati dalla fondamentale Sez. U, n. 00173/2001, Morelli, Rv. 546235, la Corte (Sez. 1, n. 01613/2016, Campanile, Rv. 638442; v. anche, sui vincoli stabiliti dagli strumenti urbanistici di secondo livello, Sez. 1, n. 20230/2016, Campanile, in corso di massimazione), ha ribadito che «la destinazione ad usi collettivi di determinate aree assume aspetti conformativi ove sia concepita, nel quadro della ripartizione generale del territorio, in base a criteri predeterminati ed astratti, ma non quando sia limitata e funzionale all'interno di una zona urbanistica omogenea a diversa destinazione generale, e venga, dunque, ad incidere, nell'ambito di tale zona, su beni determinati, sui quali si localizza la realizzazione dell'opera pubblica, assumendo in tal caso portata e contenuti direttamente ablatori ininfluenti sulla liquidazione dell'indennità». La pronuncia ha pertanto chiarito che, ove sia accertata l'inclusione del terreno espropriato in "zona omogenea edificabile" prevista dal vigente strumento urbanistico, tale accertamento è da ritenersi sufficiente per attribuire al fondo il requisito della edificabilità legale, a meno che non sia dimostrato che il bene ricada in una sottozona avente natura pubblicistica. Ancora in relazione al tema della zonizzazione, Sez. 1, n. 01621/2016, Campanile, Rv. 638750, pronunciando sulla "riduzione dell'indennità nella misura del venticinque per cento" del valore venale del bene ai sensi dell'art. 37, comma 1, d.P.R. n. 327 del 2001 in caso di espropriazione finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale e riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 02774/2012, Macioce, Rv. 621306, ha affermato che, ove il procedimento sia adottato per realizzare un "piano di zona per l'edilizia economica e popolare", non sussiste il presupposto dell'intervento di riforma economico-sociale ai fini della detta riduzione del venticinque per cento del valore venale del bene, dovendo esso riguardare l'intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in forza di una previsione normativa che in tal senso lo definisca. Con riferimento alla destinazione di aree a "edilizia scolastica", Sez. 1, n. 05247/2016, Campanile, Rv. 639101, dando continuità all'indirizzo espresso al riguardo da Sez. 1, n. 96 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ 14347/2012, Campanile, Rv. 624005, ha ribadito che ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio (o del risarcimento del danno da occupazione appropriativa), la detta destinazione – nella cui nozione devono ricomprendersi tutte le opere e attrezzature che hanno la funzione di integrare il complesso scolastico –, nell'ambito della pianificazione urbanistica comunale, ne determina il "carattere non edificabile", avendo l'effetto di configurare un "tipico vincolo conformativo", come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro di una ripartizione in base a criteri generali ed astratti. La pronuncia soggiunge poi che non può esserne ritenuta per altro verso l'edificabilità, sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacché l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato. Sulla stessa linea, Sez. 1, n. 12818/2016, Sambito, Rv. 640111 e 640112, ha affermato che la destinazione di un'area a "parco urbano" nell'ambito della pianificazione urbanistica comunale, avendo l'effetto di configurare un "tipico vincolo conformativo" e non espropriativo, ne determina il "carattere non edificabile", pur quando la destinazione prevista sia realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata. Ciò sulla scorta del principio (già affermato da Sez. 1, n. 11503/2014, Salvago, Rv. 631431) per cui va ritenuta non edificabile l'area che, al momento della vicenda ablativa, sia concretamente vincolata dallo strumento urbanistico vigente ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, ecc.), rimanendo, invece, irrilevante che tale destinazione possa essere realizzata anche da privati, a seguito di convenzione con l'ente pubblico. Analogo principio risulta applicato – in tema di suoli ricadenti, secondo la previsione di piano regolatore generale, in "zona destinta a servizi ospedalieri-parcheggio" – da Sez. 1, n. 13172/2016, Sambito, Rv. 640217, che esclude la natura edificatoria di tali suoli, atteso che il detto vincolo all'utilizzo meramente pubblicistico «comporta un vincolo di destinazione preclusivo ai privati di tutte le forme di trasformazione del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, quale estrinsecazione dello ius aedificandi connesso con il diritto di proprietà ovvero con l'edilizia privata esprimibile dal proprietario dell'area, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia». 97 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Circa la specifica destinazione a "verde pubblico", Sez. 1, n. 10325/2016, Campanile, Rv. 639975-639976, in conformità ai principi a suo tempo espressi, tra le altre, da Sez. 1, n. 21707/2015, Campanile, Rv. 637322 (sulla scia della già citata Sez. U, n. 00173/2001, Morelli, Rv. 546235), e da Sez. 1, n. 19072/2015, Campanile, Rv. 636757, nel cassare la sentenza di merito che aveva riconosciuto carattere conformativo alla variante al piano regolatore generale che destinava un'area a parcheggio e verde pubblico, ha ulteriormente chiarito che la destinazione del piano regolatore generale a verde pubblico, pur ordinariamente di carattere conformativo, può rivelarsi, "in via eccezionale, come vincolo preordinato all'esproprio" – restando quindi irrilevante ai fini della determinazione dell'indennità – purché concorra un triplice ordine di presupposti: in primo luogo, che si traduca in un'imposizione a titolo particolare incidente su beni determinati al precipuo fine della precisa e puntuale localizzazione di un intervento edilizio che, per natura e scopo, sia di esclusiva appropriazione e fruizione collettiva; in secondo luogo, che la relativa realizzazione risulti incompatibile con la proprietà privata e, perciò, presupponga ineluttabilmente, per il suo compimento, l'espropriazione del bene; in terzo luogo, che l'imposizione determini l'inedificabilità del bene colpito e, dunque, lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul suo godimento, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio. Ciò nel quadro del più generale principio – ribadito dalla pronuncia ora in esame – secondo cui «la variante al piano regolatore generale che miri ad una (nuova) zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un'opera pubblica, ha carattere conformativo ed è rilevante ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, mentre ove imponga solo un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, lo stesso va qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, dunque, prescindersi nella qualificazione dell'area». In tema di cd. "aree bianche", Sez. 1, n. 12268/2016, Sambito, Rv. 640061, ha ribadito i principi da ultimo affermati da 98 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Sez. 1, n. 09488/2014, Benini, Rv. 631154, chiarendo a sua volta che l'avvenuta decadenza del vincolo preordinato all'esproprio rende l'area – non la zona – priva di regolamentazione urbanistica, sicché in tale ipotesi non è consentito farne rivivere la condizione preesistente, ma opera la disciplina prevista per le cd. aree bianche di cui all'art. 4, ultimo comma, della legge 20 gennaio 1977, n. 10, recante «Norme per la edificabilità dei suoli» (ora art. 9 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, «Testo unico in materia edilizia»), la quale, peraltro, non comporta un automatico riconoscimento della natura edificabile dell'area occupata, dovendo essere apprezzata la ricorrenza di tale carattere in base al criterio dell'edificabilità di fatto, che impone un metodo di valutazione incentrato sulla verifica della funzionalità dell'area in termini di naturale ed armonico completamento di quelle, ad essa contigue, che siano destinate all'edificazione in base alle scelte legislative e a quelle pianificatorie dei comuni. Con riferimento alle "opere di viabilità" indicate nel piano regolatore generale, Sez. 1, n. 13425/2016, Campanile, Rv. 640950 e 640951, richiamando il principio da ultimo espresso da Sez. 1, n. 19924/2007, Giuliani, Rv. 600649, ha ribadito che detta indicazione comporta, di regola, un "vincolo di inedificabilità" delle parti del territorio interessate e "non ha carattere espropriativo", comportando una limitazione di ordine generale ricadente su una pluralità indistinta di beni e per una finalità di interesse pubblico trascendente i singoli interessi dei proprietari delle aree (in tema v. anche Sez. 1, n. 19204/2016, Giancola, in corso di massimazione, nonché – con riferimento al profilo della reiterazione dei vincoli di carattere conformativo, come tali non indennizzabili ex art. 39 del d.P.R. n. 327 del 2001 – Sez. 1, n. 25401/2016, Campanile, in corso di massimazione). Ancora in punto di apprezzamento della natura edificatoria o meno dell'area ablata, la pronuncia – resa in fattispecie relativa ad un suolo con destinazione a verde agricolo con ridotta possibilità edificatoria – non ha mancato di reiterare l'insegnamento (Sez. 1, n. 14058/2007, Panebianco, Rv. 598060) secondo cui l'"indice di fabbricabilità" (sulla cui valenza v. anche Sez. 1, n. 18841/2016, Campanile, e Sez. 1, n. 26192/2016, Terrusi, entrambe in corso di massimazione) definisce solo l'entità dell'edificazione che può gravare sulla superficie della zona, ma "non è idoneo a determinare la natura agricola o edificatoria del suolo", dovendosi piuttosto far riferimento alla destinazione prevista per gli edificandi edifici, sicché vanno comunque considerate agricole quelle aree in cui sono consentite unicamente costruzioni a carattere rurale ed 99 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ utilizzabili a tali fini. In tema, mette conto citare anche Sez. 1, n. 19687/2016, Campanile, Rv. 641336, secondo cui il "piano di recupero edilizio" e il "vincolo stradale" costituiscono entrambi varianti al piano regolatore generale e, anche se adottati contestualmente, mantengono la loro autonomia logico-giuridica: il primo ha finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente, piuttosto che quella di determinare una complessiva trasformazione del territorio (sicché non è assimilabile al piano per l'edilizia economica e popolare, che conferisce il requisito dell'edificabilità a tutte le aree in esso inserite); il secondo, ove non imposto a titolo particolare, comporta di regola un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessato e non ha carattere espropriativo. Sulla problematica del vincolo per la realizzazione degli "interporti" si rinvia a Sez. 1, n. 19193/2016, Salvago, e a Sez. 1, n. 20228/2016, Campanile, entrambe in corso di massimazione. Sul "vincolo cimiteriale", quale vincolo assoluto di inedificabilità nella relativa fascia di rispetto che si impone ex se in quanto vincolo legale, diffusamente Sez. 1, n. 26326/2016, Campanile, in corso di massimazione. Sul tema generale della determinazione dell'indennità di espropriazione alla luce degli effetti della sentenza della Corte costituzionale 10 giugno 2011, n. 181, Sez. 1, n. 26193/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ha ribadito, tra l'altro, l'insegnamento di Sez. U, n. 17868/2013, Botta, Rv. 627217, secondo cui qualora l'espropriato contesti, sotto qualunque profilo, la quantificazione operata dalla corte di appello con il criterio del valore agricolo medio, dichiarato incostituzionale dalla sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, la stima dell'indennità deve essere effettuata utilizzandosi il criterio generale del valore venale pieno ex art. 39 l. n. 2359 del 1865. Da ultimo, merita menzione Sez. 1, n. 15626/2016, Sambito, Rv. 640668, che, riprendendo i principi espressi da Sez. 1, n. 08662/2014, Campanile, Rv. 631072, in tema di disciplina dell'indennizzo "salvo conguaglio" di cui agli artt. 1, comma 1 e 2, e 2 della legge 29 luglio 1980, n. 385, recante «Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457 e 15 febbraio 1980, n. 25» (norme dichiarate incostituzionali da Corte cost., 19 luglio 1983, n. 223), ha affermato – in risalente fattispecie in cui si controverteva circa la prescrizione del diritto del comune a ottenere il rimborso delle somme versate per l'acquisizione di aree nell'ambito di programmi per l'edilizia economica e popolare (in 100 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ tema v. anche Sez. 1, n. 20691/2016, Giancola, in corso di massimazione) – che il momento dal quale far decorrere il termine decennale di prescrizione del diritto a conseguire il conguaglio dell'indennità di espropriazione per una vicenda ablativa perfezionatasi nel vigore della legge n. 385 del 1980 coincide con la pubblicazione della citata sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 1983, quale momento in cui il diritto viene ad esistenza. Ancora con riferimento agli effetti della pronuncia n. 223 del 1983 della Corte costituzionale, Sez. 1, n. 16059/2016, Sambito, Rv. 641321, ha puntualizzato che il criterio indennitario applicabile per la determinazione del corrispettivo per la cessione volontaria del bene ablato, pattuito in epoca antecedente alla declaratoria di incostituzionalità dei criteri di cui alla l. n. 385 del 1980, deve ritenersi quello del valore venale del bene di cui all'art. 39 della l. n. 2359 del 1865 (ma senza che al valore venale possa applicarsi la maggiorazione del cinquanta per cento concordata dalle parti in sede di cessione volontaria, stante l'identità di fine tra tale strumento privatistico e il provvedimento ablativo pubblicistico, ancorché alternativi, «ma al prezzo correlato in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per l'espropriazione del bene, senza che sia in alcun modo possibile discostarsene»: così Sez. 1, n. 24652/2016, Sambito, in corso di massimazione). 2.1. (segue) B) Interessi. In tema di interessi (nella specie dovuti sull'indennità di occupazione legittima), Sez. 1, n. 09329/2016, Lamorgese, Rv. 639613, ha affermato – riprendendo Sez. 1, n. 09410/2006, Forte, Rv. 590411, e Sez. 1, n. 01113/1997, Verucci, Rv. 502239 – che detti interessi, «in quanto diretti a compensare il proprietario della mancata disponibilità dei frutti che avrebbe percepito periodicamente, decorrono dalla scadenza di ciascuna annualità, a partire dal giorno in cui è emesso il decreto di occupazione, che segna l'immediata ed automatica compressione del diritto dominicale, quale momento di maturazione del relativo diritto, restando irrilevante l'eventuale posteriorità della materiale apprensione del bene». 2.2. (segue) C) Stima del bene. Conformemente all'insegnamento di Sez. 1, n. 07288/2013, Salvago, Rv. 625861, e di Sez. 1, n. 03034/2005, Benini, Rv. 579938, Sez. 6-1, n. 06243/2016, Mercolino, Rv. 639266, ha ribadito il principio di effettività del valore stimato dei fondi ablati affermando, quanto alle aree 101 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ edificabili, la tendenziale fungibilità del metodo cd. sintetico- comparativo (volto ad individuare il prezzo di mercato dell'immobile attraverso il confronto con quelli di beni aventi caratteristiche omogenee), con quello cd. analitico-ricostruttivo (fondato sull'accertamento del costo di trasformazione del fondo), non potendosi stabilire tra i due criteri un rapporto di regola ad eccezione, «restando pertanto rimessa al giudice di merito la scelta di un metodo di stima improntato, per quanto possibile, a canoni di effettività» (sul tema v. anche Sez. 1, n. 20232/2016, Salvago, in corso di massimazione). In particolare, sul metodo cd. analitico-ricostruttivo per la determinazione dell'indennità dei suoli edificabili ex art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, Sez. 1, n. 14187/2016, Sambito, Rv. 640505, nel cassare la sentenza di merito che aveva determinato l'indennizzo di un suolo edificabile facendo riferimento alla cubatura di una preesistente costruzione poi demolita, senza dedurre dall'importo così ottenuto alcun costo, ha puntualizzato – riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 06036/2014, Di Amato, Rv. 630536, sulla rilevanza, ai fini della determinazione del valore venale di un edificio, delle potenzialità edificatorie dell'area non assorbite dalla costruzione – che l'adozione del metodo analitico-ricostruttivo consiste nella determinazione del valore di mercato degli insediamenti costruibili sul suolo che siano consentiti dalla destinazione urbanistica della zona, tenendo altresì conto di tutti gli elementi che concorrono, in concreto, alla determinazione del costo di trasformazione del terreno e, quindi, del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione. Circa le questioni relative alle aree su cui insista una "costuzione abusiva", pendente la procedura finalizzata alla sanatoria ai sensi dell'art. 38, comma 2 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, Sez. 1, n. 18694/2016, Di Marzio, Rv. 641212, ha affermato che «il diritto all'indennità non è escluso dall'originaria abusività dell'edificazione, ove l'immobile, alla data dell'esproprio, sia stato fatto oggetto di una domanda di sanatoria non ancora scrutinata dalla P.A., dovendo, in tal caso, quest'ultima effettuare una valutazione prognostica circa la sua condonabilità; il cui esito, se positivo, impone di tener conto di esso nella quantificazione di quella indennità, altrimenti restando la stessa rapportata non già alle caratteristiche oggettive del bene sottoposto ad esproprio, ma ad una circostanza affatto casuale ed insignificante, quale l'avere la P.A. deciso o meno sull'istanza di condono, anche se – per ipotesi – in violazione dei termini all'uopo previsti». 102 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ 3. L'espropriazione di fondi agricoli. Sull' "indennità spettante all'affittuario coltivatore diretto" del fondo espropriato ex artt. 17 della legge n. 865 del 1971 e 37, comma 9, del d.P.R. n. 327 del 2001, mette conto segnalare Sez. 1, n. 11464/2016, Campanile, Rv. 639788, che ha affermato il "carattere autonomo e aggiuntivo" di detta indennità rispetto a quella di espropriazione, fondandosi essa nella diretta attività di prestazione d'opera sul terreno espropriato e nella situazione privilegiata che gli artt. 35 e ss. Cost. assicurano alla posizione del lavoratore. Proprio in ragione di siffatta natura, l'indennità in esame «non va detratta da quella di espropriazione, non potendo escludersi, anche in base alla giurisprudenza della CEDU, che, in presenza della necessità di tener conto della particolare posizione del coltivatore espropriato, l'espropriante possa andare incontro ad esborsi – preventivamente valutabili – complessivamente superiori al valore di mercato del bene ablato, senza che ciò costituisca violazione del limite previsto dall'art. 42 Cost.». La pronuncia si segnala in quanto, muovendo dalla ricostruzione sistematica dell'istituto in relazione al mutato quadro normativo conseguito all'abrogazione, per via di incidente di costituzionalità (Corte cost., 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349), dell'art. 5 bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, di conversione del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante «Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica», nonché dalla ricognizione della giurisprudenza CEDU (con particolare riferimento a Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 aprile 1992, Lallement c. Gov. Francia, secondo cui è ammissibile un indennizzo superiore al valore venale del bene, in presenza della necessità di tener conto della particolare posizione del coltivatore espropriato) e della Corte costituzionale (ivi richiami, in particolare, a Corte cost., 24 febbraio 1988, n. 262), ha ritenuto che il valore venale del bene non costituisca – in particolari ipotesi – un limite a favore dell'espropriante, così rimeditando l'opposto indirizzo (della detraibilità dell'indennità aggiuntiva da quella spettante al proprietario espropriato, ove quest'ultima dovesse essere determinata in base al valore venale del bene espropriato), da ultimo affermato da Sez. 1, n. 14782/2014, Giancola, Rv. 631811, e da Sez. 1, n. 21434/2007, Benini, Rv. 600669, pur sulla scorta di Corte cost., 9 novembre 1988, n. 1022. 4. L'indennità per il proprietario non espropriato. In tema di speciale indennizzo ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (norma oggi trasfusa nell'art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001; v. al 103 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ riguardo Sez. U, n. 11782/1992, Favara, Rv. 479225, e Sez. 1, n. 19972/2009, Salvago, Rv. 610573), Sez. 1, n. 06926/2016, Sambito, Rv. 639267, premesso in generale che, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, non sono concepibili due distinti crediti, l'uno a titolo di indennità di espropriazione e l'altro a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, atteso che l'indennità riguarda, per definizione, l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto espropriato, ha chiarito che diversa è l'ipotesi prevista dall'indennizzo di cui all'art. 46 cit., «che prescinde dall'esistenza di un provvedimento ablativo ed anzi postula che non sia intervenuto esproprio e che il privato abbia conservato la titolarità dell'immobile, subendo, per effetto dell'esecuzione dell'opera pubblica, la menomazione, la diminuzione o la perdita di una o più facoltà inerenti al proprio diritto dominicale, con pregiudizio permanente». Ancora in tema di obbligazione indennitaria ex art. 46 cit., Sez. U, n. 25038/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha affermato che detta obbligazione sorge con l'esecuzione dell'opera produttiva del pregiudizio alla vicina proprietà e, in caso di concessione traslativa dell'opera pubblica (sul punto specifico v., al § 8, anche Sez. 1, n. 12260/2016, Sambito, Rv. 640055), sorge in capo a chi sia concessionario alla relativa data, restando a tali fini irrilevante il successivo provvedimento di chiusura della concessione, non avente effetto retroattivo. Sull'"indennità di asservimento", Sez. 1, n. 15629/2016, Sambito, Rv. 640672, traendo coerenti conclusioni dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del criterio del cd. valore agricolo medio di cui a Corte cost., 10 giugno 2011, n. 181, ha affermato che l'indennità di asservimento per servitù di elettrodotto, commisurata a quella di esproprio, va determinata in base al valore venale del bene. Al riguardo, Sez. 1, n. 19686/2016, Di Marzio, Rv. 641330 e 641331, trattando il tema del rapporto tra decreto di autorizzazione provvisoria per la costruzione di elettrodotto e decreto di asservimento definitivo ai fini della costituzione del vincolo reale, ha escluso – riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 03751/2012, Salvago, Rv. 621901 – che dall'installazione dell'elettrodotto possa farsi discendere, in via automatica, un deprezzamento collegato alla non provata nocività dei campi magnetici. 5. L'espropriazione parziale. Per quanto riguarda l'espropriazione parziale, oltre a Sez. 1, n. 18697/2016, Di Marzio, e 104 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Sez. 1, n. 20241/2016, Salvago, entrambe in corso di massimazione, che ribadiscono principi consolidati sui requisiti necessari ai fini della configurabilità dell'istituto, mette conto menzionare Sez. 1, n. 19689/2016, Campanile, in corso di massimazione, che, decidendo su fattispecie relativa all'espropriazione di terreno con destinazione aziendale e dando continuità all'orientamento già formatosi in materia, ha ribadito che l'art. 40 della l. n. 2359 del 1865 va interpretato nel senso che «la conservazione dell'originaria funzione aziendale in tanto va valutata, in quanto inerisce al valore del bene espropriato, e non all'azienda in sé considerata», sicché le costruzioni esistenti sull'area vanno considerate nel loro valore in sé, non per il diverso valore che possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all'attività d'impresa (Sez. 1, n. 18229/2009, Panzani, Rv. 607694). 6. L'opposizione alla stima. Sez. 1, n. 01622/2016, Campanile, Rv. 638485, pronunciando sull'eccezione di inammissibilità della domanda relativamente all'indennità di occupazione ex art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (recante «Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica. Norme sull'espropriazione per pubblica utilità. Modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847. Autorizzazione di spesa per gli interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata») e richiamando Sez. 1, n. 07993/2014, Lamorgese, Rv. 630942, nonché Sez. 1, n. 23966/2010, Salvago, Rv. 614811, ha ribadito che la "decadenza dall'azione" per proporre l'opposizione alla stima relativa all'indennità di occupazione legittima nel termine di trenta giorni può essere rilevata a condizione che dagli atti risultino compiuti gli adempimenti che ne costituiscono il presupposto. Sul tema è intervenuta anche Sez. 1, n. 02193/2016, Sambito, Rv. 638350 e 638351, che – conformemente a Sez. 1, n. 20527/2011, Giancola, Rv. 619854, e a Sez. 1, n. 21886/2011, Salvago, Rv. 620074 – ha, a sua volta, precisato che, con riferimento al termine per proporre opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione, la notificazione del decreto ablativo, nel quale l'indennità venga indicata come definitiva e determinata in misura corrispondente a quella già qualificata come provvisoria, non basta a far decorrere il termine di trenta giorni per proporre opposizione da parte dei proprietari espropriati, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 865 del 1971, occorrendo anche il deposito della relazione di stima nella segreteria del comune, l'inserzione dell'avviso di deposito nel 105 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ foglio annunci legali della provincia e la notifica agli stessi della determinazione concreta dell'indennità definitiva. La pronuncia si segnala anche per aver ribadito gli assetti sistematici del diritto di azione spettante all'espropriando: a questi sono concesse "due azioni" per chiedere la determinazione della giusta indennità, a seconda che sia stata calcolata, o meno, da parte della commissione provinciale, quella definitiva di cui all'art. 16 della legge n. 865 del 1971: nel primo caso, l'opposizione alla stima va proposta nel breve termine di decadenza di cui all'art. 19 della legge n. 865 cit.; ove invece sia stata soltanto offerta dall'espropriante l'indennità provvisoria, all'espropriando è consentito – a seguito di Corte cost., 22 febbraio 1990, n. 67 – chiedere la determinazione giudiziale del giusto indennizzo di cui all'art. 42 Cost., pur quando venga emesso tardivamente o non venga emesso il provvedimento di stima da parte della commissione. Pertanto, la provvisorietà o definitività dell'indennità non dipende dalla qualifica attribuitale dal decreto di esproprio, ma dalla diversa funzione assegnata alla relativa stima dal legislatore, che nel subprocedimento previsto dall'art. 11 della legge n. 865 cit., relativo alla stima provvisoria, si esaurisce con l'offerta in misura congrua all'espropriando ed il tentativo di addivenire alla cessione volontaria dell'immobile che ne sostituisce comunque l'ammontare, mentre nel prosieguo, se non venga accettata dal proprietario, tale sostituzione è richiesta dall'espropriante dopo l'adozione del decreto di esproprio alla commissione provinciale che la determina in via definitiva, rendendola incontestabile in mancanza di tempestiva impugnazione davanti alla corte di appello nel termine di decadenza stabilito dalla norma. Per la decorrenza del termine di decadenza per l'espropriante nell'opposizione alla stima regolata ora dall'art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 v. Sez. 1, n. 21731/2016, Campanile, in corso di massimazione. Per l'insussistenza del diritto di prelazione del comune sulle aree espropriate rimaste inutilizzate, ex art. 21 l. n. 865 del 1971, qualora vi sia coincidenza tra comune ed ente espropriante, v. Sez. 1, n. 24784/2016, Sambito, in corso di massimazione. Sulla "speciale competenza funzionale della corte di appello" in unico grado, Sez. 1, n. 02533/2016, Campanile, Rv. 638637, pronunciando su questione risarcitoria da occupazione cd. appropriativa e dando continuità all'indirizzo di cui a Sez. 1, n. 25966/2009, Salvago, Rv. 610890, ha ribadito che qualora il tribunale abbia proceduto anche alla determinazione dell'indennità di occupazione temporanea legittima, pur non essendo competente in materia, la corte di appello, dinanzi alla quale la sentenza sia stata 106 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ impugnata anche per altre questioni, può, in quanto giudice funzionalmente competente a liquidarla in unico grado ex art. 20 della legge n. 865 del 1971, confermare la stima dell'indennità effettuata dalla decisione di primo grado, a fronte di espressa richiesta dell'espropriato. In generale, ancora sul profilo dell'individuazione del giudice competente, Sez. 1, n. 10723/2016, Sambito, Rv. 639810, riprendendo l'insegnamento di Sez. 1, n. 02619/2005, Giuliani, Rv. 579890 e decidendo su questione relativa alla decadenza dall'opposizione alla stima, ha a sua volta ribadito il principio secondo cui «stante la pluralità dei procedimenti ablatori previsti dall'ordinamento in relazione alle finalità da perseguire con l'esproprio, la disciplina applicabile in tema di determinazione dell'indennità, nonché l'individuazione del giudice competente a conoscere della corrispondente domanda del proprietario espropriato, è legata al modello procedimentale utilizzato, di volta in volta, dalla P.A., sicché la stessa va ricavata unicamente dalla normativa in concreto applicata (nella specie, l'art. 19 della legge n. 865 del 1971), senza che assuma rilevanza l'astratta assoggettabilità del rapporto espropriativo ad una diversa disciplina (nella specie, la legge n. 2359 del 1865)». Sulla sussistenza – anche nel vigore delle nuove norme degli artt. 42 e 54 d.P.R. n. 327 del 2001 – della speciale competenza della corte di appello per l'indennità aggiuntiva ex art. 17, comma 2, della l. n. 865 del 1971 in favore del fittavolo, mezzadro, colono o compartecipe costretti ad abbandonare il terreno espropriato, v. Sez. 6-1, n. 23767/2016, Scaldaferri, in corso di massimazione. Sui rapporti tra il giudizio di determinazione delle indennità e l'eventuale giudizio impugnatorio amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità è intervenuta, in sede di regolamento di competenza su declaratoria di sospensione del giudizio, Sez. 1, n. 11462/2016, Campanile, Rv. 639793, affermando – come già Sez. 1, n. 05272/2007, Macioce, Rv. 596032 – che la pronuncia sull'indennità di occupazione legittima presuppone la legittimità dell'occupazione d'urgenza, sicché l'impugnazione davanti al giudice amministrativo della dichiarazione di pubblica utilità, dal cui annullamento discenderebbe l'invalidazione degli atti conseguenti, tra i quali anche il decreto di occupazione d'urgenza, si traduce in una pregiudizialità di tale controversia su quella indennitaria, con conseguente sospensione di quest'ultima in attesa della definizione della prima. Sui rapporti tra espropriazione e usucapione, Sez. 1, n. 26327/2016, Campanile, in corso di massimazione, pronunciando 107 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ su una vicenda nella quale l'espropriato allegava di aver esercitato il possesso ultraventennale sul bene ablato, di cui chiedeva pertanto accertarsi l'intervenuta usucapione, ha ribadito (previa affermazione di insussistenza di atti di interversione del possesso da parte dell'espropriato-detentore) che tanto la proposizione di un giudizio di opposizione alla stima, quanto la domanda di retrocessione del bene già espropriato costituiscono atti comportanti il riconoscimento del diritto del proprietario del bene e quindi sono incompatibili con un possesso ad usucapionem (così già Sez. 1, n. 00954/1993, Vignale, Rv. 480459). Circa le "parti" del giudizio, Sez. 1, n. 04262/2016, Sambito, Rv. 638880, dalla considerazione dell'oggetto dei giudizi di opposizione alla stima delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea (circoscritto alle questioni relative all'ammontare di dette indennità e a quelle accessorie di pagamento degli interessi e dell'eventuale maggior danno per il ritardato adempimento, nei soli rapporti tra il soggetto espropriante e quello espropriato) ha tratto la conseguenza che nella fattispecie scrutinata (relativa a un'espropriazione promossa dal comune su istanza di un consorzio costituito per l'edificazione di un comparto edilizio, ai danni dei proprietari delle aree in esso comprese), i proprietari consorziati, pur dovendo sopportare il peso economico dell'intervento ablativo, non sono litisconsorti necessari. In particolare, sulla "legittimazione passiva" Sez. 1, n. 10530/2016, Sambito, Rv. 639843, conformemente a Sez. 1, n. 01242/2013, Salvago, Rv. 625350, ha ribadito che parte del rapporto espropriativo e obbligato al pagamento dell'indennità e, come tale, legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima proposto dall'espropriato, è il soggetto espropriante, ossia quello a cui favore è pronunciato il decreto di espropriazione, anche nell'ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell'opera pubblica, nella quale deve ugualmente aversi riguardo, a detti fini, esclusivamente al soggetto che nel provvedimento ablatorio risulta beneficiario dell'espropriazione, «salvo che dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante figure sostitutive di rilevanza esterna, siano stati conferiti il potere ed il compito di procedere all'acquisizione delle aree occorrenti e di promuovere e curare direttamente, agendo in nome proprio, le necessarie procedure espropriative, ed addossati i relativi oneri». In ordine al profilo delle "produzioni documentali", Sez. 1, n. 03817/2016, Giancola, Rv. 638837, ha affermato – in conformità a Sez. 1, n. 14080/2009, Salvago, Rv. 608984, e in coerenza con Sez. 108 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ U, n. 04241/2004, Vittoria, Rv. 570736 (sulla qualificazione del "decreto di espropriazione quale condizione dell'azione" per la determinazione dell'indennità) – che nel giudizio di opposizione alla stima la produzione del decreto di esproprio, che sia intervenuto dopo la definizione del procedimento d'appello o dopo la proposizione del ricorso per cassazione, può essere validamente effettuata nel giudizio di legittimità, non trovando ostacolo nell'art. 372 c.p.c. poiché il provvedimento ablatorio ha natura giuridica di condizione dell'azione, la cui sopravvenienza è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di legittimità, fino al termine della discussione orale. Analogamente, Sez. 1, n. 11261/2016, Sambito, Rv. 639789, ha affermato che «il principio per il quale la pronuncia del decreto di espropriazione costituisce una condizione dell'azione per la determinazione della corrispondente indennità – sicché il giudice non può esaminare il merito della causa senza che esso venga ad esistenza – resta valido anche con riferimento alla disciplina introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001, atteso che il menzionato decreto continua a costituire la fonte del credito indennitario: sia nel senso che non è possibile addivenire ad una statuizione definitiva sull'indennità in assenza del provvedimento ablatorio, sia nel senso che, emanato quest'ultimo, sorge ed è azionabile il diritto del proprietario a percepire l'indennizzo, da determinarsi con riferimento alla data del trasferimento coattivo». Sui criteri di imputazione delle spese per la nomina della terna di esperti ex art. 21 d.P.R. n. 327 del 2001 ai fini della determinazione dell'indennità provvisoria di esproprio non accettata v. Sez. 6-1, n. 17795/2016, Ragonesi, in corso di massimazione. 7. L'occupazione temporanea e d'urgenza. Sui caratteri del "decreto di occupazione", Sez. 1, n. 04850/2016, Lamorgese, Rv. 639102, in continuità con Sez. 1, n. 01387/1999, Reale, Rv. 523374, nel vagliare una fattispecie in cui il decreto di occupazione era stato notificato a un soggetto diverso dal proprietario del bene da espropriare a causa dell'erronea indicazione della particella nel decreto di occupazione, mentre la dichiarazione di pubblica utilità identificava esattamente il bene da espropriare, ha ribadito l'autonomia formale e sostanziale del decreto di occupazione rispetto a quello di espropriazione, «con la conseguenza che eventuali vizi inficianti la validità del primo non incidono sulla legittimità del secondo, che, ove intervenuto nei termini stabiliti dalla dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi validamente 109 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ emanato indipendentemente dalla scadenza del termine di occupazione legittima». Sui "termini di scadenza" delle occupazioni di urgenza si segnala Sez. 1, n. 05240/2016, Campanile, Rv. 639096, che, muovendo dall'insegnamento di Sez. U, n. 07068/1992, Rocchi, Rv. 477618, ha ritenuto la vigenza (ex artt. 27, comma 3, della legge n. 865 del 1971 e 28, comma 12, della legge 14 maggio 1981, n. 219, recante «Conversione in legge del decreto-legge 19 marzo 1981, n.75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti») del termine decennale nell'ipotesi di occupazione per la realizzazione del "piano per gli insediamenti produttivi", piano avente efficacia appunto decennale, attesa la complessità degli adempimenti che la sua realizzazione richiede e considerato che per gli insediamenti produttivi non è necessaria l'indicazione del termine per l'inizio ed il compimento dei lavori per le espropriazioni. A sua volta, sulle "proroghe dei termini di scadenza" delle occupazioni di urgenza stabilite da disposizioni di legge, Sez. 1, n. 11481/2016, Sambito, Rv. 639790, in continuità con Sez. 1, n. 03672/2014, Ceccherini, Rv. 629955, e Sez. 1, n. 10394/2012, Salvago, Rv. 623155, ha ribadito che dette proroghe si applicano, con effetto retroattivo, anche ai procedimenti espropriativi in corso alle scadenze previste dalle singole leggi e si intendono efficaci anche in assenza di atti dichiarativi delle amministrazioni precedenti, ciò in considerazione sia della lettera (nella specie, l'art. 22 della legge 20 maggio 1991, n. 158, recante «Differimento di termini previsti da disposizioni legislative», nonché l'art. 4 della legge 1 agosto 2002, n. 166, recante «Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti»), sia della ratio della legge, essendo diversamente inconcepibile il legittimo perdurare di un regime occupatorio temporaneo senza il corrispondente slittamento dei termini utili per l'emissione del decreto definitivo di esproprio. In argomento, Sez. 1, n. 19601/2016, Lamorgese, Rv. 641329, ha puntualizzato – conformemente a Sez. 1, n. 00556/2010, Giancola, Rv. 611130 – che «la proroga legale del termine dell'occupazione d'urgenza opera nonostante si sia già verificata l'irreversibile trasformazione dell'area occupata, sicché, fino a quando tale termine originario o prorogato non sia spirato, il proprietario null'altro può pretendere se non la corresponsione della relativa indennità ed è sempre possibile l'emanazione del decreto di espropriazione di un'area che continua ad appartenere all'originario proprietario». 110 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Infine, sull'"indennità di occupazione", Sez. 1, n. 05916/2016, Mercolino, Rv. 639054-639055, dando continuità all'insegnamento di Sez. U, n. 00408/2000, Criscuolo, Rv. 537275, e di Sez. U, n. 10165/2003, Vitrone, Rv. 564602, ha ribadito, in fattispecie relativa all'occupazione attuata a seguito del sisma del 1980, che «l'indennità di occupazione temporanea e di urgenza deve essere liquidata in misura corrispondente ad una percentuale di quella dovuta per l'espropriazione dell'area occupata e, pertanto, ben può corrispondere al saggio corrente degli interessi legali; la scelta di tale saggio non ha, peraltro, carattere obbligato, restando devoluta al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, ove ritenga di farvi ricorso in assenza di elementi comprovanti un pregiudizio maggiore, nemmeno è tenuto a motivare la propria decisione, trattandosi di criterio fondato sulle caratteristiche oggettive dell'immobile ed idoneo a fungere, in via presuntiva, da parametro pienamente reintegrativo del pregiudizio subito dal proprietario». Sullo specifico profilo della sussistenza del diritto del privato all'indennità da occupazione temporanea per ricerche archeologiche – profilo da tenersi affatto distinto rispetto a quello relativo all'incidenza del vincolo archeologico (d'indole conformativa) sulla determinazione dell'indennità espropriativa e della correlata occupazione d'urgenza preespropriativa – v. Sez. 1, n. 21733/2016, Giancola, in corso di massimazione. 8. Le espropriazioni illegittime. A) Occupazione sine titulo. Nel corso del 2016 sono intervenute numerose decisioni in tema di illegittima occupazione, per lo più concernenti il profilo dell'individuazione dei soggetti tenuti al risarcimento.Così, Sez. 1, n. 12260/2016, Sambito, Rv. 640055 e 640056, scrutinando una fattispecie di "concessione cd. traslativa" (che trova la sua fonte in norme di legge) e riprendendo l'insegnamento di Sez. U, n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788, e di Sez. 1, n. 22523/2011, Cristiano, Rv. 620396, ha ribadito che «la legittimazione appartiene esclusivamente al concessionario, il quale agisce come organo indiretto dell'Amministrazione concedente e la cui azione produce, nei confronti dei terzi, gli stessi effetti che determinerebbe l'azione diretta della P.A., alla quale il concessionario viene sostituito per effetto della concessione, restando, pertanto, obbligato al pagamento dell'indennità per l'occupazione d'urgenza dei suoli, nonché, atteso il carattere personale della responsabilità da illecito aquiliano, al risarcimento dei danni per il protrarsi sine titulo dell'occupazione stessa». La pronuncia si segnala altresì dal punto di 111 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ vista sistematico in quanto – richiamata la nota distinzione tra occupazione cd. acquisitiva (istituto di genesi pretoria: Sez. U, n. 01464/1983, Bile, Rv. 426292) e occupazione cd. usurpativa, caraterizzata dalla mancanza di dichiarazione di pubblica utilità e costituente un illecito permanente (Sez. 1, n. 01814/2000, Benini, Rv. 534012), distinzione venuta meno a seguito di Sez. U, n. 00735/2015, Di Amato, Rv. 634017 (su cui diffusamente la Rassegna 2015), che ha escluso in entrambi i casi l'acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica – ha affermato che «la domanda risarcitoria da occupazione cd. usurpativa può essere proposta oltre il termine di cui all'art. 183 c.p.c. in un giudizio originariamente instaurato per risarcimento del danno conseguente ad occupazione appropriativa, atteso che in entrambi i casi, a prescindere dalla presenza, o meno, della dichiarazione di pubblica utilità, inidonea a comportare l'acquisizione del bene occupato alla mano pubblica, la causa petendi giuridicamente significativa è rappresentata da un illecito, a carattere permanente, sanzionato dall'art. 2043 c.c.». Sul tema v. anche Sez. 1, n. 19195/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, su fattispecie di occupazione di un terreno per sconfinamento da aree legittimamente occupate per la realizzazione dell'opera di pubblica utilità (su tale specifica tematica si rinvia anche alla già citata Sez. U, n. 25044/2016, Manna, su cui retro, § 1), che ha ribadito il principio di cui a Sez. 1, n. 23266/2014, Lamorgese, Rv. 633126, nonché Sez. 1, n. 20231/2016, Campanile, in corso di massimazione. Ancora in tema di affidamento mediante concessione della realizzazione di opera pubblica con delega da parte dell'ente degli oneri della procedura ablatoria, Sez. 1, n. 03619/2016, Campanile, Rv. 638816, sulla scia della già citata n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788, ha puntualizzato che, in caso di occupazione appropriativa, l'ente che ha posto in essere le attività materiali di apprensione del bene e di esecuzione dell'opera pubblica, cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del bene stesso, risponde sempre dell'illecito, potendo solo residuare, qualora il medesimo (come delegato, concessionario od appaltatore) abbia solo curato la realizzazione dell'opera di pertinenza di altra amministrazione, la responsabilità concorrente di quest'ultima, da valutare sulla base della rilevanza causale delle singole condotte. Per l'ipotesi di collaborazione di più enti alla realizzazione di un'opera pubblica per la quale l'occupazione sia risultata ab initio illegittima, Sez. 1, n. 01870/2016, Lamorgese, Rv. 638382, conformemente alla già citata Sez. 1, n. 01814/2000, Benini, Rv. 112 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ 534012, ha affermato che «tutta l'attività svolta nel corso dell'occupazione, da chiunque esplicata, risulta illegittima, ove causalmente collegata al danno, nonché fonte di responsabilità per gli enti autori, i quali sono tenuti al risarcimento, ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c., avendo perseverato nell'occupazione del terreno e nella costruzione dei manufatti, pur essendo (o dovendo ritenersi) a conoscenza della illegittimità del loro comportamento, a prescindere dal fatto che l'opera eseguita rientri, o meno, nel patrimonio dell'autore della condotta illecita». In fattispecie di successione tra enti pubblici (successione a titolo particolare tra province a seguito di costituzione di una nuova) v. Sez. 1, n. 23639/2016, Sambito, in corso di massimazione. In generale, sulla latitudine degli effetti dell'occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 01270/2016, Lamorgese, Rv. 638429, pronunciando su fattispecie di occupazione acquisitiva coinvolgente non solo l'area di sedime, ma anche le aree circostanti non edificate, rappresentanti lo "spazio vitale" per l'opera pubblica, nonché quelle residuali non più suscettibili di utilizzazione autonoma e riprendendo principi fissati da Sez. U, n. 00394/1999, Criscuolo, Rv. 528585, ha affermato che gli effetti dell'occupazione acquisitiva possono determinarsi anche in presenza di un'opera la cui realizzazione prescinda, almeno in parte, da iniziative di tipo edificatorio, cioè rispetto alle parti di suolo che, pur non avendo subito un rilevante mutamento del loro aspetto materiale, rappresentino tuttavia una componente essenziale dell'opera pubblica, perché ritenuta dall'occupante indispensabile per il suo completamento e la sua funzionalità. Infine, Sez. 1, n. 05442/2016, Sambito, Rv. 639016, conformemente a Sez. 1, n. 15835/2010, Salvago, Rv. 613957, ha affermato che ove il danno da occupazione espropriativa, sia stato liquidato in primo grado con il criterio riduttivo ex art. 5 bis, comma 7 bis, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992, «l'impugnazione di tale capo della decisione ad opera soltanto delle parti ritenute responsabili dell'illecito e condannate al risarcimento, e non anche del privato danneggiato, produce un effetto preclusivo che, pur se non costituisce giudicato, impedisce comunque, in ossequio al divieto di riforma in peius in pregiudizio delle controparti, l'applicazione dei criteri più favorevoli di commisurazione del risarcimento conseguenti alla pronuncia della Corte costituzionale n. 349 del 2007». Sulla quantificazione del risarcimento da occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 19805/2016, Lamorgese, in corso di 113 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ massimazione, ha ribadito l'insegnamento (Sez. 1, n. 06009/2003, Salvago, Rv. 562178) secondo cui detto risarcimento non può soffrire alcuna limitazione in dipendenza dei vantaggi che derivano al fondo residuo dalla realizzazione dell'opera (cd. compensatio lucri cum damno), poiché il danno patito dal proprietario spossessato consegue direttamente e immediatamente al fatto illecito costituito dall'occupazione illegittima. Per altro verso, giova altresì richiamare il principio generale – ribadito da Sez. 1, n. 20234/2016, Campanile, in corso di massimazione – secondo cui il giudicato formatosi sulla qualificazione del terreno, quale antecedente logico-giuridico della statuizione sulla indennità di occupazione legittima, calcolata secondo il criterio degli interessi legali sul valore del suolo, preclude ogni diversa qualificazione e valutazione del terreno medesimo nel giudizio risarcitorio per occupazione appropriativa, costituendo l'accertamento in fatto del valore del bene il comune punto di partenza per la stima sia dell'indennità di occupazione sia del danno risarcibile. 8.1. (segue) B) Acquisizione cd. sanante. Sul tema (v. retro, § 1), Sez. U, n. 06017/2016, De Chiara, Rv. 638986, ha innanzi tutto chiarito la portata dell'istituto disciplinato dall'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 individuandone la ratio nel «consentire all'autorità occupante di acquisire l'immobile per attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico mediante uno speciale procedimento semplificato. Ne consegue che le "ragionevoli alternative", la cui assenza è richiesta dal comma 4 per l'adozione del provvedimento acquisitivo, sono le alternative all'acquisizione coattiva del bene, cioè la restituzione al proprietario o l'acquisizione consensuale, non già l'acquisizione mediante rinnovo della procedura espropriativa; fermo che l'eventuale abuso dell'istituto rileva ai sensi del comma 7, ove è prevista la comunicazione del provvedimento di acquisizione alla Corte dei conti». Nel solco delle Sezioni Unite testé richiamate, Sez. 1, n. 11258/2016, Lamorgese, Rv. 639787, anche raccordandosi alla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia (Cons. Stato, Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2), ha affermato che l'emanazione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante delle aree oggetto di occupazione illegittima determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento 114 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno. La pronuncia ora in esame – attenta, come quella delle Sezioni Unite, al profilo del possibile uso "strumentale" dell'istituto da parte della P.A. – ha fondato le affermazioni che precedono sulla considerazione che «il provvedimento ex art. 42 bis è volto a ripristinare (con effetto ex nunc) la legalità amministrativa violata – costituendo, pertanto, una extrema ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito –, sicché è necessario che venga adottato tempestivamente e, comunque, prima che si formi un giudicato anche solo sull'acquisizione del bene o sul risarcimento del danno, venendo altrimenti meno il potere attribuito dalla norma all'Amministrazione». 115 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE PARTE TERZA LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI CAPITOLO IX LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE (di Paolo Spaziani) SOMMARIO: 1. Le fonti dell'obbligazione. – 2. L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione. – 2.1. Buona fede oggettiva e diligenza. – 2.2. Obbligazioni pecuniarie. – 3. L'adempimento. – 3.1. Legittimazione ad adempiere. – 3.2. Legittimazione a ricevere e pagamento al legittimato apparente. – 3.3. Imputazione di pagamento. – 3.4. Quietanza. – 3.5. Offerta di adempimento e mora credendi. – 3.6. Tempo e luogo dell'adempimento. – 4. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. – 4.1. Novazione. – 4.2. Compensazione. – 5. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato attivo. Cessione del credito. – 6. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato passivo. – 6.1. Delegazione. – 6.2. Accollo. – 7. Le obbligazioni plurisoggettive. – 7.1. Obbligazioni solidali. – 7.2. Obbligazioni parziarie. – 8. L'inadempimento e la responsabilità contrattuale. – 8.1. L'inadempimento imputabile. – 8.2. La prova dell'inadempimento. – 8.3. Mora debendi. – 8.4. Reponsabilità per fatto degli ausiliari. – 8.5. Concorso di colpa del creditore. – 8.6. Dovere del creditore di evitare il danno. 1. Le fonti dell'obbligazione. Il panorama delle pronunce sulle fonti dell'obbligazione si è arricchito, nel 2016, di decisioni concernenti quelle contemplate dalla seconda parte dell'art. 1173 c.c. (cd. fonti atipiche), particolarmente con riguardo alle promesse unilaterali di cui all'art. 1988 c.c. Sez. L, n. 17713/2016, Esposito L., Rv. 640821, ha ribadito che in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato, spetta a chi si afferma comunque creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988 c.c., che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotetica ragione di debito, ulteriore rispetto a quella di cui abbia dimostrato l'insussistenza. Sempre in relazione ad entrambe le figure, Sez. 3, n. 11790/2016, Scrima, Rv. 640172 e Sez. 2, n. 13039/2016, Correnti, 116 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE Rv. 640174, hanno statuito che la rinuncia al vantaggio probatorio derivante dalla promessa o dalla ricognizione richiede un'inequivoca manifestazione di volontà abdicativa, non essendo sufficiente che la parte sollevata dall'onere di provare il rapporto fondamentale ne offra egualmente la prova. Con specifico riferimento alla ricognizione di debito, infine, per un verso, Sez. 1, n. 14533/2016, Nazzicone, Rv. 640496, ha affermato che la dichiarazione relativa all'importo dell'altrui debito, la quale non precisi il fatto giuridico dei pagamenti effettuati o da effettuare, non integra una confessione, ma un negozio unilaterale recettizio, da cui derivano a favore del debitore destinatario della dichiarazione effetti analoghi a quelli previsti dall'art. 1988 c.c.; per altro verso Sez. 1, n. 20689/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha statuito che la ricognizione di debito può offrire elementi di prova anche nei confronti di un soggetto diverso da quello dal quale proviene ove contenga un espresso riferimento al rapporto fondamentale, del quale il primo sia parte, nonché la menzione di fatti da cui possa evincersi, in concorso con altri elementi istruttori, la dimostrazione della pretesa azionata. 2. L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione. Sotto il profilo dell'oggetto dell'obbligazione (art. 1174 c.c.), nel 2016 sono stati affermati principi in ordine alla buona fede oggettiva e alla diligenza quali criteri fondamentali di determinazione della prestazione debitoria (artt. 1175 e 1176 c.c.), nonché in ordine alle obbligazioni pecuniarie (artt. 1277 e ss. c.c.). 2.1. Buona fede oggettiva e diligenza. Si è confermata in rilevanti pronunce la valenza generale della buona fede in senso oggettivo (o correttezza) e della diligenza quali criteri legali di determinazione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio. In materia di obbligazioni professionali, Sez. 3, n. 13007/2016, Barreca, Rv. 640402, ha statuito che il dottore commercialista incaricato di una consulenza ha l'obbligo - a norma dell'art. 1176, comma 2, c.c. - non solo di fornire tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e rientrino nell'ambito della sua competenza, ma anche di individuare le questioni che esulino dalla stessa, informando il cliente dei limiti della propria competenza e fornendogli gli elementi necessari per assumere le proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente. In base a tale principio è stata dunque affermata la responsabilità di un 117 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE commercialista, incaricato di fornire una consulenza tecnico- giuridica a seguito dell'esito infausto di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, per non aver informato il cliente della possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza sfavorevole e della necessità di rivolgersi ad un avvocato al fine di proporre tempestivamente l'impugnazione. In tema di rapporti contrattuali concernenti le utenze telefoniche, Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640534, ha affermato che i doveri di diligenza e buona fede nell'esecuzione del contratto impongono all'impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l'impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni. In tema di fideiussione per obbligazioni future, infine, se da un lato Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638550, ha ribadito che il socio fideiussore di una società a responsabilità limitata, il quale abbia esonerato l'istituto bancario creditore dall'osservanza dell'onere impostogli dall'art. 1956 c.c., non può invocare in funzione liberatoria la violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte del creditore per avere quest'ultimo concesso ulteriore credito alla società benché avvertito dallo stesso fideiussore della sopravvenuta inaffidabilità di quest'ultima a causa della condotta dell'amministratore, dall'altro lato Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640915, ha statuito che la persistente erogazione di finanziamenti da parte della banca creditrice a favore di una società, debitore principale, senza chiedere al garante (nella specie, né socio, né amministratore) la necessaria autorizzazione pur in presenza di un peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore garantito in ragione delle perdite notevolmente superiori al capitale sociale e di un saldo di conto corrente permanentemente in passivo, costituisce comportamento non improntato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, idoneo a determinare la liberazione del fideiussore dalle obbligazioni future. 2.2. Obbligazioni pecuniarie. Un primo ordine di pronunce, ribadendo la natura di debiti di valore delle obbligazioni di risarcimento del danno derivante da illecito aquiliano e da inadempimento contrattuale, non solo ha riaffermato per entrambi l'operatività del principio del cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi (rispettivamente Sez. 3, n. 22607/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione e Sez. 3, n. 13225/2016, 118 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE Olivieri, Rv. 640418), ma ha statuito, con riguardo alle prime, che nel caso di liquidazione in sede di merito degli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l'ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio (Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640256); e, con riguardo alle seconde, che qualora si provveda all'integrale rivalutazione del credito relativo al maggior danno fino alla data della liquidazione, secondo gli indici di deprezzamento della moneta, gli interessi legali sulla somma rivalutata dovranno essere calcolati dalla data della liquidazione, poiché altrimenti si produrrebbe l'effetto di far conseguire al creditore più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento dell'obbligazione (Sez. 2, n. 09039/2016, Falabella, Rv. 639930). Un secondo ordine di pronunce è tornato sulle conseguenze dell'inadempimento delle comuni obbligazioni pecuniarie di valuta, consistenti nella corresponsione degli interessi moratori (quale liquidazione forfetaria minima del danno per il ritardo nel pagamento: art. 1224, comma 1, c.c.), e, eventualmente, del maggior danno (suscettibile di risarcimento, in aggiunta a quello minimo liquidato con gli interessi moratori, ove provato: art. 1224, comma 2, c.c.), stigmatizzandone – nel solco del tradizionale orientamento inaugurato da Sez. U, n. 01712/1995, Sgroi, Rv. 490480 – la differenza rispetto ai debiti di valore, in relazione ai quali è invece dovuta la rivalutazione monetaria. In questa prospettiva la Suprema Corte, con Sez. 5, n. 11943/2016, Locatelli, Rv. 640142, pur movendo da una fattispecie concernente un'obbligazione tributaria, ha tuttavia affermato il principio generale secondo il quale nel caso di ritardato adempimento di un'obbligazione pecuniaria, il danno da svalutazione monetaria non è in re ipsa ma deve essere provato dal creditore, quantomeno deducendo e dimostrando che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato di durata annuale è stato superiore, nelle more, agli interessi legali. In tal modo la pronuncia in esame si è posta in linea di continuità con l'orientamento espresso da Sez. U, n. 19499/2008, Amatucci, Rv. 604419, la quale, con particolare riferimento al maggior danno, aveva statuito che esso è determinato in via presuntiva nell'eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento 119 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva del (o dall'attività svolta dal) creditore. Un terzo ordine di pronunce è infine tornato sul tema degli interessi e dell'anatocismo. In particolare, Sez. U, n. 12324/2016, D'Ascola, Rv. 639973, ha statuito che il ritardo nel pagamento della sanzione amministrativa determina per il primo semestre l'obbligo di corrispondere gli interessi legali secondo i principi generali sulla fecondità delle obbligazioni pecuniarie, a prescindere da un'esplicita enunciazione del provvedimento sanzionatorio, salva la maggiorazione per il ritardo ultrasemestrale, avente finalità sanzionatoria e coercitiva. Sez. 2, n. 18292/2016, Correnti, Rv. 641074, ha ribadito che in tema di obbligazioni pecuniarie, gli interessi, contrariamente a quanto avviene nell'ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono, sicché gli stessi - siano corrispettivi, compensativi o moratori - possono essere attribuiti, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., soltanto su espressa domanda della parte. Sez. 1, n. 03480/2016, Dogliotti, Rv. 638842, ha affermato che il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extralegali (art. 1284, comma 3, c.c.) non postula necessariamente che la corrispondente convenzione contenga una puntuale indicazione in cifre del tasso così stabilito, ben potendo essere soddisfatto attraverso il richiamo, per iscritto, a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione, anche unilaterale, del relativo saggio, la quale, pur nella previsione di variazioni nel tempo e lungo la durata del rapporto, risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità rimessa all'arbitrio del creditore, sulla base di una disciplina legata ad un parametro centralizzato, fissato su scala nazionale e vincolante, come il tasso unico di sconto o il tasso di cambio di una valuta. In tema di anatocismo, infine, da un lato, sotto il profilo processuale, è stato ribadito che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato esige che la parte richieda specificamente in giudizio la condanna al pagamento degli interessi prodotti da interessi già dovuti almeno per sei mesi (Sez. 6-1, n. 08156/2016, Acierno, Rv. 6396109); dall'altro lato, sotto il profilo sostanziale, è 120 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE stato riaffermato che nell'ipotesi in cui il correntista abbia esercitato l'azione di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici in relazione ad un contratto di apertura di credito bancario negoziato in data anteriore al 22 aprile 2000, il giudice, dichiarata la nullità della clausola per violazione del divieto di antocismo stabilito dall'art. 1283 c.c., deve calcolare gli interessi a debuito del correntista senza operare alcuna capitalizzazione (Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 6396109). 3. L'adempimento. La Suprema Corte è tornata più volte sui temi della legittimazione ad adempiere e a ricevere (artt. 1180 e 1188 c.c.), del pagamento al legittimato apparente (art. 1189 c.c.), dell'imputazione di pagamento (artt. 1193-1195 c.c.), della quietanza (art. 1199 c.c.) e della mora credendi (art. 1206 e ss. c.c.). Rilevanti pronunce, inoltre, si sono soffermate sul tempo (art. 1183 e ss. c.c.) e sul luogo (art. 1182 c.c.) dell'adempimento. 3.1. Legittimazione ad adempiere. La nozione di legittimazione ad adempiere (quale competenza ad eseguire la prestazione, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del debito, se il creditore non abbia un apprezzabile interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione: art. 1180 c.c.) costituisce il presupposto di due pronunce in tema di adempimento del terzo. Con una prima pronuncia, dalla premessa che il pagamento del terzo integra presuntivamente un atto a titolo gratuito, si è tratta la conseguenza che nel giudizio avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia di tale atto, ai sensi dell'art. 64 l.fall., incombe sul creditore beneficiario l'onere di provare, con ogni mezzo previsto dall'ordinamento, che il disponente abbia ricevuto un vantaggio in seguito all'atto che ha posto in essere, in quanto questo perseguiva un suo interesse economicamente apprezzabile (Sez. 1, n. 04454/2016, Di Virgilio, Rv. 639019). Con un seconda pronuncia, si è affermato che, in tema di revocatoria fallimentare, non costituisce pagamento del terzo ma adempimento diretto del debitore - e, come tale, revocabile nel concorso di tutti i necessari presupposti - il pagamento eseguito mediante l'invio, fatto da quest'ultimo al proprio creditore, di un assegno bancario tratto da un terzo, consegnato e trasferito al debitore poi dichiarato insolvente, il quale, divenutone proprietario, ha legittimamente esercitato i diritti incorporati nel titolo (Sez. 6-1, n. 13611/2016, Genovese, Rv. 640364). 121 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 3.2. Legittimazione a ricevere e pagamento al legittimato apparente. La nozione di legittimazione a ricevere (quale competenza ad accettare la prestazione con effetto liberatorio per il debitore, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del credito: art. 1188 c.c.) costituisce il presupposto di alcune decisioni in tema di pagamento al creditore apparente (art. 1189 c.c.). Un primo ordine di pronunce (Sez. 1, n. 03405/2016, Nappi, Rv. 638760 e Sez. 1, n. 14777/2016, Bisogni, Rv. 640809) ha affermato che la disciplina della responsabilità per il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario (contenuta nell'art. 43, comma 2, r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736) deroga alla regola generale di cui all'art. 1189 c.c., che dispone la liberazione del debitore di buona fede in favore del creditore apparente, sicché la banca non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi nuovamente al prenditore esattamente individuato l'importo dell'assegno, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione di quest'ultimo. Da un'altra decisione (Sez. 3, n. 14445/2016, Rubino, Rv. 640524) è stato ribadito il principio secondo cui il conduttore che, alla morte del locatore, continui in buona fede a versare i canoni nelle mani dell'erede legittimo e legittimario, che si trovi nel possesso dei beni ereditari, è liberato dalla propria obbligazione, senza che rilevi né che esista controversia tra i coeredi sull'attribuzione dell'eredità, né che alcuno degli eredi abbia fatto pervenire copia del testamento al conduttore, rimanendo a carico del creditore, legittimato a conseguire il pagamento, l'onere di dimostrare il colpevole affidamento del conduttore. Un'ultima sentenza (Sez. 3, n. 20010/2016, Sestini, in corso di massimazione) è tornata infine sull'azione di ripetizione di indebito ex art. 1189, comma 2, c.c., per statuire che il creditore che non sia stato ammesso al riparto in sede esecutiva e che abbia esperito vittoriosamente l'opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l'ordinanza di riparto, rimanendo tuttavia insoddisfatto del proprio credito, non può esercitare la predetta azione nei confronti dei creditori soddisfatti, non ricorrendo gli estremi del conflitto fra creditore apparente e vero creditore che costituisce il presupposto indefettibile per l'applicazione di tale norma. 3.3. Imputazione di pagamento. Si è posto il pronblema dei limiti dell'operatività del principio di cui all'art. 1194 c.c. - secondo cui ogni pagamento deve essere imputato prima agli interessi e poi al capitale salvo un diverso accordo con il creditore - 122 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE in relazione alla fattispecie del rapporto di conto corrente bancario. Al riguardo Sez. 1, n. 10941/2016, Di Virgilio, Rv. 639862, movendo dalla premessa che il richiamato principio postula che il credito sia liquido ed esigibile, non potendo altrimenti ritenersi produttivo di interessi ex art. 1282 c.c., ha statuito che esso è di norma inapplicabile al suddetto rapporto, nella cui struttura unitaria le operazioni di prelievo e versamento non integrano distinti ed autonomi rapporti di debito e credito reciproci tra banca e cliente, per i quali, nel corso dello svolgimento del rapporto, si possa configurare un credito della banca rispetto a cui il pagamento del cliente debba essere imputato agli interessi. Peraltro, il principio è utilizzabile se al conto acceda un'apertura di credito, ex art. 1842 c.c., ove il correntista abbia effettuato versamenti o su conto cd. scoperto, destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento, o su conto in passivo a cui non acceda l'apertura di credito. 3.4. Quietanza. Con riguardo alla quietanza si intrecciano questioni di carattere sostanziale legate alla sua natura di dichiarazione di scienza con questioni di carattere processuale e probatorio legate alla sua funzione di prova documentale precostituita con valore di confessione stragiudiziale. Sotto il primo profilo, il tradizionale principio secondo cui la quietanza a saldo, in quanto mera dichiarazione di scienza e non di volontà, non assume il significato negoziale della rinuncia o della transazione e non produce quindi efficacia dispositiva del diritto di credito, ha trovato una mitigazione, con riguardo al rapporto di lavoro, in Sez. L, n. 18321/2016, Spena, Rv. 641266, la quale, ha dato continuità all'orientamento secondo cui la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, contenente una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze, che sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Sotto il secondo profilo, ancora in materia di rapporto di lavoro, Sez. L, n. 13150/2016, Leo, Rv. 640406, ha affermato che le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula per 123 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE ricevuta, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non anche dell'effettivo pagamento, della cui dimostrazione è onerato il datore di lavoro, attesa l'assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore. Sempre sotto il profilo probatorio, in tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 21737/2016, Di Marzio M., ha statuito che spetta all'intermediario finanziario la prova di aver agito in assenza di colpa, ma spetta al cliente l'onere di provare il danno, nella specie consistente nella perdita di una somma di denaro consegnata ad un promotore finanziario e da questi indebitamente trattenuta senza essere investita. In questo contesto, nell'azione del cliente per ottenere il risarcimento del danno subìto intentata nei confronti dell'intermediario finanziario, quest'ultimo deve considerarsi terzo rispetto al promotore autore dell'illecito, con la conseguenza che la quietanza rilasciata dal promotore finanziario riguardante la ricezione del denaro da parte del cliente deve considerarsi per l'intermediario finanziario alla stregua di una scrittura privata proveniente da un terzo (priva dell'efficacia probatoria che ha fra le parti secondo l'art. 2702 c.c.), e possiede dunque un valore probatorio meramente indiziario, sicché può essere liberamente contestata da parte dell'intermediario finanziario. Sempre sotto il medesimo profilo, infine, Sez. 3, n. 12386/2016, Cirillo F.M., Rv. 640320, ha affermato che nel caso di affitto di fondo rustico da parte di una pluralità di affittanti, uno dei quali sia abilitato a ricevere il pagamento per conto di tutti, la quietanza totalmente liberatoria rilasciata dallo stesso al conduttore per un importo inferiore al canone pattuito fa presumere, a fronte della contestuale diminuzione dell'ampiezza del terreno affittato, per intervenuta alienazione di parte di esso a terzi, la riduzione del canone, avendo ciascuno degli affittanti, indipendentemente dalla natura solidale o meno della loro obbligazione, pari e disgiunti poteri gestori sulla cosa, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri. 3.5.Offerta di adempimento e mora credendi. La Suprema Corte si è pronunciata sull'offerta formale, la quale, a differenza dell'offerta non formale (che consente al debitore di evitare la mora: art. 1220 c.c.), permette, mediante l'osservanza delle forme stabilite dalle legge, di costituire in mora il creditore, accollandogli il rischio dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione non 124 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE imputabile al debitore, nonché l'obbligo di risarcire a quest'ultimo il danno derivante dal ritardo (art. 1206 e ss. c.c.). In proposito, con riguardo all'offerta reale di adempimento di obbligazioni pecuniarie (art. 1209 c.c.), Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639954, ha ribadito il principio secondo cui, quando il pagamento mediante offerta reale deve avvenire entro un determinato termine, è sufficiente che entro tale termine sia formulata l'offerta, non essendo necessario che entro il predetto termine intervengano anche gli adempimenti previsti dall'art. 1212 c.c. (in particolare, la notifica al creditore del giorno e dell'ora in cui la somma sarà depositata e, in caso di mancata comparizione di quest'ultimo, la notifica del processo verbale di deposito), atteso che le formalità relative al deposito sono solo eventuali e successive alla mancata accettazione dell'offerta reale, ben potendo perciò il debitore procedere alla suddetta offerta nell'ultimo giorno utile per effettuare il pagamento. Con riguardo all'offerta per intimazione di ricevere la consegna di un immobile (art. 1216 c.c.), Sez. 3, n. 00890/2016, Vincenti, Rv. 638651, ha statuito che nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciali, disciplinate dagli artt. 27 e 34 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (e, in regime transitorio, dagli artt. 68, 71 e 73 della stessa legge), il conduttore che, alla scadenza del contratto, rifiuti la restituzione dell'immobile in attesa che il locatore gli corrisponda la dovuta indennità di avviamento, è esonerato solo dal risarcimento del maggior danno ex art. 1591 c.c., restando comunque obbligato al pagamento del corrispettivo convenuto per la locazione, salvo che offra al locatore, con le modalità dell'offerta formale ex artt. 1216, comma 2, e 1209 c.c., la riconsegna del bene condizionandola al pagamento dell'indennità di avviamento medesima, atteso il forte legame strumentale che lega le due prestazioni. 3.6. Tempo e luogo dell'adempimento. Con riguardo al tempo in cui la prestazione deve essere eseguita (art. 1183 e ss. c.c.), la Suprema Corte, con Sez. L, n. 23093/2016, De Gregorio, in corso di massimazione, pronunciando in ordine alla particolare fattispecie del mancato pagamento da parte del lavoratore delle rate oggetto di una conciliazione, ha escluso che esso costituisse ex se condizione sufficiente per il verificarsi della decadenza di cui all'art. 1186 c.c., traendone il principio più generale secondo il quale, ai fini dell'operatività della decadenza dal beneficio del termine, l'interruzione dei pagamenti rateali non integra le condizioni 125 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE richieste dalla norma suddetta e non legittima pertanto il creditore ad esigere immediatamente l'intera prestazione, essendo altresì necessario che il debitore sia divenuto insolvente o che siano diminuite le garanzie date o che non siano state conferite quelle promesse. Con riguardo al luogo nel quale la prestazione deve essere eseguita (art. 1182 c.c.), la Suprema Corte, con Sez. U, n. 17989/2016, De Chiara, Rv. 640601, ha composto il contrasto interpretativo formatosi sui rapporti tra la disposizione di cui al comma 3 e quella di cui al comma 4 dell'art. 1182 c.c., e sul tema dei limiti del reciproco ambito di applicazione, in ordine al quale talune pronunce avevano ritenuto che l'obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore soltanto ove sia stato convenzionalmente predeterminato il quantum della somma da pagare (in tal senso, ad es., Sez. 6-3, n. 21000/2011, Vivaldi, Rv. 619404), mentre altre decisioni avevano affermato il diverso principio secondo cui il luogo dell'adempimento deve identificarsi nel domicilio del creditore in tutti i casi in cui questi abbia chiesto in giudizio il pagamento di una somma specifica da lui puntualmente indicata, sebbene l'entità dell'importo non sia stato predeterminato nel contratto (in tal senso, ad es., Sez. 6-3, n. 10837/2011, Lanzillo, Rv. 617804). Le Sezioni Unite hanno dunque chiarito che le obbligazioni portables sono - agli effetti sia della mora ex re sia del forum destinatae solutionis - soltanto quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o indichi criteri determinativi non discrezionali. 4. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. Si segnalano pronunce in relazione agli istituti della novazione (art. 1230 e ss. c.c.) e della compensazione (art. 1241 e ss. c.c.). 4.1. Novazione. La ribadita necessità, in funzione dell'efficacia estintiva della novazione oggettiva, della compresenza dei due requisiti dell'intento novativo (animus novandi) e della diversità, per oggetto o per titolo, della obbligazione sostitutiva (aliquid novi) costituisce la premessa della decisione emessa da Sez. L, n. 21366/2016, De Gregorio, Rv. 641433, la quale, confermando la sentenza di merito che aveva escluso la novazione in autonomo di un rapporto di lavoro subordinato, ha statuito che la sopravvenuta trasformazione di un rapporto di lavoro subordinato in un diverso rapporto di lavoro, con il conseguente svolgimento 126 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE della prestazione sulla base di un diverso titolo, deve essere provata dalla parte che deduce la trasformazione a seguito di uno specifico negozio novativo, il quale presuppone che risulti la chiara ed univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico del rapporto. Nella medesima prospettiva, sebbene con riguardo ad una fattispecie diversa, Sez. 1, n. 23064/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha affermato che l'efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall'accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che, al di fuori dell'ipotesi in cui sussista un'espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni. Sotto il profilo processuale, Sez. L, n. 23434/2016, Manna A., in corso di massimazione, ha infine ribadito che, a differenza della compensazione, la novazione non forma oggetto di eccezione in senso proprio, per modo che il giudice può rilevare d'ufficio il fatto corrispondente se ritualmente introdotto nel processo. 4.2. Compensazione. Numerose e rilevanti, anche nel 2016, sono state le pronunce in tema di compensazione. In primo luogo è stata ribadita - con Sez. 3, n. 12302/2016, Sestini, Rv. 640321 - la distinzione tra compensazione propria, che presuppone la reciproca autonomia dei due debiti che si estinguono per le quantità corrispondenti (art. 1241 c.c.) e che deve formare oggetto di eccezione di parte (art. 1242 c.c.), e compensazione impropria, fondata su una relazione di debito-credito che trae origine da un unico rapporto e di cui il giudice può tenere conto officiosamente. In proposito, Sez. 3, n. 10750/2016, Travaglino, Rv. 640120, ha altresì chiarito che la disciplina della compensazione ex art. 1241 c.c. è applicabile nelle ipotesi in cui le reciproche ragioni di credito, pur avendo il loro comune presupposto nel medesimo rapporto, siano fondate su titoli di diversa natura, l'una contrattuale e l'altra extracontrattuale. In secondo luogo, la Suprema Corte è tornata sui presupposti di operatività della compensazione, consistenti nella reciprocità, 127 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE omogeneità, certezza, liquidità (o facilità di liquidazione, nella compensazione giudiziale) ed esigibilità dei debiti (art. 1243 c.c.). Con particolare riguardo al requisito della certezza, da intendersi non solo in senso sostanziale (così da doversi escludere, ad es., con riguardo alle obbligazioni derivanti da contratti soggetti a condizione sospensiva) ma pure in senso processuale (così da doversi ritenere necessaria la non contestazione in giudizio del debito da opporre in compensazione), si era posta la questione se il giudice possa dichiarare la compensazione, ai sensi dell'art. 1243, comma 2, c.c. allorché l'esistenza del credito oggetto dell'eccezione sia controversa nello stesso o in altro giudizio. Su tale questione si era determinato un contrasto, in quanto al tradizionale orientamento secondo cui la compensazione, quale mezzo di estinzione ope legis delle reciproche obbligazioni, presuppone il definitivo accertamento delle medesime, non essendo applicabile a situazioni provvisorie (in tal senso già Sez. 3, n. 04074/1974, Bacconi, Rv. 372688; successivamente, tra le tante, Sez. 3, n. 08338/2011, De Stefano, Rv. 617667 e Sez. 3, n. 09668/2013, Campanile, Rv. 626309), si era contrapposto il diverso indirizzo secondo cui può essere opposto in compensazione anche il credito ancora sub iudice in un altro giudizio, salve le diverse modalità di coordinamento dei due procedimenti secondo che il diverso giudizio penda dinanzi allo stesso giudice e nel medesimo grado oppure penda presso un altro ufficio giudiziario o in grado di impugnazione (Sez. 3, n. 23573/2013, Frasca, Rv. 628728). Rimessa la questione alle Sezioni Unite, queste, componendo il contrasto e pronunciando ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., hanno affermato i seguenti principi: se l'esistenza del controcredito opposto in compensazione è controversa nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente (art. 35 c.p.c.), il giudice non può pronunciare la compensazione, né legale né giudiziale; se l'esistenza del controcredito è ancora sub judice in un separato procedimento, non può avere luogo la compensazione giudiziale, ex art. 1243, comma 2, c.c., la quale presuppone l'accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale è invocata e non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo, senza possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale o di invocare la sospensione contemplata in via generale dagli artt. 295 o 337, comma 2, c.p.c., attesa la prevalenza 128 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE della disciplina speciale di cui al citato art. 1243 c.c. (Sez. U, n. 23225/2016, Chiarini, in corso di massimazione). In terzo luogo, la Suprema Corte si è pronunciata sui limiti all'applicabilità dell'istituto con riguardo ai casi contemplati dall'art. 1246 c.c., nonché sulla speciale compensazione di cui all'art.56 l.fall. Sotto il primo profilo, con riguardo ai crediti del lavoratore, Sez. L, n. 21646/2016, Manna A., Rv. 641461, ha statuito che la compensazione del t.f.r. con crediti del datore di lavoro è legittima, posto che il divieto previsto dall'art. 1246, n. 3, c.c., in relazione ai crediti impignorabili, non opera con riguardo alla compensazione impropria, nella quale si inquadrano le reciproche ragioni di debito- credito derivanti dall'unico rapporto di lavoro. Sotto il secondo profilo, scostandosi da un precedente orientamento (per il quale cfr. Sez. 1, n. 10208/2007, Salvato, Rv. 597407), Sez. 1, n. 00512/2016, Nappi, Rv. 638260, sulla premessa che la compensazione tra i saldi attivi e passivi di più rapporti di conto corrente tra banca e cliente, prevista dall'art. 1853 c.c., presuppone solo che siano esigibili i contrapposti crediti, ha affermato che, in caso di giroconto da un rapporto con saldo attivo (come tale, immediatamente disponibile per il cliente, salvo patto contrario ex art. 1852 c.c.), ad uno ancora aperto ma con saldo passivo già esigibile per la banca, l'estinzione di tale debito non consegue ad un pagamento revocabile ai sensi dell'art. 67 l.fall. ma alla compensazione, ammessa dall'art. 56 l.fall., tra il credito della banca verso il cliente poi fallito ed il debito della stessa banca nei confronti di quest'ultimo. In quarto luogo, sotto il profilo processuale, la Suprema Corte, con Sez. 2, n. 23759/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha dato conto delle differenze tra eccezione di compensazione ed eccezione di inadempimento, con le conseguenti implicazioni in tema di distribuzione dell'onere probatorio. Secondo questa pronuncia, precisamente, l'eccezione di compensazione rileva quale fatto estintivo dell'obbligazione e presuppone che due persone siano obbligate l'una verso l'altra in forza di reciproci crediti e debiti, sicché grava sulla parte che la solleva l'onere della prova circa l'esistenza del proprio controcredito; l'eccezione di inadempimento, invece, funziona come fatto impeditivo dell'altrui pretesa di pagamento avanzata, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore eccipiente può limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento, gravando sul creditore agente 129 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE l'onere di provare il proprio adempimento ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. 5. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato attivo. Cessione del credito. Nel 2016 diverse pronunce hanno affrontato le problematiche connesse con le vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo, particolarmente in tema di cessione del credito. È stato riaffermato il principio generale della libera cedibilità dei crediti (art. 1260 c.c.), salvo che il credito abbia carettere strettamente personale o sussista un divieto legale o negoziale di cessione (artt. 1260, 1261 e 447 c.c.). In proposito, Sez. 2, n. 12631/2016, Lombardo, Rv. 640092, ha statuito che il diritto di credito nascente dalla cessione di cubatura attiene alla qualità fondiaria oggetto del rapporto obbligatorio e non alla persona dei suoi titolari, sicché, non avendo carattere strettamente personale, può essere trasferito senza il consenso del debitore a norma dell'art. 1260 c.c. Sotto altro profilo, ma sempre sulla premessa della libera cedibilità dei crediti, Sez. 5, n. 12552/2016, Cricenti, Rv. 640077, ha affermato che il divieto di cessione dei crediti d'imposta vigente in materia tributaria integra un'eccezione al suddetto principio, sicché è applicabile esclusivamente ove il trasferimento sia l'oggetto del negozio concluso e non allorché, come nell'ipotesi di cessione di azienda, ne integri un mero effetto. La Suprema Corte si è poi pronunciata sull'oggetto della cessione del credito ai sensi dell'art. 1263 c.c. Al riguardo, Sez. 1, n. 02978/2016, Scaldaferri, Rv. 638677, ha statuito che la previsione del comma 1 del predetto articolo, secondo cui il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli altri accessori, va intesa nel senso che nell'oggetto della cessione è ricompresa la somma delle utilità che il creditore può trarre dall'esercizio del diritto ceduto, ossia ogni situazione direttamente collegata con il diritto stesso, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione; in tale previsione rientrano, dunque, anche gli interessi scaduti dopo la cessione (e non, salvo patto contrario, quelli scaduti prima), alle condizioni e nella misura in cui, secondo la legge, essi erano dovuti al creditore cedente, sicché solo ove fossero stati concordati, per iscritto in base all'art. 1284, comma 3, c.c., in misura extralegale, in tale misura sono dovuti al cessionario anche per il periodo di mora 130 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE ex art. 1224, comma 1, c.c., mentre, in difetto di tale pattuizione tra le parti originarie del rapporto obbligatorio, gli stessi spettano al tasso legale. Sempre in relazione all'oggetto della cessione, Sez. 1, n. 07960/2016, Terrusi, Rv. 639315, ha affermato che la cessione di un credito fondiario vantato nei confronti di un imprenditore poi fallito, operata da un istituto di credito in favore di una società finanziaria appartenente al proprio gruppo, comporta l'automatico trasferimento alla cessionaria dei privilegi e delle garanzie esistenti in capo al cedente, ivi compresa l'esenzione dalla revocatoria fallimentare di cui all'art. 67, comma 3, l.fall., nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui al decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80. La Suprema Corte si è infine pronunciata sulla natura dell'accettazione della cessione da parte del debitore ceduto e sulle sue implicazioni, statuendo, con Sez. 3, n. 03184/2016, Esposito A.F., Rv. 638945, che essa non costituisce ricognizione tacita del debito, trattandosi di una dichiarazione di scienza priva di contenuto negoziale, sicché, il ceduto non viola il principio di buona fede nei confronti del cessionario, se non contesta il credito, pur se edotto della cessione, né il suo silenzio può costituire conferma di esso, perché, per assumere tale significato, occorre un'intesa tra le parti negoziali cui il ceduto è estraneo. 6. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato passivo. Riguardo alle vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato passivo si segnalano due decisioni che hanno interessato, rispettivamente, il tema della delegazione (art. 1268 c.c.) e quello dell'accollo (art. 1273 c.c.). 6.1. Delegazione. In un'ipotesi di vendita immobiliare con patto di riscatto in cui il prezzo di compravendita era stato in parte pagato dalla società acquirente mediante il ripianamento di precedenti debiti dei venditori verso terzi e verso l'amministratore della società, mentre per l'altra parte era stata prevista una rateizzazione del residuo prezzo da versare eventualmente a terze società in ipotesi di inadempimento di obbligazioni degli stessi venditori non ancora esigibili alla data della vendita, Sez. 2, n. 01075/2016, Matera, Rv. 638764, confermando la sentenza di merito che aveva escluso nella fattispecie la sussistenza di un patto commissorio, ha ricostruito la pattuita rateizzazione in termini di 131 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE delegazione di pagamento delle obbligazioni da parte del debitor debitoris, escludendone la natura di finanziamento diretto della società acquirente in favore dei venditori. 6.2. Accollo. La nozione di accollo (esterno) quale contratto a favore di terzo che determina una modificazione soggettiva dell'originaria obbligazione, facendo assumere all'accollante il debito verso il creditore, costituisce il presupposto implicito della decisione emessa da Sez. 6-3, n. 12173/2016, Rubino, Rv. 640316, la quale ha statuito che, nell'ipotesi di subentro dell'accollante nella posizione del mutuatario di un mutuo edilizio, l'accollante subentra nelle sole obbligazioni sostanziali del debitore originario, non anche nell'intera posizione, traendone il corollario per cui, in tale ipotesi, diversamente da quanto previsto in tema di mutuo fondiario, la notifica dell'atto di precetto va eseguita ex art. 480 c.p.c. nei confronti dell'accollante personalmente ex artt. 137 ss. c.p.c., ossia nel suo indirizzo di residenza ovvero nel domicilio eletto nell'atto di accollo, ma non nel domicilio suppletivo indicato dal mutuatario originario nel contratto di mutuo, giacché, l'elezione di domicilio compiuta da quest'ultimo non produce effetti nei confronti dell'accollante. 7. Le obbligazioni plurisoggettive. La Suprema Corte è tornata con diverse decisioni sul tema delle obbligazioni solidali (art. 1292 e ss. c.c.) e si è pronunciata anche sulle obbligazioni parziarie (art. 1314 c.c.). 7.1. Obbligazioni solidali. Con riguardo alle obbligazioni soggettivamente complesse ex latere debitoris, per le quali vige il principio della solidarietà passiva (art. 1294 c.c.), la Suprema Corte ha affrontato per due volte le problematiche processuali connesse con il fallimento di uno o più coobbligati. Al riguardo se, per un verso, Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638549, ha ribadito che l'autonomia delle azioni proponibili da un creditore verso più soggetti solidalmente obbligati nei suoi confronti, opera anche nel caso del fallimento di uno di essi (con la conseguenza che l'azione verso il fallito comporta il ricorso alla procedura speciale dell'insinuazione al passivo del credito e, quindi, l'improcedibilità della domanda proposta, mentre l'azione nei confronti del coobbligato in bonis può proseguire in sede ordinaria), per altro verso, Sez. 1, n. 14936/2016, Didone, Rv. 640741, ha affermato che il creditore di più coobbligati solidali può essere 132 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE ammesso al passivo del fallimento di uno dei condebitori pur essendo già insinuato al concorso nel fallimento di altro coobbligato per lo stesso credito. Sempre sotto il profilo processuale, mentre Sez. 2, n. 02854/2016, Falabella, Rv. 638857, ha confermato il consolidato principio secondo cui l'obbligazione solidale passiva si traduce in cause scindibili consentendo la delibazione dell'impugnazione proposta da (o contro) uno solo dei coobbligati, senza dover integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, Sez. L, n. 19186/2016, Venuti, Rv. 641199, ha statuito che l'esclusione del vincolo di solidarietà passiva costituisce un'eccezione in senso stretto, soggetta alle relative decadenze. Con riguardo alla transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido, Sez. 1, n. 23418/2016, Nazzicone, in corso di massimazione, ha dato continuità al principio secondo cui l'art. 1304, comma 1, c.c. si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata, giacché è la comunanza dell'oggetto della transazione stessa a far sì che possa avvalersene il condebitore solidale pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio per cui il contratto produce effetti soltanto tra le parti. La medesima pronuncia ha chiarito che se, invece, la transazione conclusa tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l'ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduceinmisura corrispondente all'importo pagato dal condebitore che ha transatto. Infine, Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, e Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158, si cono occupate delle implicazioni connesse con l'estensione, secundum eventum litis, degli effetti della sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali: la prima pronuncia ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi non impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c.; la seconda pronuncia ha statuito che il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale 133 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o da altro socio. 7.2. Obbligazioni parziarie. In tema di debiti ereditari, è stato ribadito il carattere carattere parziario dell'obbligazione dei coeredi: infatti, Sez. 6-2, n. 8487/2016, Scalisi, Rv. 639756, ha dato continuità al principio secondo cui in caso di successione mortis causa di una pluralità di eredi nel lato passivo del rapporto obbligatorio, il debito del de cuius si fraziona pro quota tra gli aventi causa, sicché il rapporto che ne deriva non è unico e inscindibile e, in caso di giudizio instaurato per il pagamento del debito ereditario, non sussiste, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause, litisconsorzio necessario tra gli eredi del defunto, né in primo grado, né nella fase di gravame. 8. L'inadempimento e la responsabilità contrattuale. Alcune pronunce sono tornate sui presupposti della responsabilità contrattuale, esplorando i classici temi dell'inadempimento imputabile, della ripartizione dell'onere della prova in caso di esercizio dell'azione di risarcimento del danno e degli altri rimedi contrattuali (art. 1218 c.c.), della mora debendi (art. 1219 e ss. c.c.) e della responsabilità per il fatti degli ausiliari (art. 1228 c.c.). Altre pronunce sono invece tornate sulle conseguenze della responsabilità contrattuale e, precisamente, sulle regole di determinazione del danno risarcibile contenute nell'art. 1227, comma 1, c.c. (concorso di colpa del creditore) e nell'art. 1227, comma 2, c.c. (dovere del creditore di evitare il danno). 8.1. L'inadempimento imputabile. In conformità con il principio che l'imputabilità dell'inadempimento esige la colpa del debitore e che l'impedimento liberatorio, ex art. 1218 c.c., è quello non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza, Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640533, ha ritenuto che la mancata attivazione del servizio telefonico da parte di un'impresa esercente servizi di telefonia (nella specie, a seguito di distacco dal vecchio gestore nell'ambito di procedura di migrazione unilaterale) integri inadempimento contrattuale, senza che rilevi, quale factum principis liberatorio, la sopravvenuta delibera interdittiva dell'AGCOM a non procedere con tali modalità al rientro dei clienti in precedenza abbonati presso altri gestori ove tale provvedimento autoritativo sia stato colposamente provocato dall'impresa e fosse ragionevolmente prevedibile secondo la comune diligenza. 134 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 8.2. La prova dell'inadempimento. Anche nel 2016 si è data continuità, facendosene applicazione in fattispecie peculiari e complesse, all'ormai consolidato orientamento (prevalso a seguito del contrasto composto da Sez. U, n. 13533/2001, Preden, Rv. 549956, e consolidatosi nella giurisprudenza successiva), secondo cui, in tema di prova dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) di una obbligazione, il creditore che azioni rimedi contrattuali (azione di adempimento, di risoluzione del contratto, di risarcimento del danno) deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'esatto adempimento. Precisamente, Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio M., Rv. 641164, ha statuito che la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) - ferma l'applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti - rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell'art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c. Con riguardo ad altra fattispecie ma in applicazione del medesimo principio generale, Sez. 1, n. 00810/2016, Nazzicone, Rv. 638346, ha affermato che in tema di intermediazione finanziaria, il riparto dell'onere probatorio nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall'investitore - in cui deve accertarsi se l'intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e dalla normativa secondaria - impone innanzitutto all'investitore stesso di allegare l'inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell'intermediario, nonché di fornire la prova 135 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE del danno e del nesso di causalità fra questo e l'inadempimento, anche sulla base di presunzioni, mentre l'intermediario deve provare l'avvenuto esatto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico. 8.3. Mora debendi. In ordine ai presupposti della mora del debitore, Sez. 3, n. 06545/2016, Ambrosio, Rv. 639519, ha chiarito che il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato, è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale in quanto, ai sensi dell'art. 1219, comma 2, c.c., il titolare dell'obbligazione risarcitoria da fatto illecito è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dello stesso, mentre, se l'obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l'atto idoneo a porre in mora il debitore ai sensi dell'art. 1219, comma 1, c.c. (mora ex persona). Con riguardo all'atto di costituzione in mora, Sez. 3, n. 06549/2016, Olivieri, Rv. 639338, ha affermato che esso non richiede l'uso di formule solenni, né l'osservanza di particolari adempimenti, sicché l'invio di una fattura commerciale - sebbene, di per sé, insufficiente ai fini ed agli effetti di cui all'art. 1219, comma 1, c.c. - può risultare idoneo a tale scopo allorché l'emissione del documento di natura fiscale sia intervenuta in relazione all'esecuzione di un contratto che preveda pagamenti ripetuti a scadenze predeterminate e purché lo stesso risulti corredato dall'indicazione di un termine per il pagamento e dall'avviso che, se lo stesso non interverrà prima della scadenza, il debitore dovrà ritenersi costituito in mora. 8.4. Responsabilità per fatto degli ausiliari. Con riguardo alla responsabilità del debitore per i fatti dolosi o colposi posti in essere dai terzi della cui opera si avvale nell'adempimento dell'obbligazione (art. 1228 c.c.) assume particolare rilevanza l'ordinanza interlocutoria (Sez. 3, n. 03361/2016, Rossetti) con cui, in una fattispecie di trasporto aereo di cose affidate ad una società di handling aeroportuale - ponendosi in discussione il consolidato orientamento che individua nell'attività dell'handler una prestazione distinta e autonoma da quella che forma oggetto del contratto di trasporto concluso tra mittente e vettore (in quanto svolta in esecuzione del diverso contratto di deposito a favore di terzo stipulato tra vettore e handler (cfr., ad es., Sez. 3, n. 18074/2003, Di 136 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE Nanni, Rv. 568488 e Sez. 3, n.14593/2007, Fico, Rv. 597993) -, è stata rimessa all'eventuale decisione delle Sezioni Unite la soluzione della questione di massima di particolare importanza se nel trasporto aereo di merci, la prestazione svolta dall'impresa esercente il cosiddetto servizio di handling aeroportuale (alla quale siano consegnate - dal mittente o dal suo spedizioniere - le cose destinate ad essere caricate sull'aeromobile) abbia carattere accessorio rispetto al contratto di trasporto o sia svolta in esecuzione di un autonomo e distinto contratto, con conseguente possibilità, in ipotesi di perdita delle cose prima della consegna al vettore, di qualificare o meno l'handler quale ausiliario del vettore e con conseguente applicabilità o meno, nei suoi confronti, della disciplina sulla responsabilità prevista dalle convenzioni internazionali sul trasporto aereo. 8.5. Concorso di colpa del creditore. In dottrina, il fondamento della regola contenuta nell'art. 1227, comma 1, c.c. è stato rinvenuto talora nel principio di autoresponsabilità, talaltra in quello di stretta causalità. Prevalsa questa seconda tesi, il dato normativo esige comunque che il fatto posto in essere dal creditore danneggiato dall'inadempimento sia connotato da colpa, da intendersi quale requisito legale della rilevanza causale del fatto medesimo. Tenuto conto di ciò, in tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 09892/2016, Valitutti, Rv. 639655, ha statuito che, qualora l'intermediario abbia dato corso all'acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, e quest'ultimo non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore, non è configurabile un concorso di colpa del medesimo cliente nella produzione del danno, neppure per non essersi lo stesso informato della rischiosità dei titoli acquistati. Nella medesima prospettiva, in tema di contratto di fornitura di energia elettrica, Sez. 3, n. 12148/2016, Vincenti, Rv. 640290, ha affermato che, in caso di danni subiti da coltivazioni in serra per congelamento, a seguito di una non preavvisata interruzione dell'erogazione del servizio e del conseguente venir meno del riscaldamento, la mancata tempestiva chiusura manuale delle finestre di areazione della serra non integra una causa da sola efficiente a determinare l'evento dannoso attesa l'assenza, in capo al danneggiato, di un obbligo legale o contrattuale (neppure in relazione alla clausola di buona fede) per l'adozione di misure idonee a neutralizzare il disservizio, restando, inoltre, tale contegno 137 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE omissivo privo di rilievo causale ai fini dell'art. 1227, comma 1, c.c., posto che nella causazione del danno presenta carattere assorbente il mancato adempimento, da parte del soggetto erogatore del servizio, dell'obbligo contrattuale di dare comunicazione agli utenti della programmata interruzione dell'energia elettrica. 8.6. Dovere del creditore di evitare il danno. La netta distinzione operata dal codice civile tra la regola di cui all'art. 1227, comma 1, c.c. (che dà rilievo alla partecipazione del creditore alla produzione del danno attraverso un comportamento obiettivamente colposo) e la regola di cui al comma 2 dello stesso articolo (che invece sanziona l'inerzia del creditore il quale non si attivi per evitare, limitare od attenuare il danno che ha causa esclusiva nell'inadempimento del debitore) ha trovato riscontro nella nota tesi dottrinale, condivisa anche di recente dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., ad es., Sez. 2, n. 26639/2013, Nuzzo, Rv. 628544), secondo cui l'obbligo di cooperare per limitare le conseguenze dannose dell'inadempimento trova fondamento nel generale dovere di buona fede in senso oggettivo o correttezza, inteso come canone di salvaguardia dell'interesse della controparte nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio personale o economico. In conformità con tali premesse dogmatiche, Sez. L, n. 04865/2016, Tria, Rv. 639114, in tema di risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, ha affermato che l'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, ex art. 1227, comma 2, c.c., riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici, sicché non sono imputabili al lavoratore le conseguenze dannose derivanti dal tempo da questi impiegato per la tutela giurisdizionale, tutte le volte che le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la la tutela dei propri diritti e la riduzione del danno. 138 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE CAPITOLO X IL CONTRATTO IN GENERALE (di Francesco Cortesi e Paola D'Ovidio)∗ SOMMARIO: 1. Contratto atipico – 2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione – 3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale – 4. Condizioni generali e clausole vessatorie – 5. Oggetto – 6. Causa – 7. Forma – 8. Preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre – 9. Condizione 10. Interpretazione e qualificazione del contratto – 11. Esecuzione secondo buona fede. – 12. Clausola penale e caparra – 13. Rappresentanza e ratifica – 14. Contratto a favore di terzi – 15. Simulazione – 16. Nullità del contratto – 17. Annullabilità del contratto – 18. Risoluzione del contratto. 1. Contratto atipico. In tema di contratti atipici, nel corso dell'anno 2016 la Suprema Corte ha avuto occasione di approfondire alcuni aspetti del contratto di vitalizio improprio o assistenziale, in particolare evidenziando il rilievo che l'aleatorietà assume in tale rapporto e le differenze dal contratto di donazione. In proposito, Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639694 e Rv. 639695, ha ribadito la configurabilità, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., di un contratto atipico di "vitalizio alimentare", individuandone le differenze dal contratto nominato di rendita vitalizia, di cui all'art. 1872 c.c., nel carattere più marcato dell'alea che lo riguarda, inerente non solo la durata del rapporto, connessa alla vita del beneficiario, ma anche l'obbiettiva entità delle prestazioni (di fare e di dare) dedotte nel negozio, suscettibili di modificarsi nel tempo in ragione di fattori molteplici e non predeterminabili (quali le condizioni di salute del beneficiario), nonchè nella natura accentuatamente spirituale di tali prestazioni, eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle sue peculiari qualità personali. La medesima pronuncia, proprio sul presupposto che l'alea del contratto atipico di vitalizio alimentare comprende anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante, ha conseguentemente osservato che il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene, mediante la conclusione di un successivo contratto cd. di mantenimento, quale compenso della maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza materiale e morale da prestare, è privo di causa, giacché tale ulteriore attribuzione patrimoniale elimina il rischio che è invece connaturale al precedente contratto: in siffatta ∗ Paola D'Ovidio ha redatto i par. da 1 a 9 e Francesco Cortesi quelli da 10 a 18. 139 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE ipotesi, dunque, la causa di scambio, non essendo giustificata da un diverso corrispettivo, dissimula quella di liberalità. Sulla stessa scia si pone anche Sez. 2, n. 15904/2016, Manna F., Rv. 640569, la quale, esaminando il differente caso in cui vi sia un'originaria macroscopica sproporzione del valore del cespite rispetto al minor valore delle prestazioni, ha affermato che tale situazione fa presumere lo spirito di liberalità tipico della donazione, eventualmente gravata da modus: a tale conclusione la sentenza è pervenuta osservando che l'elemento che differenzia il contratto atipico di vitalizio assistenziale dalla donazione è proprio l'aleatorietà, essendo il primo caratterizzato dall'incertezza obiettiva iniziale circa la durata di vita del beneficiario e il conseguente rapporto tra valore complessivo delle prestazioni. Di particolare interesse, per la frequente ricorrenza della fattispecie, è inoltre la decisione di Sez. 1, n. 10710/2016, Bisogni, Rv. 639852 relativa all'ipotesi di emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia, nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento: un tale assegno, si legge nella sentenza, è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall'art. 1343 c.c., sicché, non viola il principio dell'autonomia contrattuale sancito dall'art. 1322 c.c. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all'art. 1988 c.c. 2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione. Sulla operatività della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. meritano di essere segnalate due pronunce, tra loro discordanti, relative agli effetti della spedizione di una lettera raccomandata. Ad avviso di Sez. L, n. 12822/2016, Berrino, Rv. 640371, la presunzione di conoscenza di un atto, del quale sia contestato il pervenimento a destinazione, non è integrata dalla sola prova della spedizione della raccomandata, essendo necessaria, attraverso 140 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE l'avviso di ricevimento o l'attestazione di compiuta giacenza, la dimostrazione del perfezionamento del procedimento notificatorio. Di segno opposto, ma in linea di continuità con altre più risalenti decisioni, è il principio affermato da Sez. 1, n. 17204/2016, Di Marzio M., Rv 641040, secondo il quale la lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell'atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c. dello stesso; sulla base di tale presupposto, la decisione citata ha ritenuto gravare sul destinatario l'onere di dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità di acquisire la conoscenza dell'atto. Con riferimento al momento di conclusione del contratto, nel caso in cui si abbia un documento sottoscritto da una sola parte e si verta in una ipotesi di contratto per il quale la legge richiede la forma scritta ad substantiam, Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio M., Rv. 639062, ha affermato che la produzione in giudizio della scrittura da parte del contraente che non l'ha sottoscritta realizza un equivalente della sottoscrizione, precisando però che il conseguente perfezionamento del contratto avviene con effetti ex nunc e non ex tunc, essendo necessaria la formalizzazione delle dichiarazioni di volontà che lo creano; da siffatta individuazione del momento di conclusione del contratto, la sentenza in discorso ha tratto l'importante conseguenza che tale meccanismo non opera se l'altra parte abbia medio tempore revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l'atto incompleto non sia più in vita nel momento della produzione, determinando la morte, di regola, l'estinzione automatica della proposta (art. 1329 c.c.), non più impegnativa per gli eredi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il contratto quadro di investimento mobiliare formalmente non sottoscritto dalla banca si era perfezionato solo dal momento della produzione nel giudizio intrapreso dall'investitore nei confronti dell'intermediario, con conseguente inefficacia del pregresso ordine di acquisto del cliente). Ancora in tema di contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam (nella specie, preliminare di vendita immobiliare), Sez. 2, n. 07543/2016, Correnti, Rv. 639491 e Rv. 639492, ha opportunamente precisato che l'operatività del principio secondo cui il perfezionarsi del negozio può avvenire anche in base ad un documento firmato da una sola parte, ove risulti una successiva adesione, anche implicita, del contraente non firmatario, contenuta 141 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE in atto scritto diretto alla controparte, presuppone che quest'ultimo documento abbia tutti i requisiti necessari ad integrare una volontà contrattuale, ivi compresa l'individuazione o quantomeno l'individuabilità del destinatario della dichiarazione, e che, inoltre, tale volontà non sia stata revocata dal proponente prima che lo stesso abbia avuto notizia, anche in forma verbale o per facta concludentia, purché in modo idoneo a giungere a conoscenza dell'altra parte, dell' accettazione della controparte. A tale riguardo la sentenza chiarisce infatti che l'art. 1328, comma 1, c.c., il quale prevede che la proposta contrattuale può essere revocata finché il contratto non sia concluso, va inteso in correlazione con la diversa disciplina dettata per la revoca dell'accettazione dal comma 2, nonché tenendo conto del carattere recettizio di entrambi gli atti; ne deriva che la revoca si perfeziona quando sia spedita all'indirizzo dell'accettante prima che l'accettazione sia giunta a conoscenza del proponente, mentre resta irrilevante che l'accettante ne abbia notizia in un momento successivo a quello in cui l'accettazione sia giunta a conoscenza del preponente, posto che in tale evenienza l'affidamento dell'accettante resta tutelato dalla previsione di un indennizzo a carico del proponente per le spese e le eventuali perdite subite per l'iniziata esecuzione del contratto. Quanto all'ipotesi di conclusione del contratto mediante esecuzione, Sez. 1, n. 11392/2016, Di Marzio M., Rv. 639820, ha sottolineato che la disciplina di cui all'art. 1327 c.c., secondo la quale il contratto, nelle tassative ipotesi indicate dal comma 1 della norma (richiesta del proponente, natura dell'affare ed usi commerciali), può intendersi concluso nel tempo e nel luogo dell'iniziata esecuzione senza la preventiva accettazione della proposta, presuppone una prestazione che palesi l'insorgenza del vincolo contrattuale; sulla base di tale premessa, la Corte ha coerentemente ritenuto che la mancata riscossione degli interessi dovuti sui debiti maturati non può configurarsi come esecuzione prima della risposta dell'accettante tale da determinare la conclusione di un contratto avente ad oggetto la rinuncia agli interessi stessi, trattandosi di una condotta meramente passiva. Nella peculiare ipotesi di esercizio del diritto di prelazione agraria, le modalità di conclusione del contratto sono affrontate in una interessante pronuncia di Sez. 3, n. 12883/2016, Sestini, Rv. 640281, che ha ricondotto la fattispecie allo schema normativo di cui agli artt. 1326 e 1329 c.c., escludendo pertanto la revocabilità della denuntiatio durante il termine di trenta giorni previsto per 142 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE l'accettazione della proposta; tale ricostruzione è basata dalla duplice considerazione che, da un lato, la trasmissione del preliminare ha tutti i connotati della proposta contrattuale e, dall'altro, la possibilità di revoca mal si concilierebbe con la natura della stessa denuntiatio, la quale è un atto unilaterale, di adempimento di obbligo legale, destinato a rendere attuale l'altrui diritto soggettivo. Il profilo attinente alla conclusione del contratto è stato esaminato anche con riferimento ad un'altra particolare ipotesi, qual è quella dell'offerta pubblica di strumenti finanziari di cui agli artt. 94 e 95 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. In tali casi, come chiarito da Sez. 1, n. 03625/2016, Nazzicone, Rv. 638799, l'investitore stipula con l'offerente un contratto consensuale ad effetti reali che si perfeziona attraverso un procedimento a formazione progressiva di cui la volontà del proponente, manifestata attraverso il prospetto informativo approvato dalla Consob ed immodificabile in ragione della sua rilevanza pubblicistica, costituisce il primo atto e l'adesione dell'investitore, espressa in forma adeguata, integra l'accettazione. Sulla base di tale inquadramento, la citata pronuncia osserva che il promotore finanziario - il quale, in ragione della sua collocazione nell'organizzazione dell'impresa dell'intermediario, non ha il potere di rappresentanza di quest'ultimo - non partecipa alla determinazione del contenuto negoziale e, pertanto, non è in grado, di propria iniziativa, di introdurre clausole che determinino una deviazione dalla disciplina del modello invariabile predisposto nel prospetto informativo, sicchè, ove prometta rendimenti più vantaggiosi rispetto a quelli indicati nel prospetto pubblicato, il terzo contraente non può invocare i principi dell'apparenza del diritto e, in particolare, la propria condizione di buona fede, per farne discenderne conseguenze a sé favorevoli, vincolando ad essi l'offerente, vertendo egli in una condizione di colpa inescusabile. Con riferimento infine ai contratti stipulati dalla P.A., il panorama delle pronunce di legittimità si è arricchito di decisioni concernenti il modo di atteggiarsi del requisito della forma scritta, l'efficacia del verbale di aggiudicazione e il valore del collaudo nei contratti di appalto di opera pubblica. Quanto al primo profilo, Sez. 3, n. 12540/2016, Tatangelo, Rv. 640379, dopo aver ricordato che i contratti conclusi dalla P.A. richiedono la forma scritta ad substantiam e devono essere consacrati in un unico documento, ha sottolineato che ciò esclude il loro perfezionamento attraverso lo scambio di proposta ed accettazione tra assenti (salva l'ipotesi eccezionale prevista ex lege di contratti 143 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE conclusi con ditte commerciali), mentre tale requisito di forma deve ritenersi soddisfatto nel caso di cd. elaborazione comune del testo contrattuale, e cioè mediante la sottoscrizione - sebbene non contemporanea, ma avvenuta in tempi e luoghi diversi - di un unico documento contrattuale il cui contenuto sia stato concordato dalle parti. Riguardo al verbale di aggiudicazione definitiva formato a seguito di incanto pubblico o licitazione privata, al quale l'art. 16, comma 4, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, attribuisce efficacia equivalente a quella del contratto, Sez. U, n. 15204/2016, Ambrosio, Rv. 640609, ha affermato che la citata norma non ha carattere imperativo, per cui la P.A. può discrezionalmente prevedere, nel bando di gara o nel verbale suddetto, di rinviare ad un momento successivo l'instaurazione del vincolo negoziale. Sulla base di tale presupposto, la Corte ha quindi ritenuto che, qualora il bando di una gara pubblica per la ricerca di un complesso immobiliare ne preveda, altresì, l'acquisto attraverso una locazione finanziaria erogata da soggetto da individuarsi con un'ulteriore apposita gara pubblica, l'aggiudicazione in favore del fornitore dell'immobile non produce gli effetti della conclusione di un accordo negoziale, sicché le controversie afferenti la procedura di selezione del concedente della locazione finanziaria spettano alla cognizione del giudice amministrativo perchè relative ad una fase antecedente all'esaurimento della procedura amministrativa. In relazione al contratto di appalto di opera pubblica, Sez. 1, n. 02307/2016, Sambito, Rv. 638477, ha avuto modo di precisare che un tale contratto può ritenersi ultimato solo a seguito del collaudo, il quale rappresenta l'unico atto attraverso il quale la P.A. può verificare se l'obbligazione dell'appaltatore sia stata regolarmente eseguita ed è indispensabile ai fini dell'accettazione dell'opera da parte della stazione appaltante, mentre resta estraneo, e non rileva, il momento della consegna, come disciplinato, in generale, dagli artt. 1665 e 1667 c.c. (In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata perchè aveva valorizzato, quale prova del completamento di un contratto di appalto di opera pubblica, la mancanza di specifiche eccezioni della P.A. circa la sua regolare esecuzione, così evocando una sorta di accettazione tacita, e l'emissione della fattura, benchè il collaudo non fosse stato effettuato). 3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale. Una importante precisazione in tema di 144 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE integrazione del contratto in virtù di norme sopravvenute alla sua conclusione è offerta da Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 641048, con specifico riguardo alle norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell'usura (introdotte con l'art. 4 della l. 7 marzo 1996, n. 108): tali disposizioni, chiarisce la sentenza citata, pur non essendo retroattive, comportano l'inefficacia ex nunc delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, e ciò sulla base del semplice rilievo, operabile anche d'ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito. Il tema della responsabilità precontrattuale è affrontato in termini di assoluta novità da Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485, la quale è giunta a sovvertire l'orientamento, assolutamente maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza, che fino a tale pronuncia aveva ricondotto la responsabilità per culpa in contraendo nell'alveo della responsabilità extracontrattuale, configurandola quale estrinsecazione del più generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c. La vicenda esaminata dalla Corte concerneva un contratto di appalto stipulato con la P.A., in relazione al quale non era però intervenuta l'approvazione ministeriale ai sensi dell'art. 19 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440: la S.C., premesso che il perfezionamento del vincolo contrattuale doveva ritenersi subordinato a detta approvazione ministeriale, non essendo all'uopo sufficiente né la mera aggiudicazione né la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica, affermava che in tale situazione l'eventuale responsabilità della P.A. poteva essere configurata solo come responsabilità precontrattuale. In ordine poi alla riconducibilità di tale tipo di responsabilità nell'ambito dell'illecito o del contratto, la sentenza, all'esito di una attenta analisi storica e giurisprudenziale, rileva che elemento qualificante della culpa in contraendo, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede, la quale, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti; da tale rilievo ne trae la conclusione che tale responsabilità, "in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fede, protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non nel generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale". Una responsabilità, specifica la Corte, da contatto sociale "qualificato", ossia connotato da uno scopo che le parti intendono perseguire, nonchè tale da 145 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE instaurare un rapporto caratterizzato da obblighi preesistenti alla lesione, ancorchè non si tratti di obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì di obblighi di protezione correlati all'obbligo di buona fede giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c. Tale sentenza, come evidenziato nella motivazione della stessa, sviluppa e porta a compimento principi già espressi dalla Corte di cassazione non solo con riferimento ad altre fattispecie, ma anche nella specifica questione della configurabilità della responsabilità precontrattuale come responsabilità da contatto sociale qualificato. Ulteriori interessanti problematiche esaminate nel corso del 2016 nell'ambito della responsabilità contrattuale hanno riguardato il caso in cui alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, nonché l'ipotesi di una configurabilità di tale responsabilità anche nel caso in cui alle trattative abbia fatto seguito la valida conclusione del contratto. In particolare, Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639457, ha affermato che, ove alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, la parte non inadempiente può agire nei confronti di quella inadempiente facendone valere esclusivamente la responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale e non anche, in via alternativa, la responsabilità precontrattuale da supposta malafede durante le trattative, giacché queste ultime, cristallizzate con la stipula del preliminare, perdono ogni autonoma rilevanza, convergendo nella nuova struttura contrattuale che rappresenta la sola fonte di responsabilità risarcitoria. A sua volta Sez. 1, n. 05762/2016, Lamorgese, Rv. 639093, ha tuttavia precisato che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., assume rilievo in caso non solo di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche di contratto validamente concluso quando, all'esito di un accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, alla parte sia imputabile l'omissione, nel corso delle trattative, di informazioni rilevanti le quali avrebbero altrimenti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso. 4. Condizioni generali e clausole vessatorie. In materia di condizioni generali di contratto, Sez. 2, n. 07403/2016, Criscuolo, 146 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Rv. 639511, ha avuto modo di chiarire che, qualora le parti contraenti richiamino, ai fini dell'integrazione del rapporto negoziale, uno schema contrattuale predisposto da una di loro in altra sede (nella specie, un disciplinare-tipo adottato dalla Regione con decreto assessoriale) non è configurabile un'ipotesi di contratto concluso mediante moduli o formulari, assumendo la disciplina richiamata (nella specie, una clausola compromissoria, peraltro integralmente riprodotta dai contraenti) per il tramite di relatio perfecta il valore di clausola concordata, sicché resta sottratta all'esigenza dell'approvazione specifica per iscritto di cui all'art. 1341 c.c. Con riferimento contratto di assicurazione della responsabilità civile, Sez. U, n. 09140/2016, Amendola A., Rv. 639703 si è occupata della clausola che subordina l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola claims made mista o impura): la sentenza citata ha escluso la vessatorietà di siffatta clausola, precisando però che, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero - ove applicabile la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata. 5. Oggetto. La produzione giurisprudenziale del 2016, con riferimento all'oggetto contrattuale, fornisce importanti chiarimenti in relazione a specifiche tipologie negoziali, segnatamente con riferimento al contratto di lavoro a progetto, al contratto di lavoro pubblico, al preliminare di vendita di immobile ed al contratto di appalto. Riguardo al contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003, Sez. L, n. 17636/2016, Balestrieri, Rv. 640817, osserva che tale negozio prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di 147 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE subordinazione; conseguentemente, tale sentenza esclude che il progetto concordato possa consistere nella mera riproposizione dell'oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l'ordinaria attività aziendale. Sez. 6-L, n. 16094/2016, Marotta, Rv. 640722, si è invece occupata del lavoratore pubblico, precisando che quest'ultimo ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; la decisione ha quindi chiarito che "mansione ulteriore" è quella che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di appello, che aveva escluso il diritto a compenso per straordinario di alcuni dipendenti di ente locale, inquadrati nel profilo di operatore dei servizi socio-educativi, cat. B, del c.c.n.l. 31 marzo 1999, ritenendo che le attività di pulizia rientrassero nel loro mansionario). In relazione ad un preliminare di vendita di immobile, Sez. 2, n. 11237/2016, Orilia, Rv. 640046, ha ritenuto che il requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto non postula la specificazione dei dati catastali, trattandosi di indicazione rilevante ai fini della trascrizione, ma non indispensabile per la sicura identificazione del bene, evincibile anche da altri dati. Una ipotesi di nullità per illiceità dell'oggetto, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., è stata individuata da Sez. 1, n. 07961/2016, Sambito, Rv. 639609, nel contratto di appalto per la costruzione di un'opera senza la concessione edilizia, con la conseguenza che un simile contratto non è suscettibile di convalida, stante il disposto di cui all'art. 1423 c.c., né la sua nullità è sanabile retroattivamente in virtù di condono edilizio, onde l'appaltatore non può pretendere, in forza di quel contratto, il corrispettivo pattuito. 6. Causa. In tema di causa del contratto, con riferimento alle ipotesi di collegamento negoziale, alcune utili puntualizzazioni si possono leggere nella pronuncia di Sez. L, n. 18585/2016, Boghetich, Rv. 641188, laddove precisa che il collegamento negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è 148 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo negozio ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, ancorché ciascuno sia finalizzato ad un'unica regolamentazione dei reciproci interessi, sicché il vincolo di reciproca dipendenza non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuridica, spettando i relativi accertamenti sulla natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale al giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici. 7. Forma. Con riguardo al requisito della forma scritta ad substantiam nei contratti, Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio M., Rv. 639060, ha ritenuto la sussistenza di tale requisito anche se le sottoscrizioni delle parti siano contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile tra questi ultimi, così da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo. Sez. 1, n. 03480/2016, Dogliotti, Rv. 638842 si è invece pronunciata sul requisito della forma scritta prevista dall'art. 1284, ultimo comma, c.c. per la determinazione degli interessi extralegali, precisando che tale disposizione non postula necessariamente una puntuale indicazione in cifre del tasso stabilito, ben potendo tale requisito essere soddisfatto attraverso il richiamo, per iscritto, a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione, anche unilaterale, del relativo saggio, la quale risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità rimessa all'arbitrio del creditore, sulla base di una disciplina legata ad un parametro centralizzato, fissato su scala nazionale e vincolante, come il tasso unico di sconto o il tasso di cambio di una valuta. Con riferimento invece alla compravendita di un bene immobile, Sez. 2, n. 07055/2016, Matera, Rv. 639659, ha avuto occasione di affermare che non può ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l'effetto traslativo, sicché è irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia 149 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato. Si segnalano inoltre alcune pronunce sul requisito della forma scritta nei contratti di intermediazione finanziaria. In primo luogo Sez. 1, n. 00612/2016, Scaldaferri, Rv. 638276, ha valutato la portata dell'art. 60 del regolamento CONSOB n. 11522/98, che impone alla banca intermediaria di registrare su nastro magnetico, o altro supporto equivalente, gli ordini inerenti alle negoziazioni in valori mobiliari impartiti telefonicamente dal cliente: tale registrazione, afferma la citata sentenza, costituisce uno strumento atto a garantire agli intermediari, mediante l'oggettivo ed immediato riscontro della volontà manifestata dal cliente, l'esonero da ogni responsabilità quanto all'operazione da compiere, ma non impone, in assenza di specifica previsione, un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, restando inapplicabile la preclusione di cui all'art. 2725 c.c. Inoltre, Sez. 1, n. 03950/2016, Lamorgese, Rv. 638817, ha chiarito che, l'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, laddove impone la forma scritta, a pena di nullità, per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce ai contratti quadro, e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è, invece, soggetta a requisiti formali, salvo che lo stesso contratto quadro li preveda anche per quelli; in quest'ultimo caso, infatti, il principio di cui all'art. 1352 c.c., secondo cui la forma convenuta dalle parti per la futura stipulazione di un contratto si presume pattuita ad substantiam, è estensibile, giusta il richiamo operato dall'art. 1324 c.c., agli atti che seguono a quella stipulazione, come nell'ipotesi degli ordini suddetti. Conclude la rassegna delle più rilevanti decisioni afferenti la forma del contratto di intermediazione finanziaria la pronuncia di Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486, la quale ha ritenuto che, nel contratto di intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall'investitore non soddisfa l'obbligo della forma scritta ad substantiam imposto, a pena di nullità, dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 e, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall'investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto a mezzo dei quali è stato data esecuzione al contratto viziato. 150 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Con riferimento alla forma dei contratti stipulati dalle ASL, di particolare interesse è la decisione di Sez. 3, n. 24640/2016, Vivaldi, in corso di massimazione, la quale ha precisato che la natura di ente pubblico economico acquisita dall'Azienda sanitaria ai sensi dell'art. 3, comma 1 bis del d.lgs. n. 502 del 1992, pur consentendo alla stessa di operare mediante il ricorso a strumenti di diritto privato per il raggiungimento delle finalità istituzionali alle quali è preposta, non esclude la sua soggezione alle disposizioni del d.lgs n. 163 del 2006, sia in tema di scelta del contraente che di forma del contratto, in considerazione della sua qualità di "organismo di diritto pubblico" e "amministrazione aggiudicatrice". Infine, meritano attenzione due pronunce che hanno escluso la necessità della forma scritta, rispettivamente, per il contratto di appalto e per l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c. in tema di liberazione del fideiussore. In particolare, si ricorda Sez. 1, n. 16530/2016, Di Marzio M., Rv. 641027, secondo la quale la stipulazione del contratto d'appalto non richiede la forma scritta ad substantiam, né ad probationem, potendo lo stesso essere concluso anche per facta concludentia; da tale premessa, la pronuncia ha tratto la conseguenza che, ove venga contestata l'effettiva esecuzione delle prestazioni per il cui corrispettivo la parte committente, che se ne assuma creditrice, chieda l'ammissione al passivo del fallimento dell'appaltatore, ben possono assumere rilevanza la prova testimoniale e il verbale "informale" di ricognizione delle opere incompiute dal fallito, se non specificamente contestato dalla curatela, neppure quanto alla sua opponibilità per carenza di data certa. Altra ipotesi peculiare è stata esaminata da Sez. 1, n. 04112/2016, Terrusi, Rv. 638860, in tema di liberazione del fideiussione, pervenendo ad escludere che l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c. richieda la forma scritta ad substantiam, non essendo tale autorizzazione configurabile come accordo a latere del contratto bancario cui la garanzia accede; conseguentemente, prosegue la sentenza, la stessa può essere ritenuta implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti, laddove emerga perfetta conoscenza, da parte sua, della situazione patrimoniale del debitore garantito. (Nella specie, la S.C. ha confermato le decisione impugnata, che aveva considerato irrilevante la mancata richiesta della suddetta autorizzazione da parte della banca, atteso che la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi comune a debitore e 151 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE fideiusssore, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale tra essi esistente e dello stato di loro convivenza). 8. Preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre. In tema di contratto preliminare, Sez. 1, n. 07584/2016, Nappi, Rv. 639308, ha puntualizzato che la consegna dell'immobile, effettuata prima della stipula del definitivo, non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti, né comunque di quello di prescrizione, presupponendo l'onere della tempestiva denuncia l'avvenuto trasferimento del diritto, sicché il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene, risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l'adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell'art. 2932 c.c., e contemporaneamente agire con l'azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione. L'esperibililità dell'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti degli eredi del promittente venditore, deceduto prima della stipula del definitivo, è stata invece esclusa da Sez. 2, n. 15906/2016, Picaroni, Rv 640575, nel peculiare caso di un contratto preliminare avente ad oggetto la vendita della nuda proprietà, in quanto per gli eredi medesimi risulta venuta meno l'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto. Inoltre, Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639960, ha esaminato l'ipotesi di un contratto preliminare avente ad oggetto un bene da acquistarsi in comunione, ritenendo che a fronte di un tale accordo si deve presumere, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato un unicum inscindibile; da tale premessa, la citata decisione ha tratto l'importante conseguenza secondo la quale la scelta del curatore del fallimento del promissario coacquirente di scioglimento dal rapporto ex art. 72 l.fall. determina la caducazione complessiva del vincolo contrattuale e preclude al promittente venditore la possibilità di esercitare l'azione di esecuzione in forma specifica nei confronti degli altri. Con riguardo alla prestazione dovuta dal promissario acquirente che, a norma dell'art 2932 c.c., chieda l'esecuzione specifica di un contratto preliminare di vendita, Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639953, ha evidenziato che tale parte contrattuale è tenuta ad eseguire la prestazione a suo carico o a farne offerta nei modi di legge se la prestazione medesima sia già esigibile al momento della domanda giudiziale, mentre non è tenuta a pagare il prezzo quando, in virtù delle obbligazioni nascenti dal 152 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE preliminare, il pagamento dello stesso (o della parte residua) risulti dovuto all'atto della stipulazione del contratto definitivo: in quest'ultima evenienza, prosegue la citata sentenza, solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica sorge l'obbligazione, e l'eventuale successivo mancato saldo del prezzo, al quale è subordinato l'effetto traslativo della proprietà, rende applicabile l'istituto della risoluzione per inadempimento ma non la condizione risolutiva ex art. 1353 c.c. Infine, Sez. 1, n. 09994/2016, Di Virgilio, Rv. 639800, ha evidenziato che, nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di immobili futuri, la forma scritta è necessaria solo per la stipulazione del contratto ad effetti obbligatori e non anche per l'individuazione del bene, la cui proprietà è trasferita non appena lo stesso viene ad esistenza. (In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la decisione impugnata, che, con riguardo ad un contratto di permuta di cosa futura, aveva trasferito agli acquirenti beni diversi da quelli scelti nel progetto originario, sebbene con caratteristiche ad essi analoghe). 9. Condizione. Con riferimento al contratto di agenzia, di particolare interesse è la qualificazione, offerta da Sez. L, n. 17770/2016, Spena, Rv. 640999, della clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà: la pronuncia citata precisa che una siffatta clausola non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell'obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non- concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c. 10. Interpretazione e qualificazione del contratto. Al tema dell'interpretazione del contratto sono anzitutto dedicate alcune pronunzie relative alle regole che governano l'applicazione dei criteri ermeneutici. Fra queste si segnala Sez. 3, n. 14432/2016, Vincenti, Rv. 640528, ove si afferma che tali criteri, pur in presenza un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente 153 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, non riconoscono una preminenza assoluta al dato testuale del contratto, che può non essere in sé decisivo ai fini della ricostruzione dell'accordo, poiché il significato delle dichiarazioni negoziali è comunque l'esito di un processo interpretativo che deve considerare tutti gli elementi, testuali ed extratestuali indicati dal legislatore. Una significativa applicazione di tale impostazione è rinvenibile in Sez. 3, n. 00668/2016, Rossetti, Rv. 638509, in materia di assicurazione, ove si afferma che il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato senza prima ricorrere agli altri criteri ermeneutici previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., e, in particolare, a quello dell'interpretazione contro il predisponente, di cui all'art. 1370 c.c. Ed ancora - e sempre con riferimento al medesimo tipo contrattuale - Sez. 3, n. 03275/2016, Tatangelo, Rv. 638886, ha ritenuto che una polizza stipulata da un ente a copertura della responsabilità civile per danni dei quali lo stipulante non può rispondere per legge impone al giudice del merito di utilizzare i fondamentali canoni ermeneutici tenendo conto, nel dubbio, del criterio sussidiario di cui all'art. 1367 c.c. (cd. interpretazione utile). Con riferimento al criterio di interpretazione secondo buona fede, di sicuro interesse è l'applicazione che se ne rinviene in Sez. 1, n. 17291/2016, Genovese, Rv. 640946, in tema di banca da un rapporto di apertura di credito in cui non sia stato recesso della superato il limite dell'affidamento concesso, benché pattiziamente previsto anche in difetto di giusta causa; tale recesso, infatti, deve considerarsi illegittimo in applicazione del richiamato criterio ermeneutico ove in concreto abbia assunto connotati imprevisti ed arbitrari, così contrastando con la ragionevole aspettativa di chi abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto. Di particolare pregio, infine, è Sez. 3, n. 23701/2016, Scarano, in corso di massimazione, secondo fra i criteri legali di interpretazione soggettiva quello cd. di interpretazione funzionale del contratto di cui all'art. 1369 c.c. consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica (o "causa concreta") dell'affare. 11. Esecuzione secondo buona fede. L'applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto ha ispirato due pronunzie di rilievo in tema di fideiussione. 154 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640915, ha ritenuto contrario a tale principio il comportamento del creditore che, in presenza di una fideiussione per obbligazioni future, eroghi in modo persistente finanziamenti al debitore principale senza chiedere al garante la necessaria autorizzazione, pur in presenza di un peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore garantito. Sez. 1, n. 02902/2016, Didone, Rv. 638550, ha invece ritenuto inapplicabile il principio al socio che abbia prestato fideiussione per ogni obbligazione futura di una società a responsabilità limitata, esonerando l'istituto bancario creditore dall'osservanza dell'onere impostogli dall'art. 1956 c.c., e chieda poi di ottenere la propria liberazione dolendosi del fatto che quest'ultimo abbia concesso ulteriore credito alla società benché da lui stesso avvertito della sopravvenuta inaffidabilità di quest'ultima; in tale situazione, infatti, per un verso non è ipotizzabile alcun obbligo del creditore di informarsi a sua volta e di rendere edotto il fideiussore, già pienamente informato, delle peggiorate condizioni economiche del debitore e, per altro verso, la qualità di socio del fideiussore consente a quest'ultimo di attivarsi per impedire che continui la negativa gestione della società o per non aggravare ulteriormente i rischi assunti. D'interesse è anche Sez. 3, n. 11914/2016, Armano, Rv. 640534, in tema di contratti conclusi dal consumatore, che ha fondato sul dovere di eseguire il contratto secondo buona fede l'obbligo dell'impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l'impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni. 12. Clausola penale e caparra. Un profilo conseguente alla relazione di strumentalità fra clausola penale e danno da inadempimento contrattuale - per il caso in cui ne sia previsto il risarcimento - è quello che secondo Sez. 1, n. 12956/2016, Di Virgilio, Rv. 640130, conduce a qualificare la prima come liquidazione anticipata del danno, destinanata a rimanere assorbita nella liquidazione complessiva dei danni ulteriori, la cui prova compete alla parte non inadempiente. In relazione alla caparra confirmatoria, invece, nel ribadirne la funzione di liquidazione convenzionale del danno da inadempimento in favore della parte che intenda esercitare il potere di recesso conferitole ex lege, Sez. 2, n. 08417/2016, Orilia, Rv. 155 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE 639546, ha affermato che quest'ultima è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata, ma se preferisce agire per la risoluzione o l'esecuzione del contratto essa deve dare prova del danno nell'an e nel quantum. 13. Rappresentanza e ratifica. In tema di rappresentanza, degna di particolare rilievo è Sez. 1, n. 04113/2016, Terrusi, Rv. 638864, che affronta il tema della cd. rappresentanza tollerata; secondo la Corte tale fattispecie, caratterizzata dal fatto che il rappresentato, pur consapevole dell'attività del falso rappresentante, non interviene per farne cessare l'ingerenza, configura un'ipotesi di rappresentanza apparente, donde l'efficacia degli atti compiuti dal rappresentante nei confronti del rappresentato che ha dato causa alla situazione di apparente legittimazione in cui il terzo ha confidato senza colpa. Circa gli effetti del contratto concluso dal rappresentante dopo la revoca della procura, Sez. L, n. 04099/2016, Patti, Rv. 639206, ha precisato che in tal caso il rappresentato non diviene terzo rispetto al contratto stipulato e non può quindi riversare sulle altre parti l'onere di provare che il contratto si è perfezionato nella data indicata e prima della suddetta revoca, essendo invece tenuto a fornire la prova della non veridicità della data apposta rimanendo - in difetto - vincolato dalla predetta indicazione. In punto alla forma della procura, e sullo specifico aspetto del conferimento di procura all'amministratore condominiale in regime anteriore all'entrata in vigore della legge 11 dicembre 2012, n. 220, Sez. 2, n. 02242/2016, Migliucci, Rv. 638829, ha precisato che - fatta salva la prescrizione di forme particolari per il contratto da concludere - questa può essere verbale o tacita e può risultare, indipendentemente dalla formale investitura assembleare e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 c.c., dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi a lui abitualmente in detta veste e senza metterne in discussione i poteri di rappresentanza. Infine, e con riferimento allo specifico tema del falsus procurator, va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 10600/2016, Cosentino, Rv. 639951, che - richiamando un orientamento ormai risalente - ha affermato che l'azione per la declaratoria di inefficacia del contratto nei confronti del preteso rappresentato non è soggetta alla prescrizione quinquennale prevista dall'art. 1442 c.c., che colpisce solo l'azione di annullamento, ed è invece imprescrittibile. 156 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Su un peculiare profilo di efficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri si segnala poi Sez. 2, n. 04945/2016, Giusti, Rv. 639599, secondo cui l'acquisto di un bene da quest'ultimo determina il possesso - e non la mera detenzione qualificata - poiché il negozio, sebbene inefficace, è comunque volto a trasferire la proprietà del bene. Esso è pertanto idoneo a far ritenere sussistente, in capo all'accipiens, l'animus rem sibi habendi ai fini dell'usucapione ordinaria, ma non anche per l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., che è possibile solo se l'inidoneità del titolo derivi dall'avere alienante disposto di un immobile altrui e non anche dalla sua invalidità od inefficacia. Da ultimo, affronta il tema della ratifica Sez. 1, n. 02403/2016, Acierno, Rv. 638587, rilevando che essa sana sempre con efficacia retroattiva il difetto di potere rappresentativo del falsus procurator e che tale regime giuridico, in mancanza di clausole o condizioni che ne conformino diversamente l'efficacia, non è modificabile in via interpretativa. 14. Contratto a favore di terzi. Il meccanismo del contratto a favore di terzi è richiamato da Sez. 2, n. 09320/2016, Scarpa, Rv. 639919, per il caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca conferisca un incarico (nella specie: a notaio) di effettuare le visure del bene oggetto di ipoteca e redigere la relativa relazione; l'incaricato, infatti, assume in tal caso un obbligo nei confronti non solo del mutuatario, ma anche della banca mutuante quale terzo ex art. 1411 c.c. Allo stesso schema Sez. L, n. 04920/2016, Manna A., Rv. 639116, ha poi ricondotto il cd. rendimento di polizza, liquidato al dipendente all'atto della cessazione del rapporto di lavoro in virtù del contratto di assicurazione stipulato ex art. 4 del r.d.l. 8 gennaio 1942, n. 5, rilevando la diversità del relativo credito da quello vantato a titolo di TFR, e quindi la non estensibilità dell'eventuale giudicato formatosi su quest'ultimo. 15. Simulazione. Diverse pronunzie hanno riguardato il tema della simulazione, affrontandone, in particolare, i risvolti sul piano processuale. In merito all'opponibilità della simulazione ai terzi, Sez. 2, n. 16080/2016, Scarpa, Rv. 640680, ha ribadito che ad integrare il requisito della mala fede per opporre la simulazione al terzo acquirente non è sufficiente la relativa consapevolezza da parte del 157 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE terzo, occorrendo anche che costui abbia proceduto all'acquisto per effetto della stessa, accordandosi con il titolare apparente al fine di favorire il simulato alienante e consolidare, rispetto agli altri terzi, lo scopo pratico perseguito con la simulazione, ovvero abbia voluto personalmente profittare di questa in danno del simulato alienante. Circa la prova della simulazione, due pronunzie hanno affrontato lo specifico tema dell'ammissibilità della prova per testi. La prima, Sez. 1, n. 11467/2016, Lamorgese, Rv. 639842, ha stabilito che il principio di prova scritta che la consente ex art. 2724, n. 1, c.c. dev'essere diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono sovvertire e deve contenere un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento; esso non può dunque desumersi dallo stesso atto impugnato per simulazione, non ricorrendo alcun riferimento o collegamento logico, in contrasto con il documento, tra il negozio asseritamente simulato e quello sottostante. La seconda - Sez. 1. n. 13857/2016, Lamorgese, Rv. 640447 - ha invece precisato che le limitazioni alla prova testimoniale nei rapporti tra le parti contraenti non si estendono all'interrogatorio formale, non essendo prevista per la confessione una disposizione il cui contenuto corrisponda all'art. 1417, comma 2, c.c. ed attraverso il cui espletamento può essere utilmente acquisita sia la prova piena della simulazione, in caso di confessione piena e completa, sia un principio di prova, se le risposte sono tali da rendere verosimile la simulazione, sì da rendere ammissibile la prova testimoniale, a norma dell'art. 2724, comma, 1, n. 1, c.c.. In tema di prescrizione dell'azione di simulazione, infine, si segnala anzitutto Sez. 2, n. 09401/2016, Scalisi, Rv. 639923, che ha ribadito l'imprescrittibilità ai sensi dell'art. 1422 c.c. dell'azione di simulazione, sia assoluta che relativa, in quanto diretta ad accertare la nullità del negozio apparente perché, in ogni caso, privo di causa. Tale principio deve ritenersi applicabile anche all'ipotesi di interposizione fittizia di persona, quando la relativa domanda sia diretta ad identificare il vero contraente celato dall'interposto e non a far riconoscere gli elementi costitutivi di un diverso negozio, poiché si tratta di azione con carattere dichiarativo. Sez. 2, n. 03932/2016, Criscuolo, Rv. 638875, individua poi il dies a quo del termine di prescrizione dell'azione di simulazione del trasferimento di beni a titolo oneroso ai fini del successivo assoggettamento a collazione ereditaria. Detto termine, si afferma in sentenza, varia in rapporto all'oggetto della domanda: se questa è proposta dall'erede quale legittimario che fa valere il proprio diritto 158 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE alla riduzione per lesione della quota di riserva, esso decorre dall'apertura della successione; mentre se l'azione è esperita al solo scopo di acquisire il bene oggetto di donazione alla massa ereditaria per determinare le quote dei condividenti e senza addurre alcuna lesione di legittima, il termine di prescrizione decorre dal compimento dell'atto che si assume simulato, subentrando in tal caso l'erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex art. 1417 c.c., nella medesima posizione del de cuius. 16. Nullità del contratto. Sulla nullità del contratto si segnala una particolare attenzione della giurisprudenza di legittimità al tema del rilievo officioso da parte del giudice. Richiamando il principio - ribadito, fra le altre, da Sez. 1, n. 15408/2016, Bisogni, Rv. 640705 - secondo cui il giudice davanti al quale sia proposta una domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l'esistenza di una causa di quest'ultima diversa da quella allegata dall'istante, essendo tale domanda pertinente ad un diritto autodeterminato e perciò individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio, Sez. 1, n. 08795/2016, Bernabai, Rv. 639560, ne ha data coerente applicazione, nel sottosistema societario, alle impugnazioni delle deliberazioni assembleari. La Corte, in particolare, ha affermato che il rilievo officioso della relativa nullità costituisce espressione di un potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo. Sez. 1, n. 02910/2016, Terrusi, Rv. 638554 ha consentito il rilievo officioso della nullità parziale del contratto da parte del giudice investito dell'azione di nullità integrale, e ciò anche in sede di gravame, fatta salva l'ipotesi in cui le parti, all'esito del rigetto della domanda di nullità totale in primo grado, abbiano omesso indicazioni al riguardo, con conseguente formazione del giudicato preclusivo anche del rilievo di nullità parziale. Ancora, Sez. 6-3, n. 12253/2016, Cirillo F.M., Rv. 640267, ha ritenuto che il giudice possa rilevare d'ufficio la nullità di un contratto del quale era stata proposta domanda di risoluzione (la fattispecie concerneva un contratto di locazione stipulato dalla P.A. in forma verbale); Sez. 3, n. 12996/2016, Vincenti, Rv. 640305, infine, ha affermato che il rilievo officioso della nullità non è consentito solo nelle azioni di impugnativa negoziale, ma investe anche la domanda di risarcimento danni per inadempimento 159 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE contrattuale che sia stata proposta, in via autonoma, da quella di impugnazione del contratto. Affronta il tema della cd. nullità virtuale, con specifico riferimento al divieto di pattuire interessi usurari di cui all'art. 1815, comma 2, c.c., Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640109, che estende la portata del divieto a tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro remunerazione, compresa l'apertura di credito in conto corrente, osservando che la relativa clausola deve ritenersi affetta da nullità parziale per contrarietà a norme imperative. Sullo specifico tema riveste poi particolare interesse Sez. 2, n. 03926/2016, Scarpa, Rv. 638874, che ha ritenuto la nullità del contratto di affidamento di incarico professionale ad uno studio associato organizzato in forma societaria per violazione del divieto di costituzione di società aventi ad oggetto l'espletamento di professioni intellettuali protette, sancito dall'art. 2, della l. 23 novembre 1939, n. 1815, applicabile ratione temporis. Tale nullità, secondo la Corte, non è sanata dalla successiva abrogazione del menzionato divieto, disposta dall'art. 24 della l. 21 aprile 1997, n. 266, difettando una previsione che determini la retroattività di tale disposizione; l'invalidità del contratto, dunque, va riferita alle norme vigenti al momento della sua conclusione. Con riguardo alla nullità parziale, Sez. 1, n. 02314/2016, Lamorgese, Rv. 638558, ha affermato che essa si estende all'intero contratto ove l'interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, poichè i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità. Sul medesimo tema, un'interessante applicazione nella disciplina della vendita con patto di riscatto è rinvenibile in Sez. 2, n. 06144/2016, Picaroni, Rv. 639397, ove è affermato che la nullità, per l'eccedenza, della clausola con cui le parti subordinano l'esercizio del riscatto al pagamento di un prezzo superiore a quello fissato per la vendita colpisce anche la pattuizione relativa agli interessi sul prezzo, quand'anche a titolo compensativo di utilità che il venditore abbia potuto trarre in ragione di particolari accordi intervenuti con l'acquirente, giacché tale utilità deve ritenersi ragionevolmente scontata nel prezzo originario fissato dalle parti. 17. Annullabilità del contratto. In relazione ai vizi della volontà negoziale, si segnalano due pronunzie che affrontano la problematica del consenso viziato da errore. 160 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Per l'ipotesi in cui l'azione di annullamento per errore sia esercitata dagli eredi del contraente, Sez. 2, n. 18248/2016, Criscuolo, Rv. 641095, ha affermato che il relativo termine di prescrizione decorre dalla scoperta, da parte di costoro, del vizio inficiante la volontà del proprio dante causa ove l'errore si sia manifestato successivamente alla morte del de cuius, rimastone ignaro. Traccia invece il confine fra errore invalidante ed errore di calcolo, idoneo a provocare la rettifica del contratto ai sensi dell'art. 1430 c.c., Sez. 3, n. 03178/2016, Sestini, Rv. 638927, che rileva come quest'ultimo sussista quando in operazioni aritmetiche, posti come chiari e sicuri i termini da computare ed il criterio matematico da seguire, si commette un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale ed è rilevabile ictu oculi, mentre non è tale l'errore che attiene alla stessa individuazione di uno dei termini da computare. Un interessante rilievo attinente al contratto concluso dall'incapace di intendere e volere si coglie in quanto affermato da Sez. 1, n. 10329/2016, Acierno, Rv. 639668, secondo cui il giudicato formatosi sull'insussistenza dell'incapacità richiesta per l'annullamento contrattuale ex art. 428 c.c. è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace, occorrendo nel primo caso l'accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità ed essendo invece sufficiente, ai fini dell'art. 643 c.p., che l'autore dell'atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall'età, dall'insorgenza o dall'aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all'altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, critica e giudizio. 18. Risoluzione del contratto. Con riferimento alla domanda di risoluzione, Sez. 2. n. 12466/2016, Abete, Rv. 640087, ha stabilito che ove si accerti la scarsa importanza dell'inadempimento, il rigetto della stessa non comporta necessariamente quello della contestuale domanda di risarcimento, giacché anche un inadempimento inidoneo ai fini risolutori può aver cagionato un danno risarcibile. Per il caso di contrapposte domande di risoluzione per inadempimento, Sez. 1, n. 02984/2016, Di Virgilio, Rv. 638555, ha poi precisato che il giudice non può respingere entrambe e 161 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti. Con riguardo alle ipotesi di risoluzione stragiudiziale, due pronunzie concernono lo specifico tema della rinunziabilità degli effetti risolutori della diffida ad adempiere, già oggetto di un vivo dibattito nel recente passato. Si esprime affermativamente in tal senso Sez. 2, n. 09317/2016, Falabella, Rv. 639889, precisando che la rinunzia può intervenire anche dopo la scadenza del termine indicato in diffida e mediante comportamenti concludenti. Nel senso della predicabilità della rinunzia si attesta anche Sez. 2, n. 04205/2016, Criscuolo, Rv. 639383, laddove, per il caso in cui vengano reiterate le diffide, si stabilisce che il termine previsto dall'art. 1454 c.c. decorre dall'ultima di esse, e che, tuttavia, la reiterazione della diffida non esclude che l'inadempimento del diffidato si sia già manifestato alla scadenza del termine assegnato con la prima diffida, potendosi individuare nella rinnovazione un interesse del diffidante ad un tardivo adempimento della controparte, con la concessione di un nuovo termine che impedisca l'effetto risolutorio di diritto collegato alla prima diffida. All'operatività di tale meccanismo risolutorio è riferita anche Sez. 2, n. 15070/2016, Matera, Rv. 640588, secondo cui in difetto di clausola risolutiva espressa la risoluzione del contratto per inadempimento può essere ottenuta solo nelle forme di cui all'art. 1454 c.c., essendo privo di effetto l'atto unilaterale con cui la parte dichiari risolto il contratto. Infine, con riguardo al termine essenziale, la Corte ha ritenuto con Sez. 2, n. 04314/2016, Correnti, Rv. 639412, che il mancato rispetto del termine che non sia valutato come essenziale precluda la risoluzione di diritto ma non escluda la risolubilità del contratto ex art. 1453 c.c. se il ritardo supera ogni ragionevole limite di tolleranza, traducendosi in un inadempimento di non scarsa importanza. La valutazione di essenzialità costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e - come ha precisato Sez. 3, n. 14426/2016, Cirillo F.M., Rv. 640579 - va condotto alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto di modo che risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del medesimo con l'inutile decorso del termine, senza che rilevi il 162 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE semplice uso dell'espressione "entro e non oltre", riferita al tempo di esecuzione della prestazione, se non emerga, dall'oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti, che queste hanno inteso considerare perduta, decorso quel lasso di tempo, l'utilità prefissatasi. 163 CAPITOLO XI I SINGOLI CONTRATTI (di Francesco Cortesi e Francesco Federici)* CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il contratto di appalto privato. – 3. L'appalto di opere pubbliche. – 4. L'assicurazione. – 4.1. Assicurazione contro i danni. – 4.2. Assicurazione della responsabilità civile. – 4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a. – 4.4. Assicurazione sulla vita. – 5. Il comodato. – 6. I contratti agrari. – 7. I contratti bancari (rinvio). – 8. I contratti finanziari (rinvio). – 9. Fideiussione e garanzie atipiche. – 10. Il giuoco e la scommessa. – 11. La locazione. – 12. Il mandato. – 13. La mediazione. – 14. Il mutuo. – 15. La rendita. – 16. La transazione. – 17. Il trasporto. – 18. La vendita. 1. Premessa. Anche nel 2016 nella produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici si segnalano interessanti novità e numerose conferme di principi elaborati negli anni pregressi, soprattutto in materia di appalto (sia privato che di opere pubbliche), assicurazione, locazione e vendita. Si darà conto nei §§ che seguono di tale giurisprudenza, esaminando in ordine alfabetico i più importanti contratti tipici. Va segnalato che anche per questo anno nella rassegna i contratti bancari e quelli finanziari sono stati collocati nella parte dedicata al diritto del mercato per un ordine sistematico. 2. Il contratto di appalto privato. Nutrita ed articolata, al solito, è la produzione in materia di appalto privato. In ordine alla qualificazione del tipo contrattuale, Sez. 2, n. 11234/2016, Scalisi, Rv. 640094, affronta la tematica del contratto avente ad oggetto l'impegno a trasferire la proprietà di un'area in cambio di una o più unità immobiliari da costruire, qualificandolo come preliminare di permuta di cosa futura ove l'intento concreto delle parti abbia ad oggetto il reciproco trasferimento dei beni cui è strumentale l'obbligo di erigere i fabbricati, e come appalto se tale obbligazione assume rilievo preminente e ad essa corrisponde quella di versare il corrispettivo, eventualmente sostituito, nella forma atipica del do ut facias, dal trasferimento dell'area, anche in compensazione rispetto al prezzo per la vendita immobiliare funzionalmente collegata. * Francesco Cortesi ha curato i contratti trattati nei §§ 2, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 15, 16 e 17; Francesco Federici quelli trattati nei §§ 4, 10, 12, 13, 14 e 18; per i §§ 7 e 8 vi è rinvio al capitolo XX. 164 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Ribadendo la nullità per illiceità dell'oggetto dell'appalto in caso di costruzione di un'opera senza la concessione edilizia, Sez. 1, n. 07961/2016, Sambito, Rv. 639609, precisa che in detta ipotesi il contratto non è suscettibile di convalida né di sanatoria retroattiva in virtù di condono edilizio, con conseguente impossibilità per l'appaltatore di pretendere il corrispettivo pattuito. In relazione alla determinazione del corrispettivo, Sez. 2, n. 17959/2016, Giusti, Rv. 640889, ha affermato che può provvedervi il giudice ai sensi dell'art. 1657 c.c. solo ove non si controverta sulle opere eseguite dall'appaltatore, atteso che, in tal caso, spetta a quest'ultimo dimostrarne entità e consistenza. Sul medesimo tema opera un'importante distinzione Sez. 2, n. 09767/2016, Scalisi, Rv. 640200, per il caso in cui il committente abbia richiesto nuove opere; queste ultime, si afferma in sentenza, costituiscono semplici varianti in corso d'opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l'esecuzione a regola d'arte dell'appalto, e devono invece intendersi come lavori extracontratto se possiedano un'individualità distinta da quella dell'opera originaria, ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitiva oltre i limiti di legge. Il dibattuto tema della distinzione fra accettazione, verifica e collaudo dell'opera è all'attenzione di Sez. 2, n. 04051/2016, Falabella, Rv. 639384. La Corte, in particolare, definisce l'accettazione come l'atto negoziale con cui il committente esprime - anche per facta concludentia - il gradimento dell'opera, esonerando l'appaltatore dalla responsabilità per vizi; ed in tal senso la differenzia dalla verifica, che si risolve nelle attività materiali di accertamento della qualità dell'opera, e dal collaudo, che consiste nel successivo giudizio sull'opera stessa. Diverse pronunzie, poi, concernono la responsabilità dell'appaltatore responsabilità per vizi e difformità dell'opera. Fra queste assume specifico rilievo Sez. 2, n. 03199/2016, Giusti, Rv. 639207, che estende i termini di prescrizione e decadenza di cui all'art. 1667 c.c. anche all'azione di risoluzione del contratto di cui al successivo art. 1668, comma 2, nell'ottica di un contemperamento fra l'esigenza della tutela del committente a conseguire un'opera immune da vizi con l'interesse dell'appaltatore ad un accertamento sollecito di eventuali contestazioni in ordine all'esecuzione della prestazione. In relazione ai rimedi spettanti al committente in caso di vizi, di particolare interesse è Sez. 1, n. 00815/2016, Di Virgilio, Rv. 165 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 638614, che estende all'ipotesi in cui un immobile presenti i gravi difetti di cui all'art. 1669 c.c. la possibilità di invocare, oltre al previsto rimedio risarcitorio, anche tutti quelli contemplati dall'art. 1668 c.c., purché non sia ancora maturata la decadenza stabilita dal comma 2 di quest'ultimo, configurandosi le relative ipotesi l'una (art. 1669 c.c.) come sottospecie dell'altra (art. 1667 c.c.). Il contenuto della responsabilità per gravi difetti è compiutamente descritto da Sez. 2, n. 04319/2016, Scarpa, Rv. 639374, che, in mancanza di limitazioni legali, lo fa coincidere con quello generale della responsabilità extracontrattuale, così ricomprendendovi l'obbligo di rifondere tutte le spese necessarie per eliminare definitivamente i difetti medesimi, anche mediante la realizzazione di lavori diversi e più onerosi di quelli originariamente previsti, purchè necessari a che l'opera possa fornire la normale utilità propria della sua destinazione. Sempre con riferimento ai vizi dell'opera, infine, vanno richiamate le pronunzie che più significativamente hanno affrontato il tema dell'individuazione del soggetto responsabile quando alla realizzazione dell'opera concorra l'apporto del committente, se del caso coadiuvato dal proprio progettista o direttore dei lavori. Sez. 2, n. 08700/2016, Orilia, Rv. 639746, delinea i contorni della responsabilità del direttore dei lavori che, per le sue capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi obblighi correlati alla particolare diligenza richiestagli. Si tratta, osserva la Corte, di obblighi che attengono all'accertamento della conformità della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, al capitolato ed alle regole della tecnica, dalla quale ben può discendere una responsabilità per omessa vigilanza o per mancato controllo dell'ottemperanza dell'appaltatore alle istruzioni impartitegli, nonché per mancata successiva comunicazione di tanto al committente. Nel medesimo solco si attesta Sez. 2, n. 18285/2016, Manna F., Rv. 641077, secondo cui il direttore dei lavori per conto del committente esercita gli stessi poteri di controllo sull'attuazione dell'appalto che questi ritiene di non poter svolgere di persona, restando così soggetto alle correlate responsabilità per omissione; da tale attività, tuttavia, non deriva una sua corresponsabilità con l'appaltatore per i difetti dell'opera derivanti da vizi progettuali, salvo che il committente non lo abbia espressamente incaricato di svolgere anche l'ulteriore attività di verifica della fattibilità e dell'esattezza tecnica del progetto. 166 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 3. L'appalto di opere pubbliche. Particolarmente variegato è il panorama delle pronunzie concernenti l'appalto di opere pubbliche. Sez. 1, n. 17146/2016, Valitutti, Rv. 640902, ha affermato che per l'ipotesi in cui l'Amministrazione richieda lavori in variante per un importo di oltre un quinto rispetto a quello globalmente stabilito - e non in relazione al prezzo di singole categorie di lavori - in forza dell'art. 344 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, nonché dell'art. 14 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, non sussiste un obbligo dell'appaltatore, che in tal caso resta dunque libero di scegliere se recedere dal contratto o proseguire i lavori, se del caso dichiarando per iscritto a quali condizioni. In ordine alla misura del corrispettivo ed alla problematica della revisione prezzi, Sez. 1, n. 02186/2016, Dogliotti, Rv. 638754, ha affermato che la quantificazione dell'importo invocato per la revisione costituisce requisito necessario della corrispondente pretesa, in conformità ai principi di giustizia, efficienza e buon andamento della P.A., cui va consentito di conoscere tempestivamente l'entità delle somme richieste al fine dei necessari controlli. Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 11577/2016, Di Marzio M., Rv. 639915, ha specificato che l'art. 33 della l. 28 febbraio 1986, n. 41, in forza del quale la revisione dei prezzi è ammessa a decorrere dal secondo anno successivo all'aggiudicazione, si riferisce all'aggiudicazione definitiva e non a quella provvisoria, che ai fini della norma indicata non riveste alcun rilievo. Ed ancora, con riferimento alla determinazione del corrispettivo Sez. 1, n. 10165/2016, Salvago, Rv. 639815, assoggetta le spese relative alle cd. opere provvisionali alla previsione di cui all'art. 16 del d.P.R. n. 1063 del 1962 (ed ora art. 5 del d.m. 19 aprile 2000, n. 145), che le pone a carico dell'appaltatore, includendole fra quelle che devono determinare la formazione del prezzo dell'appalto, sul rilievo che afferiscono ai costi di impianto in cantiere e dunque all'organizzazione dei mezzi di cui all'art. 1655 c.c.. Di particolare interesse è Sez. 1, n. 13434/2016, Giancola, Rv. 640377, che ha ritenuto inidonea a giustificare l'applicazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962 la sospensione dei lavori per originaria assenza di autorizzazione all'esecuzione dell'opera; ha escluso, al riguardo, che possa ricondursi al concetto di forza maggiore un'omissione dovuta da una carenza preesistente alla stipula del contratto, atteso che la diligenza in tal caso richiesta 167 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI all'appaltante, tenuto ad assicurare la possibilità giuridica dell'opera, deve estendersi - onde conservare integre le ragioni della controparte - fino al punto di astenersi dalla stipula del contratto, e ciò quantunque l'appaltatore conoscesse o potesse conoscere l'originaria mancanza dell'autorizzazione e non abbia a sua volta segnalato al committente la necessità di sollecitarne il rilascio. Alla tematica delle riserve sono dedicate Sez. 1, n. 09328/2016, Lamorgese, Rv. 639615 - che ha ritenuto soggette all'onere di riserva non solo tutte le possibili richieste inerenti a partite di lavori eseguite, ma anche e soprattutto le pretese risarcitorie conseguenti allo svolgimento anomalo dell'appalto, assolvendo l'onere della riserva alla funzione di consentire la tempestiva e costante evidenza di tutti i fattori che siano oggetto di contrastanti valutazioni tra le parti e perciò suscettibili di aggravare il compenso complessivo - e Sez. 1, n. 14190/2016, Valitutti, Rv. 640483, che ha ritenuto tempestiva la formulazione di riserva nel verbale di ripresa dei lavori successivo ad una sospensione divenuta illegittima per la sua eccessiva protrazione, poiché la rilevanza causale del fatto ingiusto dell'appaltante rispetto ai maggiori oneri derivati all'appaltatore è accertabile solo al momento della ripresa, ferma restando la facoltà dell'appaltatore di precisare l'entità del pregiudizio subìto entro la chiusura del conto finale. Icastica, nel principio affermato, è Sez. 1, n. 02307/2016, Sambito, Rv. 638477, secondo cui l'appalto di opera pubblica si considera ultimato solo a seguito del collaudo, che costituisce l'unico atto attraverso il quale la P.A. può verificare se l'obbligazione dell'appaltatore sia stata regolarmente eseguita, ed è indispensabile ai fini dell'accettazione dell'opera, nessun rilievo assumendo a tale riguardo la consegna. Due pronunzie si segnalano per l'affronto di problematiche afferenti all'assunzione del rapporto da parte di associazione temporanea di imprese e conseguente designazione di un'impresa mandataria. Sez. 1, n. 03808/2016, Lamorgese, Rv. 638846, ha affermato che quest'ultima, pur essendo l'unica interlocutrice dell'amministrazione in rappresentanza delle imprese associate, è legittimata ad agire anche in proprio per la tutela delle ragioni di credito relative alla quota dei lavori eseguiti; Sez. 2, n. 08407/2016, Cosentino, Rv. 639740, ha precisato che la designazione dell'impresa mandataria non impedisce a quest'ultima di nominare un procuratore per farsi rappresentare in determinati affari del raggruppamento, né di sceglierlo tra i partecipanti al 168 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI raggruppamento stesso, derivando il potere gestorio dell'impresa mandataria e quello rappresentativo del suo legale rappresentante non direttamente dalla legge ma dalla designazione, libera e volontaria, delle imprese raggruppate. 4. L'assicurazione. Nel 2016 la Corte è intervenuta insistentemente in materia di assicurazione, con consueta prevalente attenzione al tema della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione di veicoli (r.c.a.). 4.1. Assicurazione contro i danni. In tema di assicurazione contro gli infortuni, la Corte è intervenuta sulla decorrenza del termine di prescrizione del diritto all'indennizzo. In particolare, Sez. 3, n. 14420/2016, Frasca, Rv. 640578, sgombrando il campo da equivoci interpretativi, ha affermato che quanto al termine di prescrizione indicato dall'art. 2952, comma 2, c.c., il riferimento al verificarsi dell'evento lesivo previsto dalla polizza va ricondotto al momento in cui emerga lo stato di invalidità permanente coperto da essa. Da questo chiarimento la pronuncia fa conseguire che l'assicuratore che voglia opporre la prescrizione del diritto fatto valere dall'assicurato deve provare non già la data di verificazione del sinistro, ma quella in cui si sia manifestato lo stato di invalidità dell'assicurato, conseguente al sinistro medesimo. Altrettanto importante è il principio affermato da Sez. 3, n. 09386/2016, Rossetti, Rv. 639829, in tema di diritto di recesso nella ipotesi di assicurazione pluriennale, avvenuto ai sensi dell'art. 5, comma 4, del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito dalla l. 2 aprile 2007, n. 40, qualora il contratto sia intervenuto anteriormente alle modifiche apportate dalla legge di conversione. Sul punto la pronuncia mostra di aderire all'orientamento secondo il quale gli effetti caducatori ex tunc delle norme intertemporali del decreto legge riguardano le sole ipotesi di emendamenti soppressivi o sostitutivi che accompagnano la legge di conversione, mentre qualora l'emendamento si limiti solo a modificare la norma del decreto legge, i rapporti sorti nel vigore intertemporale del decreto legge restano impregiudicati, ancorchè con la legge di conversione le regole siano implementate dalle modificazioni. Mostrando dunque adesione a tale orientamento interpretativo, la sentenza afferma che resta valido ed efficace il recesso dell'assicurato da un contratto di assicurazione pluriennale, quand'anche non siano trascorsi tre anni dalla sua esistenza in vita, condizione invece divenuta esseziale solo con le modifiche portate in sede di conversione all'art. 5, comma 4, 169 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI cit., perché nel caso di specie si trattava di contratto perfezionatosi prima dell'entrata in vigore delle modifiche suddette (disciplina poi ulteriormente modificata con la l. 23 luglio 2009, n. 99). A proposito poi della interpretazione del contratto assicurativo, Sez. 3, n. 00668/2016, Rossetti, Rv. 638509, in una fattispecie in cui le società coassicuratrici contestavano la copertura assicurativa di un sinistro, nel quale era scoppiata la caldaia utilizzata per la produzione di calcestruzzo - sull'assunto che il cedimento strutturale del meccanismo di chiusura della macchina non rientrasse nel concetto di scoppio causato da eccesso di pressione - ha avuto modo di chiarire che in presenza di clausole polisenso il giudice non può attribuire uno specifico significato, pur compatibile con la lettera della clausola, senza prima ricorrere all'ausilio di tutti i criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c., compreso in particolare quello della interpretazione contro il predisponente, di cui all'art. 1370 c.c. A tale ultima norma ha fatto ricorso la S.C. ai fini dell'interpretazione del contratto assicurativo. 4.2. Assicurazione della responsabilità civile. Particolare importanza assume la pronuncia delle Sez. U, n. 09140/2016, Amendola A., Rv. 639703, in tema di disciplina, vessatorietà e validità della clausola "claims made". Si tratta di una clausola assicurativa, sorta e sviluppatasi prima nei paesi anglosassoni e poi in quelli di civil law, compresa l'Italia, imponendosi a tal punto da sostituire del tutto il classico schema contrattuale denominato "loss occurrence" ("insorgenza del danno"), coerente con il modello assicurativo per r.c. previsto dall'art. 1917 c.c. Con la clausola assicurativa "claims made", letteralmente traducibile in "a richiesta fatta", l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi durante il periodo di efficacia del contratto, o anche di quelli commessi prima della stipula del contratto se anteriori di qualche anno (generalmente due o tre), purchè la richiesta di risarcimento sia pervenuta durante il tempo della assicurazione. La clausola, del tutto estranea alla struttura del contratto assicurativo prima degli anni ottanta, si diffonde celermente nelle assicurazioni per responsabilità civile, soprattutto nell'area dei cd. rischi lungo-latenti e con particolare riguardo ai prodotti difettosi e ai danni ambientali. Successivamente trova ingresso nell'area dei danni ai diritti della persona, incoraggiata dalla constatazione che con essa le compagnie hanno a disposizione un prodotto assicurativo più sostenibile sul piano economico, atteso che con la 170 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI claims made si circoscrive l'operatività della assicurazione solo a quei sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richiede all'assicurato il risarcimento del danno subìto. Presto tuttavia sorgono dubbi sulla natura vessatoria della clausola, e sulla sua stessa validità. A questi interrogativi, oggetto di numerose dispute dottrinali e difformi indirizzi giurisprudenziali, soprattutto negli uffici di merito, danno infine risposta le Sezioni Unite, che negano la sua natura vessatoria, quando limitativa dell'oggetto della garanzia assicurativa e non della responsabilità dell'assicuratore. Quanto invece alla sua validità, la pronuncia sostiene che la clausola, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza oppure, se applicabile la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi contrattuali. Si tratta però di valutazioni che vanno fatte con riguardo alle singole fattispecie portate all'attenzione del giudice di merito, incensurabili in sede di legittimità se congruamente motivate. Ai fini della disciplina delle spese di resistenza sostenute dall'assicurato, Sez. 3, n. 00667/2016, Armano, Rv. 638220, circoscrive l'obbligo di rimborso nelle ipotesi di procedimento penale. In particolare, in una fattispecie in cui gli amministratori e i sindaci di una società, indagati in un procedimento penale, che tuttavia non era stato attivato su istanza di parte e si era concluso con l'archiviazione, l'assicuratrice aveva negato il rimborso delle spese sostenute dagli indagati nella fase delle indagini. La sentenza di legittimità ha cassato quella di merito, che aveva ritenuto rimborsabili quelle spese, affermando che l'obbligazione dell'assicuratore della responsabilità civile di tenere indenne l'assicurato delle spese erogate per resistere all'azione del danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, c.c., ha natura accessoria rispetto alla obbligazione principale e trova limite nel perseguimento di un risultato utile per entrambe le parti, perché interessate a respingere l'azione. Da tale principio la Corte fa discendere l'ulteriore regola interpretativa, secondo cui l'assicuratore è obbligato al rimborso delle spese del procedimento penale promosso nei confronti dell'assicurato solo quando intrapreso a seguito di denuncia o querela del terzo danneggiato o nel quale questi si sia costituito parte civile. Nell'identificazione degli elementi essenziali del contratto di assicurazione inoltre, Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639075, esclude la necessità di determinazione del massimale. Nella sentenza 171 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI si afferma infatti che il contratto può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione, poiché non costituisce né elemento essenziale del contratto né fatto generatore del credito assicurato, configurandosi piuttosto quale elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore. Valorizzando dunque questo profilo, la pronuncia ne fa conseguire che l'onere di provare l'esistenza e la misura del massimale grava sulla società assicuratrice, dovendosi altrimenti accogliere la domanda di garanzia proposta dall'assicurato, a prescindere da qualunque limite del massimale. Altrettanto interessante è quanto affermato da Sez. 3, n. 03275/2016, Tatangelo, Rv. 638886, in tema di copertura assicurativa contratta da ente che non può essere chiamato a rispondere di eventuali danni, perché per legge già individuato il soggetto legittimato passivamente. La fattispecie in particolare riguardava una Direzione didattica, che aveva stipulato una polizza a copertura della responsabilità civile per danni, cui è chiamato a rispondere invece il solo Ministero (per fatto dei suoi dipendenti). La pronuncia tuttavia non pone nel nulla il rapporto assicurativo, ma afferma che al giudice di merito debba essere demandato il dovere di una scelta interpretativa, dopo aver utilizzato i fondamentali canoni ermeneutici, che nel dubbio tenga conto del sussidiario criterio della cd. interpretazione utile, secondo quanto prescritto dall'art. 1367 c.c., la quale, compatibilmente con la volontà delle parti, tenda ad attribuire al contratto un qualche effetto, anche quale negozio assicurativo per conto altrui o per conto di chi spetta, ricorrendo dunque alla previsione normativa disciplinata dall'art. 1891 c.c. In tal modo non si nega ogni utilità ed effetto al negozio sottoscritto dall'ente esonerato da legittimazione passiva in occasione della azione risarcitoria introdotta dal terzo danneggiato. Quanto alla esclusione del diritto all'indennizzo assicurativo, Sez. 3, n. 20011/2016, Sestini, (in corso di massimazione), trattando degli obblighi e delle conseguenze previste dall'art. 1898 c.c. in ordine ai mutamenti che aggravano il rischio, chiarisce come la norma, non imponendo l'avviso del mutamento di qualunque circostanza, ma solo di quelle che, se conosciute dall'assicuratore, l'avrebbero indotto a non concludere il contratto o a concluderlo con la previsione di un premio più elevato, consente l'operatività del comma 5 della norma solo se da un accertamento concreto e specifico emerga la prova che, conosciuto il nuovo stato delle cose, l'assicuratore non avrebbe concluso il contratto. 172 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Deve infine segnalarsi Sez. 3, n. 26104/2016, Scrima, (in corso di massimazione), che, riprendendo un antico e mai disatteso principio, relativo all'ipotesi di sinistro accaduto nel termine di tolleranza, successivo alla scadenza annuale della polizza (cd. periodo di ultrattività della polizza), afferma che il mancato pagamento da parte dell'assicurato di un premio, successivo al primo, determina, ai sensi dell'art. 1901, secondo comma, c.c., la sospensione della garanzia assicurativa non immediatamente, ma solo dopo il decorso del periodo di tolleranza di quindici giorni. Né la legge subordina questo ulteriore periodo di efficacia del contratto al fatto che il premio sia poi pagato entro il termine medesimo, sicchè, nella ipotesi che l'inadempienza dell'assicurato si protragga, sino alla risoluzione del contratto, a norma del terzo comma dell'art. 1901 c.c., l'effetto retroattivo della risoluzione di produrrà non dalla scadenza del premio, ma dallo spirare del periodo di tolleranza. 4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a. Anche nel 2016 una posizione prioritaria, per numero di pronunce e questioni emerse, occupa l' assicurazione obbligatoria della r.c.a. 4.3.1. Alcune pronunce hanno prestato attenzione ai sinistri stradali in cui sono coinvolte autovetture straniere o tali considerate. Così Sez. 3, n. 04669/2016, Esposito A.F., Rv. 639376, per l'ipotesi di danni cagionati alla circolazione nel territorio dello Stato italiano da veicoli immatricolati negli stati esteri, ha definito l'oggetto della garanzia assicurativa. In particolare la pronuncia ha affermato che l'Ufficio Centrale Italiano è tenuto alla copertura assicurativa non solo dei danni alle persone ma anche alle cose trasportate. Ciò perché l'obbligo assicurativo dell'UCI, previsto dall'art. 6 della l. 24 dicembre 1969, n. 990 con riferimento alla fattispecie oggetto di causa (ora dall'art. 125 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) è riconducibile a quanto previsto dall'art. 2054 c.c., che contempla anche il danno alle cose oltre che alle persone. Quanto ai profili processuali altrettanto interessante si rivela Sez. 3, n. 12729/2016, Graziosi, Rv. 640276, in tema di tempestività della eccezione sollevata dal Fondo di Garanzia per le vittime della strada ai fini della identificazione dell'ente competente al risarcimento. Sul punto la pronuncia ha affermato che, in caso di sinistro causato da veicolo con targa straniera risultata rubata, non costituisce una eccezione in senso stretto, ma una mera difesa, come tale proponibile anche nella comparsa conclusionale d'appello, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sostanziale sollevata 173 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI dal convenuto F.G.V.S., ai sensi del d.lgs. n. 209 del 2005, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs 6 novembre 2007, n. 197, assumendo che il predetto veicolo debba considerarsi non già "sconosciuto", bensì "abitualmente stazionante" nel territorio dello Stato membro dell'Unione europea che ha rilasciato la targa, con la conseguenza che il risarcimento dei danni derivanti dal sinistro compete all'Ufficio Centrale Italiano, ai sensi dell'art. 1, del d.m. 12 ottobre 1972. Tali conclusioni sono raggiunte dalla S.C. alla stregua dell'interpretazione dell'art. 1, par. 4, della Direttiva 72/166/CE, modificata dalla Direttiva 84/5/CEE, fornita dalla Corte di Giustizia CE 12 novembre 1992, in C-73/89. Nel più limitato ambito applicativo delle convenzioni bilaterali, infine, va menzionata Sez. 6-3, n. 09086/2016, Rossetti, Rv. 639717, secondo cui, in caso di sinistro stradale occorso in territorio italiano a un cittadino svizzero, l'assicuratore che abbia indennizzato la vittima del sinistro in relazione al danno da invalidità temporanea assoluta, ai sensi della legge federale elvetica del 20 marzo 1981 sull'assicurazione contro gli infortuni, ha diritto a surrogarsi nella pretesa risarcitoria azionabile dal danneggiato, in forza di quanto stabilito dall'art. 21 bis della Convenzione italo- svizzera sulla sicurezza sociale del 14 dicembre 1962, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 31 ottobre 1963, n. 1781. Con riguardo poi alla stabilizzazione processuale e sostanziale, quale soggetto passivo dell'instaurato giudizio risarcitorio, della società assicuratrice designata dal FGVS, di particolare rilievo si presenta Sez. 3, n. 23710/2016, Vincenti, (in corso di massimazione), secondo cui, ai fini del risarcimento del danno causato da veicolo o natante non identificato, previsto già dall'art. 19 della l. 24 dicembre 1969, n. 990, ed ora dall'art. 283 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, la circostanza che nel corso del giudizio venga identificato il veicolo, prima sconosciuto, che abbia causato il sinistro, è indifferente ai fini della persistenza della legittimazione processuale passiva in capo alla società designata. In particolare la pronuncia afferma che nel caso di sinistro cagionato da veicolo non identificato, il danneggiato, esaurito lo spatium deliberandi previsto dalla legge, potrà agire nei confronti dell'impresa designata per conto del FGVS allegando e provando, oltre al fatto che il sinistro si è verificato per condotta dolosa o colposa del conducente di un altro veicolo, che quest'ultimo non era identificabile in forza di circostanze obiettive, non dipendenti da sua negligenza. Sussistendo tali presupposti, la legittimazione passiva processuale e sostanziale dell'impresa designata rispetto a tale 174 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI sinistro rimarrà stabilizzata rispetto a tutto il corso del giudizio, anche nel caso in cui successivamente si accerti l'identità del responsabile, nei cui confronti l'impresa designata, adempiuta la sentenza di condanna al risarcimento del danno, potrà agire in via di regresso. Esaminando poi le altre pronunce in materia, la S.C. si è soffermata sulle conseguenze ricollegabili al sinistro coinvolgente l'autovettura con certificato assicurativo fraudolentemente retrodatato. In particolare Sez. 3, n. 06974/2016, Rossetti, Rv. 639334, afferma che nella ipotesi di sinistro stradale causato da veicolo munito di un certificato assicurativo, formalmente valido, ma in concreto rilasciato dopo il sinistro e fraudolentemente retrodatato, la circostanza non è opponibile al terzo danneggiato, quando la falsità provenga dall'agente per il tramite del quale sia stato stipulato il contratto. In tale ipotesi tuttavia l'assicuratore, adempiuta la propria obbligazione nei confronti del terzo, potrà agire contro l'intermediario infedele e in regresso nei confronti dell'assicurato. Altrettanto importante nella definizione dell'area applicativa della garanzia assicurativa è Sez. 6-3, n. 06403/2016, Cirillo F.M., Rv. 639622, intervenuta in una fattispecie in cui l'assicuratore contestava l'operatività della copertura assicurativa per i danni cagionati dal conducente, mutilato, alla guida di autovettura priva dei necessari adattamenti tecnici richiesti per la sua condizione. Esaminando la vicenda, la Corte ha affermato il principio secondo cui nella assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, la previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida, non è idonea ad escludere l'operatività della polizza, e il conseguente obbligo risarcitorio dell'assicuratore, quando il conducente, legittimamente abilitato e in possesso di patente non sospesa, revocata o scaduta, abbia solo omesso di rispettare prescrizioni e cautele imposte dal codice della strada. Le conclusioni sono motivate dalla considerazione che l'inosservanza alle cautele tecniche, pur imposte all'invalido, non si traduce in una limitazione della validità ed efficacia del titolo abilitativo alla guida dei veicoli a motore, integrando invece solo una ipotesi di mera illiceità. Quanto alla responsabilità per mala gestio dell'assicuratore, vanno segnalate due pronunce intervenute in merito, che possono definirsi complementari. Con Sez. 3, n. 03014/2016, Amendola A., Rv. 639076, la Corte evidenzia le differenze tra mala gestio propria e 175 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI impropria, inquadrandone la responsabilità in due differenti forme, cui conseguono distinte conseguenze in termini di risposta oltre il massimale pattuito. La prima di esse è quella dipendente dal colpevole ritardo dell'assicuratore nei confronti del danneggiato, definita mala gestio impropria e fondata sulla costituzione in mora ex art. 22, l. n 990 del 1969 (ed ora ex art. 145 del d.lgs n. 209 del 2005). Se alla costituzione in mora l'assicuratrice non esegue il pagamento, essa risponde a titolo di interessi e rivalutazione, pur oltre il limite del massimale, senza che il danneggiato sia obbligato a formulare una specifica domanda per essere sufficiente la mera richiesta di integrale risarcimento del danno. La seconda è quella riconducibile a condotte contrarie agli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto, e dunque si tratta di responsabilità nei confronti dell'assicurato, definita come mala gestio propria. In questo caso l'assicuratore risponderà anche oltre il massimale, non solo a titolo di interessi e rivalutazione ma rispetto allo stesso limite d'importo dell'assicurazione, a condizione che il danneggiato-assicurato proponga specifica damanda. Sez. 3, n. 04892/2016, Pellecchia, Rv. 639443, con riferimento alla cd. mala gestio impropria per ritardo nel pagamento dell'assicurato danneggiato dal sinistro, ribadisce che la responsabilità della società assicuratrice oltre il limite del massimale comprende gli interessi e il maggior danno, che può includere anche la svalutazione monetaria ma mai riferirsi al capitale entro il quale è stato pattuito il contratto assicurativo. Sempre in tema di obblighi della società assicuratrice conseguenti al sinistro, Sez. 3, n. 04765/2016, Tatangelo, Rv. 639363, si occupa dell'ipotesi del danno a più persone. In tale ipotesi si afferma che la società deve procedere, secondo la normale diligenza, alla identificazione di tutti i danneggiati, attivandosi anche con la loro congiunta chiamata in causa e procedendo alla liquidazione del risarcimento nella misura proporzionalmente ridotta. La conseguenza di una diversa condotta e di un diverso modo di procedere alla liquidazione, comporta che quando l'assicuratore, che sia convenuto in giudizio da uno dei danneggiati con azione diretta, non può opporre ai fini dell'indennizzo la somma già concordata e versata in sede stragiudiziale ad un altro danneggiato, pur nella consapevolezza che nel sinistro erano rimaste coinvolte più persone, dovendo imputare a propria negligenza il non aver provveduto (o richiesto che in sede giudiziale si provvedesse) alla congiunta disamina delle pretese risarcitorie dei danneggiati per la riduzione proporzionale dei correlativi indennizzi. 176 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Degno infine di menzione è il principio, già affermato nel 2015 (n. 11154/2015, Rv. 635465), e riaffermato da Sez. 3, n. 03266/2016, Sestini, Rv. 638791, in tema di risarcibilità dei compensi legali sostenuti dall'assicurato. Sul punto infatti la Corte ribadisce che per l'ipotesi di accettazione della somma offerta dall'impresa di assicurazione, l'art. 9, comma 2, del d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254, prevedendo l'esclusione dell'obbligo di corresponsione delle spese sostenute dal danneggiato per i compensi di assistenza professionale diversi da quelli medico-legali per i danni alla persona, va interpretato nel senso che sono comunque dovute la spese di assistenza legale sostenute dalla vittima perché il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando essa non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore. A tali conclusioni perviene anche la pronuncia del 2016, affermando che una diversa interpretazione porterebbe a ritenere nulla quella previsione normativa, per contrasto con l'art. 24 Cost., dunque da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell'erogazione di spese legali effettivamente necessarie. 5. Il comodato. In materia di comodato, mette conto segnalare Sez. 3, n. 00664/2016, Scrima, Rv. 638404, che affronta il tema del comodato di immobile stipulato dall'alienante in epoca anteriore al suo trasferimento, affermando che esso non è opponibile all'acquirente del bene, non estendendosi a rapporti diversi dalla locazione le disposizioni eccezionali di cui all'art. 1599 c.c.; l'acquirente, d'altro canto, non subisce alcun pregiudizio dall'esistenza del comodato, potendo far cessare in qualsiasi momento il godimento del bene da parte del comodatario ed ottenere la piena disponibilità del bene. Sez. 2, n. 27044/2016, Criscuolo, in corso di massimazione, ha invece ritenuto che nel contratto di comodato senza determinazione di durata il comodatario possa essere costituito in mora per la restituzione del bene anche mediante la notifica dell'atto di citazione in giudizio, e perciò senza la necessità di preventiva richiesta stragiudiziale, salve le conseguenze sul piano della regolazione delle spese di un'eventuale immediata consegna con adesione alla domanda. 6. I contratti agrari. In relazione all'esercizio della prelazione, Sez. 3, n. 15757/2016, Esposito A.F., Rv. 641151, ha precisato che l'esistenza del relativo diritto dev'essere di regola 177 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI accertata con riferimento al momento della denuntiatio della proposta di vendita del fondo e, in difetto della comunicazione di tale proposta, con riferimento al momento della stipula del negozio traslativo; è infatti in tale ultimo momento che sorge il diritto di riscatto e che si rende così necessario riscontrare le condizioni soggettive ed oggettive che legittimano il coltivatore diretto confinante a riscattare il fondo. Sempre in ordine alle modalità di esercizio della prelazione, Sez. 3, n. 12883/2016, Sestini, Rv. 640281, ha richiamato lo schema normativo di cui agli artt. 1326 e 1329 c.c., affermando che la denuntiatio non è revocabile durante il termine di trenta giorni previsto per l'accettazione della proposta, poiché la trasmissione del contratto preliminare ha tutti i connotati della proposta contrattuale e la possibilità di revoca sarebbe inconciliabile con la natura di atto unilaterale di adempimento d'obbligo legale, destinato a rendere attuale l'altrui diritto soggettivo. In tema di riscatto, Sez. 3, n. 14827/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, ha affrontato il tema del relativo diritto esercitato con atto di citazione in giudizio poi dichiarato nullo per vizio di natura processuale, affermando che tale vizio non si riverbera sugli effetti sostanziali dell'atto, restando valida la dichiarazione unilaterale recettizia. Sul medesimo tema, Sez. 3, n. 20638/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, ha specificato che in caso di attività agrituristica l'esercizio del riscatto è ammissibile solo ove si accerti che l'attività di coltivazione prevale su quella commerciale. Con riferimento al termine per l'esercizio del retratto di cui all'art. 8, comma 10, della l. 26 maggio 1965, n. 590, Sez. 3, n. 13002/2016, Cirillo F.M., Rv. 640404, ha specificato che, ove abbia ad oggetto un fondo divenuto comune in via ereditaria, esso decorre dall'apertura della successione a meno che risulti provato che la partecipazione di uno dei componenti alla conduzione colonica fosse cessata già prima del nascere della comunione ereditaria. In tema di affitto di fondi rustici, Sez. 3, n. 07633/2016, Esposito A.F., Rv. 639527, ha precisato che la prestazione del relativo consenso produce effetto indipendentemente dal diritto di proprietà della persona del concedente, purchè questi abbia la disponibilità del bene e sia così in grado di trasferirne all'affittuario la detenzione e il godimento. Nel medesimo ambito contrattuale, infine, si segnala Sez. 3, n. 12518/2016, Cirillo F.M., Rv. 640350, che ha precisato come il risarcimento del danno derivante dall'inosservanza di un obbligo 178 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI manutentivo da parte del conduttore sia soggetto alla prova della condizione di partenza dell'immobile e della sua restituzione in condizioni peggiori rispetto a quelle della consegna, in quanto il concetto di manutenzione fa riferimento ad un'evenienza che sopravviene durante lo svolgimento del rapporto contrattuale. 7. I contratti bancari. (rinvio). 8. I contratti finanziari (rinvio). 9. Fideiussione e garanzie atipiche. In materia di fideiussione, si segnala anzitutto la permanenza di un contrasto in ordine agli indici che rilevano ai fini della qualificazione di un contratto come appartenente al detto tipo anziché come contratto autonomo di garanzia. Richiamandosi all'opzione ermeneutica che appare oggi prevalente, Sez. 1, n. 16825/2016, Didone, Rv. 640904, ha ritenuto che la clausola di pagamento "a prima richiesta", o altra equivalente, non sia in tal senso decisiva, potendo essa riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome), sia a garanzia di tipo fideiussorio, caratterizzata da un vincolo di accessorietà più o meno accentuato, sia, infine, alla mera intenzione dei contraenti di derogare alla disciplina dettata dall'art. 1957 c.c.. Secondo tale pronunzia, infatti, la clausola in questione assolve unicamente ad un'esigenza di protezione del fideiussore che, prescindendo dall'esistenza di un vincolo di accessorietà tra garanzia e debito principale, è meritevole di tutela anche quando tale collegamento sia assente; essa non è, pertanto, in sé incompatibile con l'applicazione dell'art. 1957 c.c., spettando al giudice di merito di accertare la concreta volontà delle parti con la sua stipulazione. Appare in linea con tale impostazione Sez. 3, n. 12152/2016, Vincenti, Rv. 640289, laddove osserva che la previsione in seno ad un contratto autonomo di garanzia della clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" fa presumere l'assenza dell'accessorietà della garanzia, ma che tale requisito può tuttavia desumersi, in difetto, anche dal complessivo tenore dell'accordo. Con riferimento a profili più generali della relativa disciplina, si è espressa nel senso dell'ammissibilità del concorso di una fideiussione con una garanzia reale rispetto al medesimo credito Sez. 1, n. 02540/2016, Genovese, Rv. 638464. Sez. 3, n. 08944/2016, Pellecchia, Rv. 639910, ha affrontato il tema della fideiussione omnibus senza limitazione di importo 179 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI (stipulata anteriormente alla data di entrata in vigore dell'art. 10 della l. 17 febbraio 1992, n. 154), ritenendone l'efficacia limitatamente ai debiti sorti a carico del garantito prima della data predetta; perché tali effetti si producano sui debiti successivi occorre che le parti fissino l'importo massimo garantito con la rinnovazione della convenzione di garanzia, che, risolvendosi in un accordo diverso dal precedente con efficacia ex nunc, non costituisce un'ipotesi di convalida del contratto nullo. Per l'ipotesi di cofideiussione sul medesimo debito, Sez. 1, n. 03628/2016, Valitutti, Rv. 638629, ravvisando l'esistenza di un collegamento necessario tra le obbligazioni assunte dai singoli fideiussori, determinate dal comune interesse di garantire lo stesso debito ed il medesimo creditore, ha affermato che vi è divisione dell'obbligazione nei soli rapporti interni in virtù del diritto di regresso spettante a colui che ha pagato per l'intero. Di particolare interesse è poi Sez. 1, n. 04112/2016, Terrusi, Rv. 638860, che ha specificato come l'autorizzazione di cui all'art. 1956 c.c., non configurandosi come accordo a latere del contratto bancario cui la garanzia accede, non richiede la forma scritta per la sua validità e può essere ritenuta implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti, ove si accerti che egli fosse a conoscenza della situazione patrimoniale del debitore garantito. Infine, sull'applicabilità al contratto di fideiussione della normativa in materia di tutela del consumatore, Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640914, ha specificato che il requisito soggettivo della qualità di consumatore deve riferirsi all'obbligazione garantita; di conseguenza, difettando tale condizione, è valida l'eventuale clausola derogativa della competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione per le esposizioni bancarie di una società di capitali stipulato da un socio o da un terzo. 10. Il giuoco e la scommessa. Due sono le sentenze da segnalare in materia. La prima tratta della ipotesi del mancato pagamento di una vincita e dell'eventuale coobbligazione del concedente per i debiti contratti dal concessionario. Nel caso di specie si era verificato che ad una vincita derivata da giocate multiple su partite del campionato di calcio, non pagate dal concessionario del servizio, era stato chiesto il pagamento anche al CONI Servizi s.p.a. quale coobbligato. Sul punto Sez. 3, n. 06219/2016, Di Marzio F., Rv. 639321, afferma che nel caso di inadempimento del contratto di scommessa su eventi sportivi, 180 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI stipulato tra il concessionario del servizio e lo scommettitore e consistente nel macato pagamento della vincita realizzata, non è configurabile, unitamente a quella del concessionario, una coobbligazione dell'ente concedente, per i debiti contratti dal primo. Il principio è motivato dalla considerazione che dall'esame della normativa che regola il rapporto tra i menzionati soggetti non si evince nessuna disposizione, esplicita o implicita, derogatoria della efficacia del contratto, ex art. 1372 c.c., o fondante una obbligazione di garanzia a carico del concedente, né una analoga disposizione è ricavabile dalla convenzione che regola i rapporti tra l'ente concedente e il concessionario, alla quale è estraneo lo scommettitore. Alla riconoscibilità della sentenza straniera contenente una condanna al pagamento di un debito per gioco d'azzardo è invece destinata la decisione assunta da Sez. 6-1, n. 12364/2016, Genovese, Rv. 640010, secondo cui non produce effetti contrari all'ordine pubblico, e quindi può essere riconosciuta in Italia ex artt. 64 e 67 della l. 31 maggio 1995, n. 218, la sentenza straniera di condanna al pagamento di un debito che trovi fonte nel giuoco d'azzardo, perché in ambito nazionale e comunitario non esiste un disfavore dell'ordinamento giuridico nei confronti del giuoco d'azzardo in quanto tale, ove esso non sfugga ai controlli degli organismi statuali e non si esponga pertanto alle infiltrazioni criminali. 11. La locazione. Fra le pronunzie rilevanti in punto alla disciplina generale della locazione, merita menzione Sez. 3, n. 04902/2016, Spirito, Rv. 639387, che ha ritenuto sussistere la possibilità che i beni demaniali formino oggetto di locazione - potendo gli stessi formare oggetto di diritti obbligatori tra privati - senza che l'eventuale carattere abusivo dell'occupazione del terreno da parte del locatore comporti l'invalidità del contratto, che vincola reciprocamente le parti, residuando per la P.A. il diritto di tutelarsi in relazione alla particolare destinazione del bene. Sullo specifico tema delle garanzie prestate da terzi alle obbligazioni derivanti da proroghe della durata del contratto, Sez. 3, n. 15781/2016, Vincenti, Rv. 641147, ha specificato che l'inestensibilità prevista dall'art. 1598 c.c. si riferisce alle ipotesi fisiologiche di rinnovazione o prosecuzione del rapporto e non al caso in cui il conduttore sia rimasto in mora dopo la scadenza del contratto, essendo così tenuto a versare il corrispettivo sino alla riconsegna; tale ultimo obbligo, infatti, deriva dall'inadempimento del rapporto originario e prescinde del tutto dall'attuazione 181 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI fisiologica del rapporto locatizio, non essendo così consentito al garante di giovarsi del concetto di "proroga del contratto". Per l'ipotesi in cui la posizione di locatore sia in contitolarità fra più soggetti, Sez. 3, n. 27021/2016, Frasca, in corso di massimazione, ha affermato il principio secondo cui tutti i diritti nascenti dal contratto verso il conduttore, e quindi anche quello di pretendere il pagamento del canone od attivarsi all'uopo giudizialmente, sono esercitabili dai colocatori tanto congiuntamente quanto disgiuntamente secondo le regole generali della comunione dei diritti. Con riferimento alla locazione ad uso abitativo, Sez. 3, n. 15361/2016, De Marchi Albengo, Rv. 641293, affronta il tema dell'obbligo del locatore di mantenere l'immobile in buono stato locativo, affermando che la presunzione di cui all'art. 1590, comma 2, c.c. - secondo la quale, in mancanza di descrizione delle condizioni dell'immobile alla data della consegna, si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato - può essere vinta solo attraverso una prova rigorosa del contrario, non raggiungibile attraverso meri elementi indiziari, quali il verosimile deterioramento d'uso. Due pronunzie concernono invece lo specifico argomento della disdetta da parte del locatore. Sez. 3, n. 11808/2016, Frasca, Rv. 640197, specifica che l'onere formale di cui all'art. 2, comma 1, della l. 9 dicembre 1998, n. 431, a mente del quale la disdetta al termine del secondo periodo di durata contrattuale va effettuata in forma scritta ed inviata a mezzo raccomandata, non è previsto a pena di nullità dell'atto, restando così ammissibili forme equipollenti purchè idonee ad evidenziare all'altra parte la volontà negoziale, e non occorrendo il conferimento di mandato scritto all'eventuale rappresentante del locatore. Per l'eventualità che il locatore abbia esercitato il diritto di diniego del rinnovo del contratto di locazione per una finalità non più realizzata (in base all'art. 31 della l. 27 luglio 1978 n. 392 ed all'art. 3, commi 3 e 5, della l. n. 431 del 1998), Sez. 3, n. 01050/2016, Pellecchia, Rv. 638655, ha affermato che le sanzioni del ripristino della locazione o del risarcimento del danno non si applicano ove la tardiva o mancata destinazione dell'immobile all'uso dichiarato siano giustificate da esigenze, ragioni o situazioni non riconducibili al comportamento doloso o colposo del locatore stesso. 182 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Con riferimento alla locazione ad uso non abitativo, si segnalano due decisioni afferenti all'esercizio del diritto di prelazione da parte del conduttore. Sez. 3, n. 12536/2016, Tatangelo, Rv. 640250, ha ritenuto che in caso di offerta di vendita "cumulativa" di immobili sia efficace la denuntiatio al conduttore per l'esercizio del diritto di prelazione; quest'ultima può essere esercitata, se del caso, per il solo immobile locato, senza che rilevi che l'offerta sia condizionata all'acquisto contestuale di tutti i beni. Secondo Sez. 3, n. 14833/2016, Sestini, Rv. 641277, poi, il conduttore è abilitato a manifestare la propria volontà di riscatto con qualsiasi atto scritto, purché ricevuto dal compratore entro il termine di sei mesi dalla trascrizione della compravendita; ne consegue che, ove la dichiarazione di riscatto sia contenuta nell'atto introduttivo del giudizio finalizzato a farlo valere, occorre che in tale termine l'atto venga notificato al compratore, non trovando applicazione, nella specie, il principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario. Infine, va segnalata Sez. 3, n. 15377/2016, Tatangelo, Rv. 641148, che per l'ipotesi di locazione di immobili convenzionalmente destinati ad una attività il cui esercizio richieda specifici titoli autorizzativi il locatore va ritenuto inadempiente ove il mancato rilascio di tali titoli dipenda da situazioni intrinseche o caratteristiche proprie del bene locato, salvo che il conduttore abbia conosciuto e consapevolmente accettato l'assoluta impossibilità di ottenerli. 12. Il mandato. Alcune interessanti pronunce sono dedicate al mandato. In particolare Sez. L, n. 02828/2016, Ghinoy, 638716, nel tracciare la linea di confine ai fini della qualificazione di un rapporto come di mandato oppure come di agenzia, afferma che la distinzione va operata avendo riguardo principalmente al criterio della stabilità ed alla natura dell'incarico, che nel contratto di agenzia ha ad oggetto la promozione di affari, con la conseguenza che un'attività promozionale può rientrare nello schema del mandato, e non dell'agenzia, solo se è episodica e occasionale, con le caratteristiche del procacciamento di affari. Il principio ha trovato applicazione in un caso in cui il giudice di merito aveva escluso la riconducibilità al contratto di agenzia di alcuni rapporti di lavoro di promotori finanziari, che presentavano gli elementi tipici del mandato, senza però approfondire l'aspetto della stabilità 183 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI dell'incarico. Ciò è stato ritenuto sufficiente a cassare la sentenza impugnata. Sez. 2, n. 00474/2016, Scarpa, Rv. 638640, si occupa invece dei poteri del mandatario investito di procura generale o speciale ad negotia. In tal caso la Cassazione afferma che questi può esercitare tutti i poteri e le facoltà spettanti al mandante, che siano inerenti e necessarie all'esecuzione del mandato ricevuto, compresa quella di instaurare un giudizio di legittimità e di conferire procura speciale al difensore, senza che rilevi che il mandato sia anteriore alla sentenza avverso la quale si ritiene utile proporre ricorso per cassazione. E ancora, a proposito degli effetti dell'esecuzione di un mandato non conforme alle istruzioni ricevute, o eccedente i suoi limiti, Sez. 2, n. 00861/2016, Scarpa, Rv. 638671, afferma che l'approvazione tacita dell'esecuzione del mandato, ai sensi dell'art. 1712, comma 2, c.c., presuppone la precisa indicazione, nella comunicazione fatta dal mandatario, dell'operazione compiuta al di fuori del mandato, essendo a tal fine necessaria la conoscenza da parte del mandante del superamento dei limiti del mandato. Altrettanto interessante, a proposito di imputabilità degli effetti dell'atto compiuto dal mandatario in capo al mandante, è quanto afferma Sez. 1, n. 09775/2016, De Chiara, Rv. 639612, secondo cui il principio della diretta imputazione al rappresentato degli effetti dell'atto posto in essere in suo nome dal rappresentante non comporta, nel caso di riscossione di somme da parte del mandatario, pur munito di rappresentanza, l'acquisto automatico delle stesse da parte del mandante, e ciò in ragione della natura fungibile del denaro, che indentifica nel detentore materiale di esso il dominus della somma consegnata. La pronuncia peraltro afferma che la legittimazione del rappresentante a ricevere dal terzo debitore il pagamento, con efficacia liberatoria nei confronti del rappresentato, non esclude che i rapporti interni con quest'ultimo siano disciplinati dalle regole del mandato, quale contratto ad effetti obbligatori, da cui deriva l'obbligo del mandatario di rimettere al mandante, previo rendiconto, le somme riscosse. 13. La mediazione. In riferimento al contratto di mediazione merita di essere segnalata la pronuncia emessa da Sez. 2, n. 01735/2016, Rv. 638643, Scalisi, in ordine al diritto alla provvigione ed alle sue condizioni. A tal fine viene affermato che, ove l'iscrizione all'albo dei mediatori professionali sia intervenuta dopo l'inizio dell'attività, il mediatore ha diritto al compenso solo dal momento della iscrizione medesima. A tale principio la sentenza 184 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI fa logicamente seguire l'altra affermazione, ossia che il mediatore è tenuto a restituire l'acconto percepito quando ancora non possedeva la qualifica, non potendo la sopravvenienza della stessa nel corso del rapporto, né l'unitarietà del compenso spettante al mediatore, legittimare ex post un pagamento non consentito dalla legge al momento della sua effettuazione. 14. Il mutuo. Tra le poche pronunce dedicate al contratto di mutuo meritano di essere segnalate alcune di esse per i peculiari aspetti trattati. Tra esse Sez. 3, n. 09389/2016, Olivieri, Rv. 639901, in tema di mutuo fondiario e distribuzione dell'onere della prova. La pronuncia afferma che nel caso di stipulazione del contratto di mutuo fondiario regolato dall'art. 3 del d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, l'onere della prova dell'erogazione della somma data a mutuo è assolto dall'istituto di credito mutuante mediante la produzione in giudizio dell'atto pubblico notarile di erogazione e quietanza. In questo caso spetta peraltro al debitore che si opponga all'azione esecutiva del creditore dare la prova della restituzione della somma mutuata e degli accessori, ovvero della esistenza di altre cause estintive dell'obbligazione restitutoria. Alcune pronunce dirigono poi l'attenzione sulla disciplina degli interessi nei contratti di mutuo. Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640109, afferma che il divieto di pattuire interessi usurari, previsto per il mutuo dall'art. 1815 c.c., è applicabile a tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro remunerazione, compresa l'apertura di credito in conto corrente, sicchè è nulla per contrarietà a norme imperative la clausola, ivi contenuta, che preveda l'applicazione di un tasso sugli interessi con fluttuazione tendenzialmente aperta con la correzione dell'automatica riduzione in caso di superamento del cd. tasso soglia usurario. Ciò trova giustificazione nella considerazione che, così altrimenti agendo, si assicurerebbe la sola astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista. E ancora in tema di interessi applicati ai mutui, Sez. 1, n. 00801/2016, De Chiara, 638458, chiarisce che i criteri fissati dalla l. 7 marzo 1996, n. 108 per la determinazione del carattere usurario degli interessi non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi, che siano anteriori all'entrata in vigore di quella legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso o variabile, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 1, 185 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 - poi convertito con modifiche dalla l. 28 febbraio 2001, n. 24 - che non reca una tale distinzione. 15. La rendita. In tema di rendita, mette conto anzitutto segnalare Sez. 2, n. 22009/2016, Falabella, Rv. 641568, ove è tracciata con chiarezza la distinzione fra detto tipo contrattuale ed il contratto atipico di cd. "vitalizio alimentare", caratterizzandosi tale ultimo per l'accentuata spiritualità delle prestazioni assistenziali che ne costituiscono il contenuto, come tali eseguibili solo da un vitaliziante specificamente individuato per le sue qualità personali, e per l'alea più marcata che lo riguarda, correlata non solo alla durata della vita del beneficiario ma anche alla variabilità e discontinuità delle prestazioni suddette, suscettibili di modificarsi secondo i suoi bisogni. Proprio in relazione al tema dell'alea che caratterizza questi contratti, una particolare attenzione è stata dedicata alle fattispecie realizzate mediante il trasferimento di un bene immobile in favore dell'obbligato al versamento periodico. A tale riguardo, Sez. 2, n. 04825/2016, Migliucci, Rv. 639418, ha specificato che l'aleatorietà del contratto, che sussiste a fronte di un'effettiva incertezza sui vantaggi ed i sacrifici derivanti reciprocamente alle parti dalle prestazioni, va verificata tenuto conto del valore dell'immobile trasferito al vitaliziante rispetto all'importo della rendita da erogare per la probabile durata della vita del vitaliziato, e resta così esclusa ove si accerti l'esistenza di un'obiettiva sproporzione. Sez. 2, n. 08209/2016, Falabella, Rv. 639695, ha invece precisato che l'alea del contratto comprende anche l'aggravamento delle condizioni del vitaliziante, per cui il trasferimento all'onerato di un ulteriore bene mediante la conclusione di un successivo contratto cd. di mantenimento, quale compenso della maggiore gravosità sopravvenuta dell'assistenza da prestare, è privo di causa, poiché elimina il rischio di sproporzione tra le due prestazioni, finendo per dissimulare unacausa di liberalità. In relazione alla stessa figura contrattuale, poi, Sez. 2, n. 19214/2016, Falaschi, Rv. 641563 ha ritenuto la nullità del contratto di vitalizio alimentare concluso da beneficiario affetto da malattia che, per natura e gravità, renda estremamente probabile un esito letale e ne provochi la morte dopo breve tempo, ovvero di età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere oltre un arco di tempo determinabile. 186 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 16. La transazione. Un'importante precisazione in ordine alla nullità del contratto di transazione è quella contenuta in Sez. 1, n. 02413/2016, Valitutti, Rv. 638647, che - richiamando l'art. 1972, comma 1, c.c. - ribadisce che essa va limitata all'ipotesi di transazione su titolo nullo per illiceità della causa o del motivo comune ad entrambe le parti; la pronunzia esclude dunque la relativa azione per il caso in cui manchi uno degli altri requisiti previsti dall'art. 1325 c.c. o per altre ragioni, limitando poi l'ipotesi di invalidità conseguente alla nullità di singole clausole del contratto al caso in cui delle stesse risulti l'essenzialità rispetto al contratto stesso, ai sensi dell'art. 1419 c.c. Sul tema della cd. transazione con funzione traslativa, poi, Sez. 3, n. 14432/2016, Vincenti, Rv. 640529, ha specificato che essa deve ritenersi consentita soltanto con riguardo a rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti, non essendo concepibile il trasferimento tra le parti in lite, mediante transazione, di un diritto la cui appartenenza sia incerta perché oggetto di contestazione. 17. Il trasporto. Rilevante, per i suoi risvolti in tema di diritti del trasportato, è quanto affermato da Sez. 3, n. 12143/2016, Scrima, Rv. 640214, che fa carico all'acquirente del titolo di viaggio che domandi all'agente di viaggi il risarcimento del danno non patrimoniale cd. "da vacanza rovinata" di allegare gli specifici elementi di fatto donde si desume il pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale. In materia di controversie risarcitorie relative al trasporto aereo internazionale, poi, va segnalata Sez. 6-3, n. 08901/2016, Rossetti, Rv. 639710, riferita alla disposizione di cui all'art. 33 della Convenzione di Montreal (ratificata e rese esecutiva in Italia con legge 10 gennaio 2004, n. 12); la Corte ha chiarito che tale disposizione ha la sola funzione di regolare il riparto di giurisdizione, sicché il riferimento al "tribunale", contenuto nel suo testo, non vale ad individuare una competenza funzionale di detto ufficio giudiziario, trovando applicazione gli ordinari criteri di riparto stabiliti dal codice di rito. 18. La vendita. Le pronunce sul contratto di vendita sono numerose come di consueto, toccando molte delle principali questioni giuridiche del tipo negoziale in esame. 187 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 18.1. Anche nel 2016 la Corte è intervenuta, come di consueto, in materia di garanzia per vizi, con puntualizzazioni e chiarimenti. Di particolare interesse è Sez. 2, n. 11046/2016, Abete, Rv. 640058, in ordine alla identificazione del momento in cui ha inizio la decorrenza del termine decadenziale previsto dall'art. 1495 c.c. La pronuncia afferma in particolare che, quanto alla garanzia per i vizi della cosa venduta, il termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio occulto decorre dal momento in cui il compratore ne abbia acquisito certezza obiettiva e completa. Da tale principio discende però l'ulteriore precisazione secondo cui, quando la scoperta del vizio avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui si sia completata la relativa scoperta. Sez. 2, n. 08420/2016, Orilia, Rv. 639755, sempre in tema di decadenza dalla garanzia, sostiene che il riconoscimento dei difetti da parte del venditore, che ai sensi dell'art. 1495, comma 2, c.c., esonera il compratore dall'onere della tempestiva denuncia, deve tradursi in una manifestazione di scienza circa la sussistenza della situazione lamentata dall'acquirente, che, pur non richiedendo un'assunzione di responsabilità né forme particolari, deve essere univoca, convincente e provenire dal venditore. Ne consegue che, ove il riconoscimento provenga da un terzo, quand'anche produttore del bene difettato, che sia estraneo al rapporto contrattuale ancorchè edotto dall'alienante delle lamentele formulate dall'acquirente, questi non è esonerato dall'onere della tempestiva denunzia dei vizi nei confronti del venditore. Sebbene riferibile al contratto preliminare, è opportuno collocare in questo contesto Sez. 1, n. 07584/2016, Nappi, Rv. 639308, secondo cui la consegna dell'immobile, effettuata prima della stipula del contratto definitivo, non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti, né comunque di quello di prescrizione, presupponendo l'onere della tempestiva denuncia l'avvenuto trasferimento del diritto, sicchè il promissario acquirente, anticipatamente immesso nella disponibilità materiale del bene, risultato successivamente affetto da vizi, può chiedere l'adempimento in forma specifica del preliminare, ai sensi dell'art. 2932 c.c., e contemporaneamene agire con l'azione quanti minoris per la diminuzione del prezzo, senza che gli si possa opporre la decadenza o la prescrizione. 188 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Con riguardo poi alla ipotesi della esclusione pattizia della garanzia, Sez. 2, n. 09651/2016, Lombardo, Rv. 639885, nel circoscrivere l'ambito applicativo del comma 2 dell'art. 1490 c.c., afferma che, laddove la norma prevede che il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto se il venditore abbia in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa, presupponendo che il venditore abbia raggirato il compratore con il tacere consapevolmente i vizi della cosa venduta dei quali era a conoscenza, così inducendolo ad accettare l'esonero o la limitazione dalla garanzia altrimenti mai accettata, non si applica all'ipotesi in cui lo stesso venditore sia all'oscuro (non ha importanza se anche per colpa grave), dell'esistenza dei vizi. Sempre in materia di vizi va segnalata inoltre Sez. 2, n. 06596/2016, Scarpa, Rv. 639637, che, nel marcare la differenza tra i vizi redibitori e la mancanza delle qualità promesse, e tra questi istituti e la vendita di aliud pro alio, afferma che in tema di compravendita il vizio redibitorio previsto dall'art. 1490 c.c. e la mancanza delle qualità promesse ed essenziali del bene, previsto dall'art. 1497 c.c., pur presupponendo l'appartenenza della cosa al genere pattuito, si differenziano in quanto il primo riguarda le imperfezioni e i difetti inerenti il processo di produzione, fabbricazione o formazione o ancora conservazione della cosa, mentre la seconda è inerente alla natura della merce, e concerne tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono, nell'ambito di un medesimo genere, sull'appartenenza ad una specie piuttosto che a un'altra. Prosegue poi la pronuncia chiarendo che entrambe le ipotesi differiscono dalla consegna di aliud pro alio, che invece si ha quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua naturale funzione o a quella ritenuta essenziale dalle parti. Il tema dei difetti di qualità apparenti nella vendita è trattato anche in Sez. 2, n. 12465/2016, Cosentino, Rv. 640089, in riferimento a cose trasportate. Sul punto la pronuncia afferma che la decorrenza del termine di denunzia dal giorno del ricevimento è stabilita dall'art. 1511 c.c. solo per le qualità essenziali all'uso cui la cosa è destinata, mentre per le qualità promesse il termine stesso decorre unicamente dalla scoperta del difetto, poiché l'affidamento generato dalla promessa del venditore solleva il compratore dall'onere di verifica alla consegna. Infine non va sottaciuta Sez. 1, n. 02313/2016, Sambito, Rv. 638699, che, con riferimento alla contestazione della efficacia del patto di esclusione della garanzia prevista dall'art. 1490, comma 2, 189 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI c.c., per essere stati sottaciuti in mala fede vizi della cosa venduta, afferma che si tratta di una eccezione in senso stretto, come tale preclusa in appello, in quanto con essa la parte intende far valere l'esistenza di raggiri impiegati per indurla ad accettare la clausola esonerativa di responsabilità, sicchè, denunciando la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede al momento della conclusione del contratto, necessita di una manifestazione di volontà di chi intenda avvalersene. 18.2. In merito agli effetti dei negozi traslativi di un bene, meritevole di menzione è la sentenza emessa da Sez. 2, n. 09769/2016, Scarpa, Rv. 639886, che ha chiarito come la compravendita di un terreno su cui insistano delle costruzioni comporta, a titolo negoziale e non in base al principio della accessione, il trasferimento anche dei relativi immobili, ancorchè non espressamente menzionati nell'atto. Tale effetto va tuttavia escluso qualora il venditore, contestualmente alla cessione, riservi a sé stesso o ad altri la proprietà del fabbricato, costituendo formalmente sul terreno alienato un diritto di proprietà superficiaria ai sensi dell'art. 952 c.c. Interessante è anche Sez. 2, n. 10614/2016, Scalisi, Rv. 640051, in relazione alla vendita di un immobile ad un prezzo inferiore a quello effettivo. Nella ipotesi in cui ciò avvenga, la pronuncia afferma che la compravendita non realizza di per sé un negotium mixtum cum donatione, poiché per la configurabilità di tale istituto non è solo necessaria la sproporzione significativa tra le prestazioni, ma anche la consapevolezza, da parte dell'alienante, dell'insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, così da porre in essere un trasferimento volutamente funzionale all'arricchimento della controparte acquirente della somma corrispondente alla differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto. Quanto poi alla funzione della forma del contratto di vendita, Sez. 1, n. 09994/2016, Di Virgilio, 639800, afferma che nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di immobili futuri, la forma scritta è necessaria solo per la stipulazione del contratto ad effetti obbligatori e non anche per l'individuazione del bene, la cui proprietà è trasferita non appena lo stesso viene ad esistenza. Il principio assume notevole rilevanza pratica, come dimostra la fattispecie per la quale è stato affermato, ossia relativamente ad una ipotesi di contratto di permuta di cosa futura, in cui erano stati trasferiti agli acquirenti, che ne erano risultati assegnatari "di fatto", 190 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI di beni diversi da quelli scelti nel progetto originario, sebbene con caratteristiche ad essi analoghe. Invece in tema di assegnazione di alloggi economici e popolari con patto di futura vendita, Sez. 1, n. 17042/2016, Dogliotti, Rv. 640916, afferma che, perseguendo lo specifico scopo di soddisfare le esigenze abitative degli aventi diritto, così consentendo l'accesso alla casa a prezzi di favore a soggetti comunque bisognevoli di sostegno, il trasferimento definitivo dell'immobile è subordinato al requisito della persistente utilizzazione abitativa dello stesso. Infine, sempre con riguardo a fattispecie peculiari, e con riferimento alla ipotesi di successione di contratti sino alla stipula del contratto definitivo di compravendita, Sez. 2, n. 07064/2016, Scarpa, Rv. 639679, chiarisce che in caso di costituzione progressiva di un rapporto giuridico attraverso la stipulazione di una pluralità di atti successivi, quali la compravendita di un terreno edificabile, un contratto preliminare, in ultimo la successiva transazione definitiva (che rispetto al primo atto non conteneva più una clausola penale per il caso di mancato ottenimento della concessione edilizia), tutti soggetti alla forma scritta ad substantiam, la fonte esclusiva dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto va comunque individuata nel contratto definitivo, restando superati i negozi precedenti dalla nuova manifestazione di volontà, che può anche non conformarsi del tutto agli impegni già assunti, senza che assuma rilievo un eventuale consenso formatosi fuori dell'atto scritto, trattandosi di atti vincolati. 18.3. Alcune pronunce si sono occupate di specifiche forme di vendita. In tema di vendita a campione di cui all'art. 1522 c.c., Sez. 2, n. 06162/2016, Criscuolo, Rv. 639453, afferma che qualora sia il campione che la cosa compravenduta presentino identici vizi o mancanza di qualità e, al momento dell'accettazione del campione medesimo, gli uni e le altre non siano rilevabili dal compratore, è applicabile la disciplina ordinaria in tema di garanzia per vizi o mancanza di qualità della cosa venduta. E sotto il profilo processuale Sez. 2, n. 09968/2016, Abete, Rv. 639751, sostiene che il giudice può vagliare qualsiasi risultanza probatoria al fine di accertare eventuali difformità della merce rispetto al campione convenuto, utilizzando al riguardo anche documenti nella disponibilità della parte acquirente. 191 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Sez. 6-2, n. 08491/2016, Scalisi, Rv. 639604, occupandosi della vendita a prova, afferma che essa costituisce un contratto perfetto nei suoi elementi costitutivi ma sospensivamente condizionato all'esito positivo della prova, il cui accertamento attiene alla verifica obiettiva circa le qualità pattuite del bene compravenduto o la sua idoneità all'uso cui è destinato. Chiarisce che a tal fine è sufficiente dimostrare che la prova sia stata oggettivamente superata, senza necessità di accertare, all'esito della valutazione comparativa, che solo quel bene possa assicurare il risultato programmato dalle parti. Infine meritevole di segnalazione è Sez. 2, n. 06144/2016, Picaroni, Rv. 639397, secondo cui, in tema di vendita con patto di riscatto, la nullità, per eccedenza, della clausola con cui le parti subordinano l'esercizio del riscatto al pagamento di un prezzo superiore a quello fissato per la vendita colpisce anche la pattuizione relativa al pagamento degli interessi sul prezzo medesimo, quand'anche a titolo compensativo di utilità che il venditore abbia potuto trarre in ragione di particolari accordi intervenuti con l'acquirente, giacchè tale utilità, secondo un criterio di ragionevolezza, deve ritenersi scontata nel prezzo originario fissato dalle parti. 18.4. Non mancano, come di consueto, le pronunce in tema di preliminare di vendita. Deve segnalarsi Sez. 2, n. 05211/2016, Lombardo, Rv. 639209, in ordine agli effetti della anticipata consegna del bene rispetto alla stipula del definitivo. La pronuncia chiarisce che in questa ipotesi non si realizza una anticipazione degli effetti traslativi, fondandosi la disponibilità conseguita dal promissario acquirente sull'esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al negozio preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Ne discende che la relazione tra il promissario acquirente e la cosa è qualificabile esclusivamente come di detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem ove non sia dimostrata una interversio possessionis nei modi previsti dall'art. 1141 c.c. Sempre con riguardo alle vicende che possano coinvolgere il bene durante la vigenza del rapporto obbligatorio, Sez. 2, n. 03390/2016, Orilia, Rv. 638762, afferma che in tema di preliminare di vendita il pericolo di evizione del bene a fronte del quale, ai sensi dell'art. 1481 c.c., il promittente acquirente ha la facoltà di rifiutarsi di concludere il contratto definitivo, deve essere concreto e attuale. Tale stato non ricorre, di per sé, nell'ipotesi di fallimento del dante 192 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI causa del promissario venditore, per l'eventualità, solo astratta, che venga proposta una azione revocatoria. Quanto alle conseguenze risarcitorie per l'ipotesi di condotta inadempiente del promissario acquirente, Sez. 2, n. 04713/2016, Lombardo, Rv. 639356, chiarisce che al promittente venditore è dovuto il risarcimento del danno causatogli dall'inadempimento del promissario acquirente, che si sia ingiustificatamente sottratto alla stipulazione del definitivo, anche quando non dimostri di aver perduto, nelle more del termine pattuito per la stipula del definitivo, concrete possibilità di vendere l'immobile compromesso. Infatti la sostanziale incommerciabilità del bene, nella vigenza del preliminare fino alla proposizione della domanda di risoluzione, integra gli estremi del danno, la cui sussistenza è in re ipsa e quindi non necessitante di prova. Sempre in ordine alla risarcibilità dei danni conseguenti all'inadempienza del promissario acquirente, Sez. 3, n. 19403/2016, Spirito, (in corso di massimazione), afferma che il danno da occupazione dell'immobile, nella ipotesi di recesso dal contratto da parte del promittente venditore, per la condotta inadempiente del promissario acquirente, va distinto dalla caparra confirmatoria versata da quest'ultimo per l'ipotesi di risoluzione del preliminare per fatti addebitabili all'obbligato acquirente, che costituisce solo una preventiva liquidazione del danno per il mancato versamento del prezzo, sicchè l'aver trattenuto la caparra non esclude il diverso ed ulteriore diritto risarcitorio del promittente acquirente al risarcimento dei danni dovuti alla occupazione dell'immobile dalla data di immissione nella sua detenzione sino al rilascio. Sugli obblighi gravanti sul promissario acquirente ai fini della domanda di esecuzione in forma specifica, Sez. 2, n. 10605/2016, Scalisi, Rv. 639953, chiarisce che, quando questi promuova l'azione ex art. 2932 c.c., è tenuto ad eseguire la prestazione a suo carico o a farne offerta nei modi di legge se tale prestazione sia già esigibile al momento della domanda giudiziale, mentre non è tenuto a pagare il prezzo quando, in virtù delle obbligazioni nascenti dal preliminare, il pagamento dello stesso risulti dovuto all'atto della stipulazione del contratto definitivo. In tale evenienza, prosegue la pronuncia, solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica sorge l'obbligazione, e l'eventuale successivo mancato saldo del prezzo, al quale è subordinato l'effetto traslativo della proprietà, rende applicabile l'istituto della risoluzione per inadempimento ma non la condizione risolutiva ex art. 1353 c.c. 193 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Proseguendo nella segnalazione della giurisprudenza della Corte sul contratto preliminare di vendita, in ordine ai requisiti necessari del negozio, Sez. 2, n. 11237/2016, Orilia, Rv. 640046, afferma che il requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto del preliminare di vendita di immobile non postula la specificazione dei dati catastali, trattandosi di indicazione rilevante ai fini della trascrizione, ma non indispensabile per la sicura identificazione del bene, che può essere evinta anche da altri dati. Quanto poi all'interesse alla stipula del definitivo, Sez. 2, n. 15906/2016, Picaroni, Rv. 640575, sostiene che il contratto preliminare di vendita della nuda proprietà non è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti degli eredi del promittente venditore deceduto prima della stipula del definitivo, in quanto per gli eredi medesimi è venuta meno l'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto. Alcune pronunce colgono infine aspetti peculiari del contratto preliminare, sotto il profilo sostanziale o processuale. Al fine di identificare il negozio che investe il preliminare, Sez. 2, n. 11234/2016, Scalisi, Rv. 640094, afferma che il contratto avente ad oggetto l'impegno a trasferire la proprietà di una porzione di un'area in cambio di una o più unità immobiliari da costruire sulla residua porzione dell'area, è qualificabile come preliminare di permuta di cosa futura ove l'intento concreto delle parti abbia ad oggetto il reciproco trasferimento dei beni (quello presente e quello futuro), restando meramente strumentale l'obbligo di erigere i fabbricati, mentre integra un contratto di appalto se tale obbligazione assume rilievo preminente e ad essa corrisponda quella di versare il corrispettivo (sostituito, nella forma tipica del do ut facias, dal trasferimento dell'area), anche in compensazione rispetto al prezzo per la vendita immobiliare funzionalmente collegata. Infine, Sez. 2, n. 08693/2016, Oricchio, Rv. 639745, afferma che nella esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, l'esecutività provvisoria ai sensi dell'art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva emessa all'esito della domanda di cui all'art. 2932 c.c. è limitata ai capi della decisione che sono compatibili con la produzione dell'effetto costitutivo in un momento successivo, e non si estende a quelli che si collocano in rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale, sicchè non può essere riconosciuta al capo decisorio relativo al trasferimento dell'immobile contenuto nella sentenza di primo grado, né alla condanna implicita al rilascio dell'immobile, poiché l'effetto 194 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI traslativo della proprietà del bene scaturente dalla stessa sentenza si produce solo al momento del suo passaggio in giudicato, con la contemporanea acquisizione dell'immobile al patrimonio del destinatario della pronuncia. 195 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE CAPITOLO XII LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE (di Paolo Spaziani) SOMMARIO: 1. La gestione di affari. – 2. Il pagamento dell'indebito. – 3. L'arrichimento senza causa. 1. La gestione di affari. Per unanime opinione dottrinale la negotiorum gestio (che può essere rappresentativa o non rappresentativa secondo che il gestore agisca in nome del gerito o in nome proprio) deve essere ricondotta allo schema del mandato, in quanto la relativa disciplina codicistica trova fondamento proprio nell'esigenza di estendere le regole del mandato alle fattispecie in cui manca un incarico espresso da parte del dominus. Movendo da tale premessa dogmatica - e dopo aver rammentato che i presupposti della gestione sono la c.d. absentia domini (da intendersi non in senso tradizionale ma nel senso di contingente impedimento a provvedere personalmente all'affare), la consapevolezza del gestore di curare un interesse altrui in assenza di un obbligo giuridico di provvedervi, la mancanza di una prohibitio domini e l'utilità iniziale della gestione (cd. utiliter coeptum) - Sez. 2, n. 22302/2016, Bucciante, in corso di massimazione, ha ritenuto che concreti una gestione non rappresentativa il conferimento ad un avvocato dell'incarico di tutelare i diritti di una persona che versi in una situazione transitoria di incapacità naturale, trandone il corollario per cui il professionista può essere tenuto a restituire alla persona difesa le somme indebitamente corrispostegli dal soggetto che lo ha incaricato, atteso che, in applicazione della regola che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato (art. 1705 c.c.), deve riconoscersi al gerito la legittimazione attiva a ripetere nei confronti dell'accipiens il pagamento indebito eseguito dal gestore. 2. Il pagamento dell'indebito. In tema di indebito oggettivo, movendo dalla formulazione letterale dell'art. 2033 c.c. che collega la genesi dell'obbligazione restitutoria al pagamento non dovuto, Sez. 1, n. 25170/2016, Di Marzio M., in corso di massimazione, discostandosi consapevolmente dall'orientamento dottrinale secondo il quale il soggetto passivo dell'obbligazione va individuato non nell'accipiens materiale ma nel soggetto che ha effettivamente 196 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE ricevuto l'incremento patrimoniale, ha ribadito il consolidato principio secondo cui la legittimazione passiva all'azione di ripetizione compete esclusivamente al soggetto che ha ricevuto la somma che si assume essere non dovuta. In tale prospettiva è stato peraltro chiarito (da Sez. 6-3, n. 17705/2016, Rossetti, Rv. 641422) che il pagamento dell'indebito a persona defunta, ma ritenuta vivente dal solvens, fa sorgere l'obbligo di restituzione in capo a colui che di fatto si avvalga di quella somma, essendo solo quest'ultimo il soggetto che, con la materiale apprensione del pagamento, acquista la qualità di accipiens e, con essa, l'obbligo di restituire quanto acquisito. In base a questo principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che - in relazione alla domanda di ripetizione proposta da un istituto di credito, il quale per anni aveva erogato, per conto dell'INPS, la pensione ad un soggetto defunto mediante accredito su un conto corrente cointestato a quest'ultimo e ad un terzo - aveva ritenuto l'obbligo restitutorio trasferito dal beneficiario defunto ai suoi eredi, anziché sorto direttamente ed esclusivamente in capo al terzo cointestatario che aveva prelevato le somme indebitamente erogate. In ordine ai presupposti dell'azione, Sez. L, n. 25270/2016, Manna A., in corso di massimazione, ha affermato che essa presuppone sempre una prestazione positiva (un facere o un dare) in precedenza indebitamente eseguita dal solvens che agisce in ripetizione, per escludere che possa essere qualificata in tali termini la domanda di pagamento di somme di danaro (corrispondenti agli incentivi all'esodo precedentemente erogati) proposta dai dipendenti contro la società datrice di lavoro, la quale abbia esercitato, mediante compensazione impropria operata all'atto della corresponsione del TFR, l'asserito diritto di ottenere la restituzione dei predetti incentivi. La pronuncia precisa che la domanda in parola va piuttosto qualificata come azione di inesatto adempimento del debito per TFR gravante sul datore di lavoro, ed è come tale assoggettata al termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 5, c.c. e non al termine decennale previsto per l'azione di cui all'art. 2033 c.c. In tema di prescrizione dell'azione di indebito oggettivo, Sez. 1, n. 10713/2016, Lamorgese, Rv. 639791, ha statuito che l'azione restitutoria proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in 197 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE cui i versamenti sono stati eseguiti in pendenza del rapporto, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Sempre in tema di prescrizione, Sez. 3, n. 07749/2016, Carluccio, Rv. 639493, ha affermato che in caso di nullità di un contratto per impossibilità giuridica originaria del suo oggetto, l'azione di ripetizione dell'indebito, esperibile in relazione all'avvenuto versamento del corrispettivo, deve essere esercitata entro dieci anni dalla data del pagamento, non ostando al decorso della prescrizione l'assenza di un giudicato in ordine alla nullità contrattuale. Sotto il profilo dei limiti all'esperibilità dell'azione di ripetizione in relazione alle prestazioni spontaneamente eseguite in esecuzione di doveri morali o sociali, Sez. 2, n. 19578/2016, C o s e n t i n o , R v . 6 4 1 3 5 6 , s i è s o ffe r m a t a s u i c a r a t t e r i dell'obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., che si distingue dalla liberalità fatta per riconoscenza nei confronti del beneficiario (cd. donazione rimuneratoria) e la cui sussistenza postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Ai fini del dies a quo della decorrenza degli interessi spettanti al solvens che agisce fondatamente in ripetizione, Sez. 6-3, n. 23543/2016, Scrima, in corso di massimazione, ha ritenuto che la buona fede dell'accipiens, rilevante per limitare la predetta decorrenza alla data della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell'effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non essendo applicabile l'art. 1147, comma 2, c.c., relativo alla buona fede nel possesso; la pronuncia in rassegna ha inoltre chiarito che, poiché la buona fede è presunta, grava sul solvens, che intenda conseguire gli interessi dal giorno del pagamento, l'onere di dimostrare la malafede dell'accipiens all'atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza dell'insussistenza di un suo diritto a conseguirla. Sotto il profilo processuale, Sez. 3, n. 19631/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha statuito che nell'ipotesi di azione di ripetizione di somme per indebito oggettivo, fondato sull'affermazione che, pur nella sussistenza di uno specifico 198 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE rapporto obbligatorio tra le parti, le somme richieste in ripetizione non sono dovute per mancata giustificazione del pagamento eccedente la causa di scambio, la difesa del convenuto assume natura di mera difesa se volta a negare il fatto costitutivo della domanda, mentre si atteggia quale eccezione riconvenzionale di merito se rivolta ad individuare un autonomo titolo contrattuale giustificativo del pagamento contestato. Ne consegue che nella seconda ipotesi, ampliandosi il thema decidendum, l'eccezione riconvenzionale deve essere fatta valere nel rispetto delle preclusioni processuali. La Suprema Corte, con Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638223, ha infine affermato un importante principio in tema di imposta di consumo per il gas metano, statuendo che la domanda di ripetizione proposta dal consumatore verso il fornitore per quanto indebitamente pagato a causa della mancata applicazione dell'aliquota ridotta per usi industriali può essere accolta con decorrenza dalla data di presentazione della relativa istanza all'autorità finanziaria e non da un momento anteriore, posto che il godimento del beneficio è subordinato alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti da parte del contribuente e alla verifica dei medesimi da parte dell'autorità competente, ciò che riverbera i suoi effetti anche nel rapporto privatistico tra consumatore e fornitore. 3. L'arricchimento senza causa. Con riguardo ai presupposti dell'azione generale di arricchimento (identificati, ai sensi dell'art. 2041, comma 1, c.c., nell'arricchimento di un soggetto, nel correlativo impoverimento di un altro soggetto e nella mancanza di una giusta causa), Sez. 2, n. 07331/2016, Falabella, Rv. 639455, ha statuito che quest'ultimo presupposto non è invocabile allorché l'arricchimento (nella specie, l'assegnazione di un alloggio realizzato da una cooperativa edilizia) dipenda da un atto di disposizione volontaria (nella specie, la cessione, in favore dell'assegnatario, delle quote della società cooperativa), finché questo conservi la propria efficacia obbligatoria. Con riguardo agli effetti dell'ingiustificato arricchimento (consistenti nell'obbligo di indennizzo o in quello di restituzione, ai sensi dell'art. 2041, commi 1 e 2, c.c.), Sez. 1, n. 14526/2016, De Chiara, Rv. 640504, ha affermato che, ove l'arricchimento sia conseguito all'assenza di un valido contratto di appalto, l'indennità prevista dall'art. 2041, comma 1, c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita da chi ha eseguito la prestazione, 199 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE con esclusione di quanto questi avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Avuto riguardo al carattere sussidiario dell'azione di arricchimento (art. 2042 c.c.), Sez. 6-3, n. 12242/2016, De Stefano, Rv. 640266, ha ritenuto l'inammissibilità di quella proposta nei confronti dell'aggiudicatario dal debitore esecutato, in ragione delle opere eseguite sul bene pignorato durante il processo esecutivo, dovendo le relative questioni essere tempestivamente dedotte con gli strumenti propri di tale processo. Sotto il profilo processuale, infine, Sez. 1, n. 18693/2016, Campanile, Rv. 611346, ha statuito che in caso di rigetto della domanda di arricchimento senza causa, proposta per la prima volta dal creditore opposto nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, emesso con riguardo alla sua domanda di adempimento, senza che la relativa statuizione sia stata impugnata con ricorso incidentale da parte del preteso arricchito, unico soggetto interessato alla sua eventuale censurabilità, si forma il giudicato implicito sulla questione pregiudiziale relativa alla proponibilità della domanda ex art. 2041 c.c., costituendo la mancata impugnazione sintomo di un comportamento incompatibile con la volontà di far valere in sede di impugnazione la questione pregiudiziale (che dà luogo ad un capo autonomo della sentenza e non costituisce un mero passaggio interno della decisione di merito, come si desume dall'art. 279, comma 2, n. 2 e 4, c.p.c.), verificandosi il fenomeno dell'acquiescenza per incompatibilità, con le conseguenti preclusioni sancite dagli artt. 324 e 329, comma 2, c.p.c., in coerenza con i principi dell'economia processuale e della durata ragionevole del processo, di cui all'art. 111 Cost. 200 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE CAPITOLO XIII LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE (di Irene Ambrosi e Paola D'Ovidio)∗ SOMMARIO: 1. Il danno non patrimoniale. - 1.1. Il danno da perdita della vita. - 1.2. Il danno alla salute. - 1.3. Il danno da perdita del rapporto parentale. - 1.4. Il danno da perdita dell'identità personale - 1.5. Il danno da lesione dell'altrui reputazione. - 1.6. Il danno ambientale. - 1.7. Il danno da vacanza rovinata. - 2. Il danno patrimoniale. - 2.1. Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica. - 2.2. Il danno patrimoniale futuro. - 3. La liquidazione del danno non patrimoniale. - 3.1. Il principio della omnicomprensività del risarcimento. - 3.2. La liquidazione in via equitativa. - 3.3. Parametri di quantificazione del danno: Tabelle di Milano. - 3.4. La liquidazione del danno biologico. - 4. Il concorso di colpa del danneggiato. - 5. La responsabilità precontrattuale. - 6. La legittimazione passiva dello Stato in tema di responsabilità da mancata attuazione di direttive comunitarie. - 7. Il risarcimento in forma specifica. - 8. Le responsabilità presunte. Genitori e maestri (art. 2048 c.c.). - 8.1. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 8.2. Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 8.3. Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 8.4. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 8.5. danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). 1. Il danno non patrimoniale. La Suprema Corte, con la pronuncia di Sez. L, n. 00583/2016, Bronzini, Rv. 638512, è tornata sulla questione attinente alla risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale, ritenendola possibile purché tali voci siano allegate e provate nella loro specificità, risolvendosi tale soluzione in una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l'incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino-lavoratore", protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie, incombendo sul lavoratore la prova che un particolare e specifico aspetto della sua personalità ed integrità morale, anche dal punto di vista professionale, non sia stato già risarcito a titolo di danno morale. In applicazione di tale principio la S.C. ha quindi confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di danno esistenziale, richiesta a seguito di danno da grave trauma di schiacciamento della mano sinistra e in relazione all'asserita diminuzione delle attività sportive e relazionali, per essere stata detta componente già riconosciuta a titolo di danno morale. ∗ Irene Ambrosi ha redatto i par. 1.3, 3 da 5 a 8.2, da 8.4 a 8.6, Paola D'Ovidio ha redatto i par. da 1 a 1.2, da 1.4 a 1.7, 2, 4 e 8.3. 201 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Peraltro, Sez. 3, n. 00336/2016, D'Amico, Rv. 638611, ha ribadito che non è ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria del "danno esistenziale", in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., sicché la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una non consentita duplicazione risarcitoria; ove, invece, si intendesse includere nella categoria i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, la stessa sarebbe illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili alla stregua dello stesso articolo 2059 c.c.. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito di non liquidare, con voce autonoma, il danno esistenziale da morte del congiunto, per essere stato già liquidato il relativo danno non patrimoniale comprensivo sia della sofferenza soggettiva che del danno costituito dalla lesione del rapporto parentale e del conseguente sconvolgimento dell'esistenza. Con riferimento al danno morale in caso di incidente stradale, Sez. 3, n. 00339/2016, D'Amico, Rv. 638731, ha affermato che ne è dovuta la liquidazione, ancorché conseguente a lesioni di lieve entità (micropermanenti), purchè si tenga conto della lesione in concreto subita, non sussistendo alcuna automaticità parametrata al danno biologico, e il danneggiato è onerato dell'allegazione e della prova, eventualmente anche a mezzo di presunzioni, delle circostanze utili ad apprezzare la concreta incidenza della lesione patita. Una peculiare decisione è intervenuta in tema di danno non patrimoniale derivante dal reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all'art. 684 c.p. commesso dopo la conclusione delle indagini preliminari (ossia quando, in base all'art. 114, comma 7, c.p.p., gli atti non sono più segreti ma ne è vietata la pubblicazione testuale): in proposito, Sez. U, n. 03727/2016, Amendola A., Rv. 640409, ha affermato che la portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità della riproduzione testuale di un atto processuale, va apprezzata dal giudice di merito, in applicazione del principio penalistico di necessaria offensività della concreta condotta ascritta all'autore, nonché, sul piano civilistico, di quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità, espressione del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. di tolleranza della lesione minima; la stessa sentenza ha altresì precisato che la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata. 202 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Infine, da un punto di vista più generale, Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640308, ha chiarito che la diversa natura del danno non patrimoniale rispetto a quello patrimoniale persiste anche a seguito della sua liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile. 1.1. Il danno da perdita della vita. Per quanto concerne il danno non patrimoniale da perdita della vita, assume rilievo la decisione di Sez. L, n. 14940/2016, Doronzo, Rv. 640733, che ha ritenuto tale danno non indennizzabile ex se, escludendo altresì che possa essere invocato il "diritto alla vita" di cui all'art. 2 CEDU, norma che, pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, non detta specifiche prescrizioni sull'ambito ed i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, né, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l'attribuzione della tutela risarcitoria; peraltro, osserva la citata sentenza, riconoscimento di una simile tutela, in numerosi interventi normativi, ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull'evento lesivo in sé considerato. 1.2. Il danno alla salute. Con riferimento alla tutela della salute del lavoratore, Sez. L, n. 03291/2016, Tria, Rv. 639004, ha arricchito la casistica giurisprudenziale delineando la rilevanza delle condizioni lavorative "stressogene". In proposito, tale sentenza, ha affermato che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. straining); pertanto, ha quindi concluso la pronuncia di cui si discorre, il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre 203 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno. Ancora in tema di salute del lavoratore, è di sicuro interesse ed attualità Sez. L, n. 18503/2016, Riverso, Rv. 641194, in tema di patologie correlate all'amianto. In particolare, la pronuncia citata, partendo dal rilievo che il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, ha chiarito il contenuto dell'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, all'art. 21 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza: in particolare, la sentenza ha affermato che il suddetto obbligo comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, threshold limit value) poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte. Nel diverso ambito della responsabilità professionale del medico, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 02998/2016, Vincenti, Rv. 638979, che si è occupata dell'ipotesi in cui, a fronte di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute del paziente, al quale non fosse stata in precedenza fornita un'adeguata informazione circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili; secondo la Corte, in tale caso il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute. 1.3. Il danno da perdita del rapporto parentale. La Corte è tornata anche nel corso dell'anno 2016 ad occuparsi del danno da rottura del vincolo parentale. Con una prima pronuncia, Sez. 3, n. 12146/2016, Vincenti, Rv. 640287, ha ribadito, nel solco tracciato dall'impianto motivazionale della pronuncia Sez. 3, n. 04253/2012, Carluccio, Rv. 621634, l'affermazione secondo cui il fatto illecito, costituito dalla 204 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. In tale ambito, la Corte ha ritenuto la irrilevanza, per l'operare della presunzione, del requisito della convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro, posto che al momento del sinistro la vittima era in Italia e i congiunti in Ucraina. Con una seconda pronuncia, Sez. 3, n. 21060/2016, Scarano, in corso di massimazione, ha riaffermato il principio secondo cui il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art.2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì in fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte, dando continuità all'orientamento già espresso da Sez. 3, n. 10527/2011, Scarano, Rv. 618210, richiamato espressamente dalla decisione di merito, ne confermava la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno esistenziale formulata dai in conseguenza del decesso del congiunto in quanto l'onere di allegazione, lungi dall'essere stato adempiuto in modo circostanziato, si era risolto in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche. 1.4. Il danno da perdita dell'identità personale. In tema di diritto all'identità personale, Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 641021, si è occupata del caso di cd. parto anonimo, sancendo che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196; l'applicazione di tale norma determinerebbe, infatti, la cristallizzazione della scelta della madre anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente 205 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost. n. 278 del 2013), nonchè l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta. 1.5. Il danno da lesione dell'altrui reputazione. In tema di diritto di critica, Sez. 3, n. 12522/2016, Barreca, Rv. 640275, ha sottolineato che il requisito della continenza si atteggia non solo come correttezza formale delle espressioni adoperate ma anche come corretta manifestazione delle proprie opinioni, sicché l'aggressione all'altrui reputazione non scriminata dal diritto di critica, e perciò fonte di responsabilità, si riscontra, pur in assenza di espressioni in sé offensive, anche in caso di accostamento allusivo di fatti ed opinioni tale da non consentire di distinguere gli uni dalle altre e da alterare la portata ed il significato dei primi al fine di corroborare surrettiziamente le seconde. Sotto altro profilo, Sez. 6-3, n. 09424/2016, Sestini, Rv. 639920, ha evidenziato che la circostanza che il giudice penale abbia escluso l'elemento della condotta consistente nella divulgazione a più persone di circostanze offensive, con ciò pervenendo all'affermazione dell'insussistenza del relativo reato, non osta alla possibilità che il fatto dell'avvenuta pronuncia di espressioni offensive (pacificamente accertato dal giudice penale) possa essere valutato di per sé dal giudice civile come fatto generatore della responsabilità ex art. 2043 c.c. 1.6. Il danno da vacanza rovinata. La S.C., con Sez. 3, n. 12143/2016, Scrima, Rv. 640214, ha statuito che l'acquirente di biglietto aereo, il quale chieda la condanna dell'agente di viaggi al risarcimento del danno non patrimoniale da "vacanza rovinata" ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale. 1.7. Il danno ambientale. In materia di danno ambientale, Sez. 3, n. 03259/2016, Vincenti, Rv. 638767, ha esaminato le fattispecie sussumibili ratione temporis nell'art. 2043 c.c. (e non nell'art. 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349), statuendo che in tali ipotesi il comportamento idoneo ad integrare l'illecito consiste in una condotta dolosa o colposa di danneggiamento dell'ambiente (non richiedendosi anche la "violazione di disposizioni di legge o di 206 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE provvedimenti adottati in base a legge", secondo le previsioni della suddetta lex specialis), destinata a persistere sino a quando il suo autore mantenga - in base a libera determinazione, sempre reversibile - le condizioni di lesione ambientale, con la conseguenza che la prescrizione del diritto al risarcimento decorre solo dalla cessazione di tale contegno, sia essa volontaria ovvero dipendente dalla perdita di disponibilità del bene danneggiato. Quanto al profilo della liquidazione del danno ambientale, Sez. 1, n. 14935/2016, Didone, Rv. 640804, ha osservato che la liquidazione per equivalente è ormai esclusa dalla data di entrata in vigore della l. 6 agosto 2013, n. 97, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (come modificato prima dall'art. 5 bis, comma 1, lett. b, del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 del 2009, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, e poi dall'art. 25 della l. n. 97 del 2013), individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati. 2. Il danno patrimoniale. Riveste un certo interesse, anche per la ricorrente frequenza della fattispecie, la decisione di Sez. 6-3, n. 09942/2016, Scrima, Rv. 639833, in tema di risarcimento dei danni subiti da un autoveicolo in conseguenza di un incidente stradale: premesso che il danno patrimoniale ha la funzione di reintegrare il patrimonio del danneggiato nella esatta misura della sua lesione, la citata pronuncia ha affermato che le spese sostenute per le riparazioni dell'autoveicolo sono rimborsabili solo per la parte che corrisponde ai correnti prezzi di mercato, a meno che il maggiore esborso non sia giustificato da particolari circostanze oggettive (quale l'esistenza nella zona di una sola autofficina qualificata) e queste siano state provate dall'interessato, che non può di conseguenza, a fondamento della sua pretesa risarcitoria, limitarsi a produrre la documentazione di spese, da lui sostenute, non corrispondenti ai costi correnti, secondo una valutazione del giudice di merito, fondata su nozioni di comune esperienza o su dati acquisiti con consulenza tecnica di ufficio. Un'altra fattispecie peculiare è stata esaminata da Sez. 3, n. 13283/2016, Olivieri, Rv. 640394, con riguardo al caso di risoluzione, per inadempimento del mutuatario, di un contratto di mutuo cui acceda una clausola in forza della quale costui si era 207 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE impegnato, per la durata del rapporto negoziale, a preferire il mutuante nel caso di sottoscrizione di polizze assicurative; in tale ipotesi, la sentenza citata ha precisato che l'agente del mutuante non può agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. nei confronti del mutuatario a tutela del proprio credito, non vantando egli alcun interesse giuridicamente rilevante, ma una semplice aspettativa di fatto a maturare ulteriori provvigioni, come tale inidonea a costituire in capo allo stesso un'entità di natura patrimoniale tutelabile erga omnes, neppure sotto il profilo di danno da perdita di chances. Peraltro, come precisato da Sez. 1, n. 19604/2016, Valitutti, Rv. 641334, la perdita di "chance" può costituire un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, solo qualora sussista un pregiudizio certo, anche se non nel suo ammontare, consistente nella perdita di una possibilità attuale, con la conseguenza che tale categoria di danno esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza. 2.1. Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica. La liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Infatti, come statuito da Sez. 6-3, n. 08896/2016, Rossetti, Rv. 639896, il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137 c.ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell'infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato. In caso di infortuni sul lavoro, Sez. L, n. 04025/2016, Boghetich, Rv. 639165, ha inoltre precisato che il datore di lavoro risponde dei danni occorsi al lavoratore infortunato nei limiti del cd. danno differenziale che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall'assicurazione obbligatoria, sicché, per le fattispecie anteriori all'ambito temporale di applicazione dell'art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, il datore risponde dell'intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita INAIL, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacità lavorativa generica. 208 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 2.2. Il danno patrimoniale futuro. In tema di danno patrimoniale futuro, Sez. 3, n. 07774/2016, Rossetti, Rv.639494, ha statuito che nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l'assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento (ex art. 5 della l. 12 giugno 1984, n. 222), sia quelli previsti dalla legislazione regionale in tema di assistenza domiciliare, posto che dell'insieme di tali disposizioni il giudice - in virtù del principio iura novit curia - dovrà fare applicazione d'ufficio se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti. 3. La liquidazione del danno non patrimoniale. Degne di menzione le considerazioni espresse da Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640308, che, decidendo nell'interesse della legge ex art. 363, comma 1, c.p.c., ha rimarcato l'erroneità della motivazione resa dal giudice di merito il quale, pur qualificando correttamente il danno di natura non patrimoniale, aveva ritenuto che lo stesso divenisse patrimoniale in sede di liquidazione. Secondo la Corte, in sostanza, il danno non patrimoniale diverge, per natura, da quello patrimoniale e tale diversità persiste anche all'atto della liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile. In tema di integrale risarcimento del danno conseguente a fatto illecito, Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639074, ha affermato che la liquidazione in moneta attuale ristora la perdita patrimoniale o non patrimoniale patita dal danneggiato, ma non necessariamente copre l'intero pregiudizio da quest'ultimo subito, potendo residuare un ulteriore danno, conseguente al ritardato pagamento dell'importo dovuto a titolo di risarcimento, il quale tuttavia non è in re ipsa, essendo onere del creditore allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici, che il tempestivo pagamento gli avrebbe consentito remunerativi investimenti. In tema di liquidazione degli interessi, Sez. 3 n. 12140/2016, Cirillo F.M., Rv. 640243, ha sottolineato come gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente; ne consegue che nella domanda di 209 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640256, ha ritenuto che ove il giudice di merito abbia riconosciuto sulla somma capitale dovuta al danneggiato e liquidata nella sentenza di primo grado gli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l'ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio. Sempre in tema di interessi, appaiono di sicuro rilievo due ulteriori pronunce, da un lato, Sez. 3 n. 11899/2016, Rubino, Rv. 640204, secondo cui sono dovuti sia la rivalutazione della somma liquidata ai valori attuali, al fine di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale, sia gli interessi compensativi sulla predetta somma, che sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, dall'altro, la già citata Sez. 3, n. 12140/2016, Cirillo F.M., Rv. 640242, secondo cui l'ulteriore danno da ritardato adempimento dell'obbligo di risarcimento causa al creditore, rappresentato dalla perduta possibilità di investire la somma dovutagli e ricavarne un lucro finanziario, va liquidato dal giudice in via equitativa, anche facendo ricorso ad un saggio di interessi (cd. interessi compensativi) non costituenti frutto civile dell'obbligazione principale ma mera componente dell'unico danno da fatto illecito. In tema di lesione del diritto all'immagine ed alla reputazione, è stato chiarito da Sez. 1, n. 01091/2016, Lamorgese, Rv. 638494, che la quantificata entità del corrispondente danno non patrimoniale risarcibile non può essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano, costituendo tale misura, oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito, diversamente dal 210 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE risarcimento del danno per equivalente che mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi. 3.1. Il principio di omnicomprensività del risarcimento. Anche nel corso dell'anno 2016, resta confermato l'orientamento secondo cui la categoria generale del danno non patrimoniale - posta a presidio degli interessi inerenti la persona di tipo aredittuale - ha una natura complessa rispetto alla quale i singoli aspetti del pregiudizio subìto assumono una funzione meramente descrittiva della quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva del danno. Con le sentenze delle Sezioni Unite dell'11 novembre 2008 (v. in particolare Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605495) il danno non patrimoniale è stato ricondotto ad una nozione unitaria, escludendosi, in particolare, al fine di evitare indebite duplicazioni risarcitorie, la possibilità di un'autonoma liquidazione del danno morale in aggiunta al danno biologico e salva, tuttavia, la necessità di tenere conto di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima nel caso concreto nonché dell'effettiva consistenza delle sofferenze da lei patite, in funzione dell'integralità del ristoro, da salvaguardare attraverso l'eventuale personalizzazione della liquidazione. In tale solco, si pone Sez. 3, n. 00336/2016, D'Amico, Rv. 638611, che ha ribadito la non ammissibilità nel nostro ordinamento dell'autonoma categoria del cd. danno esistenziale (cfr. § 1.).. Di sicuro rilievo, in termini generali, quanto affermato da Sez. 3, n. 12284/2016, Scrima, Rv. 640375, secondo cui l'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato, sicché in caso di distruzione e danneggiamento di alcuni alberi di ulivo a causa di un incendio va riconosciuto non solo il danno (lucro cessante) per la perdita del reddito prodotto dagli ulivi, protratta per la loro prevedibile vita residua, ma anche quello (danno emergente) per la perdita degli stessi alberi e consistente nel valore in sé dei beni. 3.2. La liquidazione del danno in via equitativa. In via di principio, è pacifico in giurisprudenza che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare. Il potere discrezionale si sostanzia in un giudizio 211 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE caratterizzato dall'equità correttiva od integrativa, a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell'an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur. L'esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, così Sez. 1, n. 05090/2016, Nappi, Rv. 639029. Con riferimento all'onere della prova, Sez. 3, n. 00127/2016, Ambrosio, Rv. 638248, ha ritenuto che grava sulla parte interessata l'onere di provare non solo l'an debeatur del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi in re ipsa, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso. In tema di quantificazione equitativa del danno morale, Sez. 3, n. 03260/2016, Carluccio, Rv. 638890, ha precisato che l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della sentenza delle Sez.U. n. 26972 del 2008, non comporta che, provato il primo, il secondo non necessiti di accertamento, perché altrimenti si incorre nella duplicazione del risarcimento; invece deve prima accertarsi, con metodo presuntivo, il pregiudizio morale subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo, allegando i fatti dai quali emerge la sofferenza morale di chi ne chiede il ristoro, e successivamente, se provato, può ricorrersi al suddetto metodo percentuale come parametro equitativo. 3.3. I parametri di quantificazione del danno: Tabelle di Milano. Viene riaffermato anche nel corso dell'anno 2016 il valore di parametro di conformità della valutazione equitativa operata dal giudice alle disposizioni di cui agli artt.1226 e 2056 c.c. attribuito alle tabelle milanesi in tema di danno non patrimoniale alla persona. Il rilievo dato a tali criteri di liquidazione è volto a garantire non solo 212 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi (in tal senso: Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048). In conformità a questo orientamento sono intervenute diverse pronunce che, per un verso, hanno chiarito la natura delle tabelle e, per l'altro, riaffermato le esigenze sia di uniformità di trattamento su base nazionale sia di personalizzazione del risarcimento in base alle circostanze del caso concreto. Quanto alla natura delle tabelle, rilevante è la precisazione contenuta nella pronuncia della Sez. 3, n. 09367/2016, Frasca, Rv. 639902, che ne ha negato il valore di fonti normative affermando che qualora - dopo la deliberazione della decisione e prima della sua pubblicazione - sia intervenuta una loro variazione, deve escludersi che l'organo deliberante abbia l'obbligo di riconvocarsi e di procedere ad una nuova operazione di liquidazione del danno in base alle nuove tabelle, la cui modifica non integra uno jus superveniens né in via diretta «né in quanto dette tabelle assumano rilievo, ai sensi dell'art. 1226 c.c., come parametri doverosi per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona». Di sicuro interesse pure quanto affermato da Sez. 3 n. 07768/2016, Scarano, Rv. 639497, che ha ritenuto doversi consentire - allorquando in corso di causa (ivi compresa la fase di gravame) sia sopravvenuto il principio giurisprudenziale enunciato dalla S.C. con sentenza n. 12408/2011, secondo cui la mancata adozione delle cd. tabelle di Milano integra un vizio di violazione di legge - a chi agisce per il risarcimento del danno, di chiederne l'applicazione, per la prima volta, anche in fase di precisazione delle conclusioni. È stato ribadito, inoltre, che il riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal tribunale di Milano, comportante una liquidazione di entità inferiore a quella risultante dall'applicazione di queste ultime, può essere fatta valere come vizio di violazione di legge, soltanto ove la questione sia stata già posta nel giudizio di merito ed il ricorrente abbia versato in atti le tabelle milanesi, anche a mezzo della loro riproduzione negli scritti difensivi conclusionali, Sez. 1, n. 17678/2016, De Chiara, in corso di massimazione. Quanto alle esigenze di uniformità di trattamento e di personalizzazione del danno, Sez. 3, n. 03505/2016, Tatangelo, Rv. 638919, ha affermato che in tema di danno non patrimoniale, qualora il giudice, nel soddisfare esigenze di uniformità di trattamento su base nazionale, proceda alla liquidazione equitativa in applicazione delle tabelle predisposte dal tribunale di Milano, 213 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE nell'effettuare la necessaria personalizzazione di esso, in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque accidit, dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate. 3.4. La liquidazione del danno biologico. In tema di liquidazione del danno biologico, è stato osservato, allorquando la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, che l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto. In particolare, la Corte ha confermato la sentenza di merito, la quale, dopo avere escluso che la morte del danneggiato fosse riconducibile con certezza, o anche con congrua probabilità, al trattamento sanitario ricevuto dallo stesso danneggiato due anni prima del decesso, dal quale era conseguita una menomazione permanente, aveva ritenuto che il danno biologico trasmissibile iure hereditatis dovesse calcolarsi non sulla base della aspettativa di vita media, bensì dell'effettiva vita residua goduta dal danneggiato, Sez. 3, n. 00679/2016, Ambrosio Rv. 638672. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 10897/2016, De Stefano, Rv. 640126, la liquidazione del danno biologico va parametrata alla durata effettiva della vita, se questa è più breve - per cause indipendenti dal sinistro oggetto del giudizio - rispetto a quella attesa o corrispondente alla vita media e tenendo in debito conto la maggiore intensità del patema d'animo nei primi tempi successivi all'evento, assumendo esclusiva rilevanza soltanto la sofferenza effettivamente patita per il residuo tempo di durata della vita, nel rispetto del fondamentale principio di contenimento di qualunque forma di risarcimento all'effettivo pregiudizio arrecato. In tema di liquidazione del danno biologico temporaneo, Sez. 3, n. 18773/2016, Vincenti, in corso di massimazione, ha annullato la decisione di merito che ne aveva escluso la risarcibilità nonostante il referto medico avesse diagnosticato contusioni alla spalla, al 214 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE torace e alla regione cervicale, guaribili in sette giorni, che, pertanto, non potevano essere ritenute, come fatto dal giudice di merito, affezioni asintomatiche di modesta entitaà non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico alla persona a seguito di sinistro derivante dalla circolazione stradale; ha in proposito chiarito la Corte che l'art. 32, commi 3-ter e 3-quater, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, esplica criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina legale, conducenti a una obiettività dell'accertamento riguardante le lesioni e i relativi postumi qualora esistenti e si applica ai giudizi in corso, ancorchè si riferisca a sinistri verificatisi in data anteriore alla loro entrata in vigore, trattandosi di disposizioni non attinenti alla consistenza del diritto, ma solo al momento, successivo, del suo accertamento in concreto. Infine, Sez. 6-3, n. 22862/2016, Rossetti, in corso di massimazione, ha statuito che il calcolo del cd. danno biologico differenziale deve avvenire sottraendo dal credito risarcitorio l'importo dell'indennizzo versato alla vittima dall'INAIL per il medesimo pregiudizio e, qualora tale indennizzo sia costituito da una rendita, come avviene quando i postumi permanenti siano superiori al 16%, va sottratto l'importo capitalizzato della rendita stessa, tenendo conto delle variazioni che quest'ultima puo' subire in relazione alle condizioni di salute dell'infortunato, ove intervengano prima che il diritto al risarcimento del danno diventi "quesito"; ha precisato, peraltro, che nel caso in cui il danneggiato deduca in appello che, a causa di una guarigione parziale, si sia ridotto il valore dell'indennizzo e sia di conseguenza aumentato il risarcimento dovutogli a titolo di danno differenziale, ha l'onere di dedurre e dimostrare che tale guarigione, a causa della non coincidenza tra le tabelle usate dall'INAIL e quelle utilizzate in ambito civilistico per la stima dell'invalidita' permanente, abbia ridotto solo la misura dell'indennizzo dovuto dall'assicuratore sociale, ma non abbia inciso sul danno biologico e sul relativo credito risarcitorio, dovendo altrimenti presumersi che anche quest'ultimo si sia ridotto e che quindi non sia mutato il danno differenziale. 4. Il concorso di colpa del danneggiato. Nell'anno 2016 l'ambito di applicazione dell'art. 1227 c.c. è stato affrontato dalla giurisprudenza della Suprema Corte in diverse pronunce, le quali offrono una interessante e variegata casistica. Con riguardo alla responsabilità per fatto illecito doloso, Sez. 3, n. 05679/2016, Travaglino, Rv. 639388, ha affermato che l'art. 215 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 1227 c.c., concernente la diminuzione della misura del risarcimento in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, non è applicabile nell'ipotesi di provocazione da parte della persona offesa del reato, in quanto la determinazione dell'autore del delitto di tenere la condotta illecita costituisce causa autonoma del danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto al fatto della provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale. In virtù di tale principio è stata quindi negata la riduzione del risarcimento del danno conseguente a lesioni personali subite all'interno di una discoteca e consumate da un "buttafuori". In materia di responsabilità da sinistro stradale, Sez. 3, n. 09241/2016, Pellecchia, Rv, 639708 ha statuito che l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, a condizione che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, ed ha altresì precisato che quest'ultima circostanza può essere accertata anche d'ufficio dal giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, c.c. Ancora con riferimento ad una ipotesi di sinistro stradale, è stata invece esclusa l'applicabilità dell'art. 1227 c.c. in caso di danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale. Al riguardo, Sez. 3, n. 04373/2016, Chiarini, Rv. 639473, ha osservato che la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore dell'animale concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione; ne consegue che, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c.. Il peculiare caso della applicabilità dell'art. 1227 c.c. nelle ipotesi di responsabilità dell'intermediatore finanziario è stato affrontato da Sez. 1, n. 04037/2016, Cristiano, Rv. 638800, la quale, in linea generale, ha ritenuto che l'intermediario non può invocare, quale causa di esclusione della responsabilità per i danni arrecati a terzi ex art. 23 del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (applicabile ratione 216 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE temporis) nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, la semplice allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore le somme di denaro di cui quest'ultimo si è illecitamente appropriato con modalità difformi da quelle che sarebbero legittime ai sensi dei vigenti regolamenti Consob (nella specie, versate con assegno bancario recante, in bianco, il nome del prenditore invece che con assegni non trasferibili intestati al soggetto abilitato per conto del quale il promotore operava); un tal fatto, precisa la pronuncia citata, non può essere addotto dall'intermediario neppure come concausa del danno subito dall'investitore al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, atteso che le disposizioni regolamentari emanate dalla Consob, anche se inserite nel documento contrattuale sottoscritto dal cliente, sono dirette unicamente a porre a carico del promotore finanziario un obbligo di comportamento a tutela dell'interesse del risparmiatore, sicché non possono tradursi in un onere di diligenza a carico di quest'ultimo, tale da risolversi in un addebito di colpa nei confronti del danneggiato dall'altrui atto illecito. Peraltro, la medesima sentenza aggiunge che a tale principio non trova applicazione nel diverso caso in cui la condotta dell'investitore presenti connotati, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, diventando, così, rilevante ai fini dell'art. 1227 c.c.. Nell'ambito del diritto lavoristico, con specifico riguardo al risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo Sez. L, n. 04865/2016, Tria, Rv. 639114, ha affermato che l'obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione volto ad evitare l'aggravarsi del danno, secondo l'ordinaria diligenza ex art. 1227, comma 2, c.c., riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici, sicché non sono imputabili al lavoratore le conseguenze dannose derivanti dal tempo da questi impiegato per la tutela giurisdizionale, sia che si tratti di inerzia endo che preprocessuale, tutte le volte che le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e la riduzione del danno. Nel caso concreto la Suprema Corte ha pertanto escluso il concorso di colpa del lavoratore in un'ipotesi di instaurazione del giudizio a distanza di due anni e mezzo dall'intimazione del licenziamento, laddove il datore non aveva dimostrato la riconducibilità del ritardo a dolo o colpa del lavoratore. 217 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Sempre nell'ambito della materia del lavoro, Sez. L, n. 06708/2016, Esposito L., Rv. 639250, con riferimento al risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, ha ritenuto che l'omessa ricerca di un'altra occupazione non può incidere sull'entità risarcitoria, quale concorso colposo del creditore ai sensi dell'art. 1227 c.c., in quanto all'illegittimità del termine consegue l'invalidità parziale della clausola e la permanenza dell'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto. Merita infine di essere segnalata una pronuncia afferente al contratto di fornitura di energia elettrica e relativa ad un caso di danni subiti da coltivazioni in serra per congelamento, a seguito di una non preavvisata interruzione dell'erogazione del servizio e del conseguente venir meno del riscaldamento: al riguardo Sez. 3, n. 12148/2016, Vincenti, Rv. 640290, ha statuito che la mancata tempestiva chiusura manuale delle finestre di areazione della serra non integra una causa da sola efficiente a determinare l'evento dannoso, attesa l'assenza, in capo al danneggiato, di un obbligo legale o contrattuale (neppure in relazione alla clausola di buona fede) per l'adozione di misure idonee a neutralizzare il disservizio; inoltre, precisa la citata sentenza, tale contegno omissivo del danneggiato è privo di rilievo causale ai fini dell'art. 1227, comma 1, c.c., posto che nella causazione del danno presenta carattere assorbente il mancato adempimento, da parte del soggetto erogatore del servizio, dell'obbligo contrattuale di dare comunicazione agli utenti della programmata interruzione dell'energia elettrica. 5. Responsabilità precontrattuale. In tema di culpa in contrahendo la Corte ha ribadito, per un verso, la piena equiparazione dell'amministrazione pubblica ad ogni contraente privato e per l'altro, è tornata a occuparsi dei diversi ambiti nei quali sussiste l'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. Quanto al primo profilo, Sez. 3, n. 04539/2016, Graziosi, Rv. 639460, ha affermato che il contratto per la formazione del personale stipulato fra la P.A. ed il privato, pur essendo già perfetto nei suoi elementi costitutivi, richiede per la sua operatività l'approvazione dell'autorità di controllo (che agisce come condicio iuris sospensiva dell'efficacia del negozio), con la conseguenza che il diniego dell'autorità tutoria lo rende non più eseguibile. In tal caso, tuttavia, il comportamento dell'amministrazione medesima, la quale abbia preteso l'adempimento della prestazione prima 218 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE dell'approvazione del contratto stesso da parte della competente autorità di controllo, è suscettibile di dar luogo, ove tale approvazione non sia intervenuta, a responsabilità precontrattuale, secondo la previsione dell'art 1337 c.c. in considerazione dell'affidamento ragionevolmente ingenerato nell'altra parte per violazione dei principi di correttezza e buona fede che informano i rapporti con qualunque parte contraente. Nello stesso solco, la pronuncia Sez. L, n. 02327/2016, Esposito L., Rv. 638993, ha ribadito che, nell'accertare se il privato abbia confidato senza colpa nella validità ed efficacia del contratto con la P.A., agli effetti dell'art. 1338 c.c., il giudice di merito deve verificare in concreto se l'invalidità o inefficacia del rapporto fosse conoscibile dal contraente, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione della norma stessa e della conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Nella specie, si verteva in una ipotesi di pretesa responsabilità dell'INPS per aver ricevuto, e poi annullato, la contribuzione da subordinazione versata per il socio di maggioranza e membro del consiglio di amministrazione di una società, il quale si era ritrovato carente dei requisiti per la pensione di anzianità, ma doveva ritenersi consapevole dell'invalidità della contribuzione per essere stato previamente accertato in sede processuale il difetto di subordinazione. Nello stesso ambito dei contratti tra amministrazione e privati, di sicuro rilievo quanto affermato da Sez. 1, n. 14188/2016, Valitutti, Rv. 640485, che riguardo ad un caso di mancata approvazione ministeriale di un contratto ad evidenza pubblica stipulato tra un privato e un'amministrazione, ha qualificato l'eventuale responsabilità di quest'ultima, in pendenza dell'approvazione ministeriale, come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., inquadrandola nella responsabilità di tipo contrattuale da «contatto sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c. Quanto al secondo profilo concernente l'ambito dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative, Sez. 2, n. 04718/2016, Falabella, Rv. 639072, riguardo al cd. interesse negativo da responsabilità precontrattuale, ha riaffermato il principio secondo cui esso ricomprende tutte le 219 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto sino ad estendersi al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto ancorchè avente un contenuto diverso rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse. È stato pure riaffermato da Sez. 1, n. 05762/2016, Lamorgese, Rv. 639003, dando continuità ad un principio già espresso da Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628701, che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., assume rilievo in caso non solo di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche di contratto validamente concluso quando, all'esito di un accertamento di fatto rimesso al giudice di merito, alla parte sia imputabile l'omissione, nel corso delle trattative, di informazioni rilevanti le quali avrebbero altrimenti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso. La violazione dell'affidamento è stata nella specie ravvisata, per un verso, nella mancata informazione durante le trattative dell'esistenza di ulteriori registrazioni dei marchi e, per l'altro, nell'aver indotto la controparte a credere che quelle indicate nel contratto fossero le sole esistenti. In tema di presupposti della responsabilità precontrattuale è stato ribadito da Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639456, che per ritenere integrata tale specie di responsabilità occorre che tra le parti siano in corso trattative; che queste siano giunte ad uno stadio idoneo ad ingenerare, nella parte che invoca l'altrui responsabilità, il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che esse siano state interrotte, senza un giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto. Secondo la Corte, la verifica della ricorrenza di tutti questi elementi si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato. 220 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE È stato precisato, inoltre, Sez. 3 n. 10156/2016, Demarchi Albengo, Rv. 639754, che non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente che abbia omesso di far rilevare all'altra parte l'esistenza di norme imperative o proibitive di legge, cioè tali da dover essere note alla generalità dei cittadini e conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza. In un peculiare caso concernente trattative per la compravendita di un immobile ove era stata accordata preferenza ad una proposta irrevocabile temporalmente poziore ed economicamente meno vantaggiosa, è stata esclusa, da Sez. 3, n. 27017/2016, Scarano, in corso di massimazione, la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in capo all'oblato per mancata accettazione della proposta irrevocabile formulata dal proponente. È stato precisato, inoltre, Sez. 3, n. 10156/2016, Demarchi Albengo, Rv. 639754, che non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente che abbia omesso di far rilevare all'altra parte l'esistenza di norme imperative o proibitive di legge, cioè tali da dover essere note alla generalità dei cittadini e conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza. Infine, Sez. 2, n. 07545/2016, Scarpa, Rv. 639457, ha ritenuto che nella ipotesi in cui alla stipulazione del contratto preliminare non segua la conclusione del definitivo, la parte non inadempiente (nella specie, il promittente alienante) può agire nei confronti di quella inadempiente (nella specie, il promissario acquirente) facendone valere esclusivamente la responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale e non anche, in via alternativa, la responsabilità precontrattuale da supposta malafede durante le trattative, giacché queste ultime, cristallizzate con la stipula del preliminare, perdono ogni autonoma rilevanza, convergendo nella nuova struttura contrattuale che rappresenta la sola fonte di responsabilità risarcitoria. 6. Legittimazione passiva dello Stato in tema di responsabilità da mancata attuazione di direttive comunitarie. In una fattispecie riguardante la pretesa responsabilità dello Stato in tema di borse di studio per i medici specializzandi, e relativi meccanismi di rivalutazione automatica (istituite dall'art. 6 del d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257, e finanziate dal ministero dell'Economia e delle Finanze, sulla base di un decreto interministeriale adottato dal ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca e dai ministeri della Salute e dell'Economia) Sez. L, n. 18710/2016, 221 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Boghetich, Rv. 641191, ha stabilito che sussiste carenza di legittimazione passiva in senso sostanziale dell'Università degli studi che ha provveduto alla mera corresponsione materiale, senza che le possa essere imputato alcun comportamento inerte in tema di violazione degli obblighi di attuazione e recepimento delle direttive comunitarie in materia. Pertanto la Corte, trattandosi di questione attinente alla titolarità del rapporto controverso, rilevabile anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del giudizio, fermi i limiti del giudicato, qualora detto ente sia stato l'unico soggetto convenuto in giudizio, ha dichiarato l'improseguibilità dell'azione. Nell'ambito della medesima responsabilità, importante precisazione è stata formulata da Sez. 6-3, n. 24353/2016, Frasca, in corso di massimazione, secondo cui «in tema di domanda di un medico specializzato, volta ad ottenere l'adempimento da parte dello Stato italiano dell'obbligo del risarcimento del danno derivato dall'inadempimento da parte del detto Stato delle direttive CEE 75/363 e 82/76, l'obbligazione in relazione alla quale dev'essere determinato il foro erariale ai sensi dell'art. 25 c.p.c. ed agli effetti dei fori concorrenti di cui all'art. 20 c.p.c., tanto quanto all'individuazione del luogo di insorgenza dell'obbligazione quanto all'individuazione del forum destinatae solutionis, non è quella risarcitoria, bensì quella rimasta inadempiuta e che dà luogo a quella risarcitoria. Ne consegue che l'uno e l'altro foro si situano in Roma, dove sorse l'obbligazione statuale in quanto da adempiere con l'attività legislativa attuativa e dove essa doveva essere adempiuta sempre con quella attività». Sotto altro profilo, Sez. U, n. 23581/2016, Giancola, in corso di massimazione, ha disposto di sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale ex art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea, tra l'altro, la seguente questione ermeneutica: «se la direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, debba essere interpretata nel senso che rientrino nel suo ambito di applicazione anche le formazioni di medici specialisti. sia a tempo pieno che a tempo ridotto. già in corso e proseguite oltre il 31 dicembre 1982. termine lissato agli stati membri dall'art. 16 della direttiva n. 82/76/CEE per adottare le misure necessarie per conformarsi;». In una diversa fattispecie inerente il diritto di stabilimento degli avvocati, Sez. 3, n. 19384/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha ritenuto che la responsabilità dello Stato italiano per mancata tempestiva attuazione della direttiva comunitaria 48/89/CEE determina la risarcibilita' dei soli danni patrimoniali 222 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE conseguenti al mancato esercizio della professione, imposto ad un avvocato proveniente da altro Stato membro, ma non anche del danno non patrimoniale da lesione dell'onore e della reputazione, conseguente alla sottoposizione del legale a procedimenti disciplinari e giudizi penali per aver violato le vigenti norme statali di divieto, incompatibili con l'ordinamento comunitario, essendo tale danno causalmente riconducibile non al comportamento inadempiente dello Stato, che ne costituisce solo un antecedente, bensi' all'ulteriore condotta di un organo giudiziario, ove si deduca una grave negligenza di quest'ultimo per omessa disapplicazione delle norme statali incompatibili (da farsi valere, dunque, unicamente ai sensi dalla l. n. 117 del 1988), ovvero alla condotta dello stesso interessato, il quale avrebbe potuto impedire il pregiudizio chiedendo all'organo giudiziario di sollevare questione di legittimita' costituzionale delle norme statali incompatibili (Corte di Giustizia, 7 marzo 2002, in C-145/99). Rilevantissima in tema di libertà della funzione politica legislativa, la decisione assunta da Sez. 3, n. 23730/2016, Di Amato, in corso di massimazione, che ha ritenuto non ravvisabile una ingiustizia che possa qualificare il danno in termini di illecito e quindi una responsabilità in capo alla Regione nella ipotesi in cui la norma regionale sia stata dichiarata incostituzionale per violazione di potestà legislativa statale. In proposito, non è stato ritenuto applicabile alla fattispecie il medesimo schema ricostruttivo della violazione, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti dall'ordinamento sovranazionale comunitario in quanto sul versante interno non è consentito distinguere dal punto di vista dell'unitario ordinamento nazionale quello derivante dalle leggi statali e quello enucleabile dalla legislazione regionale. 7. Il risarcimento in forma specifica. Le Sezioni Unite, n. 10499/2016, Didone, Rv. 639689, dando continuità ad un orientamento già espresso (tra le più recenti, v. Sez. 1, n. 14609/2012, Campanile, Rv. 623746), hanno affermato che riguardo al risarcimento del danno in forma specifica in tema di diritti reali, in considerazione del carattere assoluto dei medesimi, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l'eccessiva onerosità di cui all'art. 2058, comma 2, c.c., previsti in materia di obbligazioni, salvo che lo stesso titolare danneggiato chieda il risarcimento per equivalente. 223 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 8. Le responsabilità presunte. Genitori e maestri (art. 2048 c.c.). La Suprema Corte, Sez. 1, n. 09337/2016, Valitutti, Rv. 639966, ha affermato che il superamento della presunzione di responsabilità gravante ex art. 2048 c.c. sull'insegnante per il fatto illecito dell'allievo postula, per un verso, la dimostrazione da parte di questi di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l'inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, e, per l'altro, di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di quella serie, commisurate all'età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età. Il principio è stato affermato con riguardo ad una peculiare fattispecie in cui lo stato dei luoghi era connotato dalla presenza di un manufatto in grado di ostacolare la piena e totale visibilità dello spazio da controllare e le misure organizzative adottate consistite nella mera presenza delle insegnanti in loco e nell'avere impartito agli alunni la generica raccomandazione «di non correre troppo durante la ricreazione» non erano state ritenute idonee ad integrare il superamento della presunzione, senza l'adozione di interventi correttivi immediati, diretti a prevenire e ad evitare il verificarsi di eventi dannosi. In un'altra fattispecie di risarcimento danni conseguente ad un infortunio sportivo subito da uno studente all'interno della struttura scolastica durante le ore di educazione fisica, Sez. 3, n. 06844/2016, Vincenti, Rv. 639332, ha ritenuto che incombe sullo studente l'onere della prova dell'illecito commesso da altro studente, quale fatto costitutivo della sua pretesa, mentre è a carico della scuola la prova del fatto impeditivo, cioè l'inevitabilità del danno nonostante la predisposizione di tutte le cautele idonee a evitare il fatto, sicché non integra i presupposti del fatto illecito la condotta di gioco tenuta durante il normale sviluppo dell'azione di una partita (nella specie, di calcio) se non è in concreto connotata da un grado di violenza ed irruenza incompatibili col contesto ambientale, con l'età e la struttura fisica dei partecipanti al gioco. È stata esclusa, da Sez.3, n. 01322/2016, Pellecchia, Rv. 638853, inoltre, la responsabilità dell'insegnante e del Ministero competente (già della Pubblica Istruzione) per i danni subiti da un terzo, colpito, in occasione di una partita di pallavolo tenuta nel cortile di una scuola, da una palla lanciata, per rimetterla in campo, 224 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE con un calcio anziché con le mani, ove sia assente una finalità lesiva e sussista, invece, un collegamento funzionale tra l'azione dell'alunno ed il gioco in atto, senza che assuma rilievo la violazione delle regole del gioco stesso, che esclude lanci con i piedi. Viceversa, Sez. 3, n. 14701/2016, Pellecchia, in corso di massimazione, ha affermato la responsabilita' della scuola per le lesioni riportate da un alunno minore all'interno dell'istituto in conseguenza della condotta colposa del personale scolastico ricorre anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto al di fuori dell'orario delle lezioni, in quanto il dovere di organizzare la vigilanza degli alunni mediante l'adozione, da parte del personale addetto al controllo degli studenti, delle opportune cautele preventive, sussiste sin dal loro ingresso nella scuola e per tutto il tempo in cui gli stessi si trovino legittimamente nell'ambito dei locali scolastici. In particolare, la fattispecie ineriva al danno subito da un alunno caduto a causa di una spinta dei compagni anche se il fatto era accaduto prima dell'inizio dell'orario delle lezioni ma, comunque, sotto l'osservanza del personale scolastico. 8.1. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). In tema di contratto di appalto, Sez. 2, n. 01234/2016, Orilia, Rv. 638645, ha ritenuto che l'autonomia dell'appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall'esecuzione dell'opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell'ipotesi di riferibilità dell'evento al committente stesso per culpa in eligendo per essere stata affidata l'opera ad un'impresa assolutamente inidonea ovvero quando l'appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso. Inoltre, con Sez. 3, n. 10757/2016, Spirito, Rv. 640123, si è affermato che in tema di responsabilità dei preposti, il fatto dannoso deve essere illecito sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo ed in particolare si è precisato che «sotto il profilo soggettivo, l'illecito del preposto può essere sia doloso che colposo, ma deve trattarsi di fatto che cagioni un danno a terzi, non essendo invocabile l'art. 2049 c.c. per far valere la responsabilità del preponente in ordine al danno che il preposto abbia cagionato al preponente medesimo o a se stesso. Ai fini della responsabilità, infine, non è necessario che sia identificato l'autore del fatto, essendo sufficiente l'accertamento che quest'ultimo, anche se 225 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE rimasto ignoto, sia legato da rapporto di preposizione (ad es. rapporto di lavoro) con il preponente. Il principio è stato affermato in una peculiare fattispecie concernente l'azione risarcitoria esperita dal gestore di un'area di servizio autostradale per la sottrazione del contante da una cassa continua ivi installata nei confronti della società affidataria del servizio di prelievo e trasporto valori attesa la compartecipazione dolosa al fatto di taluni suoi dipendenti infedeli, senza che assumesse rilievo che l'affidamento del servizio derivasse da una convenzione tra gestore e un istituto di credito, alla quale la società affidataria era estranea. Con Sez. 3, n. 12283/2016, Scarano, Rv. 640297, è stato ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. un soggetto che per la consegna di merce presso un condominio si era avvalso di un'impresa di trasporti, il cui dipendente, conducente di un furgone, aveva determinato un danno ad un bene condominiale durante la consegna della merce stessa. La Corte in proposito ha affermato che Ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2049 c.c., è sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre non solo in caso di lavoro subordinato ma anche quando per volontà di un soggetto (committente) un altro (commesso) esplichi un'attività per suo conto. Sez. 3, n. 11816/2016, De Stefano, Rv. 640238, ha, infine, escluso la responsabilità ex art. 2049 c.c. di un condominio per le lesioni personali dolose causate da un pugno sferrato dal portiere dell'edificio condominiale ad un condomino in occasione dell'accesso del primo nell'appartamento del soggetto leso per ispezionare tubature ed escludere guasti ai beni comuni o limitare i danni da essi producibili, difettando il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le mansioni esercitate, posto che in queste non rientra alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone presenti nell'edificio condominiale, né tali condotte corrispondono, neanche sotto forma di degenerazione ed eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse al loro ordinario espletamento. 8.2. Attività pericolose (art. 2050 c.c.). Rimane confermato il consolidato orientamento, circa l'individuazione delle attività pericolose, ai sensi dell'art. 2050 c.c., nel senso che devono ritenersi tali non solo quelle che così sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi usati, comportano la 226 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE rilevante probabilità del verificarsi del danno. In conformità a tale orientamento e con riguardo allo svolgimento del servizio ferroviario, Sez. 3, n. 10422/2016, Tatangelo, Rv. 10422, ha riconosciuto la presunzione di colpa per l'esercizio di attività pericolosa quando il danno che ne derivi si ricolleghi ad uno specifico aspetto o momento del servizio stesso, il quale presenti connotati di pericolosità eccedenti il livello normale del rischio, sì da richiedere particolari cautele preventive. Nella specie, è stata ravvisata la pericolosità in concreto del servizio, per un verso, nella mancata preventiva comunicazione all'addetta al passaggio al livello ove ebbe luogo la collisione tra un convoglio ferroviario ed un'autovettura, del transito di altro convoglio straordinario e, per l'altro, nel carattere "aperto" del sistema di comunicazione radio tra gli operatori ferroviari, tale da indurre tale addetta - ascoltando la conversazione tra i colleghi preposti alla gestione di passaggi a livello "a monte" di quello teatro del sinistro, che discutevano del ritardo con cui viaggiava il predetto convoglio straordinario - a ritenere, erroneamente, che la segnalazione riguardasse il treno di cui attendeva l'arrivo, tanto da alzare le sbarre per consentire il passaggio delle vetture. In tema di accertamento della responsabilità dell'esercente un'attività pericolosa, Sez. 3, n. 15113/2016, Esposito A.F., Rv. 641278, ha sottolineato come essa presupponga che si accerti un nesso di causalità tra l'attività svolta e il danno patito dal terzo, a tal fine dovendo ricorrere la duplice condizione che l'attività costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le sue conseguenze normali ed ordinarie, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento, e ciò anche quando esso sia attribuibile ad un terzo o allo stesso danneggiato. In applicazione di tale principio è stata cassata la sentenza impugnata che aveva ritenuto concausa di un incendio, dolosamente appiccato da terzi, la mera presenza nell'immobile incendiato di acetilene, utilizzato per la deverdizzazione delle arance, senza considerare, invece, che il fatto del terzo presentava i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e della eccezionalità, idonei ad escludere altri fattori causali. La S.C. è tornata ad occuparsi della natura pericolosa dell'attività di trattamento dei dati personali in una fattispecie in cui si lamentava l'abusiva utilizzazione delle credenziali informatiche di un correntista mediante illegittime disposizione di bonifico on line; in 227 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE proposito, Sez. 3, n. 10638/2016, Terrusi, Rv. 639861 ha sottolineato che in tema di ripartizione dell'onere della prova, al correntista spetta soltanto la prova del danno siccome riferibile al trattamento del suo dato personale, mentre l'istituto creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dato, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non gli sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore. 8.3. Cose in custodia (art. 2051 c.c.). In tema di responsabilità ex art. 2015 c.c. di particolare interesse sono alcune pronunce che hanno esaminato l'aspetto attinente ai delicati rapporti tra tale norma ed il comportamento cauto, disattento o imprevedibile del danneggiato. In particolare, Sez. 3, n. 12895/2016, Carluccio, Rv. 640508, ha ritenuto che, qualora venga accertato, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, che la situazione di possibile pericolo, comunque ingeneratasi, sarebbe stata superabile mediante l'adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, deve escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell'evento, e ritenersi, per contro, integrato il caso fortuito. Peculiare è il caso concreto che ha dato occasione alla Corte di emettere tale pronuncia: un soggetto era rovinosamente caduto uscendo da un ascensore che si era arrestato con un dislivello di circa 20 centimetri rispetto al piano ed il sinistro è stato ritenuto causalmente attribuibile alla disattenzione dello stesso danneggiato, in considerazione delle buone condizioni di illuminazione e della presenza di una doppia porta di apertura dell'ascensore, circostanze che avrebbero reso superabile il pericolo creato dal detto dislivello tenendo un comportamento ordinariamente cauto. Differente è il caso affrontato, e la soluzione raggiunta, da Sez. 3, n. 13222/2016, Scarano, Rv. 640417, relativamente alla caduta di un soggetto avvenuta all'interno di un esercizio commerciale a causa del pavimento bagnato (per lo sgocciolamento degli ombrelli dei clienti): in tale ipotesi la Corte ha affermato che la mera disattenzione della vittima non integra caso fortuito ex art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le 228 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa divenuta pericolosa per la situazione atmosferica e per la contestuale presenza di numerose persone nei locali. Nell'ipotesi di sinistri riconducibili alla struttura e manutenzione delle strade, Sez. 3, n. 15761/2016, Ambrosio, Rv. 641162, ha statuito che l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A.; la sentenza ha tuttavia precisato che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell'art. 1227 c.c.. Nel caso specifico, la Corte ha conseguentemente escluso che lo stato di una strada comunale - risultata "molto sconnessa" e contraddistinta dalla presenza di "buche e rappezzi" - costituisse esimente della responsabilità dell'ente per i danni subiti da un pedone, caduto a causa di una delle buche presenti sul manto stradale, ritenendo che il comportamento disattento dell'utente non è astrattamente ascrivibile al novero dell'imprevedibile. Analogamente, Sez. 3, n. 11802/2016, Scarano, Rv. 640205, ha affermato che il danneggiato che agisca per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di una caduta avvenuta mentre circolava sulla pubblica via alla guida del proprio ciclomotore a causa di una grata o caditoia d'acqua, è tenuto alla dimostrazione dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, non anche dell'imprevedibilità e non evitabilità dell'insidia o del trabocchetto, né della condotta omissiva o commissiva del custode, gravando su quest'ultimo, in ragione dell'inversione dell'onere probatorio che caratterizza la responsabilità ex art. 2051 c.c., la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale presentasse, per l'utente, una situazione di pericolo occulto, nel cui ambito rientra anche la prevedibilità e visibilità della grata o caditoia. Nel caso di danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. originati da un bene immobile condotto in locazione, Sez. 3, n. 11815/2016, Tatangelo, Rv. 640516, ha ritenuto sussistente la responsabilità sia del proprietario dell'immobile che del conduttore ove i pregiudizi siano derivati non solo dal difetto di costruzione 229 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE dell'impianto (nella specie, idraulico) conglobato nelle strutture murarie, ma anche da una negligente utilizzazione di esso (nella specie, della caldaia) da parte del conduttore. Infine, Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. 639821, ha deciso un caso relativo ad un bene condominiale, in particolare affermando che, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio, quest'ultimo in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4), c.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. La medesima pronuncia ha altresì precisato che il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio. 8.4. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). La Corte torna con due pronunce sul tema dei danni cagionati agli utenti della strada dalla fauna selvatica, delimitando l'ambito della responsabilità degli enti cui sono stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata. Con Sez. 3, n. 16642/2016, Carluccio, in corso massimazione, è stata esclusa la responsabilità di una Provincia, cui sono attribuiti i poteri di protezione e gestione della fauna selvatica dalla legislazione regionale (l.r. Toscana 12 gennaio 1994, n. 3), in considerazione del fatto che tali poteri non determinano l'assunzione di specifici doveri di diligenza al di là di quello generale assolto con la segnaletica stradale, non potendo discendere in capo all'ente delegato altri doveri che non si traducano in specifiche disposizioni normative. Resta così confermata la decisione del giudice di merito che aveva escluso la legittimazione della Regione interessata che, in relazione al danno subito da un'autovettura a seguito dell'impatto con un cinghiale, aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta nei confronti della Provincia di Siena, risultando che questa si era attivata per l'installazione lungo la strada 230 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE di un segnale stradale di pericolo, attestante l'attraverso di animali selvatici. Con Sez. 3, n. 12727/2016, Scarano, Rv. 640258, è stato precisato che la responsabilità in esame deve essere imputata all'ente cui siano stati affidati i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sicché si deve indagare, di volta in volta, se l'ente delegato sia stato posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia un nudus minister, senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa. Ne consegue che per i danni a coltivazioni nel territorio emiliano-romagnolo provocati da caprioli, sono responsabili le aziende venatorie di cui all'art. 43 della l.r. Emilia-Romagna 15 febbraio 1994, n. 8, trattandosi di animali "cacciabili", mentre le Province sono responsabili dei danni provocati nell'intero territorio da specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. In merito al limite della responsabilità del proprietario, o di chi si serve di un animale, costituito dal caso fortuito, Sez. 3, n. 10402/2016, Chiarini, Rv. 640035, ha precisato che la responsabilità di cui trattasi si fonda non su un comportamento o un'attività - commissiva od omissiva - ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l'animale; da ciò discende che la prova del caso fortuito - a carico del convenuto - può anche avere ad oggetto il comportamento del danneggiato, purché avente carattere di imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità. In applicazione di tale principio, è stata confermata la sentenza di merito di condanna del proprietario di un cane che aveva morso un'amica di famiglia, introdottasi in casa, e che gli aveva dato una carezza, nonostante l'invito della moglie del proprietario ad allontanarsi, dando rilievo al fatto che la danneggiata conosceva l'animale fin da cucciolo. Secondo Sez. 3, n. 12392/2016, Vincenti, Rv. 640319, la sussistenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio sicchè, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio. 8.5. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). Anche nell'anno in corso, numerose sono state le pronunce in tema di responsabilità civile da incidente stradale. Alcune hanno avuto occasione di riaffermare principi e regole in ordine al contenuto degli obblighi di cautela richiesti e dei profili della colpa del conducente, altre si sono pronunciate su profili strettamente probatori e sul termine di prescrizione. 231 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE In tema di contenuto degli obblighi di cautela richiesti al conducente e di colpa, Sez. 3, n. 08897/2016, Rossetti, Rv. 639716, ha ritenuto, in un caso di sinistro stradale in cui si sia verificata la morte di un militare trasportato su di un mezzo di proprietà del ministero della Difesa, la condotta della vittima - che non abbia impedito la guida pericolosa del conducente, proprio sottoposto - si pone come concausa dell'evento lesivo, giustificando la limitazione della pretesa risarcitoria azionata dai suoi eredi. Con riferimento ad una diversa fattispecie, Sez. 3, n. 09241/2016, Pellecchia, Rv.639708, ha ritenuto che È stato affermato, sotto altro profilo, da Sez. 3 n. 14699/2016, Graziosi, in corso di massimazione, che colui il quale, in possesso di patente di guida, affidi una vettura nella propria disponibilità a un soggetto dotato solo del cd. "foglio rosa", salendo contestualmente a bordo della medesima vettura, non assume un ruolo diverso da quello di trasportato, sicchè l'affidamento della vettura di per sé non lo grava di cooperazione colposa nel caso in cui successivamente si verifichi un sinistro stradale per l'imperita condotta del guidatore affidatario. Con riferimento ad un un caso di tamponamento tra veicoli, Sez. 3, n. 08051/2016, Graziosi, Rv. 639523, ha ribadito che la presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza posta dall'art. 149, comma 1, cod. strada supera la presunzione di pari responsabilità ex art. 2054, comma 2, c.c. e grava sul conducente del veicolo tamponante il quale ha l'onere l'onere di provare che il tamponamento è derivato da causa in tutto o in parte a lui non imputabile, che può consistere anche nel fatto che il veicolo tamponato abbia costitutio un ostacolo imprevedibile ed anomalo rispetto al normale andamento della circolazione stradale. Sez. 3 n. 03503/2016, Tatangelo, Rv. 638917, riguardo la specificazione del parametro normativo contenuto nella disposizione di cui all'art. 177, comma 2, cod. strada, relativa all'obbligo dei conducenti dei cd. mezzi di soccorso, che eseguano servizi urgenti di istituto con attivazione dei dispositivi acustici e di segnalazione visiva, di rispettare comunque le regole di comune prudenza e diligenza, ha ritenuto che essa debba avvenire da parte che tale infrazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, circostanza che può essere accertata anche d'ufficio dal l'omesso uso del casco protettivo da parte di un motociclista vittima di incidente può essere fonte di corresponsabilità del medesimo, a condizione giudice, giacché riconducibile alla previsione di cui all'art. 1227, comma 1, c.c. 232 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE del giudice di merito mediante l'individuazione della regola di condotta da osservare nel caso concreto. Tale valutazione di adeguatezza della velocità di marcia del mezzo di soccorso, e comunque della condotta di guida che eviti ingiustificati pericoli agli altri utenti che percorrano quella strada o quelle che con essa si incrociano, secondo il parametro normativo individuato, e da commisurarsi all'urgenza del servizio da espletare, è censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, non anche per il giudizio di fatto sulla dinamica del sinistro e l'esistenza o l'esclusione del rapporto causale tra l'evento e le rispettive condotte di guida. Peraltro, Sez. 3, n. 04373/2016, Chiarini, Rv. 639473, in tema di responsabilità per danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale, ha affermato che la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione, sicché, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c. Sotto il profilo strettamente probatorio, Sez. 3, n.04755/2016, Armano, Rv. 639445, ha chiarito che le risultanze del pubblico registro automobilistico (p.r.a.) costituiscono prova presuntiva in ordine al proprietario dell'autovettura obbligato a risarcire i danni da circolazione stradale, che può essere vinta da prova contraria, ma non dal mero generico riferimento al rapporto dei Carabinieri, senza la specificazione della documentazione da essi presa in visione al fine di rilevare un diverso proprietario del veicolo. Sez. 3 n. 18773/2016, Vincenti, in corso massimazione, ha ribadito che il danno da "fermo tecnico" del veicolo incidentato non è risarcibile in via equitativa - cui è possibile ricorrere solo ove sia certa l'esistenza dell'an - ove la parte non abbia provato di aver sostenuto di oneri e spese per procurarsi un veicolo sostitutivo, né abbia fornito elementi (quali i costi assicurativi o la tassa di circolazione) idonei a determinare la misura del pregiudizio subito. 233 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Infine, Sez. 3, n. 05894/2016, Tatangelo, Rv. 639293, ha ritenuto che la prescrizione breve del risarcimento dei danni di cui all'art. 2947, comma 2, c.c., si applica non solo quando i danni siano derivati, secondo uno stretto rapporto di causa ed effetto, dalla circolazione dei veicoli, ma anche se vi sia solo un nesso di dipendenza, per il quale l'evento si colleghi, nel suo determinismo, alla circolazione medesima, rispondendo tale estensiva interpretazione all'esigenza che l'accertamento della dinamica dell'incidente stradale avvenga con una azione sollecitamente proposta. Nella fattispecie, ha ritenuto l'applicabilità della prescrizione breve all'azione risarcitoria intentata da un automobilista, rimasto danneggiato a seguito di un incidente tra veicoli determinato da insidia stradale, nei confronti di un Comune per omessa vigilanza nel tratto stradale in cui era avvenuto l'incidente. 234 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI CAPITOLO XIV LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI (di Irene Ambrosi) SOMMARIO: 1. La responsabilità del medico. – 2. La responsabilità dell'avvocato. – 3. La responsabilità del notaio. – 4. La responsabilità del commercialista. – 5. La responsabilità degli ausiliari del giudice. 6. La responsabilità dell'intermediario finanziario (rinvio). 1. La responsabilità del medico. Il "sottosistema" della responsabilità civile elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito medico-chirurgico, anche nel corso dell'anno 2016, è stato oggetto di numerose pronunce che hanno riguardato una serie diversa di temi: dal rapporto tra il paziente e la struttura sanitaria all'interno della cui organizzazione funzionale si svolge l'attività del professionista medico, alla delicata questione della ripartizione degli oneri probatori, a quello estremamente complesso dell'accertamento del nesso causale tra condotta del sanitario e della struttura e danno lamentato dal paziente. Si è venuta arricchendo, inoltre, la casistica in merito alla responsabilità del medico per violazione degli obblighi di informazione lesivi del diritto di autodeterminazione del paziente. Quanto al rapporto tra paziente e struttura ospedaliera, Sez. 3, n. 07768/2016, Scarano, Rv. 639496, ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità della struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato che risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, in relazione alla condotta di due medici, pur dipendenti di un'azienda sanitaria locale, aveva ravvisato la responsabilità del nosocomio privato presso i cui locali risultava ospitato il "presidio di aiuto materno" ove i sanitari avevano operato, e ciò sul presupposto che detta struttura - per il semplice fatto del ricovero di una gestante - era tenuta a garantire alla medesima la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera, bensì di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo e strumentale. 235 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI Nello stesso ambito, è stato precisato da Sez. 3, n. 13919/2016, Rubino, Rv. 640523, che in caso di intervento chirurgico d'urgenza la struttura ospedaliera non può invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c., il quale implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui programmazione rientra nei compiti di ogni struttura sanitaria e, con riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, sicché grava sulla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti. Il caso riguardava un paziente che aveva contratto epatite post- trasfusionale in conseguenza di emotrasfusioni alle quali era stato sottoposto con particolare urgenza, essendo giunto in ospedale con una ferita da arma da fuoco e con una grave emorragia in corso. In materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, è stato chiarito da Sez. 3, n. 03261/2016, Carluccio, Rv. 638929, che non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell'epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale (con riferimento all'indennizzo da danno trasfusionale v. amplius infra CAP. XVII). Per quanto concerne il rapporto tra medico e paziente, Sez. 3, n. 19670/2016, Amendola A., in corso di massimazione, in continuità con il consolidato orientamento in tema di responsabilità civile derivante da attività medico-chirurgica, ha riaffermato il principio secondo cui ogni intervento del medico non può avere un contenuto diverso da quello avente come fonte un comune contratto d'opera professionale, sicché anche il "contatto sociale" meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente è idoneo a far scattare i presidi della responsabilità contrattuale. In applicazione di tale principio, la Corte ha qualificato in termini di "contratto" il rapporto instauratosi a seguito del comportamento di un medico di base che, nel corso di un incontro occasionale con un suo assistito in procinto di partire per il Kenia, gli aveva suggerito una profilassi antimalarica, poi rivelatasi inefficace. In particolare, è 236 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI stata confermata la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del sanitario per la morte dell'assistito causata dalla malaria, in considerazione della aderenza della profilassi consigliata ai principi della buona pratica medica. In tema di ripartizione degli oneri probatori, Sez. 3, n. 06209/2016, Sestini, Rv. 639386, ha ribadito che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. Così statuendo ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto. Nello stesso ambito e con riferimento all'accertamento del nesso causale, una interessante decisione assunta da Sez. 3, n. 11789/2016, Rubino, Rv. 640196, ha rilevato che l'affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova - che deve essere fornita dal danneggiato - della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta. Sez. 3, n. 02998/2016, Vincenti, Rv. 638979, ha ritenuto - in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute - ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, che il medico può essere 237 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute. Quanto al profilo della colpa, è stato ribadito da Sez. 3, n. 12516/2016, Esposito A.F., Rv. 640259 in un caso di prestazione professionale medico-chirurgica cd. di routine, che al professionista spetta superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento. Sul versante dell'accertamento dell'efficienza concausale, Sez. 3, n. 03893/2016, Scarano, Rv. 639350, ha ritenuto che ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente (nella specie, in una sua peculiare condizione genetica: sindrome di Down) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l'evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire - sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto - solamente ad una delimitazione del quantum del risarcimento. Restando in tema, Sez. 3, n. 12516/2016, Esposito A.F., Rv. 640260, ha rilevato che l'incidenza di un fattore naturale può costituire causa esclusiva dell'evento pregiudizievole ove il danneggiante provi che lo stesso derivi da una circostanza a sé non imputabile. In applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito che, in un caso di amputazione di un dito subìta dalla paziente per la complicanza di un intervento chirurgico, non aveva accolto la domanda risarcitoria poiché era emerso che le lesioni erano derivate da una evoluzione fibrocicatriziale più abbondante dell'usuale, senza che, peraltro, il giudice di merito avesse valutato, in base alle risultanze istruttorie, se la reazione fibrocicatriziale o altri fattori naturali fossero stati causa esclusiva dell'evento. 238 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI È stato rimarcato, infine, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, da Sez. 3, n. 08035/2016, Scarano, Rv. 639501, che, l'assoluzione dell'imputato secondo la formula "perché il fatto non sussiste" non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all'affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell'elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità. In conformità al principio enunciato, la Corte ha annullato la decisione con cui il giudice di merito - sul presupposto dell'intervenuta assoluzione in via definitiva di due medici dal delitto di lesioni personali - ne aveva per ciò solo escluso ai sensi dell'art. 652 c.p.p. la responsabilità civile, omettendo di valutare l'incidenza del loro contegno rispetto sia alla lamentata lesione dell'autonomo dritto del paziente ad esprimere un consenso informato in ordine al trattamento terapeutico praticatogli, sia all'accertata mancata disinfezione della camera operatoria, all'origine della contaminazione ambientale individuata come causa del danno alla salute dal medesimo subìto. Con riferimento al contenuto dell'obbligo del medico di informare il paziente, Sez. 3, n. 02177/2016, Vincenti, Rv. 639069, ha precisato che il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell'intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all'uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell'informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone. Nella fattispecie esaminata la Corte ha ritenuto non adeguata l'informazione sui rischi connessi ad un intervento di cheratomia radiale, fornita ad una paziente mediante consegna di un depliant redatto dallo stesso oculista, che peraltro non riportava l'eventuale regressione del visus, statisticamente conseguente ad un simile intervento, anche quando correttamente eseguito. Nello stesso ambito, meritevole di menzione appare anche Sez. 3, n. 04540/2016, Vincenti, Rv. 637375, secondo cui l'obbligo gravante sulla struttura sanitaria e sul medico di informare la paziente, che ad essi si sia rivolta per i controlli ecografici sul feto ai fini della relativa diagnosi morfologica (in particolare, nel caso in cui 239 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI la visualizzazione del feto sia parziale), della possibilità di ricorrere a centri di più elevata specializzazione, sorge unicamente ove la struttura abbia assunto la relativa obbligazione di spedalità pur non disponendo di attrezzature all'uopo adeguate. Da menzionare, in ambito eminentemente processuale, Sez. 6-3, n. 18536/2016, Rubino, in corso di massimazione, che ha escluso l'applicabilità del foro del luogo di residenza del consumatore (art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) ai rapporti tra pazienti e strutture ospedaliere pubbliche o private operanti in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale; esclusione giustificata per un duplice ordine di ragioni, da un lato, perché, pur essendo l'organizzazione sanitaria imperniata sul principio di territorialità, l'assistito può rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale, sicchè se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di residenza del paziente tale circostanza è frutto di una sua libera scelta, che fa venir meno la ratio dell'art. 33 cit., dall'altro, perché la struttura sanitaria non opera per fini di profitto e non può essere qualificata come imprenditore o professionista. 2. La responsabilità dell'avvocato. Sul contenuto dell'obbligo di diligenza del professionista avvocato meritano menzione tre decisioni pronunciate nel 2016. In primo luogo, di sicuro rilievo è quanto affermato da Sez. 3, n. 11906/2016, Barreca, Rv. 640093, che in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, ha ritenuto configurabile la imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità. Quanto, invece, alla scelta di una determinata strategia processuale, la Corte ha sottolineato che essa può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante e non ex post, sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente. In secondo luogo, Sez. 3, n. 11907/2016, Pellecchia, Rv. 640201, ha ravvisato un comportamento negligente dell'avvocato che abbia omesso di attivare tempestivamente la pretesa risarcitoria 240 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI del proprio assistito, da cui sia derivato il decorso della prescrizione del credito verso taluni dei condebitori solidali, comportamento dal quale discende un danno risarcibile ex art. 1223 c.c. consistente nella perdita della possibilità di avvalersi di più coobbligati, e, quindi, di agire direttamente nei confronti di quelli presumibilmente più solvibili, quali sono in particolare - in caso di crediti derivanti da un sinistro stradale - le società assicuratrici rispetto alle persone fisiche. Infine, in tema di liquidazione del danno, è stato precisato da Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640309, che il pregiudizio di carattere non patrimoniale patito dal condannato a causa della tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna da parte dell'avvocato, cui consegua l'impossibilità per il cliente di ottenere una riduzione della pena detentiva in sede di gravame (nella specie, per non potere accedere al cd. patteggiamento in appello), non può essere risarcito applicando automaticamente i criteri elaborati dalla giurisprudenza penale per il ristoro del danno da ingiusta detenzione - trattandosi di condanna legalmente data e, quindi, di detenzione legittima - ma va liquidato in via equitativa. Di notevole rilievo, appaiono tre ulteriori pronunce assunte in tema di regole generali di correttezza e buona fede dell'agire o resistere nel giudizio di cassazione, con cui sono state stigmatizzate alcune condotte processuali tali da risolversi in un uso strumentale e illecito del processo e ritenute idonee ad integrare gli estremi della responsabilità aggravata. Con la prima, Sez. 3, n. 15017/2016, De Stefano, in corso di massimazione, è stato ravvisato un abuso del processo nella impugnazione pretestuosa e strumentale volta a procrastinare la pendenza del giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo e quindi la correlata sospensione del processo di espropriazione di crediti intentato dalla creditrice, con indebito aggravamento delle ragioni di quest'ultima, nonostante la lampante evidenza, se non altro parziale e per importo anche ingente, della sussistenza ab origine del credito pignorato. Con la seconda, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, è stata ritenuta indice di colpa grave la proposizione di un ricorso con il quale veniva chiesta una valutazione delle prove diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, così prospettando, senza addurre argomenti volti a confutare il diritto vivente, un motivo inammissibile per consolidato orientamento pluridecennale, e comunque più consentito dal novellato art. 360, n. 5, c.p.c.. È stato osservato, in particolare, che il ricorrente - e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei 241 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. - ben conosceva l'insostenibilità della propria impugnazione; nella specie, è stato affermato in proposito che il ricorrente o ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata,(condotta che, ovviamente, l'ordinamento non può consentire),, ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile – in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176, comma 2, c.c. – da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. In motivazione viene dato conto anche dell'orientamento consolidato secondo cui la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. (Sez. U, n. 25831/2007, Finocchiaro M., Rv. 600837), precedente giurisprudenziale che dalla stessa pronuncia è stato ritenuto, per un verso, non applicabile al caso esaminato e, per l'altro, anche superato. Sarebbe non applicabile in quanto nel caso de quo non si ravvisa una mera infondatezza ma piuttosto una totale «insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso». Sarebbe superato perché «non più coerente né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, né col quadro ordinamentale». Sotto il primo profilo, osserva che tale orientamento non tiene conto del progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Corte perseguito dal legislatore con l'introduzione dell'art. 360 bis c.p.c., la novella dell'art. 363 comma 1 c.p.c. e l'introduzione dell'art. 374 comma 3 c.p.c.. Sotto il secondo profilo non tiene conto del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., degli orientamenti in tema di abuso del processo e del principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (nello stesso senso tra le più recenti: v. Sez. 3, n. 20732/2016, Rossetti, in corso di massimazione; Sez. 3, n. 04930/2015, Rossetti, Rv. 634773 e Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642). Con la terza pronuncia, Sez. 3, n. 19285/2016, Graziosi, in corso di massimazione, è stato ribadito - ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. - che costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante "colpa grave", la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi manifestamente infondati, o perchè ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, o perchè assolutamente irrilevanti, o assolutamente generici, o perche', comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della 242 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale in conformita' con la sentenza della Corte Cost. 26 giugno 2016, n. 152 che ha confermato la funzione sanzionatoria della norma in riferimento alle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo cosi' ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. 3. La responsabilità del notaio. Nel corso dell'anno 2016 degne di menzione in tema di responsabilità notarile appaiono due decisioni che si sono occupate, l'una della natura della responsabilità professionale gravante sul notaio e l'altra, dei termini prescrizionali dell'azione risarcitoria. Sulla natura della responsabilità, Sez. 2, n. 09320/2016, Scarpa, Rv. 639919, ha ritenuto che in un caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca incarichi un notaio di effettuare le visure del bene destinato ad essere l'oggetto dell'ipoteca e a redigere la relativa relazione, essa determina l'assunzione di obblighi in capo al notaio non soltanto nei confronti del mutuatario, ma pure nei confronti della banca mutuante, e ciò sia che si intenda l'istituto bancario quale terzo ex art. 1411 c.c., che beneficia del rapporto contrattuale di prestazione professionale concluso con il cliente mutuatario, sia che si individui un'ipotesi di responsabilità da "contatto sociale" fondato sull'affidamento che la banca mutuante ripone nel notaio quale esercente una professione protetta. In tal caso, spiega la Corte, l'eventuale danno dovrà essere parametrato in base alla colposa induzione dell'istituto di credito ad accettare in ipoteca, con riguardo al finanziamento, un bene non idoneo a garantire la restituzione del credito erogato. Nella specie si trattava di un vincolo archeologico che, seppure non astrattamente qualificabile come assoluto, concorreva ad incidere negativamente sul valore di mercato del bene. In tema di termini prescrizionali dell'azione risarcitoria, Sez. 3, n. 03176/2016, Vincenti, Rv. 639073, ha affermato che ai fini del momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale si deve aver riguardo all'esistenza del danno risarcibile ed al suo manifestarsi all'esterno come percepibile dal danneggiato alla stregua della diligenza di quest'ultimo esigibile ai sensi dell'art. 1176 c.c. secondo standards obiettivi e in relazione alla specifica attività del 243 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI professionista, in base ad un accertamento di fatto rimesso al giudice del merito. La Corte, in un caso in cui veniva contestato al notaio di aver erroneamente asseverato l'inesistenza di pesi e vincoli sul bene oggetto di una compravendita, ha cassato la sentenza di merito che aveva ancorato la decorrenza del dies a quo alla mera stipula dell'atto, senza procedere alla doverosa indagine sul momento in cui si era prodotto e reso concoscibile il danno lamentato dagli acquirenti, i quali avevano subìto la risoluzione di un successivo contratto di compravendita, dagli stessi concluso con terzi, in quanto l'immobile era risultato gravato da ipoteca. 4. La responsabilità del commercialista. Secondo Sez. 3, n. 13007/2016, Barreca, Rv.640402, il dottore commercialista - quale professionista incaricato di una consulenza - ha l'obbligo a norma dell'art. 1176, comma 2, c.c. non solo di fornire tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e rientrino nell'ambito della sua competenza, ma anche, tenuto conto della portata dell'incarico conferito, di individuare le questioni che esulino dalla stessa, informando il cliente dei limiti della propria competenza e fornendogli gli elementi necessari per assumere le proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha ritenuto la responsabilità di un commercialista, incaricato di fornire una consulenza tecnico-giuridica a seguito dell'esito infausto di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, per non aver informato il cliente della possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza sfavorevole e della necessità di rivolgersi ad un avvocato al fine di proporre tempestivamente l'impugnazione. 5. La responsabilità degli ausiliari del giudice. Sez. 3, n. 13010/2016, Cirillo F.M., Rv. 640396 - riaffermando un orientamento già enunciato da Sez. 3, n. 18313/2015, Scrima, Rv. 636725 - ha precisato che il perito di stima del bene pignorato nominato dal giudice dell'esecuzione risponde nei confronti dell'aggiudicatario, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per il danno da questi patito in virtù dell'erronea valutazione dell'immobile staggito, solo ove il comportamento doloso o colposo nello svolgimento dell'incarico, tale da determinare una significativa alterazione della situazione reale del bene destinato alla vendita, idonea ad incidere casualmene nella determinazione del consenso dell'acquirente. Nella specie, la Corte ha escluso la responsabilità del 244 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI perito in relazione ai costi sostenuti dall'aggiudicatario per la regolarizzazione urbanistica dell'immobile acquistato, maggiori rispetto a quelli indicati in perizia, evidenziando come gli stessi fossero ricollegabili ad una disattenzione dell'acquirente, che non aveva considerato la mancanza, pur rappresentata dall'ausiliario nel proprio eleborato, di alcuni documenti ai fini della valutazione di tali oneri. 6. La responsabilità dell'intermediario finanziario (rinvio). Per ragioni di omogeneità, la peculiare forma di responsabilità civile degli intermediari finanziari verrà trattata nel successivo cap. XXI dedicato al diritto dei mercati finanziari. 245 CAP. XV - LE GARANZIE REALI PARTE QUARTA TUTELA DEI DIRITTI CAPITOLO XV LE GARANZIE REALI (di Raffaele Rossi) SOMMARIO: 1. Privilegi. – 2. Pegno. – 3. Ipoteca. 1. Privilegi. Le pronunce in rassegna si concentrano, in prevalenza, sulla delimitazione del corretto ambito applicativo di alcuni privilegi generali mobiliari. Sul privilegio accordato dall'art. 2751 bis, n. 5-bis, c.c. alle società cooperative agricole e ai loro consorzi per i corrispettivi della vendita dei prodotti, si è espressa Sez. 1, n. 17046/2016, Ferro, Rv. 641034: premesso il superamento normativo della distinzione tra cooperative (e consorzi) di produzione e lavoro in agricoltura e cooperative di imprenditori agricoli per la trasformazione e alienazione dei prodotti (con conseguente irrilevanza della dimensione quantitativa dell'impresa e della struttura organizzativa), la S.C. ascrive la ratio giustificatrice del privilegio non alla mera qualifica soggettiva del creditore (cooperativa o consorzio agrario iscritto nel relativo registro), ma alla natura oggettiva del credito, ovvero alla circostanza che esso scaturisca dall'attività nella quale si esplica la funzione cooperativa specialmente tutelata dal legislatore, concretamente collegata con finalità solidaristiche. Altre decisioni definiscono l'estensione del privilegio generale mobiliare per i crediti tributari degli enti locali sancito dall'art. 2752, comma 3, c.c.: individuato lo scopo della norma nella volontà di assicurare agli enti la provvista dei mezzi economici necessari per l'adempimento dei loro compiti istituzionali ed interpretata la locuzione «legge per la finanza locale» come riferita a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali (e non già ad una legge specifica istitutiva della singola imposta), si è ritenuto il privilegio de quo assistere il credito per: - la tassa rifiuti (cd. TARI), quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", mirante a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza rapporto sinallagmatico tra la 246 CAP. XV - LE GARANZIE REALI prestazione da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve (Sez. 1, n. 12275/2016, Ferro, Rv. 640011); - la tassa automobilistica provinciale istituita dall'art. 4 della l.p. Trento 11 settembre 1998, n. 10, avente natura tributaria ed afferente a risorse essenziali di un ente locale a previsione costituzionale (Sez. 1, n. 03134/2016, Didone, Rv. 638527). Concerne invece il privilegio speciale sui mobili a tutela di crediti per tributi dello Stato Sez. 1, n. 17087/2016, Terrusi, Rv. 640936, che ha riconosciuto l'operatività dello stesso per i crediti IRAP anche per il periodo antecedente alla modifica operata dall'art. 39 del decreto legge 1° ottobre 2007 n. 159, convertito nella legge 29 novembre 2007, n. 222, alla stregua di un'interpretazione estensiva dell'originario testo dell'art. 2752, comma 1, c.c., giustificata da un'esigenza di certezza nella riscossione del credito per il reperimento dei mezzi necessari per consentire allo Stato ed agli altri enti pubblici di assolvere i loro compiti istituzionali, nonché dalla causa del credito, che ha ad oggetto un'imposta erariale e reale, introdotta in sostituzione dell'ILOR e soggetta alla medesima disciplina per quanto riguarda l'accertamento e la riscossione. Sulla (invero scarsamente esplorata) materia dei privilegi sui beni immobili si segnala Sez. 3, n. 26101/2016, Barreca, in corso di massimazione: posto il principio secondo cui il privilegio ex art. 2770 c.c. spetta solo in relazione alle spese utili alla conservazione del patrimonio del debitore nell'interesse di tutti i creditori e non anche per quelle sostenute dal creditore per il riconoscimento, in sede di giudizio di merito, della fondatezza del proprio diritto, la S.C. limita la collocazione privilegiata al credito per spese di giustizia occorrenti per ottenere ed eseguire il sequestro conservativo poi convertito nel pignoramento utile all'intero ceto creditorio, escludendo invece analoga preferenza per le spese per il giudizio di cognizione finalizzato alla sentenza di condanna necessaria per la conversione del sequestro. Nello stesso ambito, ancora Sez. 3, n. 26101/2016, Barreca, in corso di massimazione, definisce i presupposti di applicabilità dell'art. 2776 c.c., nella parte in cui prevede la collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili (cioè con preferenza rispetto ai creditori chirografari) dei crediti aventi privilegio generale sui mobili nel caso di infruttuosa esecuzione su questi ultimi: la pronuncia grava il creditore che chiede l'applicazione del beneficio dell'onere di provare di essere rimasto incapiente nell'esecuzione direttamente promossa e di non essere potuto intervenire nelle precedenti esecuzioni perché il suo credito non era ancora certo, liquido ed 247 CAP. XV - LE GARANZIE REALI esigibile, ovvero che il suo intervento era stato o sarebbe stato superfluo per la insufficienza del patrimonio mobiliare del debitore a soddisfare il suo credito anche se privilegiato. Tra le possibili interferenze tra cause legittime di prelazione, il conflitto tra ipoteca e privilegio speciale immobiliare ex art. 2775- bis c.c. a tutela del credito del promissario acquirente per mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto è fattispecie di rilievo sistematico e frequente ricorrenza concreta. Conformandosi all'orientamento già espresso da precedenti decisioni, Sez. 1, n. 17141/2016, Terrusi, Rv. 641041, ha ribadito che il menzionato privilegio immobiliare, siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (prevista dall'ultima parte dell'art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza dei privilegi sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dall'art. 2748, comma 2, c.c., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti; da ciò ha fatto conseguire che, qualora il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile opti per lo scioglimento del contratto preliminare ex art. 72 l.fall., il conseguente credito del promissario acquirente, benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato, in sede di riparto, con grado inferiore rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice. 2. Pegno. Con riguardo agli strumenti di tutela dei creditori in sede di procedure concorsuali, Sez. 1, n. 16618/2016, Terrusi, Rv. 641033, ha esaminato il pegno di saldo di conto corrente bancario costituito a favore della banca depositaria, configurandolo come pegno irregolare soltanto quando sia espressamente conferita alla banca la facoltà di disporre della relativa somma; nel caso in cui difetti il conferimento di tale facoltà, invece, esso integra un pegno regolare, ragion per cui la banca garantita non acquisisce la somma portata dal saldo, né ha l'obbligo di restituire al debitore il tantundem, sicché, mancando i presupposti per la compensazione dell'esposizione passiva del cliente con una corrispondente obbligazione pecuniaria della banca, l'incameramento della somma conseguente all'escussione del pegno è atto assoggettabile a revocatoria fallimentare, in applicazione dell'art. 67 l.fall.. 3. Ipoteca. L'ipoteca è diritto reale di garanzia che si costituisce mediante iscrizione nei pubblici registri immobiliari a 248 CAP. XV - LE GARANZIE REALI salvaguardia di un credito specificamente indicato, nel suo importo e nella sua fonte, su beni immobili esattamente individuati. A mente dell'art. 2846 c.c., le spese per l'iscrizione ipotecaria sono (salvo patto contrario) a carico del debitore, ma con onere di anticipazione gravante sul creditore. Sull'argomento, scarsamente esplorato in precedenza, Sez. 3, n. 12410/2016, Rubino, Rv. 640410, ha chiarito che le spese per la iscrizione di ipoteca giudiziale non costituiscono credito accessorio al principale né accessorio di legge alle spese processuali (come, ad esempio, le spese per atti successivi e conseguenti alla sentenza: notificazione, registrazione et similia) e, pertanto, non possono essere legittimamente autoliquidate nel precetto; il creditore può ripetere detti esborsi soltanto all'esito della espropriazione utilmente promossa sui beni ipotecati, a titolo di spese di procedura esecutiva liquidate dal G.E. e collocate in riparto con il grado del beneficio ipotecario ai sensi dell'art. 2855 c.c.. Una volta iscritte, le ipoteche (legali o giudiziali) devono essere ridotte, su domanda degli interessati, se la somma determinata dal creditore nell'iscrizione ecceda di un quinto quella che l'autorità giudiziaria dichiara dovuta, o se i beni compresi nella iscrizione hanno un valore che eccede la cautela da somministrarsi (art. 2874 c.c.): ad avviso di Sez. 1, n. 05082/2016, Di Virgilio, Rv. 639008, il valore dei beni eccede la cautela se, tanto alla data di iscrizione della ipoteca quanto successivamente, esso superi di un terzo l'importo dei crediti iscritti comprensivo di accessori. Circa le possibili modificazioni soggettive dal lato attivo del rapporto ipotecario, l'annotazione dell'atto di cessione a margine della iscrizione ipotecaria ha carattere necessario e costitutivo, rappresentando un elemento integrativo indispensabile della fattispecie del trasferimento del diritto ipotecario, con l'effetto di sostituire al cedente o surrogante il cessionario o surrogato, non solo nella pretesa di credito, ma altresì nella prelazione nei confronti dei creditori concorrenti; in conseguenza dell'adempimento formale, il credito del surrogante prende lo stesso grado dell'ipoteca iscritta, ma, secondo Sez. 3, n. 01671/2016, Rubino, Rv. 638541, il privilegio ipotecario non si estende alle spese necessarie per l'annotazione, avendo quest'ultima solo funzione di opponibilità ai terzi della modifica soggettiva del credito e non partecipando della funzione di costituzione o di mantenimento della ipoteca. L'ipoteca attribuisce al creditore garantito il diritto di far vendere coattivamente l'immobile nello stato giuridico in cui esso si trova al momento dell'iscrizione, ovvero, secondo la icastica 249 CAP. XV - LE GARANZIE REALI formulazione dell'art. 2812 c.c., «far subastare la cosa come libera», stante la inopponibilità di diritti reali minori trascritti e di alcuni diritti personali di godimento costituiti dopo l'iscrizione. Sulla dibattuta questione degli effetti rispetto all'ipoteca della assegnazione della casa familiare (ovvero dell'idoneità di questa a costituire per il coniuge beneficiario valido titolo di godimento del cespite, in pregiudizio dei diritti del titolare della garanzia reale), si è pronunciata, con esemplare chiarezza argomentativa, Sez. 3, n. 07776/2016, Barreca, Rv. 639499: dall'esegesi, testuale e sistematica, dell'art. 155-quater c.c. (e, segnatamente, dal richiamo al regime della trascrizione degli atti di cui all'art. 2643 c.c.), la S.C. ha desunto che i provvedimenti di assegnazione (e di revoca) della casa familiare non hanno effetto nei riguardi del creditore ipotecario che abbia iscritto la sua ipoteca anteriormente alla trascrizione di detti provvedimenti e che, pertanto, può far vendere coattivamente l'immobile come libero. Connotazione essenziale dell'ipoteca è, come è noto, lo jus sequelae in caso di successivi trasferimenti del bene garantito. Nel regolare gli effetti dell'ipoteca rispetto al terzo acquirente del bene ipotecato che abbia trascritto il suo acquisto, l'art. 2864, comma 2, c.c., riconosce al terzo il diritto di far separare dal prezzo di vendita (cioè a dire dal ricavato dall'espropriazione forzata del bene) la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore degli stessi al tempo della vendita. Una compiuta disamina dell'istituto (di rara applicazione) si rinviene in Sez. 3, n. 06542/2016, Barreca, Rv. 639522: ispirato all'esigenza di evitare un ingiustificato arricchimento a favore del creditore ipotecario (il quale si avvantaggerebbe altrimenti dell'incremento patrimoniale del cespite garantito derivante dall'attività migliorativa posta in essere dal terzo), condizione necessaria e sufficiente del diritto di separazione è che, al momento della vendita forzata, i miglioramenti apportati alla res da soggetto diverso dal debitore, dopo la trascrizione del suo acquisto, siano sussistenti, autonomamente apprezzabili e tali comunque da incrementarne il valore rispetto all'epoca di concessione della garanzia, prescindendo dallo stato soggettivo (di buona o mala fede) di chi li abbia realizzati; il terzo che subisce l'espropriazione, inoltre, può cumulare il valore dei incrementi apportati dai suoi danti causa (o da estranei), purché si tratti di soggetti diversi dal debitore concedente ipoteca. 250 CAP. XV - LE GARANZIE REALI Nei rapporti con i terzi acquirenti dell'immobile ipotecato (e solo nei riguardi di costoro) l'art. 2880 c.c. disciplina una fattispecie estintiva dell'ipoteca per prescrizione (con il decorso di venti anni dalla data di trascrizione del titolo di acquisto del terzo) che, secondo la ricostruzione offerta da Sez. 3, n. 13940/2016, Barreca, Rv. 640532, opera, in deroga al principio generale dell'accessorietà, in via autonoma rispetto al diritto di credito garantito, sancendo una scissione tra la garanzia reale, azionabile nei confronti del terzo e che si estingue per prescrizione, e il diritto di credito che, indifferente alle sorti dell'ipoteca, resta in capo al creditore nei confronti del debitore originario. Da questa distinzione deriva che il creditore, per evitare la prescrizione dell'ipoteca verso il terzo acquirente, è tenuto a rivolgere a quest'ultimo atti costituenti estrinsecazione della volontà di avvalersi della garanzia reale, ovvero ad esercitare il diritto di espropriazione del bene ipotecato promuovendo nei termini il processo esecutivo individuale contro il terzo, non costituendo valido atto interruttivo del diritto di garanzia l'ammissione al passivo del fallimento del debitore iscritto che di quel bene abbia perduto la disponibilità prima della dichiarazione di fallimento. La regola, precisa ancora la S.C., non soffre eccezione nemmeno nel disposto dell'art. 20 del r.d. 16 luglio 1905, n. 646, secondo cui, in base al principio della cd. indifferenza del trasferimento dell'immobile gravato da ipoteca per mutuo fondiario, in ipotesi di mancata notificazione del subentro dei successori a titolo universale o particolare e degli aventi causa al creditore, gli atti giudiziari, compresi quelli di rinnovazione di ipoteche e di interruzione della prescrizione di esse, possono essere diretti contro il debitore iscritto: in tal caso, infatti, il privilegio riconosciuto al creditore fondiario è dato dalla possibilità di promuovere l'azione esecutiva individuale direttamente nei confronti del debitore, rivolgendo a quest'ultimo gli atti relativi, anche quando il bene sia stato venduto a terzi. 251 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA CAPITOLO XVI IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO (di di Stefania Billi, Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Salvatore Leuzzi e Valeria Piccone)* SOMMARIO: 1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. - 1.1. Rapporto subordinato e patto di prova. – 1.2. Subordinazione "attenuata" del dirigente. – 1.3. Subordinazione e lavoro giornalistico. – 1.4. Subordinazione e lavoro a progetto. - 2. Lavoro flessibile e precario. - 2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. - 2.1.1. Le causali per la legittima apposizione del termine. - 2.1.2. I contratti a termine nel settore postale ex art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001. - 2.1.3. L'assuzione a termine dei lavoratori disabili. - 2.1.4. La forma della proroga del contratto a tempo determinato ex art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001. - 2.1.5. La decadenza ex art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010. – 2.1.6. L'indennità omnicomprensiva ex art. 32, commi 5-7, della l. n. 183 del 2010. – 2.1.7. Il contratto a termine nel pubblico impiego privatizzato. – 2.2. La somministrazione di lavoro. – 3. Inquadramento, mansioni e trasferimento. - 3.1. Inquadramento e mansioni. – 3.2. Il trasferimento. – 4. Diritto sindacale. Contratto collettivo. – 5. Retribuzione. – 6. Dimissioni. – 7. Mutuo consenso. – 8. Potere di controllo. – 9. Potere disciplinare. – 10. Licenziamento individuale. – 10.1. Riferibilità all'utilizzatore del licenziamento intimato dal somministratore. – 10.2. La decadenza dall'impugnazione. – 10.3. L'onere della prova. – 10.4. Rilevanza dei motivi dedotti in giudizio a fondamento dell'illegittimità del licenziamento e poteri di rilevazione del giudice. – 10.5. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. – 10.6. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. – 10.7. Licenziamento discriminatorio e ritorsivo. – 10.8. Il superamento del periodo di comporto. – 10.9. La tutela reintegratoria: accertamento dei limiti dimensionali. – 10.10. Applicazioni della legge «Fornero». – 11. Licenziamenti collettivi. – 12. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. – 12.1. Giurisdizione. – 12.2. Procedure concorsuali. – 12.3. Passaggio del personale tra amministrazioni. – 12.4. Mansioni, inquadramenti e trasferimenti. – 12.5. Incarichi dirigenziali - 12.6. Trattamento economico. – 12.7. Il procedimento disciplinare. – 12.8. I licenziamenti e altre ipotesi di cessazione dal servizio. – 12.9. I lavoratori disabili. – 12.10. Contrattazione collettiva. – 12.11. Infortunio ed equo indennizzo. - 13. Agenzia. 1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come subordinato. Le pronunce di maggiore interesse hanno investito l'apposizione del patto di prova, l'atteggiarsi della subordinazione in alcune situazioni peculiari (dirigenza, lavoro * Stefania Billi i paragrafi 3 e 12, Luigi Di Paola i paragrafi 10 e 11, Ileana Fedele il paragrafo 2, , Salvatore Leuzzi i paragrafi 1,4,5 e 13 e Valeria Piccone i paragrafi 6,7,8 e 9. 252 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO giornalistico) e le correlazioni e distinzioni tra la subordinazione ed il lavoro a progetto. 1.1. Rapporto subordinato e patto di prova. Sez. L, n. 16214/2016, Ghinoy, Rv. 640860, ha puntualizzato che il datore di lavoro che si ritenga leso dalla mancata proroga del patto di prova determinata da dolo del lavoratore deve provare gli artifizi e i raggiri che abbiano avuto efficienza causale sul suo consenso, restando il dedotto dolo comunque irrilevante ove cada non sulla stipulazione del contratto di lavoro o sull'individuazione dei suoi elementi essenziali ma solo sul patto di prova, che costituisce elemento accidentale del contratto. Nel caso di specie, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal datore di lavoro che deduceva la natura dolosa del comportamento di una lavoratrice, assunta in prova, che non aveva sottoscritto la mail aziendale contenente la proroga del patto di prova, al solo fine di avvalersi della conversione del contratto per scadenza del periodo di esperimento. 1.2. Subordinazione "attenuata del dirigente". Sez. 1, n. 09463/2016, Di Virgilio, Rv. 639632, ha avuto modo di precisare che, ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un alter ego dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario - ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente - verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro (e, in particolare, dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso), nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale. 1.3. Subordinazione e lavoro giornalistico. Di indubbio interesse Sez. L, n. 01542/2016, Ghinoy, Rv. 638343, ha chiarito che il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi dell'art. 3, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, comporta l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato solo se l'incarico si cumuli con altri e diversi compiti di svolgimento 253 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dell'attività giornalistica, e, in ispecie, di funzione direttoriale esercitata in regime di subordinazione, tali da dimostrare l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione editoriale, sicché, in tale evenienza, anche il direttore responsabile dello stampato resta assoggettato al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro. In un'ottica sovrapponibile, Sez. L, n. 03647/2016, Cavallaro, Rv. 638950, ha escluso la necessaria correlazione tra l'incarico di direttore responsabile di testata giornalistica e l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda proprietaria della stessa, evidenziando la necessità, a tal fine, del cumulo in capo alla medesima persona, chiamata ad assolvere detta funzione di carattere pubblicistico, di altri e diversi compiti, svolti in modo tale da dimostrare l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa, con le caratteristiche essenziali della subordinazione e della collaborazione. 1.4. Subordinazione e lavoro a progetto. Di notevole incidenza la precisazione resa da Sez. L, n. 12820/2016, D'Antonio, Rv. 640230, in tema di contratto di lavoro a progetto, secondo cui, il regime sanzionatorio articolato dall'art. 69 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, pur imponendo in ogni caso l'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di cd. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l'appurata natura autonoma dei rapporti in esito all'istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l'ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti. Dal canto suo, Sez. L, n. 17127/2016, Lorito, Rv. 640919, in tema, ha osservato che l'evocato art. 69, comma 1, del d.lgs n. 276 del 2003 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all'art. 1, comma 23, lett. f) della legge 28 giugno 2012, n. 92), va interpretato nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell'autonomia o della 254 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso. 2. Lavoro flessibile e precario. La maggior parte delle pronunce concerne, in linea di continuità con i dati registrati negli anni passati, la tipologia del contratto a tempo determinato, segnalandosi, comunque, alcune pronunce di rilievo sul contratto di somministrazione di lavoro. 2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. La normativa di settore - ivi compresa la disciplina sulla decadenza dalla facoltà di impugnare il contratto a termine e sull'indennità risarcitoria già prevista nell'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183 - è ormai contenuta negli artt. 19-29 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Con l'eliminazione del requisito della causalità per la legittima apposizione del termine (già in conseguenza delle modifiche apportate al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, dal d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. con modif. nella legge 16 maggio 2014, n. 78) il contenzioso classico - vertente, in prevalenza, sulla sussistenza, o meno, delle ragioni giustificative - è destinato a venir meno. Diverse sono invece le pronunce sulla legittimità, natura ed ambito di applicazione dell'indennità risarcitoria. Di particolare rilievo, infine, le sentenze che, nell'anno, hanno definito alcuni aspetti fondamentali per il cosiddetto "precariato pubblico". 2.1.1. Le causali per la legittima apposizione del termine. Con riferimento alle ragioni sostitutive, in continuità con l'indirizzo più elastico aperto da Sez. L, n. 01576/2010, Di Cerbo, Rv. 611548, Sez. L, n. 01246/2016, Lorito, Rv. 638315, ha ribadito che l'onere di specificazione è soddisfatto, nelle situazioni aziendali complesse, dall'indicazione di elementi ulteriori, quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto, che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, e, quindi, di verificare la sussistenza delle condizioni di legittimità per l'apposizione del termine. L'assunto - ormai consolidato - è stato ulteriormente suffragato con il richiamo sia alla sentenza della Corte cost. n. 107 del 2013, che ha rigettato la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, sia alla 255 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO sentenza della Corte di Giustizia UE del 24 giugno 2010, in C- 98/09, che ha riconosciuto la compatibilità comunitaria della stessa normativa con la clausola 8.3 dell'accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE. Sul piano dell'effettività della causale, Sez. L, n. 17774/2016, Esposito L., Rv. 640813, richiamandosi ad un principio espresso nella vigenza della legge n. 18 aprile 1962, n. 230 (Sez. L, n. 03492/1988, Ponzetta, Rv. 458841), ha qualificato come irrilevante la circostanza che il lavoratore sia stato adibito in via marginale a mansioni non strettamente inerenti alla causale indicata nel contratto a tempo determinato, purché la prestazione complessivamente resa risulti coerente con la giustificazione addotta per l'assunzione a termine. Di rilievo che, nel caso di specie, la compatibilità delle ulteriori mansioni svolte dal lavoratore assunto per l'esecuzione di spettacoli teatrali programmati è stata apprezzata in riferimento ad una dimensione essenzialmente quantitativa (soli sette giorni sui quarantanove di durata complessiva del rapporto). 2.1.2. I contratti a termine nel settore postale ex art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001. La legittimità della disposizione in esame era stata revocata in dubbio dalla Sezione Lavoro (Sez. L, n. 18782/2015, Bandini), sotto il profilo della compatibilità con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, con particolare riferimento alla violazione della clausola 5 dell'accordo citato, in tema di prevenzione degli abusi. In particolare, a seguito della sentenza della Corte di giustizia, 3 luglio 2014, C-362/13, C- 363/13 e C-407/14, in tema di successione di contratti di arruolamento a tempo determinato ai sensi dell'art. 326 cod. nav., la Sezione Lavoro aveva rimesso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la questione se sia adeguata la misura della previsione di una durata massima dei contratti a tempo determinato successivi (36 mesi) ovvero si renda necessario rispettare - fra la stipula di un contratto a termine e l'altro, a norma della disposizione in commento - anche l'intervallo minimo previsto in via generale per il caso di riassunzione dall'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 2001. La questione è stata risolta dal Supremo consesso (Sez. U, n. 11374/2016, Curzio, Rv. 639827) nel senso della legittimità della disposizione in commento valorizzando il limite dei trentasei mesi per la durata massima complessiva previsto dall'art. 5 del d.lgs. n. 256 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 368 del 2001 - che impone di considerare tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, a prescindere dai periodi di interruzione tra essi intercorrenti - quale misura idonea ad assicurare la conformità della fattispecie alla clausola 5 dell'accordo quadro sulla prevenzione degli abusi da successione. Inoltre, in coerenza con l'orientamento già maturato in riferimento all'omologa fattispecie di cui all'art. 2, comma 1, in tema di trasporto aereo, la pronuncia ha delineato, rispetto alla disciplina applicabile ratione temporis, due regole autonome, che operano in parallelo, per il ricorso al termine: in via generale è consentito se si indicano le ragioni di ordine produttivo, tecnico, organizzativo o sostitutivo della scelta; nel trasporto aereo e nel settore postale è consentito in presenza di alcuni requisiti (temporali e quantitativi) specificamente indicati, in quanto la valutazione in ordine alla sussistenza della giustificazione è stata fatta ex ante dal legislatore. Infine, la sentenza ha ribadito l'orientamento già espresso in ordine alla legittimità della norma anche nel regime transitorio, considerato che l'art. 1, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 ha attratto - nel conteggio finalizzato al rispetto del limite di durata massima - anche i contratti a termine già conclusi, prevedendo che se, in forza del computo complessivo, il limite massimo viene superato, si avrà la trasformazione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato. Va, infine, osservato che anche il contenzioso sulla disposizione in questione è destinato a diventare "ad esaurimento", posto che l'art. 55, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015 dispone l'abrogazione dell'intero art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 a decorrere dal 1° gennaio 2017. 2.1.3. L'assuzione a termine dei lavoratori disabili. Con riferimento ai lavoratori disabili, era stato affermato il principio secondo cui la disciplina prevista per l'assunzione ai sensi dell'art. 11, comma 2, della legge n. 12 marzo 1999, n. 68, si ponesse in rapporto di specialità rispetto a quella generale di costituzione del rapporto di lavoro a termine, sicché non era richiesta l'indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni giustificative già prescritte dall'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 34 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 78 del 2014 (Sez. L, n. 13285/2010, Ianniello, Rv. 613788). Tale interpretazione è stata però superata (Sez. L, n. 17867/2016, Bronzini, Rv. 641140) sul rilievo che l'art. 11 della l. n. 68 del 1999 si limita a prevedere che l'assunzione dei soggetti 257 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO disabili possa avvenire anche con contratti a termine, cosicché, in assenza di espressa clausola di esclusione nel d.lgs. n. 368 del 2001, non sussistono elementi per ritenere che il legislatore del 1999 abbia voluto esentare l'assunzione "tramite convenzione" a termine dal rispetto delle regole di ordine generale in materia; la nuova linea interpretativa, peraltro, è stata ritenuta doverosa per prevenire il rischio che il sistema delle assunzioni dei disabili si ponga in contrasto con la direttiva 2000/78/CE e con l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (che vieta ogni forma di discriminazione in relazione all'handicap), oltre che con l'art. 5 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18. 2.1.4. La forma della proroga del contratto a tempo determinato ex art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001. L'art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 non chiariva - come del resto neppure l'art. 21 del d.lgs. n. 81 del 2015 attualmente vigente - se il requisito della forma scritta prescritto per l'apposizione del termine si estendesse o meno anche alla proroga. Secondo Sez. L, n. 01058/2016, Balestrieri, Rv. 638515, la norma non impone la forma scritta per la proroga del contratto a tempo determinato, pur evidenziando come, ai sensi del successivo art. 5, siano prescritte maggiorazioni retributive per il caso della prosecuzione del rapporto oltre il termine iniziale o successivamente prorogato nonché - nell'ipotesi di superamento di venti o trenta giorni la durata iniziale del contratto - la trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Tale apparato sanzionatorio, valutato unitamente all'onere per il datore di lavoro di provare le ragioni obiettive che giustifichino la proroga (nella formulazione applicabile ratione temporis) ed al termine di durata massima complessiva di trentasei mesi, è stato ritenuto conforme alla clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che, secondo l'interpretazione resa dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 26 gennaio 2012, C-586/10), mira a limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti a tempo determinato. 2.1.5. La decadenza ex art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010. Sui problemi interpretativi insorti in merito all'introduzione del regime decadenziale ex art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, la soluzione già espressa da Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, Rv. 637925, è stata ribadita da Sez. U, n. 04913/2016, Amoroso, Rv. 639067, nel senso che la proroga 258 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO prevista dall'art. 32, comma 1 bis, della l. n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. nella legge 26 febbraio 2011, n. 10, (secondo cui "in sede di prima applicazione" l'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento è differita al 31 dicembre 2011) si applica a tutti i contratti ai quali è esteso il regime di decadenza, ivi compresi quelli con termine scaduto e per i quali la decadenza sia già maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore della l. n. 183 del 2010) ed il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale). Tale interpretazione è stata ritenuta coerente con la ratio legis di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all'introduzione del nuovo termine di decadenza. 2.1.6. L'indennità omnicomprensiva ex art. 32, commi 5- 7, della l. n. 183 del 2010. La legittimità dell'indennità omnicomprensiva di cui all'art. 32, commi 5-7, della l. n. 183 del 2010, già positivamente vagliata con particolare riferimento all'ordinamento sovranazionale da Sez. L, n. 06735/2014, Bandini, Rv. 629999, rispetto all'art. 6 CEDU, è stata riaffermata da Sez. L, n. 16545/2016, Ghinoy, Rv. 640854, secondo cui la norma in questione non contrasta con la giurisprudenza della Corte EDU (e segnatamente con la sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) in quanto giustificata da ragioni di "pubblica utilità", suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, avuto riguardo a quanto affermato da Corte cost. n. 303 del 2011, in ordine alla finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa perseguita dal legislatore con l'introduzione dell'indennità. In continuità con l'indirizzo già espresso da Sez. L, n. 03027/2014, Balestrieri, Rv. 630469, è stato ribadito (Sez. L, n. 03062/2016, Mammone, Rv. 639081) il principio secondo cui l'indennità non ha natura retributiva e su di essa non spettano la rivalutazione monetaria e gli interessi legali se non dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa dell'illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato. In particolare, va evidenziato che nel caso di specie la nullità del termine (con la ricostituzione del rapporto ed il risarcimento del danno) era stata disposta in primo grado (2006) in epoca anteriore 259 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO all'approvazione della l. n. 183 del 2010, sicché la decorrenza di rivalutazione ed interessi è stata collegata alla pronuncia della sentenza di secondo grado, che ha liquidato il danno ai sensi della disciplina sopravvenuta. Quanto all'ambito di applicazione dell'indennità, è stato chiarito (Sez. L, n. 09468/2016, Torrice, Rv. 639684) che essa si estende anche al lavoro nautico, sul rilievo che la formulazione letterale della norma è riferibile indistintamente a tutti i casi di conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato. Il tema più controverso è, però, senz'altro rappresentato dai limiti di applicabilità della disposizione in questione, come ius superveniens, ai giudizi pendenti, con particolare riferimento al processo in cassazione. Infatti, con ordinanza interlocutoria n. 14340/2015, Bandini, non massimata, la Sezione Lavoro aveva rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di massima di particolare importanza circa la possibilità (e le relative modalità di esercizio del diritto di impugnazione in sede di legittimità) di ottenere il riconoscimento in cassazione dello ius superveniens, espressamente dichiarato applicabile ai giudizi in corso, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello, ma anteriore alla proposizione del ricorso. Nell'ordinanza si segnalava in proposito un contrasto riscontrato all'interno della Sezione fra chi riteneva sufficiente la proposizione di uno specifico motivo di ricorso - ancorché unico - nel quale si chiedesse l'applicazione della normativa sopravvenuta (quale mezzo idoneo ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza sul punto) e chi, invece, reputava necessario che il ricorso investisse specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità della clausola di durata. Nell'ambito della questione principale, veniva altresì evidenziato un secondo aspetto controverso, concernente la corretta individuazione del giudicato interno sul capo della sentenza che provvede a regolare le conseguenze risarcitorie dell'illegittima apposizione del termine: infatti, secondo alcune pronunce la proposizione di doglianze relative alla dichiarata nullità del termine sarebbe sufficiente ad escludere il giudicato anche in assenza di specifica impugnazione delle (dipendenti) statuizioni sulle poste economiche; viceversa, secondo altre decisioni l'applicabilità dello ius superveniens sarebbe condizionata dall'esito delle censure proposte sull'illegittimità del termine, in quanto solo nell'ipotesi di accoglimento delle stesse la conseguente decisione sul quantum verrebbe ad essere travolta. 260 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Entrambe le questioni prospettate sono state risolte in senso favorevole ad ampliare l'applicabilità della normativa sopravvenuta da Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, in corso di massimazione. Infatti, quanto al primo tema sollevato, è stato osservato che la questione si risolve nel problema di stabilire se la violazione di norme di diritto, cui fa riferimento il n. 3 dell'art. 360 c.p.c., concerna solo quelle vigenti al momento della decisione impugnata o invece anche norme emanate in seguito ma dotate dal legislatore di efficacia retroattiva; quesito cui la Corte ha risposto reputando che la legge retroattiva costituisca il parametro del giudizio sulla violazione di legge ai sensi dell'art. 360 n. 3, c.p.c., cosicché può essere proposto ricorso per cassazione anche solo per denunziare la violazione della legge nuova: in tal senso, la pronuncia giunge a precisare che la nuova legge retroattiva deve trovare applicazione dalla Corte nei processi in corso anche qualora sia intervenuta dopo la notifica del ricorso per cassazione e quindi senza che il ricorrente abbia potuto formulare uno specifico motivo di ricorso, in quanto anche la Corte di cassazione deve applicare il principio iura novit curia. Quanto, poi, al secondo tema sollevato - relativo al rapporto tra legge retroattiva e giudicato interno - è stato evidenziato che l'impugnazione della parte della sentenza che ha affermato l'illegittimità del termine esprime la volontà di caducare anche la parte, strettamente collegata da un nesso causale, sul risarcimento del danno derivante dall'illegittimità. Partendo da tale assunto, valorizzato in relazione al disposto di cui all'art. 336 c.p.c. (secondo cui «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata o cassata»), la Corte perviene alla conclusione che l'impugnazione contro la parte della sentenza che dispone sull'illegittimità del termine impedisce il passaggio in giudicato anche delle parti dipendenti della sentenza, ed anche qualora queste parti non siano state oggetto di uno specifico motivo di ricorso. Infine, in conformità all'interpretazione già resa da Sez. L, n. 21069/2015, Nobile, Rv. 637360, è stato ribadito (Sez. L, n. 17866/2016, Ghinoy, Rv. 641013) che i criteri di quantificazione dell'indennità di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2015, si applicano solo ai contratti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore, avendo la nuova disciplina carattere innovativo e difettando una specifica disposizione transitoria. 261 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 2.1.7. Il contratto a termine nel pubblico impiego privatizzato. La questione centrale è senz'altro quella che era stata posta con l'ordinanza interlocutoria Sez. L., n. 16363/2015, Blasutto, non massimata, che aveva trasmesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, il tema della definizione, portata applicativa e parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, evidenziando altresì il contrasto registrato sui criteri di liquidazione da adottare. Quanto al primo aspetto, nell'ordinanza interlocutoria erano state richiamate le indicazioni della Corte di giustizia, 7 settembre 2006, proc. C-53/04, circa l'astratta compatibilità della normativa interna - preclusiva della costituzione del rapporto a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione - purché sia assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste nell'ordinamento interno per situazioni analoghe. Quanto al secondo profilo, nell'ordinanza interlocutoria erano stati esposti i diversi parametri di liquidazione del danno adottati nella giurisprudenza di merito (essenzialmente, quello ex art. 18, commi 4 e 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012) ed in alcune decisioni della Sezione (Sez. L, n. 19371/2013, Manna A., Rv. 628401, che ha ancorato la determinazione del risarcimento all'art. 32, commi 5-7, l. n. 183/2010, e Sez. L, n. 27481/2015, Tria, Rv. 634073, che ha utilizzato come criterio di liquidazione quello indicato dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), prospettando la necessità di un intervento nomofilattico. Le questioni sono state decise dalle Sezioni Unite civili con articolata pronuncia (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639065 e Rv. 639066), secondo cui il danno risarcibile ex art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto - legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei - bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c. Quanto, poi, al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), è stato affermato che - nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine - per determinare la misura risarcitoria può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, 262 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo. Infine, nell'ottica di salvaguardare il canone di equivalenza pure postulato dalla Corte europea, è stato chiarito che la soluzione adottata non attribuisce una posizione di maggior favore al lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito. L'approdo ermeneutico di Sez. U, n. 05072/2016 è stato pienamente condiviso dalla Sezione Lavoro in sede di esame del contenzioso sul cosiddetto "precariato scolastico", con le pronunce (v. per tutte Sez. L, n. 22552/2016, Torrice, in corso di massimazione) emesse a seguito delle sentenze della Corte di giustizia (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C- 63/13 e C-418/13) e della Corte cost. n. 187 del 2016. In particolare, all'esito di ampia ricostruzione della normativa di settore (specialità della legge 3 maggio 1999, n. 124 rispetto al sistema del d.lgs. n. 368 del 2001 ed evoluzione della disciplina sino alla legge 13 luglio 2015 n. 107), i giudici della Corte di legittimità hanno ritenuto che per la configurabilità dell'abuso da successione, ai sensi dell'interpretazione resa dalla Corte di giustizia europea, deve aversi riguardo alla reiterazione ultratriennale di supplenze su organico cosiddetto di diritto, mentre non rileva di norma - salvo specifica deduzione - la mera successione di contratti a termine su organico cosiddetto di fatto. Quanto, poi, alle ricadute sanzionatorie dell'accertata illegittima reiterazione, è stata ritenuta misura adeguata, ai sensi e per gli effetti della giurisprudenza europea, la stabilizzazione conseguita dai docenti per effetto della legge n. 107 del 2015 così come la stabilizzazione comunque intervenuta, anche in favore degli A.T.A., in virtù della pregressa disciplina sull'assunzione, atteso che, in tal modo, i soggetti interessati hanno conseguito il bene della vita, ben più soddisfacente del risarcimento per equivalente riconoscibile in virtù dell'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001. A tali fini, alla stabilizzazione è stata equiparata la certezza di fruire, in tempi certi e ravvicinati, di un accesso privilegiato in ruolo ai sensi della l. n. 107 del 2015, non risultando a ciò sufficiente la mera chance. In applicazione dei principi espressi da Sez. U, n. 05072/2016, è stata comunque riconosciuta la possibilità per il lavoratore di offrire la prova del maggior danno non coperto 263 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dall'intervenuta assunzione in ruolo. Infine, nell'ipotesi di mancata stabilizzazione o di seria prospettiva di immissione in ruolo, nei termini sopra indicati, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno, da liquidare secondo i criteri affermati da Sez. U, n. 05072/2016. Sempre in relazione al cosiddetto "precariato scolastico" la Corte (Sez. L, n. 22558/2016, Di Paolantonio, in corso di massimazione) ha affrontato anche la questione della computabilità dei periodi di supplenza ai fini del riconoscimento della progressione stipendiale, esprimendo il principio secondo cui la clausola 4 dell'accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva 99/70/CE - di diretta applicazione - impone di riconoscere l'anzianità di servizio maturata dal personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini dell'equiparazione del trattamento ai dipendenti a tempo indeterminato in base ai c.c.n.l. succedutisi nel tempo, mentre non è stato ritenuto applicabile l'art. 53 della legge 11 luglio 1980, n. 312 - che prevedeva scatti biennali di anzianità per il personale non di ruolo - la cui perdurante vigenza è stata affermata, ex artt. 69, comma 1, e 71 del d.lgs n. 165 del 2001, dal c.c.n.l. 4 agosto 1995 e dai contratti successivi limitatamente agli insegnanti di religione. Il principio di non discriminazione - di cui alla clausola 4 dell'accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva 99/70/CE - è stato pure invocato in riferimento all'inquadramento spettante ai dipendenti stabilizzati per effetto della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Infatti, Sez. L, 25025/2016, Blasutto, in corso di massimazione, nel pronunciarsi ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., ha espresso il seguente principio di diritto "La stabilizzazione prevista dalla legge n. 269/2006, art. 1, comma 558, costituisce una misura di favore prevista dal legislatore per coloro che abbiano già prestato servizio alle dipendenze dell'ente locale, il quale può procedervi solo nel rispetto delle regole del patto di stabilità interno e nei limiti dei posti disponibili in organico. Essa consente a tale personale, in deroga alla regola generale dell'accesso mediante concorso pubblico, di essere assunto a tempo indeterminato nella qualifica da ultimo rivestita alle dipendenze dell'ente locale. La pretesa ad un inquadramento diverso da quello adottato dall'Ente per le proprie dichiarate esigenze di stabilizzazione può correlarsi alla violazione del principio di non discriminazione di cui alla direttiva 1999/70/CE soltanto nell'ipotesi che la qualifica di inquadramento in sede di stabilizzazione sia inferiore a quella che sarebbe spettata al 264 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO lavoratore se l'Ente locale non avesse fraudolentemente operato il frazionamento in più segmenti di un rapporto di lavoro connotato da un'intrinseca unitarietà; l'onere di allegazione e di prova di tale preordinazione in frode grava sul lavoratore che ne assume l'esistenza". Infine, va segnalata Sez. 6-L, n. 14467/2016, Marotta, Rv. 640581, che ha escluso la configurabilità di un rapporto di lavoro a tempo determinato tra i volontari del Corpo dei Vigili del fuoco e la P.A., trattandosi di personale che svolge una funzione non suppletiva ma emergenziale, collegata ad eventi eccezionali e di durata ed entità non prevedibili, con conseguente esclusione degli stessi dall'ambito di applicazione dell'accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE e della disciplina nazionale in materia. Su un diverso piano, merita di essere evidenziata la pronuncia (Sez. L, n. 26166/2016, Paolo Negri Della Torre, in corso di massimazione) con la quale è stata esclusa la possibilità per l'ANAS di avvalersi della deroga all'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di utilizzo di contratti di lavoro flessibile prevista dalla normativa di emergenza emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in occasione del sisma che ha colpito l'Abruzzo - con conseguente illegittimità della seconda proroga apposta al contratto a termine impugnato dal lavoratore - atteso che il rapporto di lavoro intrattenuto con il personale dipendente dell'ente è disciplinato dalle norme di diritto privato e dalla contrattazione collettiva. 2.2. La somministrazione di lavoro. Sul tema corre l'obbligo di segnalare un contrasto sostanzialmente interno alla Sezione Lavoro circa l'estensione o meno della decadenza introdotta dall'art. 32 della l. n. 183 del 2010 ai contratti di somministrazione già scaduti alla data del 24 novembre 2010. Infatti, secondo un primo orientamento (già Sez. 6-L, n. 21916/2015, Arienzo, Rv. 637486, confermata da Sez. 6-L, n. 02462/2016, Arienzo, Rv. 638727), in assenza di una specifica disciplina derogatoria, analoga a quella dettata dall'art. 32, comma 4, lett. b) per i contratti a termine, la decadenza in questione opera solo per i contratti di somministrazione a termine in corso o stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della legge, e non anche per quelli il cui termine sia già scaduto il 24 novembre 2010; a conforto dell'assunto è stata addotta la sentenza della Corte cost. n. 155 del 2014, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 4, lett. b), della l. n. 183 del 2010, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., proprio sul rilievo 265 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO che il contratto di lavoro con una clausola appositiva del termine viziata non può essere assimilato ad altre figure illecite, quali - fra l'altro - la somministrazione di lavoro irregolare. In consapevole contrasto con tale soluzione, Sez. L, n. 02420/2016, Manna A., Rv. 638725) ha ritenuto invece applicabile la decadenza anche ai contratti di somministrazione a termine scaduti alla data di entrata in vigore della legge, sul rilievo che, nella sentenza n. 155 del 2014, la Corte costituzionale si è limitata ad effettuare lo scrutinio di legittimità costituzionale della norma come interpretata dall'ordinanza di rimessione; inoltre, non si comprenderebbe la ratio della proroga introdotta all'art. 32, comma 1 bis, della l. n. 183 del 2010, se la stessa non fosse destinata ad attenuare gli effetti della nuova disciplina anche per i contratti cessati prima dell'entrata in vigore della legge; infine, la norma non avrebbe efficacia retroattiva, in quanto limitata a disciplinare una situazione che, pur costituendo l'effetto di un pregresso fatto generatore, è distinta ontologicamente e funzionalmente e suscettibile di una nuova regolamentazione. Tale pronuncia afferma altresì che il termine di decadenza decorre dalla data di scadenza originariamente predeterminata, senza che il potenziale rinnovo per un numero indefinito di volte legittimi un corrispondente affidamento del lavoratore e renda indispensabile una comunicazione contraria del somministratore. Ancora sul tema della decadenza è da segnalare l'interpretazione (Sez. L, n. 17969/2016, Torrice, Rv. 641175), secondo cui, nell'ipotesi di somministrazione irregolare e di costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento intimato dal somministratore ai sensi dell'art. 6 della l. n. 604 del 1966, quale atto di gestione del rapporto che produce effetto anche nei confronti dell'utilizzatore. 3. Inquadramento, mansioni e trasferimento. In materia si segnalano importanti pronunce che ulteriormente chiariscono i passaggi del procedimento di accertamento e valutazione operato dal giudice e la distribuzione degli oneri probatori. Numerosi sono, inoltre, gli interventi, in ordine all'inquadramento del personale e in materia di interpretazione dei c.c.n.l. al riguardo. 3.1. Inquadramento e mansioni. In tema di accertamento del diritto ad una qualifica superiore, Sez. L, n. 18943/2016, Negri 266 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Della Torre, Rv. 641208, ha chiarito che, nel procedimento logico- giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento del lavoratore, l'imprescindibile osservanza del cd. criterio "trifasico", non postula necessariamente il rispetto di una rigida sequenza nello schema procedimentale, purché risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni. Con riguardo agli autoferrotranvieri Sez. L, n. 12601/2016, Boghetich, Rv. 640334 in tema di svolgimento di mansioni superiori, ha chiarito che, pur non applicandosi l'art. 2103 c.c. sulla cd. promozione automatica, ma vigendo ancora l'art. 18 dell'allegato A del r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, la pluriennale copertura del posto da parte del lavoratore con qualifica inferiore costituisce elemento presuntivo della relativa vacanza, dell'assenza di una riserva datoriale di provvedervi mediante concorso e dell'idoneità del dipendente all'esercizio delle mansioni superiori. Ne consegue che, in linea con l'attenuazione della specialità del rapporto di lavoro in questione e in graduale avvicinamento alla disciplina del rapporto di lavoro privato, al lavoratore può essere riconosciuto il diritto all'inquadramento superiore. In ordine, invece, al demansionamento e alla ripartizione degli oneri probatori, Sez. L, n. 04211/2016, De Gregorio, Rv 639195, ha confermato che incombe sul datore di lavoro l'onere di provare l'esatto adempimento dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c., o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Sotto il diverso profilo risarcitorio è stato riconosciuto da Sez. L, n. 08709/2016, Riverso, Rv 639584, che il diritto all'immagine professionale del lavoratore demansionato anche per un breve periodo rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost. la cui risarcibilità va riconosciuta. Deve, invece, essere esclusa la violazione dell'art. 2103 c.c, secondo Sez. L, n. 04496 2016, Amendola F., Rv. 639225, nei casi di assunzione di uno stesso dipendente con diversi contratti, causalmente e temporalmente distinti, con pattuizione, all'inizio di ciascun rapporto, di differenti inquadramenti. In caso di sopravvenuta inidoneità fisica, Sez. L, n. 13511/2016, Negri Della Torre, Rv. 640471, ha precisato che è a 267 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO carico del datore di lavoro l'obbligo di ricercare, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede, le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore, nonché l'onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l'attuazione dei detti diritti. In proposito, infatti, l'art. 42 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell'inciso "ove possibile" contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell'impresa. Per i dipendenti delle poste italiane, per Sez. L, n. 01064/2016, Tria, Rv. 638693, l'art. 77, commi 2 e 3, del c.c.n.l. dell' 11 luglio 2007 impone al datore di lavoro la preventiva ricerca di una soluzione transattiva personalizzata, la cui assenza determina l'illegittimità del trasferimento. Con riguardo al tema della classificazione del personale per i dipendenti ferroviari, Sez. 6-L, n. 03547/2016, Marotta, Rv. 638939, ha chiarito che, nell'interpretazione delle clausole di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale, ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie. Le parti collettive, infatti, classificano il personale sulla base delle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, ordinandole in una scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l'inquadramento di figure professionali atipiche o nuove. Nello stesso senso, Sez. L, n. 03216/2016, Di Paolantonio, Rv. 638938, che, con riferimento, invece, al personale A.N.A.S., ha tratto la conclusione che, a fronte di profili professionali espressamente tipizzati, per l'individuazione della specifica e maggiore professionalità, che ne caratterizza uno rispetto ad altro, non si può prescindere dall'esame della declaratoria di livello, che, pur non avendo valore assorbente, svolge funzione interpretativa nella sussunzione dei compiti all'uno o all'altro di essi. Sotto il diverso profilo delle procedure di selezione per l'accesso alla qualifica superiore, nell'azione di risarcimento del danno da perdita di chance, Sez. L, n. 04014/2016, Mammone, Rv. 639086, ha nuovamente ribadito che l'onere della prova del mancato rispetto dei principi di correttezza e buona fede, incombe sul lavoratore, tenuto a dimostrare, seppure in via presuntiva e probabilistica, il nesso causale tra l'inadempimento e l'evento 268 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dannoso, ossia la sua concreta e non ipotetica possibilità di conseguire la promozione, qualora la comparazione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente. L'affidamento di una procedura di selezione per il riconoscimento della qualifica dirigenziale ad una società esterna, al fine di operare una valutazione del personale con attribuzione di punteggio e formazione di una graduatoria, secondo Sez. L, n. 04031/2016, Patti, Rv. 639085, non elimina la discrezionalità del committente nell'utilizzazione della selezione, salva l'ipotesi in cui l'interessato dimostri che il datore di lavoro si era obbligato a ritenerla vincolante. Con riguardo ai dipendenti postali, Sez. L, n. 04090/2016, Torrice, Rv. 639144, ha precisato che la nullità di patti contrari al divieto di declassamento di mansioni, pur trovando applicazione anche alla contrattazione collettiva, non esclude che un nuovo contratto collettivo possa prevedere il riclassamento del personale. In particolare, è consentito un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni, purché sia salvaguardata la tutela della professionalità già raggiunta dal lavoratore. E' di conseguenza da ritenere legittima l'attribuzione della nuova qualifica al lavoratore le cui mansioni siano rimaste immutate, viceversa è illegittima l'assegnazione di nuove mansioni non coerenti con la professionalità di quest'ultimo, anche se equivalenti ad altre rientranti nella nuova qualifica attribuita. In tema di esatto inquadramento Sez. L, n. 02528/2016, Blasutto, Rv. 638958 ha chiarito che, sempre per i dipendenti postali il lavoratore addetto ai compiti di consulenza, analisi, studio e collocazione di prodotti finanziari ha diritto all'inquadramento in area quadri. Sullo stesso tema, ma per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato Sez. L, n. 14576/2016, Balestrieri, Rv. 640583, ha operato un importante chiarimento nell'interpretazione della contrattazione collettiva; in particolare, l'autonomia esecutiva, richiesta per i profili di terza area, ha riguardo alla scelta delle concrete modalità con cui realizzare una determinata operazione, sia essa tecnica, amministrativa o di altro tipo, nel rispetto delle direttive impartite e delle regole stabilite; la scelta si risolve, in altri termini, nel "come fare". La nozione di autonomia operativa, richiesta per i profili di quarta area, invece, riguarda anche scelte di merito e di opportunità, suscettibili di superare il singolo segmento del processo produttivo ed incidenti sul funzionamento di strutture connesse, con le quali 269 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO occorre coordinarsi, e si risolve, quindi, nella scelta di "che cosa fare". E' stata, infine, ritenuta possibile da Sez. L, n. 03981/2016, Blasutto, Rv. 638954, la configurabilità di plurimi livelli dirigenziali, nelle imprese di rilevanti di dimensioni, purché sia riconosciuta al dirigente di grado inferiore un'ampia autonomia decisionale in grado di incidere sugli obiettivi aziendali, anche se circoscritta dal potere generale di massima del dirigente di livello superiore. 3.2. Il trasferimento. In tema di trasferimento, ad avviso di Sez. L, n. 11126/2016, Esposito L., Rv. 639825, il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere ampliato al merito della scelta operata dall'imprenditore. Questa, in linea con quanto già espresso da Sez. L, n. 09921/2009, Balletti, Rv. 607978, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento realizzi una delle ragionevoli scelte adottabili sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. Il lavoratore ha il diritto di chiedere l'accertamento giudiziale, anche in via d'urgenza, dell'illegittimità del suo trasferimento, ma, secondo Sez. L, n. 18866/2016, Berrino, Rv. 641205, non può rifiutarsi aprioristicamente di eseguire la prestazione lavorativa. L'eccezione d'inadempimento potrà, infatti, essere invocata ex art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro. A tale proposito Sez. L, n. 03959/2016, Ghinoy, Rv. 638851, ha precisato che, anche in presenza di un trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell'art. 2103 c.c., il rifiuto del lavoratore deve essere proporzionato all'inadempimento datoriale, ai sensi dell'art. 1460, comma 2, c.c.. Il lavoratore dovrà dimostrare una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi altrimenti l'arbitrarietà della sua assenza dal lavoro. 4. Diritto sindacale. Contratto collettivo. In tema di repressione della condotta antisindacale, Sez. L, n. 03837/2016, Blasutto, Rv. 638953, contiene la riaffermazione del principio secondo cui, ai sensi dell'art. 28 st.lav., il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, 270 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale. In materia di diritto sindacale, Sez. L, n. 19695/2016, Boghetich, Rv. 641348, ha contribuito a cristallizzare il principio in base al quale l'assunzione di una carica elettiva nell'ambito di un'associazione sindacale è compatibile con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l'associazione medesima e l'eletto (anche se tale carica comporti funzioni dirigenziali e rappresentative) per lo svolgimento di specifiche mansioni affidate al soggetto stesso (nella specie di contabilità). L'indagine in ordine alla effettiva sussistenza o meno del suddetto rapporto di lavoro va compiuta, da parte del giudice di merito, tenendo conto del concreto atteggiarsi del rapporto. Sez. L, n. 00355/2016, Esposito L., Rv. 638376, si è occupata di fissare rilevanti principi in materia di contrasto fra contratti collettivi di diverso, ritenendo che, in tema di pubblico impiego privatizzato (nella specie, a tempo determinato presso la regione Sicilia quale forestale), detto contrasto debba essere risolto, non già in base al criterio della gerarchia (ossia riconoscendo prevalenza alla disciplina di livello superiore), o temporale (quindi assegnando prevalenza al contratto più recente), ma secondo il principio di autonomia (e, reciprocamente, di competenza), alla stregua del collegamento funzionale che le associazioni sindacali pongono, con statuti o altri idonei atti di limitazione, fra i vari gradi o livelli della struttura organizzativa e della corrispondente attività. Sempre in ambito di rapporti fra contratti di diverso livello, Sez. L, n. 01843/2016, Buffa, Rv. 638812, ha incisivamente chiarito che il trattamento economico complessivamente più favorevole previsto da un contratto aziendale ha una portata sostitutiva rispetto al trattamento deteriore di cui al contratto collettivo nazionale, sicché va escluso il diritto ad una applicazione cumulativa dei benefici rispettivamente previsti. In applicazione di tale principio, la la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva accertato, a mezzo c.t.u. contabile, l'assorbimento nella più elevata maggiorazione prevista per il lavoro turnario della mancata incidenza della stessa su alcuni istituti di retribuzione indiretta. Proficua si mostra anche l'indicazione, resa da Sez. L, n. 03296/2016, Buffa, Rv. 638966, sull'interdipendenza fra l'uso aziendale e lo strumento contrattuale collettivo: la pronuncia 271 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO osserva che l'uso anzidetto costituisce fonte di un obbligo unilaterale, di carattere collettivo, che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo, sicché, salvaguardati i diritti quesiti, esso può essere modificato da un successivo accordo anche in senso peggiorativo per i lavoratori. In un contesto settoriale di notevole importanza si è inscritta Sez. L, n. 13677/2016, Blasutto, Rv. 640436, ad avviso della quale, a seguito della trasformazione dell'Agenzia del demanio in ente pubblico economico, ai fini dell'individuazione delle sigle sindacali da ammettere alla stipula del nuovo contratto collettivo di lavoro di diritto privato il criterio della maggiore rappresentatività, individuato dall'art. 9 dello statuto dell'ente, da interpretarsi alla luce del parametro fornito dall'art. 19 della l. n. 300 del 1970, ha carattere cogente, sicché, nella fase di avvio delle trattative, tale requisito è posseduto dalle associazioni sindacali firmatarie del c.c.n.l. Agenzie Fiscali, applicabile in via transitoria al personale rimasto alle dipendenze dell'ente con un rapporto di lavoro di diritto privato, ex art. 3, comma 5, del d.lgs. 3 luglio 2003, n. 173. In un settore specifico, ma di estremo interesse, Sez. L, n. 26339/2016, De Gregorio, ha dato continuità al principio già cristallizzato, secondo cui, l'accertamento dell'eventuale persistenza dell'efficacia di clausole contrattuali collettive (nella specie, accordo aziendale del 1973 per i dipendenti dell'ACEA in tema di indennità di presenza) originariamente valide, ma successivamente divenute nulle per contrasto con le sopravvenute norme imperative sul cosiddetto blocco di contingenza di cui al decreto legge 1 febbraio 1977, n. 12 (conv. con modif. dalla legge 31 marzo 1977, n. 91), norme, queste ultime, dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con sentenza n. 124 del 1981, limitatamente al periodo successivo all'entrata in vigore della legge 26 febbraio 1986, n. 38 (28 febbraio 1986), non pone un problema di reviviscenza, in quanto gli accordi o contratti collettivi, ancora "vigenti" a tale data (tra cui l'accordo aziendale citato), e non conformi al disposto di cui all'art. 1, primo comma, seconda parte, della legge n. 38 del 1986, debbono ritenersi nulli, a norma del secondo comma del medesimo art. 1 di detta legge. Da che si è ritenuta la fondatezza della pretesa dell'ACEA di ripetizione della contingenza maturata fino al 28 febbraio 1986, anche per il periodo posteriore circa l'indennità di presenza, quale istituto peculiare della normativa collettiva inerente ai rapporti di lavoro dei dipendenti di ACEA. Di rilievo anche la precisazione contenuta in Sez. L, n. 25919/2016, Lorito, secondo cui i contratti collettivi di diritto 272 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività sino ad un nuovo regolamento collettivo - secondo la disposizione dell'art. 2074 c.c. - ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost. Pertanto, a seguito della naturale scadenza del contratto, collettivo, in difetto di una regola di ultrattività del contratto medesimo, la relativa disciplina non è più applicabile, ed il rapporto di lavoro da questo in precedenza regolato resta disciplinato dalle norme di legge, salvo che le parti abbiano inteso, anche solo per facta condudentia, proseguire l'applicazione delle norme precedenti. 5. Retribuzione. Nel solco di un orientamento pacifico si inserisce Sez. L, n. 18195/2016, Bronzini, Rv. 641146, che, in caso di esercizio del diritto costituzionale di sciopero per più giorni senza soluzione di continuità, ha escluso la spettanza della retribuzione con riferimento alle festività cadenti nel periodo, evidenziando la sospensione delle reciproche obbligazioni contrattuali. Di considerevole impatto anche la statuizione, contenuta in Sez. L, n. 00286/2016, Negri Della Torre, Rv. 638337, secondo cui, nell'ipotesi di più contratti di lavoro a termine illegittimamente posti in essere e sostituiti da un contratto a tempo indeterminato, la sospensione dell'obbligo retributivo negli intervalli non lavorati viene meno allorché il lavoratore, deducendo l'invalidità del termine e l'unicità del rapporto, si offra di riprendere il lavoro mettendo a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa.Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto prova idonea di tale disponibilità, rilevante ai fini della decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni, la comunicazione del lavoratore indirizzata ad un terzo - nella specie, l'Ufficio di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro - ma portata a conoscenza del datore di lavoro nell'ambito della procedura di conciliazione obbligatoria, contenente l'espressa dichiarazione della propria volontà di riprendere l'attività lavorativa. Una precisazione "di sistema" è rintracciabile in Sez. L, n. 04286, Torrice, Rv. 639156, ad avviso della quale l'art. 2120, comma 2, c.c., nella formulazione attualmente vigente, nel definire la nozione di retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, non richiede, a differenza del vecchio testo della norma, la ripetitività regolare e continua e la frequenza delle prestazioni e dei 273 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO relativi compensi, disponendo che questi ultimi vanno esclusi dal suddetto calcolo solo in quanto sporadici ed occasionali, per tali dovendosi intendere solo quelli collegati a ragioni aziendali del tutto imprevedibili e fortuite, e dovendosi all'opposto computare gli emolumenti riferiti ad eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione del lavoro. Nel caso sottoposto al suo vaglio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la computabilità, ai fini del suddetto calcolo, delle somme corrisposte a titolo di festività non fruite in quanto cadenti di domenica. Una regola d'applicazione tendenzialmente generalizzata si coglie in Sez. 6-L, n. 14120/2016, Fernandes, Rv. 640462, secondo cui, al fine di ritenere illegittimamente escluse dalla base di calcolo del compenso per lavoro straordinario, indennità, emolumenti ed altre voci non è rilevante la continuità della relativa corresponsione, quanto piuttosto la verifica se le stesse siano incluse nella retribuzione "normale", secondo quanto stabilito dal c.c.n.l., dovendo rimanere escluse, dalla detta base di calcolo, quelle voci che, per la relativa funzione e caratteristiche, siano rivolte a compensare particolari prestazioni e disagi specifici, ovvero situazioni particolari, meritevoli di tutela, anche se di fatto corrisposte con continuità. Di ampio respiro applicativo si palesa anche il principio esplicitato da Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639194, teso a disciplinare le ipotesi di passaggio lavoratori a diversa amministrazione o a settori diversi della stessa amministrazione: ad avviso della pronuncia, in tema di lavoro pubblico, nel caso di transito ad altra amministrazione, come pure di mutamento di posizione all'interno della stessa amministrazione con assegnazione a settori diversi da quelli di provenienza, dev'essere assicurata la continuità giuridica del rapporto e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l'ente o il settore di destinazione, opera secondo la regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti a seguito del trasferimento. Il principio è stato affermato dalla Corte in una fattispecie relativa alla modifica della posizione lavorativa all'interno della medesima amministrazione comunale per effetto dell'affidamento del servizio di trasporto pubblico a un soggetto privato, con facoltà per il 274 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO personale di optare per il mantenimento del rapporto alle dipendenze del Comune. Di elevato interesse si profila poi Sez. L, n. 18586/2016, Manna A., Rv. 641186, secondo la quale, accertata in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in contrasto con la qualificazione operatane dalle parti quale autonomo, il principio dell'assorbimento non trova applicazione per le indennità di fine rapporto, che maturano pur sempre al momento della cessazione del rapporto stesso e non a quello dei singoli accantonamenti, sicché, ai fini della determinazione dell'importo dovuto a tale titolo, non può operare l'assorbimento con le eventuali eccedenze sulla retribuzione minima contrattuale corrisposta durante il rapporto di lavoro e detto emolumento dovrà essere determinato sulla base delle retribuzioni che risultano annualmente dovute in applicazione dei parametri previsti dalla contrattazione collettiva, o, se superiore, in ragione di quanto effettivamente corrisposto nel corso del rapporto di lavoro. Più settoriale, ma tutt'altro che scevra da salienti riflessi operativi, appare Sez. L, n. 00196/2016, D'Antonio, Rv. 638426, dalla quale si ricava che il compenso incentivante di cui all'art. 32 del c.c.n.l. enti pubblici non economici 1999-2001, legato al raggiungimento di determinati e specifici obbiettivi, non è incompatibile con la natura determinata del rapporto di lavoro, sicché la mancata corresponsione anche ai dipendenti a tempo determinato (nella specie, della Croce Rossa Italiana) si pone in contrasto con la disciplina contrattuale di settore e, data l'assenza di ragioni oggettive che giustifichino il trattamento differenziato, con il divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dall'art. 6 del d.lgs n. 368 del 2001, in attuazione della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato oggetto della direttiva n. 99/70/CEE. Un'importante ripercussione pratica si scorge, altresì, in Sez. L., n. 02737/2016, Balestrieri, Rv. 638723, secondo la quale, ai sensi dell'art. 34 del c.c.n.l. comparto Sanità 1998/2001, il compenso per il lavoro straordinario, prestato nell'ambito di un rapporto di lavoro con una azienda sanitaria locale, compete solo in presenza di una preventiva autorizzazione del dirigente responsabile, non assumendo rilievo la mera controfirma da questi apposta sui prospetti riepilogativi dello straordinario già espletato dal dipendente. 275 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Un'applicazione di grande interesse del principio di c.d. "onnicomprensitivà della retribuzione" risulta scolpita in Sez. 1, n. 03819/2016, Genovese, Rv. 639026, la quale osserva che, in tema di progetti di formazione oggetto di convenzioni stipulate da istituti superiori ed un ente pubblico, datore di lavoro dei dirigenti scolastici di quegli istituti nonchè utilizzatore di contributi del Fondo Sociale Europeo, i suddetti dirigenti agiscono, nell'attuazione di tali progetti, non già come privati, bensì nella qualità di organi degli istituti stessi, sicché, stante il principio sopra evocato che informa il sistema retributivo pubblico, nessun maggiore compenso è loro dovuto in relazione all'attività aggiuntiva svolta. Di ragguardevole peso si rivela anche Sez. L, n. 10354/2016, Patti, Rv. 639646, nella misura in cui descrive il quadro della responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi, spiegando che la locuzione "trattamenti retributivi" di cui all'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, dev'essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti. Nella specie, la Corte, con riferimento agli artt. da 63 a 78 del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003, ha cassato, sul punto, la sentenza di appello, escludendo che rientrassero nella retribuzione le somme per buoni pasto e indennità sostitutiva ferie, ritenendo, viceversa, rientrarvi gli importi ROL per riduzione orario di lavoro. Ulteriore sedimentazione ha ottenuto – in virtù di Sez. L, n. 13472/2016, Tria, Rv. 640235 – il saliente principio in base al quale, in tema di occupazione in lavori socialmente utili o per pubblica utilità, per le prestazioni che, per contenuto, orario e impegno, si discostino da quelle dovute in base al programma cui si riferisce il contratto originario e che vengano rese in contrasto con norme poste a tutela del lavoratore, trova applicazione la disciplina sul diritto alla retribuzione, in relazione al lavoro effettivamente svolto, prevista dall'art. 2126 c.c., applicabile nei confronti della Pubbliche Amministrazioni, assoggettate al regime del lavoro pubblico contrattualizzato. Una cruciale "catalogazione" ha ricevuto – in forza di Sez. L, n. 13581/2016, Ghinoy, Rv. 640470 – elemento distinto della retribuzione (EDR), previsto per i dipendenti delle ferrovie dello Stato dall'accordo nazionale dell'8 novembre 1995, successivamente modificato dall'accordo del 6 febbraio 1998, come risultante dall'interpretazione dell' art. 73, comma 3, del c.c.n.l. del 6 febbraio 1998. La pronuncia ha chiarito che il predetto elemento assolve alla 276 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO mera funzione di trasferire una parte degli importi delle competenze accessorie nella retribuzione base, in modo da renderli pensionabili, senza, tuttavia, creare una lievitazione del costo del lavoro e, dunque, con il meccanismo del "riassorbimento". Da ciò consegue, con ogni evidenza, che l'ampliamento della retribuzione base pensionabile, conseguito mediante il riconoscimento di un 14° rateo EDR, in incremento della retribuzione base e quindi anche dell'assegno personale pensionabile, è destinato ad essere riassorbito in varie indennità accessorie decurtate nella stessa misura, sicché va escluso che debba essere effettivamente erogato. Del trattamento estero di occupa, invece, Sez. L, n. 15217/2016, Manna A., Rv. 640736, riconducendovi natura retributiva, tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità del disagio morale e ambientale, quanto nel caso di sua correlazione alle qualità e condizioni personali concorrenti a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dai confini nazionali; la pronuncia ascrive, di contro, natura riparatoria al rimborso spese per la permanenza all'estero, che costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale derivante da una spesa effettiva sopportata dal lavoratore nell'esclusivo interesse del datore, restando normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa richiesta per esigenze straordinarie, priva dei caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità) e fondata su una causa autonoma rispetto a quella retributiva. La stessa sentenza in massima Rv. 640737 si è poi soffermata su una peculiare forma di retribuzione, rappresentata dalla distribuzione di azioni ai dipendenti mediante l'utilizzo delle c.d. "stock option". La decisione, nel rilevare la rispondenza di detta distribuzione ad una finalità di incentivazione della produttività con la possibilità di realizzare una plusvalenza e la partecipazione agli utili, ne chiarisce la piena legittimità ai sensi dell'art. 2099, ultimo comma, c.c., ricavandone il corollario in base al quale ogni controversia - fra la società ed il suo dipendente - in ordine alla spettanza di dette azioni rientra nella competenza del giudice ordinario, secondo il rito speciale, ed è compromettibile in arbitri, ai sensi dell'art. 806 c.p.c., solo se i contratti collettivi lo prevedano. Del trattamento retributivo degli insegnanti di scuola secondaria in astensione facoltativa di maternità si è occupata Sez. L, n. 17173/2016, D'Antonio, Rv. 640898, la quale ha ritenuto – in linea con un orientamento già consolidato – che, se il periodo di detta astensione, anche quando il rapporto di lavoro subordinato sia 277 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO a tempo determinato, è computato nell'anzianità di servizio, nondimeno sconta l'esclusione degli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità. In tal senso, viene meno anche il corrispondente diritto di retribuzione, senza che si possa configurare alcun contrasto con i principi costituzionali e comunitari, posta la ragionevole differenziazione rispetto al corrispondente periodo di astensione obbligatoria. Sez. L, 23645/2016, Torrice, in corso di massimazione, ha fatto applicazione, con riferimento ai giornalisti assunti come addetti stampa di un ente pubblico, del pacifico insegnamento secondo cui un rapporto di lavoro subordinato sorto con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, nullo perché non assistito da un regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra pur sempre sotto la sfera di applicazione dell'art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui abbia avuto materiale esecuzione. Nella specie, la Corte ha cassato senza rinvio, riconoscendo il diritto alla retribuzione, la pronuncia d'appello che quel diritto aveva escluso, reputando ostativa la nullità del rapporto di lavoro posto in essere dalla Presidenza della Regione Sicilia, con l'assunzione di un giornalista senza concorso. Sez. L, n. 25761/2016, Garri, in corso di massimazione, contiene l'incisiva riaffermazione del principio in base al quale, la retribuzione corrisposta per prestazioni continuative e sistematiche di lavoro straordinario deve essere ricompresa nella base di calcolo dell'indennità di anzianità ai sensi degli artt. 2120 e 2121 c.c., nel loro tenore originario, e del trattamento di fine rapporto (T.F.R.), così come disciplinato dall'art. 1 della legge n. 297 del 1982 (stante la non occasionalità del compenso), in difetto di contrarie previsioni della contrattazione collettiva. Invece, lo stesso compenso - non facendo parte della retribuzione normale anche se corrisposto in maniera fissa e continuativa - non rileva ai fini del trattamento retributivo per le festività infrasettimanali, poiché l'art. 5 della legge 27 maggio 1949 n. 260, nel testo di cui alla legge 31 marzo 1954 n. 90, fa riferimento alla "normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio". 6. Dimissioni. In relazione al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato Sez. L, n. 17307/2016, Di Paolantonio, Rv. 641012, nell' affrontare la questione concernente la permanenza del potere disciplinare della Pubblica Amministrazione nei confronti dei dipendenti cessati dal servizio e delle condizioni che devono 278 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO ricorrere affinché tale potere possa essere utilmente esercitato, rileva che il principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione legittima l'intervento disciplinare posteriore ogni qualvolta il comportamento del dipendente abbia leso l'immagine della P.A. che è, quindi, abilitata e, anzi, tenuta ad intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale ( il richiamo è, in ordine a tale necessità, a C.d.s. n. 477 del 2006). Osserva il Collegio che l'intervento legislativo di cui al d.lgs 27 ottobre 2009, n. 150, - che ha introdotto il comma 9 dell'art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 - è chiaro nell'affermare la permanenza del potere disciplinare in capo alla P.A. non solo nella ipotesi in cui la pregressa sospensione cautelare del dipendente renda necessaria la regolazione degli aspetti economici connessi alla sospensione e, quindi, l'accertamento sulla sussistenza dell'illecito che aveva dato causa alla sospensione medesima, ma anche nei casi di comportamenti di gravità tale da giustificare il licenziamento, in considerazione degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione. Si tratta di conseguenze riconducibili alla necessità di accertare se sussista o meno la responsabilità disciplinare per impedire, in caso di accertamento positivo, che il dipendente dimessosi possa essere riammesso in servizio, possa partecipare a successivi concorsi pubblici, possa fare valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della P.A.. Conclude, quindi, la Corte, che la norma, nella parte in cui prevede che in caso di dimissioni il procedimento disciplinare ha egualmente corso, non distingue l'iniziativa disciplinare già avviata da quella non ancora in essere e legittima l'avvio del procedimento anche nei confronti del dipendente rispetto al quale il rapporto di lavoro sia già cessato. L'annosa vicenda della reiterazione del ricorso ai contratti a tempo determinato nel settore Poste ha posto nell'anno in corso la questione relativa alle dimissioni relative ad un singolo contratto ed al rapporto con i precedenti. Al riguardo, Sez. L, n. 01534/16, Lorito, Rv. 638345, premette che, in ordine alla efficacia delle dimissioni rassegnate nel contesto di rapporti di lavoro a termine, è stato più volte affermato che la dichiarazione di recesso è idonea ex se a produrre l'effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che abbiano determinato le dimissioni e salvo che esse siano viziate come atto di volontà e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, atteso che, anche in tal caso, l'effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o 279 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del rapporto stesso (il richiamo è, fra le altre, a Sez. L, n. 06342/2016, Arienzo, in tema di contratti a termine con la RAI). Ritiene, quindi, il Collegio condivisibili le premesse della Corte territoriale nella parte in cui ha evidenziato che le dimissioni rassegnate ante tempus dal secondo contratto inter partes, costituivano un negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momentodella conoscenza del datore di lavoro, ma errate le conclusioni cui il giudice d'appello era pervenuto con riferimento alla dedotta nullità del termine apposto al primo dei contratti stipulati tra le parti. Deve escludersi, infatti, secondo il Collegio, che la volontà di non proseguire oltre nel rapporto implichi altresì il venir meno per il dipendente del proprio diritto all'accertamento della invalidità del termine apposto al primo rapporto di lavoro stipulato fra le parti, con tutte le conseguenze di carattere economico derivanti. La Corte richiama la propria consolidata giurisprudenza (in particolare, Sez. 3, n. 19156/2005, Trifone, Rv. 584074) secondo cui la previsione contenuta nell'art.1419, comma 2, c.c., in base al quale la nullità di singole clausole contrattuali non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative; ciò determina, nel caso di specie, che la pronuncia impugnata abbia determinato un vulnus evidente al diritto del lavoratore a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza inerente alla dedotta invalidità del termine apposto. Si è prospettata, poi, la questione inerente l'annullamento delle dimissioni del lavoratore per il caso di incapacità naturale dello stesso. Al riguardo, Sez. L, n. 01070/2016, Balestrieri, Rv. 638516, premette l'annullabilità dell'atto delle dimissioni in base alla disposizione generale di cui al comma 1 dell'art. 428 c.c., nell'ipotesi in cui il dichiarante provi di trovarsi, nel momento in cui l'atto è stato compiuto, in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive, anche qualora tale privazione sia soltanto parziale, ma purchè sia tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. Il Collegio osserva, tuttavia, che, pur dovendosi valutare l'incapacità naturale al compimento dell'atto, non risulta indifferente il quadro psichico generale, specie ove si tratti, come nella specie, di grave patologia psichiatrica (schizofrenia di tipo paranoide). La Corte richiama, allora i precedenti di legittimità in cui si è ritenuta insufficiente la motivazione della sentenza di merito nella quale il giudice, in caso di dimissioni rassegnate in stato di incapacità 280 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO naturale, non aveva valutato l'incidenza causale tra l'alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo avevano spinto al recesso (Sez. L, n. 00515/2004, Amoroso, Rv. 569441). Proprio per questa ragione la Corte ritiene di cassare con rinvio l'impugnata sentenza, che aveva omesso di esaminare compiutamente il contenuto del certificato medico di struttura pubblica di soli due giorni successivo alle rassegnate dimissioni - attestante che in quella data il lavoratore si trovava in cura presso il Centro di salute mentale territoriale in quanto affetto da "schizofrenia cronica di tipo paranoide"- e di altro certificato attestante la grave patologia psichiatrica. 7. Mutuo consenso. Una delle questioni più significative riguardanti l'estinzione del rapporto per mutuo consenso, riguarda l'espressione di volontà in senso estintivo che possa arguirsi per facta concludentia. In merito, Sez. L, 06900/2016, Lorito, Rv. 639247, premette che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento, qualora non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare esplicitamente, ma anche da lasciar presumere, in base al principio dell'affidamento, una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, con preclusione di ogni censura in sede di legittimità del relativo accertamento ove congruamente motivato. Il Collegio sottolinea, poi, la natura dell'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, quale fatto estintivo di diritti che può essere accertato anche d'ufficio. Rileva, a questo punto, l'interpretazione del comportamento del titolare della situazione creditoria o potestativa, da valutarsi alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c. c., qualora lo stesso per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa, in quanto idoneo come tale a determinare la perdita della medesima situazione (il richiamo è a Sez. L, n. 09924/2009, Roselli, Rv. 607985). Ne consegue la preclusione di un'azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di diritto stricto sensu, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l'abbandono. E' sulla base di questo orientamento che la Corte reputa corretta la decisione impugnata, che aveva ritenuto rilevante l'inerzia del lavoratore il quale, in seguito ad intervento chirurgico, aveva lasciato trascorrere un mese prima di rientrare al lavoro, senza 281 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO inviare alla parte datoriale alcuna certificazione sanitaria concernente le proprie condizioni fisiche e senza comunicare oralmente alcuna notizia al riguardo, in modo da determinare nel datore di lavoro un ragionevole affidamento in ordine alla propria volontà di non proseguire nel rapporto lavorativo. Sempre con riferimento all'inerzia del lavoratore, ma con particolare riguardo all'ipotesi di reiterazione di contratti a tempo determinato, Sez. L, n. 02732/2016, Mammone, Rv. 638934, premette che la giurisprudenza della Corte di cassazione ritiene che è configurabile la risoluzione del rapporto per mutuo consenso ove sia accertata, per il periodo di tempo trascorso in seguito alla conclusione dell'ultimo contratto, ovvero per le modalità di tale conclusione, per il comportamento tenuto dalla parti ed anche per altre eventuali circostanze significative, una chiara e certa comune volontà di porre fine ad ogni rapporto lavorativo. Aggiunge, poi, che la valutazione del significato e della portata di tali elementi, compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, salva la sussistenza di vizi logici o errori di diritto. Passando ad esaminare il caso sottopostogli, il Collegio osserva come il giudice di merito si sia attenuto ai principi considerati, valutando, ai fini dell'individuazione del mutuo consenso, le circostanze significative emergenti dagli atti. Sono quindi venuti in rilievo in primo luogo la rilevante durata del lasso temporale intercorso tra la cessazione dell'ultimio contratto e la contestazione in sede stragiudiziale della legittimità del termine, pari a circa cinque anni, ma anche il contegno della lavoratrice successivamente al periodo relativo al rapporto di lavoro a tempo determinato, dal momento che la ricorrente, prima dell'inizio della causa, non aveva proposto alcuna contestazione o richiesta e, anzi, era stata assunta con contratto a tempo indeterminato, in essere al momento dela decisione, alle dipendenze di altro datore di lavoro. Congruamente, quindi, secondo il Collegio, la Corte di appello era giunta alla conclusione che nel caso di specie il decorso temporale si era associato ad un insieme di comportamenti e situazioni atti ad esprimere per facta concludentia il disinteresse della lavoratrice rispetto alla ripresa del rapporto di lavoro con la società datrice e la sua intenzione, anzi, di porre fine al rapporto di lavoro. 8. Potere di controllo. Collocato nell'ambito dei tre poteri riconosciuti al datore di lavoro - accanto a quello direttivo ed a quello disciplinare - il potere di controllo del datore di lavoro, da cui consegue quello di contestare ai dipendenti tempestivamente 282 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO l'infrazione riscontrata in modo da evitarne un aggravamento, rappresenta, secondo Sez. L, n. 10069/2016, Manna A., Rv. 639647, non un obbligo stricto sensu per la parte datoriale, ma esclusivamente, alla luce del carattere fiduciario rivestito dal rapporto di lavoro subordinato, un potere. Un obbligo in tal senso, infatti, secondo il Collegio, non è previsto dalla legge né può reputasi desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Nella specie, relativa ad un caso di frequente richiesta da parte del lavoratore di rimborsi indebiti, la Corte ha ritenuto integrare una mera congettura - non consentita a fini motivazionali in quanto non fondata sull'id quod plerumque accidit e, pertanto, insuscettibile di verifica empirica - l'ipotesi, sostenuta dalla corte territoriale, che la società datrice avesse atteso che il contegno illecito del proprio dipendente superasse la soglia della tollerabilità per poterlo licenziare. Con riguardo alla tempestività della contestazione, la Sezione Lavoro, andando di contrario avviso rispetto al giudice d'appello, afferma che quest'ultima non deve essere valutata alla luce di un preteso obbligo in capo al datore di lavoro di controllare continuamente e tempestivamente l'opeato dei propri dipendenti, trattandosi di obbligo non connaturato alla posizione datoriale. L'esclusione di tale corollario discende anche dall'insussistenza di una corrispondente posizione attiva di vantaggio in capo all'altra parte, non potendo in alcun modo configurarsi un diritto del lavoratore ad essere controllato ed altresì tempestivamente informato del fatto che le proprie infrazioni siano state scoperte dal datore di lavoro. In conclusione, insito nella posizione del datore di lavoro è il suo potere di controllo, non l'obbligo. Quest'ultimo non può essere ricostruito nemmeno come onere da assolvere per il conseguente esercizio del potere disciplinare di cui all'art. 2126 c.c., che si ponga in sostituzione o aggiunta all'onere della tempestiva contestazione non appena divenga nota una infrazione commessa dal dipendente; esso, infatti, ha lo scopo di impedire un esercizio del potere disciplinare pretestuoso od anche strumentale rispetto alla lesione del diritto di difesa del lavoratore, l'altro sarebbe privo di qualsivoglia fondamento ed anche contrario, come la Corte ha premesso, alla stessa natura fiduciaria del rapporto di lavoro. Concerne i limiti soggettivi ed oggettivi che il potere di controllo incontra, in quanto non assoluto ma circoscritto dalla necessità che esso sia esercitato in modo tale da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la dignità e la riservatezza, Sez. L, n. 09904/2016, Patti, Rv. 639733. Al centro della pronunzia, la 283 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO compatibilità del rilevamento delle presenze tramite badge con il divieto di controllo a distanza dei lavoratori sancito dall'art. 4 della l. n. 300 del 1970, in assenza di accordo scritto - nell'inidoneità di uno a forma tacita - con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna ovvero di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro. Secondo la Corte, in ipotesi di assenza di accordo con le rappresentanze sindacali, ovvero di apposita autorizzazione ispettiva, la rilevazione dei dati concernenti l'entrata e l'uscita dall'azienda per mezzo di una apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro, pur essendo prevista a vantaggio dei dipendenti, assume anche una funzione di controllo del rispetto dei doveri di di diligenza in relazione all'orario di lavoro e della correttezza dell'esecuzione della prestazione lavorativa, risolvendosi in un controllo sull'orario di lavoro ed in una verifica concernente il quantum della prestazione rientrante nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 4 st.lav.. La Sezione Lavoro sottolinea come l'esigenza di evitare condotte illcite da parte dei dipendenti non possa assumere una portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e della riservatezza del lavoratore, aspetto, questo, che rileva, però, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, qualora essi attengano all'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso; ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere accertamenti volti a verificare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale. Nel caso di specie, la corte territoriale, secondo il Collegio, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto enunciato, avendo ritenuto, con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente e logicamente argomentato, che il badge in questione configurasse uno strumento di controllo a distanza e non un mero rilevatore di presenza, tenuto conto anche del fatto che il sistema in esame consentiva di comparare immediatamente i dati di tutti i dipendenti, realizzando così un controllo continuo, permanente e globale. In ambito diverso dalla tematica dei controlli a distanza di cui all'art. 4 della l. n. 300 del 1970 e anche del controllo di dati desunti dal computer aziendale, si pone la questione inerente al controllo da parte del datore di lavoro sull'utilizzo dello strumento elettronico 284 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO presente sul luogo di lavoro ed in uso al lavoratore per l'esercizio della prestazione, aspetto che involge il procedimento disciplinare. Nella decisione Sez. L, n. 22313/16, Ghinoy, Rv. 641427, in cui la contestazione aveva ad oggetto la cancellazione da parte del lavoratore del disco del computer onde evitarne il controllo ispettivo, la Corte muove dalla legittimità dell'accertameto effettuato sugli strumenti lavorativi, fra cui i personal computer, al fine di verificarne il corretto utilizzo (artt. 2086, 2087 e 2104 c.c.). La pronuncia evidenzia, tuttavia, come nell'esercizio di tale prerogativa occorra rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori ed inoltre, con particolare riguardo alla protezione dei dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori) di pertinenza e non eccedenza di cui all'art. 11, comma 1, del codice, in quanto tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati di carattere sensibile. Nel caso di specie, secondo la Corte, il giudice d'appello avrebbe dovuto procedere ad un controllo fattuale circa le modalità concrete con cui l'ispezione era stata eseguita, anche allo scopo di accertarne la conformità ad eventuali policies aziendali. L'utilizzazione di modalità invasive era stata invece ritenuta ravvisabile tout court dalla Corte territoriale che aveva confermato che gli ispettori avevano preteso di aprire pubblicamente i files; ciò il Collegio aveva fatto senza richiamare le fonti del proprio convincimento, nonostante lo specifico motivo d'appello sul punto. Con riferimento alla violazione dell'art. 4 della l. n. 300 del 1970, Sez. L, n. 19922/16, Bronzini, si è occupata del controllo difensivo attraverso il sistema satellitare GPS sulle vetture in uso ai dipendenti: secondo la Corte, diverse concomitanti ragioni, nel caso di specie, avrebbero dovuto condurre ad escludere che si trattasse di legittimi controlli difensivi. In primo luogo, la circostanza che il sistema di rilevamento era stato predisposto ex ante ed in via generale ben prima che si potessero avere sospetti su eventuali violazioni, trattandosi di un meccanismo generalizzato di controllo che, unitamente al sistema petrol manager, era in uso presso l'azienda indipendentemente da sospetti o reclami dei clienti, quindi il fatto che i sindacati ne avevano autorizzato l'uso anche nell'interesse dell'incolumità dei lavoratori, ma avevano escluso che esso potesse essere utilizzato per controllare la loro attività lavorativa. Il collegio ritiene, d'altro canto, di dare continuità all'orientamento secondo cui ai c.d. controlli 285 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO difensivi trovano applicazione le garanzie di cui all'art. 4 st.lav., talché, se, per esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi il datore di lavoro può installare impianti o apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi all'attività lavorativa dei dipendenti, nondimeno, tali dati, non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori medesimi (il richiamo è a Sez. L, 16622/2012, Tricomi I., Rv.624112). Infine, secondo la Corte, l'accertamento permesso dal sistema GPS sulle autovetture della società consentiva un controllo a distanza dell'ordinaria prestazione lavorativa, non la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, non potendosi accedere alla tesi secondo cui fossero a rischio il patrimonio e l'immagine dell'azienda in quanto eventuali pregiudizi agli stessi sarebbero, in realtà, derivati solo dalla non corretta esecuzione degli obblighi contrattuali e non invece da una condotta specifica come appropriazione indebita o lesione della riservatezza dei dati societari. Diversamente opinando, secondo la Corte, si finirebbe per estendere senza ogni ragionevole limite il concetto di controlli "difensivi", in quanto qualsiasi violazione degli obblighi contrattuali può generare danni alla società, ma si tratta di un "rischio naturale" correlato all'attività imprenditoriale che la legge non consente di limitare attraverso strumenti invasivi della dignità e, comunque, senza autorizzazione sindacale. 9. Potere disciplinare. Con riguardo all'esercizio del diritto di difesa in sede disciplinare, Sez. L, n. 19697/2016, Balestrieri, Rv 641364, ha escluso che esso possa o debba comportare l'ammissione dei fatti contestati, in quanto da tale corollario discenderebbe la violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Tale mancato esercizio in sede extraprocessuale, secondo il Collegio, sebbene possa essere valutato dal datore di lavoro, non può impedire il pieno diritto di azione in sede processuale, né la Corte ha mai affermato che esso possa essere reputato equivalente all'ammissione dei fatti contestati. Si evidenzia, al riguardo, che soltanto la non contestazione in sede processuale può, eventualmente, produrre tali effetti, dal momento che in materia di lavoro, in sede giudiziale, la parte cuI sia stato mosso un addebito riferito a fatti circostanziati non può limitarsi ad una contestazione generica, ma deve rispondere a sua volta in maniera specifica, contrapponendo specifici elementi diversi tali da escludere quelli posti a fondamento dell'addebito, ai sensi dell'art. 416 c.p.c. In tema di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, Sez. L, n. 17373/2016, Di Paolantonio, Rv. 286 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 641011, ha affermato che l'art. 25, comma 7, del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, che prevede la sospensione fino a sentenza definitiva quando l'amministrazione venga a conoscenza dell'esistenza di un procedimento penale a carico del dipendente per i medesimi fatti, vada interpretato in modo estensivo. Secondo il Collegio, infatti, non si può ritenere che la sospensione possa essere disposta solo nei casi di rinvio a giudizio del dipendente e non anche per l'ipotesi di mera pendenza delle indagini preliminari, ricomprendendo il procedimento penale tutti gli atti successivi alla iscrizione della notizia di reato e, quindi, anche l'attività condotta dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, che si conclude con l'esercizio dell'azione penale o, nei casi di ritenuta infondatezza della notitia criminis, con la richiesta di archiviazione. Osserva la Corte che senza alcun dubbio l'art. 25 del c.c.n.l. ha inteso subordinare la sospensione alla pendenza del "procedimento" e non del "processo" in senso tecnico, né può pervenirsi ad un diverso corollario valorizzando il richiamo, contenuto sempre nell'art. 25, alla "sentenza definitiva". Il termine, ad avviso della Sezione Lavoro, è stato utilizzato impropriamente dalle parti collettive per involgere tutti i provvedimenti che definiscono il procedimento penale, atteso che questo, anche in caso di esercizio dell'azione, non necessariamente conduce alla pronuncia di una sentenza. Fra le varie forme di definizione vi è anche quella prevista e disciplinata dagli artt. 459 e ss. c.p.p., ossia il "procedimento per decreto" che, ove il decreto stesso non venga opposto, comporta la condanna dell'imputato anche in assenza di "sentenza". Il rapporto fra il principio di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva e l'esercizio del recesso per giusta causa del datore di lavoro in pendenza di procedimento penale è affrontato da Sez. L, n. 18513/2016, Boghetich, Rv. 641187. La Corte premette il consolidato principio secondo cui la nozione di giusta causa di licenziamento ha la sua fonte direttamente nella legge e, quindi, l'elencazione contenuta nei contratti collettivi ha valenza soltanto esemplificativa e non già tassativa. D'altro canto, la valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa va condotta tenendo conto della peculiare incidenza del fatto sul rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva, nonché delle finalità delle regole di disciplina postulate dalla organizzazione, talché lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o no gli 287 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO estremi di una giusta causa di licenziamento riveste carattere autonomo rispetto al giudizio che dello stesso fatto sia necessario compiere a fini penali (il richiamo è, in particolare, a Sez. L, n. 12163/1997, Foglia, Rv. 510598). E' alla luce di tali principi generali che, secondo la Corte, il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato; ovviamente occorre che i fatti ascritti siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna. Ciò non esclude, tuttavia, l'obbligo del giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, con l'imputazione di gravi reati in grado di incidere sul rapporto fiduciario - nonostante non siano stati commessi nello svolgimento del rapporto - di accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, in quanto atti ad evidenziare l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, non potendo ritenersi integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e della incidenza di questo sul rapporto fiduciario e sull'immagine della azienda (il richiamo è, fra le altre, a Sez. L., n. 29825/2008, Nobile, Rv. 606162). Nel caso di specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione di appello che aveva omesso la disamina della sussistenza dell'addebito, della gravità della condotta tenuta e dell'intensità dell'elemento soggettivo, pervenendo al convincimento circa la sussistenza di una irreversibile lesione del vincolo di fiducia, sulla base della sola valutazione del dato processuale del rinvio a giudizio in sede penale, con una laconicità della motivazione che contrasta, secondo il Collegio, anche con i doveri motivazionali discendenti dall'art. 6 CEDU e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Sulla sempre viva questione inerente l'omessa o comunque ritardata affissione del codice disciplinare, Sez. L, n. 21032/2016, Blasutto, Rv 641410, osserva che con riguardo non solo alle sanzioni espulsive, ma anche alle sanzioni disciplinari conservative, deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come 288 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO illecito, in quanto contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, potendo il lavoratore rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta. Nella specie, relativa all'attestazione, nei rapporti con i terzi, di una qualità, quella di ufficiale di polizia giudiziaria, in realtà revocata, ed alla utilizzazione di un timbro non autorizzato, si rileva, anzi, che la "percepibilità" dalla coscienza sociale di un fatto quale "minimo etico" deve ritenersi applicabile non solo alle sanzioni disciplinari espulsive, per le quali sussiste il potere di recesso del datore di lavoro, in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma anche per le sanzioni cosiddette conservative. Deve quindi concludersi che i comportamenti del lavoratore che costituiscano violazioni dei doveri fondamentali siano sanzionabili a prescindere dalla loro inclusione o meno all'interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso. Tali principi, che la Corte ha affermato in fattispecie relative a rapporti di lavoro privato, devono ritenersi, ad avviso del Collegio, sicuramente estensibili ai rapporti di pubblico impiego, nel cui ambito peraltro non può prescindersi, ai fini dell'individuazione del nucleo di doveri costituenti tale "minimo etico", dal Codice di comportamento di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituiscono specificazioni esemplificative degli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa del dipendente pubblico. Osserva, anzi il Collegio come la disposizione anzidetta sia stata collocata dal legislatore prima dell'art. 55) che ha demandato alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni, proprio in modo da evidenziare il valore preminente attribuito all'individuazione dei doveri fondamentali cui deve conformarsi la condotta del pubblico dipendente. L'art. 1 del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con d.m. 28.11.2000 precisa, poi, che il dipendente pubblico si impegna ad osservare i principi e i contenuti del codice di comportamento sin dall'atto dell'assunzione in servizio. Ancora in tema di pubblico impiego contrattualizzato, con riferimento alla data da cui decorre il termine per la contestazione disciplinare, Sez. L, n. 18517/2016, Torrice, Rv. 641135, premette che le disposizioni di legge e di contratto collettivo fanno decorrere il termine per la contestazione disciplinare o dal momento della 289 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO conoscenza dei fatti da parte del responsabile della struttura, o capo struttura, per le sanzioni meno gravi, ovvero dal momento in cui l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, su segnalazione del responsabile del responsabile della struttura, ha avuto conoscenza del fatto. Il Collegio ritiene, in linea di continuità con l'orientamento giurisprudenziale della Corte (il richiamo è a Sez. L, n. 12108/2016, Blasutto, Rv. 640374) che la "segnalazione", che il capo della struttura invia all'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, non costituisce ancora avvio del procedimento. Ciò che conta, secondo il Collegio, è la conoscenza effettiva delle condotte disciplinarmente rilevanti da parte degli uffici competenti e non da parte di qualsiasi organo della pubblica amministrazione datrice di lavoro. La Corte conclude, poi, affermando che nel caso che la occupa, ai sensi dell'art. 24 del c.c.n.l. del 22 gennaio 2004 Enti Locali, la data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, dalla quale decorre il termine di venti giorni entro il quale deve essere effettuata la contestazione, coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all'ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia stessa è giunta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, essendo irrilevante la conoscenza non formalmente acquisita dal responsabile della struttura ovvero dall'ufficio per i procedimenti disciplinari. Con riguardo all'impiego pubblico contrattualizzato, poi, Sez. L, n. 18326/16, Boghetich, Rv. 641265, si è occupata dell'operatività della novella del 2009 e della sua incidenza sull'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, con particolare riguardo all'introduzione dell'art. 55 quater nel quale, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, sono state introdotte e tipizzate alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento. Tra queste è stata prevista l'ipotesi dell'assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiori a tre nell'arco di un biennio. Secondo il Collegio, nella tipizzazione di fattispecie di illeciti disciplinari per i quali è previsto il licenziamento, è necessario verificare se, accertata la commissione di uno di essi, il licenziamento consegua automaticamente ovvero se l'amministrazione conservi il potere - dovere di valutare l'impatto dell'illecito alla luce delle circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare; ne conseguirebbe, infatti, che si possa procedere alla irrogazione della sanzione più grave soltanto 290 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO qualora il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento. Secondo il Collegio, sul piano strettamente letterale, la nuova normativa evidenzia indicazioni in senso contrario; da un lato, infatti, si prevede che si applichi "comunque" il licenziamento ove ricorrano le fattispecie tipizzate ma, dall'altra parte, viene richiamato il generale principio di proporzionalità enunciato dall'art. 2106 c.c. (art. 55, comma 2, primo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) e viene mantenuta ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, con ciò implicitamente richiamandosi il consolidato orientamento giurisprudenziale relativo alle c.d. norme elastiche ed alla verifica di legittimità demandata al giudice. Secondo il Collegio, non apparendo dirimente il criterio letterale, come già evidenziato in altra occasione dalla Corte (il richiamo è a Sez. L, n. 01351/2016, Balestrieri, non massimata), l'esame della giurisprudenza costituzionale impone di privilegiare una interpretazione "morbida" che consenta di ritenere che, anche in presenza di uno degli illeciti elencati dalla disposizione, l'amministrazione sia tenuta comunque a svolgere il procedimento disciplinare all'esito del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, la ricorrenza di circostanze influenti sull'intensità del dolo o la gravità della colpa in senso attenuante della responsabilità del dipendente, può decidere di irrogare anche una sanzione conservativa. Va, per conseguenza, esclusa la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, soprattutto qualora esse consistano nella massima sanzione, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale da sempre contraria agli automatismi espulsivi (da ultimo, Corte Cost. sentenza n. 170 del 2015). Secondo la Corte, quindi, la disposizione normativa "cristallizza", dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione, prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, e, tuttavia, consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell'elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi atti a scriminare la condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa. Con riguardo all'impugnativa del lodo arbitrale in materia di sanzioni disciplinari, Sez. L, n. 20968/2016, Tria, Rv. 641413, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità (in particolare, Sez. U, n. 25253/2009, Amoroso, Rv. 610553) premette che essa può riguardare soltanto vizi idonei ad inficiare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa 291 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO rappresentazione dei fatti, cui deve aggiungersi, tuttavia, quella per inosservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi, che trova riscontro anche nell'art. 12 del c.c.n.q. del 23 gennaio 2001, secondo cui gli arbitri nel giudicare sono tenuti all'osservanza delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo. Con riferimento al caso di specie, il Collegio rileva che erano stati prospettati alcuni profili di illegittimità formale delle sanzioni, incidenti sull'efficacia e validità non solo delle sanzioni ma dei lodi stessi, comportandone la nullità per lesione del diritto di difesa, alla cui tutela è volto anche l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, e che vertendosi in ambito di diritti costituzionalmente garantiti, non può non essere ricompreso tra le "norme inderogabili di legge" anche tale fondamentale diritto. Relativamente ai rapporti fra irrogazione di sanzioni conservative e licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 17912/2016, Berrino, Rv. 641089 si è occupata del licenziamento intimato ad un direttore di supermercato, a causa di recidiva oltre la terza volta per mancanze punite con la sospensione ai sensi dell'art. 225 del c.c.n.l. delle Aziende del terziario, distribuzione e servizi. La Corte territoriale aveva ritenuto che, in mancanza di contestazione di una nuova infrazione, il datore di lavoro non avrebbe potuto riesaminare le precedenti mancanze, per le quali aveva già consumato il proprio potere disciplinare dopo aver irrogato le sanzioni della sospensione dalla retribuzione e dal servizio, e non avrebbe potuto, pertanto, applicare, per quelle stesse infrazioni, sia pure unitariamente considerate ai fini della recidiva, una più grave sanzione di carattere espulsivo. Secondo il Collegio, la Corte d'appello era giunta al convincimento, adeguatamente motivato ed esente da rilievi di legittimità, che il licenziamento è irrogabile a partire dalla quarta mancanza infrannuale per la quale sia prevista la sospensione, nel qual caso la parte datoriale dovrà provvedere a contestare la nuova specifica mancanza precisando che la stessa realizza la recidiva oltre la terza volta nell'anno solare rispetto a tre mancanze precedenti, e solo allora potrà intimare il licenziamento, sempre che non decida di irrogare una sanzione. In realtà secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva accertato che la società datrice, pur potendo irrogare il licenziamento per "recidiva, oltre la terza volta nell'anno solare, in qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione in occasione della quarta mancanza, non lo aveva fatto, scegliendo di irrogare una sanzione conservativa: in tal modo, tuttavia, aveva consumato definitivamente il proprio potere disciplinare. La Corte 292 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO conferma, quindi, la propria giurisprudenza (il richiamo è, in particolare, a Sez. L, n. 07391/1991, Rv. 472936) in cui si afferma che il datore di lavoro, dopo aver esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, quel potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva. 10. Licenziamento individuale. Nel corrente anno sono intervenute rilevanti pronunce - di cui si darà per lo più conto al § 10.10 - concernenti la disciplina introdotta dalla cd. legge "Fornero", con particolare riguardo all'apparato sanzionatorio correlato alle singole tipologie di vizi afferenti il licenziamento. Non si registrano ancora sentenze della Suprema Corte riguardanti la normativa - riferita ai "nuovi assunti" - di cui al d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183». 10.1. Riferibilità all'utilizzatore del licenziamento intimato dal somministratore. Con una importante pronuncia incidente su aspetti "di sistema" inerenti all'applicabilità della disciplina del licenziamento a fattispecie peculiari, Sez. L, n. 17969/2016, Torrice, Rv. 641175, ha sottolineato che nell'ipotesi di costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento intimato dal somministratore nei confronti dell'utilizzatore medesimo, posto che, in virtù del subentro disposto ex lege, gli atti di gestione compiuti dal somministratore producono nei confronti dell'utilizzatore tutti gli effetti negoziali, anche modificativi del rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento. 10.2. La decadenza dall'impugnazione. Molte le pronunzie meritevoli di menzione. Con riguardo al profilo della decorrenza del termine per la proposizione dell'impugnativa stragiudiziale, Sez. L, n. 06256/2016, Berrino, Rv. 639548, ha evidenziato che qualora la comunicazione del provvedimento di recesso, spedita al domicilio del dipendente, non sia consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, essa si presume conosciuta dal momento della 293 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO consegna del relativo avviso di giacenza presso l'ufficio postale, in virtù della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., sicché da quella data decorre il termine per impugnare, spettando al destinatario l'onere di dimostrare di essersi trovato senza colpa nell'impossibilità di acquisire la conoscenza dell'atto. Di estremo rilievo il principio stabilito - con riguardo al "secondo" termine di decadenza di duecentosettanta giorni previsto dall'art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010 - da Sez. L, n. 13598/2016, Ghinoy, Rv. 640475: il termine in questione si applica anche ai licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della citata l. n. 183 del 2010, che non ha posto delimitazioni temporali - ad eccezione di quanto disposto al comma 1 bis dell'art. 32 - per l'applicazione del nuovo regime di impugnativa del licenziamento, e non ha, inoltre, portata retroattiva, in quanto disciplina status, situazioni e rapporti che, pur derivando da un pregresso fatto generatore, ne sono ontologicamente distinti e, quindi, suscettibili di nuova regolamentazione mediante esercizio di poteri e facoltà non consumati nella precedente disciplina; né l'introduzione del nuovo termine di decadenza con efficacia ex nunc determina violazione dell'art. 24 Cost., dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE e degli artt. 6 e 13 CEDU, perché quantitativamente congruo per la conoscibilità della nuova disciplina, attesa anche la proroga disposta "in sede di prima applicazione" dal citato comma 1 bis. A tale ultimo riguardo Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641712, ha precisato che con riferimento ai licenziamenti individuali intimati ed impugnati prima del 24 novembre 2010 - data di entrata in vigore della l. n. 183 del 2010 - é applicabile il termine di decadenza sostanziale connesso al deposito del ricorso giudiziario, ma solo con decorrenza dal 1° gennaio 2011, risultando tale disciplina, come integrata dal d.l. n. 225 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 10 del 2011, conforme al principio di eguaglianza e di ragionevolezza, costituzionalmente tutelati. Con riguardo alla delicata questione dell'individuazione degli atti idonei a conservare l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, Sez. L, n. 14390/2016, Napoletano, Rv. 640467, ha chiarito che l'art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, nel testo modificato dall'art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012, va interpretato, nel caso d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 st.lav. e successive modificazioni, nel senso che è necessario che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della l. n. 92 del 2012, 294 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c. Va peraltro segnalata - con riferimento a fattispecie concernente una delibera di esclusione di un socio lavoratore da una cooperativa - Sez. L, n. 10840/2016, Spena, Rv. 639850, secondo cui il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c., aggiunto dal d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. nella l. n. 80 del 2005, che ha introdotto una previsione di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è facoltativa, ha assunto, ad ogni effetto, le caratteristiche di un'autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva pur senza attitudine al giudicato, sicché la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza di cui all'art. 2553 c.c. 10.3. L'onere della prova. Con una significativa sentenza - Sez. L, n. 05061/2016, Riverso, Rv. 639224 - è stata precisata, in relazione ad una fattispecie peculiare, la portata della distribuzione dell'onere della prova concernente l'avvenuto atto espulsivo, nel senso che qualora l'estinzione del rapporto per licenziamento sia circostanza incontroversa tra le parti, rimanendo dubbie le modalità dello stesso, si verifica un'inversione dell'onere probatorio, sicché è il datore di lavoro a dover dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti formali e di efficacia del recesso, che afferma di avere ritualmente intimato. 10.4. Rilevanza dei motivi dedotti in giudizio a fondamento dell'illegittimità del licenziamento e poteri di rilevazione del giudice. Sez. L, n. 17300/2016, Amendola F., Rv. 641015, ha rimarcato che la pronuncia giudiziale che, a fronte di una richiesta di tutela reale ai sensi dell'art. 18 st.lav. per nullità del licenziamento e, in via subordinata, di tutela obbligatoria di cui all'art. 8 della l. n. 604 del 1966 per carenza di giusta causa o giustificato motivo, esclusa la nullità del recesso datoriale, ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, incorre in violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto riconosce una tutela più ampia di quella richiesta dalla parte con il ricorso introduttivo. Sez. L, n. 12898/2016, Riverso, Rv. 640459, ha affermato che qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio o ritorsivo, l'eventuale difetto 295 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d'ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda. 10.5. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Sul tema della distribuzione dell'onere della prova, Sez. L, n. 17108/2016, Manna A., Rv. 640900, ha affermato che l'art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone inderogabilmente a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, sicché il giudice non può avvalersi del criterio empirico della vicinanza alla fonte di prova, il cui uso è consentito solo quando sia necessario dirimere un'eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi, oppure quando, assolto l'onere probatorio dalla parte che ne sia onerata, sia l'altra a dover dimostrare, per prossimità alla suddetta fonte, fatti idonei ad inficiare la portata di quelli dimostrati dalla controparte. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione con cui la corte di merito aveva rigettato l'impugnativa di un licenziamento, intimato contestando al lavoratore la natura privata di alcune telefonate, perché questi non ne aveva provato il carattere lavorativo). Con riguardo al licenziamento intimato al dipendente assente dal servizio perché non presentatosi nella nuova sede di destinazione, Sez. L, n. 14375/2016, Spena, Rv. 640567, ha precisato che spetta al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità dell'ordine di trasferimento, quale fondamento della giusta causa, mediante l'allegazione delle sottese esigenze organizzative che lo giustificano ai sensi dell'art. 2103 c.c., mentre il lavoratore può limitarsi ad impugnare il licenziamento, sostenendo l'illegittimità dell'ordine inadempiuto, senza alcun onere iniziale di contestazione di fatti la cui prova ed allegazione ricade sul datore di lavoro. Molte le sentenze relative alla individuazione delle ipotesi costituenti giusta causa di licenziamento. Sez. L, n. 13512/2016, Negri Della Torre, Rv. 640472, ha chiarito che non è necessario che l'elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare 296 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto. Sez. L, n. 13149/2016, Leo, Rv. 640521, ha affermato che costituisce giusta causa di licenziamento di un impiegato delle Poste la falsa autenticazione delle sottoscrizioni di clienti e l'erogazione di bonifici relativi a prestiti a soggetti diversi dagli aventi diritto, in acritica obbedienza agli ordini truffaldini del responsabile gerarchico, dovendosi escludere che tale condotta, incoerente con gli standards conformi ai valori dell'ordinamento desumibili dalla coscienza sociale, possa essere giustificata dalla situazione ambientale - pur caratterizzata da un ufficio di dimensioni assai ridotte e da un responsabile di ben più elevato rango professionale - perché l'art. 2104 c.c., nel prescrivere l'impiego di una diligenza adeguata alla natura della prestazione dovuta, impone al lavoratore di avere capacità di discernimento nel valutare gli ordini ricevuti. Sez. L, n. 06901/2016, Manna A., Rv. 639251, ha precisato che costituisce giusta causa di recesso la condotta del dipendente di un istituto di credito che abbia effettuato abusive operazioni di addebito/accredito sui depositi di ignari correntisti, indipendentemente dal conseguimento di un utile personale e dalla sussistenza di un pregiudizio economico effettivo, trattandosi di comportamento, astrattamente sanzionabile anche in sede penale, idoneo a compromettere irrimediabilmente l'elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, posto in essere in violazione delle procedure interne, dei diritti dei correntisti e dello specifico interesse datoriale al mantenimento di una affidabile e trasparente organizzazione del lavoro. Con riferimento alla sempre attuale problematica della idoneità, o meno, di determinate condotte ad integrare violazione dell'obbligo di diligenza o fedeltà, Sez. L, n. 01978/2016, Negri Della Torre, Rv. 638943, ha puntualizzato che «le condotte omissive non rientranti tra quelle contrattualmente dovute, o che, comunque, non risultino ad esse complementari o accessorie, ai fini di una più utile esecuzione della prestazione lavorativa, non integrano la violazione dell'obbligo di diligenza; né tali condotte costituiscono violazione dell'obbligo di fedeltà, inteso come generale dovere di leale cooperazione nei confronti del datore, qualora risultino connesse a superiori livelli di controllo e responsabilità, in un'impresa caratterizzata da un'accentuata complessità e articolazione organizzativa. (Nella specie, la S.C. ha escluso la giusta causa di licenziamento del dipendente, addetto ai magazzini, per 297 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO non essersi astenuto dal porre in essere, durante l'orario di lavoro e nei locali aziendali, "avances, battute e toccamenti reciproci", nonché per non avere informato il datore circa la reiterata presenza, all'interno dei suddetti locali e in orario di lavoro, di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici, che si intratteneva, con siffatte modalità, con altri dipendenti)». Sullo stesso tema Sez. L, n. 24259/2016, Manna A., Rv. 641708, ha puntualizzato che «solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure obbligo alcuno di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, la sua ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell'art. 2106 c.c; condotte costituenti reato, sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, ed anche a prescindere da apposita previsione contrattuale, possono, tuttavia, integrare giusta causa di licenziamento, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza». Quanto alla problematica concernente la misura della vincolatività delle previsioni dei contratti collettivi, è stato ribadito - da Sez. L, n. 06165/2016, Torrice, Rv. 639169 - che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal c.c.n.l. in relazione ad una determinata infrazione. Con riguardo alla questione del potere di qualificazione del giudice delle ragioni del licenziamento, Sez. L, n. 23735/2016, Amendola F, in corso di massimazione - nell'affermare che il licenziamento intimato per "mancanza di adeguamento alle esigenze (comportamentali, predittive, valutative, ecc.) che la evoluzione del mercato comporta" e "alle attuali esigenze del nostro settore", costituisce un licenziamento disciplinare - ha statuito che la sussunzione della fattispecie concreta all'ipotesi normativa del giustificato motivo soggettivo oppure a quella del giustificato motivo oggettivo non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento. 298 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 10.6. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. I profili di contrasto registrati nell'ultimo decennio – e concernenti, in particolare, l'esatta identificazione della fattispecie nonché l'onere probatorio concernente l'obbligo di repechage - sono stati, nell'anno corrente, oggetto di approfondito esame. Sul primo aspetto, punto di approdo del dibattito è, allo stato, Sez. L, n. 13516/2016, Manna A., Rv. 640460, ove è affermato che il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obbiettivo non può essere perseguito soltanto con l'abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico- produttiva ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni. Ne consegue, a giudizio della Corte, che in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l'art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività. In senso analogo, Sez. L, n. 25201/2016, Amendola F., in corso di massimazione, ha affermato che «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa». Quanto al delicato e connesso profilo del nesso di causalità tra riassetto aziendale e licenziamento, è stato precisato - da Sez. L, n. 19185/2016, Manna A., Rv. 641379 - che «il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della l. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più 299 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, sicché non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato siano stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta». Sul secondo aspetto, l'indirizzo incentrato sulla dissociazione tra oneri di allegazione e prova - da ultimo seguito, tra l'altro, da Sez. L, n. 10018/2016, Di Paolantonio, Rv. 639777, secondo cui «in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, questi è tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, inclusi quelli determinanti una dequalificazione, e a manifestare la disponibilità a ricoprire le mansioni di livello inferiore, anche in altre unità produttive, mentre sul datore grava l'onere di provare, solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse» - è in via di superamento, prevalendo attualmente quello tradizionale. Al riguardo si segnalano Sez. L, n. 05592/2016, Patti, Rv. 639305 - ove è statuito che spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri - e Sez. L, n. 12101/2016, Manna A., Rv. 640388, ove è evidenziato che il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Con riferimento alla sfera di operatività del repechage vanno menzionate Sez. L, n. 22798/2016, Amendola F., e Sez. L, n. 300 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 26467/2016, Spena, in corso di massimazione, ove è stato puntualizzato che l'onere del datore di lavoro di provare l'adempimento all'obbligo di repechage va assolto anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori, ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l'assetto organizzativo aziendale; il datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento ed a fornire la relativa prova in giudizio. Nella seconda sentenza citata, inoltre, è precisato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non si pone - salvi i soli casi in cui l'esigenza di riorganizzazione aziendale sia potenzialmente riferibile ad una pluralità di posizioni di lavoro - un problema di comparazione della posizione del dipendente licenziato con quella dei dipendenti addetti ad altre sedi aziendali, secondo un criterio di vicinanza territoriale; infatti, l'obbligo di comparazione può porsi soltanto nelle ipotesi di licenziamento collettivo, nelle quali la legislazione si ispira alla esigenza di garantire il minore impatto sociale possibile della riduzione del personale. Per maggiori approfondimenti sul dibattito v. il contributo tematico. Per il profilo sanzionatorio correlato alla illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo v. il § 10.10. 10.7. Licenziamento discriminatorio e ritorsivo. Con una significativa pronuncia - Sez. L, n. 06575/2016, Spena, Rv. 639245 - giunta all'esito di un acceso dibattito, è stato affermato che «la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della l. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita)». 301 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Con altra rilevante sentenza - Sez. L, n. 19695/2016, Boghetich, Rv. 641349 - è stato ribadito che ove il licenziamento sia stato determinato da motivo discriminatorio, va ordinata, anche nei confronti delle organizzazioni di tendenza, la reintegra del lavoratore, restando privo di rilievo il livello occupazionale dell'ente e la categoria di appartenenza del dipendente. Con riguardo alla fattispecie di licenziamento collettivo è stato affermato - da Sez. L, n. 23149/2016, Amendola F, Rv. 641619 - che il riconoscimento dell'esistenza di un esubero di personale non individua di per sé un motivo legittimo del licenziamento collettivo e non contraddice la natura ritorsiva della scelta di individuare i licenziandi in violazione dei criteri di scelta. E' pertanto onere del datore di lavoro, al fine di sottrarsi all'accertamento della natura ritorsiva del licenziamento, dedurre e dimostrare non solo l'esistenza delle ragioni oggettive del licenziamento collettivo, ma anche l'esatta individuazione dei lavoratori licenziati sulla base dei criteri di scelta legali o concordati, e quindi il nesso di causalità. 10.8. Il superamento del periodo di comporto. Sez. L, n. 15687/2016, Lorito, Rv. 640727 ha chiarito che i giorni di malattia di cui il lavoratore abbia fruito dopo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dichiarato illegittimo in sede giudiziale, non possono essere utilmente computati ai fini del superamento del periodo di comporto per giustificare un ulteriore recesso datoriale atteso che, per effetto del provvedimento espulsivo, il lavoratore non era più tenuto all'obbligo di presenza, ricostituito soltanto dalla statuizione giudiziale ripristinatoria della funzionalità del rapporto. 10.9. La tutela reintegratoria: accertamento dei limiti dimensionali. Sez. L, n. 22653/2016, Ghinoy, Rv. 641600, ha affermato che ai fini dell'operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento all'organigramma produttivo o, in mancanza, alle unità lavorative necessarie, secondo la normale produttività dell'impresa, valutata con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento, senza darsi rilevanza alle contingenti ed occasionali contrazioni od anche espansioni del livello occupazionale aziendale. In mancanza di una previsione temporale espressa, l'ambito temporale rilevante non può quindi essere definito 302 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO aprioristicamente, dovendosi avere riguardo alla concreta organizzazione produttiva ed alla sua collocazione nel mercato ed in tal senso al tempo necessario in concreto, e con riferimento a quello specifico momento, per configurare una ragionevole stabilizzazione occupazionale. Con altra interessante pronuncia - Sez. L, n. 19557/2016, Manna A., Rv. 641395 - è stato affermato che ai fini dell'applicabilità della tutela reale di una società estera operante in Italia, il numero dei dipendenti va determinato con riferimento al solo territorio nazionale, dovendosi ritenere che l'una o più sedi secondarie ivi presenti, già assoggettate per plurimi aspetti all'applicazione della legge italiana ai sensi dell'art. 2508 c.c., siano dotate di autonoma rilevanza anche a tali fini, pur non avendo autonoma personalità giuridica, costituendo il criterio occupazionale un presupposto di applicazione della legge nazionale. 10.10. Applicazioni della legge «Fornero». In fattispecie concernente il licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 18418/2016, Balestrieri, ha ribadito che l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 st.lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva reintegrato il lavoratore, cui era stato contestato di essere maleducato con il personale che aveva il compito di formare, di aver rifiutato di ridiscutere il trattamento di cd. superminimo e di aver lamentato il demansionamento, ritenendo tali condotte prive dei caratteri dell'antigiuridicità ed illiceità). La tutela reintegratoria è stata riconosciuta in caso di recesso per mancato superamento del periodo di prova in presenza di patto nullo. Sez. L, n. 16214/2016, Ghinoy, Rv. 640861, ha sul punto chiarito che il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 4, st. lav, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, applicabile ratione temporis. La medesima tutela è stata accordata in presenza di licenziamento disciplinare non preceduto dalla contestazione. 303 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Sul punto Sez. L, n. 25745/2016, Balestrieri, in corso di massimazione, ha affermato che il radicale difetto di contestazione dell'infrazione (elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare, e costituente espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica) determina l'inesistenza della procedura e non solo delle norme che la disciplinano, con applicazione della tutela della reintegra, del resto prevista anche dal comma 6, che richiama, per il caso di difetto assoluto di giustificazione del licenziamento, la tutela di cui al comma 4 dell'art.18 (reintegra ed indennità pari sino a 12 mensilità della retribuzione); «tale deve ritenersi il caso di un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebiti che dunque, ancorché teoricamente ipotizzabili, non potrebbero, anche per l'impossibilità di attivazione delle successive garanzie a difesa del lavoratore, in alcun caso ritenersi idonei a giustificare il licenziamento. Del resto il comma 4 del novellato art. 18, sanziona con la reintegra il licenziamento ontologicamente disciplinare ove sia accertata l'insussistenza del fatto contestato (e non semplicemente addebitato): nella specie il fatto contestato non esiste a priori, sicché, anche sotto tale profilo, ne consegue la reintegra nel posto di lavoro». In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria, dovendosi escludere ricorra, in tal caso, la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso: Sez. L, n. 14021/2016, Amendola F., Rv. 640434, ha affermato, sul punto, che il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 prevede di regola la corresponsione di un'indennità risarcitoria, riservando il ripristino del rapporto di lavoro alle ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza. Sulla applicabilità, o meno, del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall'art. 7, comma 6, della l. n. 604 del 1966, nel testo sostituito dall'art. 1, commi 40 e 41, della l. n. 92 del 2012, al licenziamento per fine cantiere nel settore edilizio, Sez. L, n. 19703/2016, Ghinoy, Rv. 641363, si è espressa in senso negativo, avuto riguardo all'esclusione introdotta dal sesto comma del testo, come modificato dall'art. 7, comma 4, del d.l. 28 giugno 2013 n. 76, conv. con modif. dalla legge 9 agosto 2013, n. 99. Sull'apparato sanzionatorio dettato in tema di licenziamenti collettivi vedi il successivo §. 304 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Varie tipologie di illegittimità afferenti il licenziamento disciplinare sono state ricondotte nell'ambito dei vizi formali o procedimentali. Sez. L, n. 16896/2016, Boghetich, Rv. 640843, ha chiarito che nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, st.lav. (nella formulazione ratione temporis vigente, risultante dalla l. n. 92 del 2012), con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Sez. L, n. 17113/2016, Amendola F., Rv. 640786, ha affermato che la violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 8, comma 4, del c.c.n.l. Metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 st.lav., tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla l. n. 92 del 2012. Con riferimento alla dibattuta questione circa la tutela da riconoscere ai licenziamenti intimati, privi di motivazione, nelle piccole aziende, Sez. L, n. 17589/2016, Patti, Rv. 641010, ha puntualizzato che nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1996, come modificato dall'art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, trova applicazione l'art. 8 della medesima legge, in virtù di un'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella introdotta dalla legge "Fornero", che ha modificato anche l'art. 18 della l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria. La scissione dei profili di illegittimità concernenti il licenziamento pone il problema della ammissibilità di distinte domande per farli valere. Al riguardo Sez. L, n. 04867/2016, Tria, Rv. 639115, ha precisato che non è consentito frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di due distinti giudizi lamentando, in uno, solo vizi formali e, nell'altro, vizi di merito, con conseguente disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto, trattandosi di una condotta lesiva del 305 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO generale dovere di correttezza e buona fede, che si risolve in un abuso dello strumento processuale e si pone in contrasto con i principi del giusto processo. 11. Licenziamenti collettivi. I temi di maggior rilievo affrontati vertono, al pari di quanto accaduto nell'anno precedente, sulla delimitazione del criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità nonché sulla questione del rispetto delle procedure. E' stato sul punto affermato - da Sez. L, n. 17249/2016, Esposito L., Rv. 641018 - che il parametro dell'anzianità in servizio senza soluzione di continuità, adottato con accordo sindacale, ai sensi dell'art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, per individuare i lavoratori da collocare in mobilità, risponde a criteri oggettivi, perché applicabile all'intera platea di lavoratori con esclusione dunque in radice del carattere discriminatorio, e all'esigenza di prediligere i lavoratori che, non avendo mai interrotto il rapporto professionale nel settore, hanno acquisito un bagaglio culturale più consistente rispetto a chi abbia vissuto una esperienza nel comparto discontinua o risalente nel tempo, ancorché quantitativamente più rilevante. Sez. L, n. 18190/2016, Balestrieri, Rv. 641145, ha ribadito che ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l'individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l'idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni. Con specifico riguardo all'onere di informativa, concernente detti criteri di scelta, gravante sul datore, Sez. L, n. 18306/2016, Boghetich, Rv. 641267, ha affermato che l'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro deve dare una "puntuale indicazione" dei criteri di scelta e delle modalità applicative, impone oltre all'individuazione dei criteri con cui selezionare il personale, anche la specificazione del concreto modo di operatività degli stessi, in modo che il lavoratore possa comprendere perché lui, e non altri, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inidonei, alla formazione della graduatoria dei lavoratori con metodo obiettivo ed univoco, accordi sindacali che non 306 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO precisavano la modalità in cui i vari criteri, pur razionali, concorressero tra loro, consentendo l'esplicazione di una discrezionalità non controllabile del datore di lavoro). Quanto all'indicazione del numero degli esuberi, Sez. L, n. 18504/2016, Amendola F., Rv. 641193, ha precisato che una eventuale divergenza del predetto numero tra comunicazione preventiva, di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 223 del 1991, e comunicazione finale, di cui al comma 9 dello stesso articolo, non costituisce di per sé ragione di illegittimità della risoluzione del singolo rapporto di lavoro, potendo rappresentare proprio il risultato della procedura di esame congiunto prevista dalla legge; né la comunicazione preventiva deve enunciare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, essendo la loro individuazione rimessa all'accordo sindacale o, sussidiariamente, alla legge, sicché solo la violazione dei criteri individuati da dette fonti può determinare l'illegittimità del recesso. Sul tema dell'interesse a proporre domanda di annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 223 del 1991, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche ex lege n. 92 del 2012, Sez. L, n. 24558/2016, Spena, in corso di massimazione, ha affermato che detta domanda non può essere effettuata indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perchè avente rilievo determinante rispetto al licenziamento. In generale, sul tema della verifica del rispetto delle regole procedurali, Sez. L, n. 22543/2016, Doronzo, Rv. 641605, ha evidenziato che la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 3, della l. n. 223 del 1991, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell'azienda, senza che occorra l'indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all'esito della procedura che, nell'ambito delle misure 307 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO idonee a ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione. Con riguardo al termine - introdotto dall'art. 1, comma 44, della l. n. 92 del 2012, a modifica del comma 9 dell'art. 4 della l. n. 223 del 1991 - di sette giorni dalla comunicazione dell'atto di recesso per l'inoltro agli enti regionali per l'impiego e alle associazioni di categoria dell'elenco dei lavoratori licenziati con tutte le altre notizie relative all'attuazione della procedura di mobilità, Sez. L, n. 23736/2016, Venuti, in corso di massimazione, ha affermato che il termine in questione deve essere rispettato anche qualora l'impresa intenda cessare l'attività. Sulla natura dell'azione promossa dal lavoratore che faccia valere l'inefficacia di un licenziamento collettivo per vizi del procedimento, nonché sulle conseguenti implicazioni, Sez. L, n. 10343/2016, Berrino, Rv. 639728, ha evidenziato che l'azione in questione va ricondotta a quelle di annullamento, sicché è soggetta sia all'onere dell'impugnativa stragiudiziale nel termine di decadenza di sessanta giorni, sia alla prescrizione quinquennale, il cui decorso determina l'estinzione del diritto di far accertare giudizialmente l'invalidità del recesso datoriale e, quindi, di azionare le conseguenti pretese reintegratore e risarcitorie. Sul profilo sanzionatorio derivante dall'illegittimità del licenziamento collettivo intimato nell'area di applicazione della legge "Fornero", Sez. L, n. 12095/2016, Amendola F, Rv. 640030, ha affermato che in forza dell'art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall'art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, all'incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 - che integra una violazione delle procedure previste dallo stesso articolo - consegue l'applicazione, in favore del lavoratore licenziato, della sola tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 7, st.lav., nella misura tra 12 e 24 mensilità. Inoltre, Sez. L, n. 18847/2016, Ghinoy, Rv. 641227, ha statuito che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina una violazione dei criteri di scelta, per la quale l'art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall'art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, prevede l'applicazione del comma 4 dell'art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970, norma che riguarda tutte le modalità di applicazione dei suddetti criteri, e quindi non solo l'errata valutazione o applicazione 308 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dei punteggi assegnati, ma anche le modalità con cui essi sono attribuiti. Infine, con una rilevante pronuncia - Sez. L, n. 22121/2016, Ghinoy, Rv. 641614 -, è stato affermato che la previsione di cui all'art. 7 del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, al comma 4-bis, introdotto dalla legge di conversione 28 febbraio 2008, n. 31 - secondo cui, tra l'altro, l'acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative - comporta che l'invarianza delle condizioni economiche e normative deve rientrare nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la legittimità della procedura di irrogazione del licenziamento. 12. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. In materia di pubblico impiego la S.C. ha reso numerose pronunce in tema di procedimento disciplinare e di licenziamenti, ma anche sulle procedure concorsuali e sulle mansioni, risolvendo questioni a lungo dibattute in sede di merito. 12.1. Giurisdizione. In tema di riparto di giurisdizione, ove il lavoratore deduca un inadempimento dell'amministrazione, quale espressione di un fenomeno unitario e la fattispecie si protragga oltre il discrimine temporale del 30 giugno 1998, ad avviso di Sez. U, n. 11851/2016, Curzio, Rv. 639997, permane la giurisdizione del giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale data, dovendo essere egualmente unitario il giudizio sul danno conseguente. La pronuncia è stata resa in relazione ad una domanda di risarcimento del danno per patologie manifestatesi prima del 30 giugno 1998, ma dipendenti da un'unica causa, individuata nella esposizione professionale a radiazione ionizzanti. Per Sez. U, n. 11387/2016, Giusti A., Rv. 639996, spetta invece alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia nella quale un dirigente, a seguito del mancato conferimento di un incarico, prospetti un pregiudizio professionale derivante dall'adozione di atti di macro-organizzazione correlati all'esercizio di 309 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO poteri autoritativi, al fine di ottenerne l'annullamento, la rimozione degli effetti ed un nuovo esercizio del potere amministrativo. Nella fattispecie, trattandosi di atti diretti a ridefinire le strutture amministrative e a stabilire i criteri e le modalità di attribuzione degli incarichi dirigenziali, si è ritenuto che fossero in gioco deduzioni relative solo ad una posizione di interesse legittimo. Rientra, di contro, nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo quanto deciso da Sez. U, n. 19072/2016, Bianchini, Rv. 640928, la controversia avente ad oggetto la domanda della P.A. rivolta ad ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, posto che l'amministrazione creditrice ha titolo per richiedere l'adempimento dell'obbligazione senza doversi rivolgere alla Procura della Corte dei conti, la quale sarà notiziata soltanto ove possa prospettarsi l'esistenza di danni. Di sicuro rilievo è l'ordinanza interlocutoria emessa da Sez. U, n. 06891/2016, Mammone, Rv. 639170, secondo cui, non è manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000. La ragione posta a fondamento della pronuncia risiede nel potenziale contrasto della norma interna con l'art. 6 CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo con le sentenze 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia e Staibano c. Italia In tema di procedure concorsuali, Sez. U, n. 05075/2016, Nobile, Rv. 639080, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nel solo caso in cui la mancata assunzione avvenga in assenza di un provvedimento espresso, qualora la P.A., all'esito dell'approvazione della graduatoria, non provveda alla nomina del soggetto utilmente collocato. E' stato chiarito che, ove sia del tutto omessa la forma prevista dalla legge, espressione del basilare principio di legalità dell'azione amministrativa, non sia possibile riconoscere l'esercizio di un potere autoritativo. Da tale principio consegue che, in assenza di un contrarius actus, la volontà dell'Amministrazione di annullare o revocare il bando non assume alcuna efficacia e l'autotutela risulta, quindi, esercitata in carenza di potere e con atti affetti da nullità per difetto dell'elemento essenziale della forma. 310 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Restando in tema, Sez. U, n. 13531/2016, Curzio, Rv. 640439, ha fornito un'interpretazione estensiva del concetto di "assunzione" di dipendenti della P.A. di cui all'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, proponendo un'equiparazione, per ragioni di ordine sistematico e teleologico, dell'assunzione di lavoratori subordinati e di quella di lavoratori parasubordinati cui vengano attribuiti incarichi volti a realizzare identiche finalità. Ne deriva che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia relativa ad una procedura concorsuale volta al conferimento di incarichi ex art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 cit., assegnati ad esperti, mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori subordinati della P.A. In materia di concorsi interni da ultimo, Sez. U, n. 26270/2016, Manna, in corso di massimazione, ha fornito ulteriori precisazioni sull'interpretazione dell'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, in particolare ha ribadito che, in presenza di progressioni all'interno di ciascuna area professionale o categoria, secondo disposizioni di legge o di contratto collettivo, necessariamente ci si trova al di fuori dell'ambito delle attività amministrative autoritative e la procedura è retta dal diritto privato, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. In ordine , infine, all'assunzione per effetto dello scorrimento delle graduatorie, Sez. U, n. 26272/2016, Manna, in corso di massimazione, Manna, secondo cui, allorquando la controversia abbia ad oggetto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, nella specie di ricorrere all'istituto dello scorrimento, la situazione giuridica dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost. Di rilievo, inoltre, l'ordinanza interlocutoria emessa da Sez. L., n. 26934/2016, Di Paolantonio, sulla questione, ritenuta di massima di particolare importanza, relativa alla qualificazione privatistica o pubblicistica del rapporto dei cd. lettori di scambio ex l. n. 62 del 1967, nonché in ordine all'applicabilità del principio di non discriminazione di matrice eurounitaria, una volta che è stata esclusa la loro equiparazione al personale insegnante delle Università. Nella stessa materia, infine, Sez. L, n. 26935/2016, Di Paolantonio, con ordinanza interlocutoria, ha posto le ulteriori 311 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO questioni, ritenute di massima di particolare importanza, relative al rapporto degli ex lettori di lingua straniera di cui al d.P.R. n. 382 del 1980, aventi ad oggetto la riconducibilità all'art. 310 c.p.c. dell'estinzione dei giudizi disposta dall'art. 26 della l. n. 240 del 2010, sulla natura privatistica o pubblicistica del rapporto, nonché sulla resistenza dei giudicati già intervenuti alle sopravvenienze normative in materia. 12.2. Procedure concorsuali. E' stato chiarito da Sez. L, n. 14592/2016, Boghetich, Rv. 640584, che le deroghe al principio generale del pubblico concorso necessitano di una previsione legislativa ad hoc, la cui ratio sia volta a contemperare il meccanismo di selezione dei migliori con l'esigenza di ricoprire posizioni di non rilevante contenuto professionale o con il principio della tutela delle categorie protette o - nel caso di conversione a tempo indeterminato di rapporti a tempo determinato - per l'opportunità di valorizzare l'esperienza lavorativa già maturata. In ipotesi di procedura concorsuale indetta con norma dichiarata incostituzionale, secondo Sez. L, n. 13884/2016, Blasutto, Rv. 640477, la pronuncia spiega i suoi effetti anche rispetto agli atti successivi di approvazione della graduatoria e di instaurazione del rapporto di impiego. Si è chiarito, infatti, che, la mancata impugnazione della graduatoria non determina una situazione giuridica irrevocabile o esaurita, in quanto destinata a definire solo la fase prodromica alla costituzione del rapporto. Questo, infatti, anche successivamente, resta condizionato, quanto alla validità, dall'atto presupposto. Ove ricorra una pluralità di procedure concorsuali, per il medesimo profilo, la P.A., qualora si avvalga del cd. scorrimento della graduatoria ha l'obbligo, per Sez. L, n. 00280/2016, Tria, Rv. 638376, di motivare le ragioni per cui non attinge da quella di data anteriore. L'omessa indicazione delle ragioni costituisce inadempimento contrattuale, suscettibile di risarcimento, per violazione dei criteri di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua dei principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost. Il candidato vincitore ha diritto, come ha affermato Sez. L, n. 12679/2016, Tria, Rv. 640333, all'inquadramento previsto dal bando di concorso. Tale diritto è, tuttavia, subordinato alla permanenza, al momento dell'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando è stato emesso. Nell'ipotesi in cui detto assetto sia mutato a causa dello ius superveniens, l'Amministrazione ha il potere-dovere di 312 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO bloccare i provvedimenti dai quali possano derivare nuove assunzioni che non corrispondano più alle oggettive necessità di incremento del personale, quali valutate prima della modifica del quadro normativo, in base all'art. 97 Cost. In tema di procedure selettive per l'assunzione con contratto di formazione e lavoro ad avviso di Sez. L, n. 18854/2016, Di Paolantonio, Rv. 641226, la disciplina di cui agli artt. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e 3 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. dalla l. n. 863 del 1984, ratione temporis vigente, richiede il possesso del requisito anagrafico non solo per la partecipazione al concorso e alla selezione, ma anche al momento dell'assunzione che deve riguardare solo "giovani" da formare e immettere nel mondo lavorativo, sicché il contratto individuale stipulato in difetto dei requisiti richiesti è affetto da nullità per contrasto con norma imperativa. 12.3. Passaggio del personale tra amministrazioni. In generale, in tema di mobilità da un'amministrazione ad un'altra, Sez. 6-L, n. 16846/2016, Fernandes, Rv. 640785, ha chiarito che il passaggio diretto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, risolvendosi in una modificazione meramente soggettiva del rapporto, comporta il diritto alla conservazione dell'anzianità, della qualifica e del trattamento economico del dipendente. Ove quest'ultimo risulti superiore a quello spettante all'ente di destinazione, per Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639194 trova applicazione la regola del riassorbimento degli assegni ad personam che sono riconosciuti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito. La regola generale del riassorbimento, secondo Sez. 6-L, n. 04545/2016, Fernandes, Rv. 639193, opera in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti dell'amministrazione di arrivo, e non con riferimento a singole voci che compongono tale trattamento economico. Un autonomo rilievo alle singole voci può, tuttavia, essere espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. A quest'ultima, in ogni caso, compete solo la definizione delle modalità applicative del principio, mentre le è preclusa la possibilità di escluderne l'operatività. In linea con la pronuncia richiamata anche, Sez. L, n. 10007/2016, De Marinis, Rv. 639779, secondo cui l'art. 19, comma 5, del d.P.R. 8 agosto 2002, n. 207, prevede in favore del personale trasferito all'APAT il mantenimento del trattamento economico, da intendersi comprensivo di ogni voce retributiva qualunque ne sia la 313 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO fonte contrattuale, nazionale o integrativa della singola amministrazione, inclusi eventuali rinnovi. La finalità della norma, infatti, è quella di regolare, fino all'emanazione del primo contratto integrativo proprio dell'ente cessionario, il rapporto del personale ivi trasferito, assoggettandolo alla disciplina collettiva tempo per tempo in vigore presso l'amministrazione di provenienza. Compete all'ente di destinazione, poi, l'esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, come ha chiarito Sez. L, n. 04088/2016, D'Antonio, Rv. 639146, in una fattispecie relativa al trasferimento di un lavoratore dall'ente Poste alla Corte dei Conti, presso la quale si trovava già in posizione di comando. L'inquadramento superiore acquisito dopo la domanda, secondo Sez. L, n. 19925/2016, Tricomi I., Rv. 641351 è irrilevante, in quanto la domanda di passaggio non può essere scissa dalla qualifica per cui è chiesta in ragione delle disponibilità palesate dall'Amministrazione di destinazione. In tema di passaggio dei segretari comunali e provinciali ad altra amministrazione è intervenuta Sez. U, n. 00784/2016, Curzio, Rv. 638055 per affermare che l'art. 1, comma 49, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che disciplina la possibilità del reinquadramento e dell'accesso alla dirigenza, a seguito del processo di mobilità, non si applica ai segretari comunali o provinciali trasferiti per effetto di procedure di mobilità già esaurite alla data di entrata in vigore della citata legge. La normativa richiamata, infatti, si riferisce ai soli processi di mobilità eventuali e futuri e non a quelli espletati in applicazione del c.c.n.l. di settore del 16 maggio 2001, dovendosi ritenere una diversa interpretazione lesiva del principio costituzionale dell'accesso alla P.A. per concorso pubblico, applicabile anche alla dirigenza. Con riguardo, infine, al personale di amministrazione di comparto diverso dai Ministeri, Sez. L, n. 19916/2016, Torrice, Rv 641361, ha affermato che il distacco presso gli uffici giudiziari non fa sorgere il diritto all'indennità di amministrazione. Il distacco o il comando non mutano, infatti, il rapporto di lavoro, o la sua regolamentazione legale o contrattuale con l'ente distaccato. 12.4. Mansioni, inquadramenti e trasferimenti. Lo svolgimento di fatto di mansioni dirigenziali dà diritto al trattamento economico corrispondente, per Sez. L, n. 18712/2016, Tria, Rv. 641231, ove il dipendente assolva l'onere di allegazione e 314 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO prova delle mansioni in concreto svolte; in proposito è stato ritenuto irrilevante l'atto di preposizione irregolare. Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune, secondo Sez. L, n. 24266/2016, Blasutto, in corso di massimazione non è condizionato all'esistenza, né alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico, salva l'eventuale responsabilità del dirigente che abbia disposto l'assegnazione con dolo o colpa grave. La S.C. ha precisato, tuttavia, che detto diritto trova un limite nei casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino), oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in tutti i casi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento. In materia di inquadramenti è intervenuta Sez. L, n. 01241/2016, Tricomi I., Rv. 638329, precisando che il processo di delegificazione ha affidato alla contrattazione collettiva il potere di intervenire, con la particolarità che esso non incontra il limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni previsto per il lavoro subordinato privato. Ne consegue che le scelte della contrattazione collettiva sull'inquadramento del personale, e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e le nuove aree, sono sottratte al sindacato giurisdizionale, dovendosi escludere che il principio di non discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituisca parametro di giudizio sulle eventuali differenziazioni operate in tale sede. Con riferimento al personale delle cd. carriere speciali, soppresse dall'art. 147 del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077, Sez. L, n. 10008/2016, De Marinis, Rv. 639643, ha chiarito che l'azione perequativa perseguita dal legislatore, si è attuata ed esaurita nel consentire l'accesso alla qualifica iniziale dei ruoli delle carriere direttive ordinarie, subordinando la conseguente progressione in detto ambito alla disciplina susseguitasi in materia. Nell'ambito, invece, delle procedure di riqualificazione riservate al personale dell'Avvocatura dello Stato, è stato precisato da Sez. L, n. 15981/2016, Di Paolantonio, Rv. 640682, che l'avanzamento per saltum da B1 a B3, previsto in conformità all'art. 15 del c.c.n.l. 1998/2001 per il personale dipendente del comparto Ministeri, non è in contrasto con l'art. 97 Cost., in ragione delle modalità con cui ad esso si perviene, consistenti nell'espletamento di 315 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO procedure concorsuali mediante corsi di riqualificazione ed esame finale. Con riferimento al c.c.n.l. del 16 febbraio 1999 comparto ministeri, secondo Sez. L, n. 01241/2016, Tricomi, Rv. 638330, il criterio differenziale tra le posizioni economiche C 1 e C 2 deve essere individuato nella capacità decisionale in ordine agli obbiettivi, cui si riconnette un livello più o meno elevato di responsabilità e non, invece, nell'autonomia operativa. In caso di svolgimento di mansioni aggiuntive, secondo Sez. 6-L, n. 16094/2016, Marotta, Rv. 640722, il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive, purché i compiti in concreto espletati integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001. Tale requisito si realizza con lo svolgimento di una mansione che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione. In materia di prerogative sindacali, è stato precisato da Sez. L, n. 14196/2016, Blasutto, Rv. 640476, che la normativa di cui all'accordo collettivo quadro del 7 agosto 1998 (per tutte le P.A., inclusi gli Enti locali) rinvia ai concetti generali di unità operativa e sede, che, in mancanza di una definizione espressa, vanno intesi nel significato desumibile dalle prescrizioni rinvenibili nel rispettivo ordinamento. Quanto alla tutela dei dirigenti sindacali degli enti locali si deve, pertanto, fare riferimento al d.P.R. 3 agosto 1990, n. 333 (abrogato dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. dalla legge 4 aprile 2012, n. 35) che condizionava al previo nulla osta del sindacato di appartenenza il trasferimento del dirigente sindacale in un'unità produttiva ubicata in diverso comune o circoscrizione comunale. In particolare, ove il livello territoriale di riferimento sia quello comunale, la locuzione "ubicazione in sede diversa" identifica la diversa circoscrizione e, dunque, la tutela opera in caso di trasferimento del dirigente sindacale da una circoscrizione ad un'altra. 12.5. Incarichi dirigenziali. In proposito, Sez. L, n. 12678 2016, Torrice, Rv. 640952, ha ribadito che, pur non essendo configurabile un diritto soggettivo a conservare, ovvero ad ottenere, un determinato incarico di funzione dirigenziale, in ogni caso la P.A. 316 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO non ha un'assoluta potestà discrezionale nell'affidare o non affidare incarichi dirigenziali, in prima designazione, ovvero una volta che siano venuti a scadenza, e lasciare, in assenza di un giustificato motivo, il dirigente pubblico privo di incarico e di compiti di natura dirigenziale. La preposizione ad un ufficio, secondo Sez. L, n. 06068/2016, Spena, Rv. 639160, comporta, in mancanza di espresse limitazioni, il conferimento di tutti i poteri di direzione dello stesso. In particolare, la mancanza di conferimento dell'incarico dirigenziale esclude solo le attribuzioni, propositive e gestorie, legate alla predeterminazione degli obiettivi. Con riferimento allo spoil system, Sez. L, n. 03210/2016, D'Antonio, Rv. 639046, ha ritenuto che, a seguito della sopravvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale delle norme di cui all'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, il dirigente generale illegittimamente rimosso va reintegrato nell'incarico per il tempo residuo di durata, senza che rilevi l'indisponibilità del posto a seguito della riforma organizzativa dell'amministrazione sopravvenuta nelle more, non essendo impossibile l'adempimento dell'obbligazione in base alla normativa contrattualcollettiva vigente; nella specie l'art. 13 del c.c.n.l. 20 febbraio 2001 che assicura al dirigente l'attribuzione di un incarico equivalente nelle ipotesi di ristrutturazione e riorganizzazione comportanti la modifica o la soppressione delle competenze affidate all'ufficio. L'atto di conferimento di incarico dirigenziale, secondo Sez. L, n. 13878/2016, Blasutto, Rv. 640455, quale atto di gestione del rapporto deve essere escluso dal campo di applicazione dell'art. 6, lett. d) del c.c.n.l. del personale del comparto delle Regioni e delle autonomie locali 2002/2005, in tema di disciplina dei rapporti sindacali e degli istituti della partecipazione. In particolare, la norma citata, ove fa riferimento all'andamento dei processi occupazionali, tra le materie oggetto di concertazione, non comprende gli atti di gestione, tra cui il conferimento dell'incarico di dirigente. Con riguardo all'affidamento di funzioni dirigenziali, ad avviso di Sez. L, n. 21890/2016, Blasutto, in corso di massimazione, l'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 109, che rinvia all'art. 107, comma 2 e 3, t.u.e.l. attiene al conferimento delle funzioni dirigenziali che possono essere attribuite ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale. Detto conferimento non comporta un mutamento del profilo professionale, ma solo un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus 317 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO di alta responsabilità la cui definizione - nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto - è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva. Sotto il diverso profilo delle funzioni di cui agli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 09630/2016, Blasutto, Rv. 639731, ha affermato che la competenza in materia di spesa appartiene solo ai titolari di uffici dirigenziali generali. Gli altri dirigenti la esercitano in via derivata, mediante apposita delega, adottando atti e provvedimenti amministrativi di rilevanza esterna nell'ambito dell'attuazione di progetti e delle gestioni loro assegnate dai dirigenti superiori. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva escluso la qualifica dirigenziale ritenendone un connotato indefettibile la gestione di un "budget" di spesa. 12.6. Trattamento economico. In generale, Sez. L, n. 12900/2016, Boghetich, Rv. 640424, ha negato che in caso di accordi conclusi in sede sindacale possa operare il principio generale dell'inderogabilità in peius, quale espressione del cd. favor lavoratoris. In tal caso, infatti, il confronto tra le parti sociali garantisce la migliore protezione degli interessi dei lavoratori e la loro composizione con le esigenze datoriali. E', pertanto, da escludere una concorrenza di fonti che consenta di ricorrere al principio del cd. favor lavoratoris nel caso di un sistema di classificazione del personale (nella specie, della Regione Sicilia) che risulti da accordo sindacale recepito in atto normativo (nella specie, decreto Presidente Regione Sicilia n. 10 del 2001). Agli enti pubblici si applica, secondo, la Sez. L, n. 00991/2016, Tria, Rv. 638615, la normativa generale sull'efficacia probatoria delle buste paga propria del lavoro privato, sicché le quietanze dei compensi corrisposti al lavoratore, quali i prospetti- paga, le buste-paga e simili, stante l'obbligatorietà del loro contenuto e della corrispondenza di esso alle registrazioni eseguite e alla loro specifica normativa, fanno fede nei confronti del datore di lavoro per quanto riguarda gli elementi in essi indicati. L'art. 2126 c.c., secondo la massima Rv. 638616 relativa alla stessa pronuncia, ha applicazione generale e riguarda tutte le ipotesi di prestazione di lavoro alle dipendenze di una P.A. compresa tra quelle di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, salvo il caso in cui l'attività svolta risulti illecita perché in contrasto con norme imperative e poste a tutela di diritti fondamentali della persona 318 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Con riguardo al compenso aggiuntivo per le festività civili coincidenti con la domenica, attribuito dall'art. 5, comma 3, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come modificato dall'art. 1 della legge 31 maggio 1954, n. 90, Sez. 6-L, n. 00328/2016, Marotta, Rv. 638340, ha precisato che esso, è stato escluso con un intervento legislativo, giudicato costituzionalmente legittimo da Corte cost. n. 150 del 2015, dall'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che, con norma di interpretazione autentica ha espressamente compreso la citata disposizione tra quelle riconosciute inapplicabili dall'art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001 a seguito della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro con la P.A. Un'importante precisazione per il personale dell'Amministrazione degli affari esteri è stata effettuata da Sez. L, n. 14112/2016, Di Paolantonio Rv. 640465, secondo cui l'indennità di servizio estero non ha natura retributiva, in quanto finalizzata a sopperire agli oneri derivanti dalla permanenza nella sede straniera. E', quindi, da escludere che la stessa possa concorrere a determinare il danno patrimoniale subito dal dipendente illegittimamente richiamato presso la sede centrale. Per la determinazione della predetta indennità ex art.117 del d.P.R. n. 18 del 1967, ai fini degli inquadramenti nelle qualifiche funzionali, occorre, secondo Sez. L, n. 12344/2016, Spena, Rv. 640387, avere riguardo all'esercizio in concreto della funzione e non alla sua attribuzione formale. In ordine alla retribuzione di posizione dei dirigenti del SSN, Sez. L, n. 22934/2016, Torrice, in corso di massimazione, in linea con Sez. L, n. 12335/2009, Rv. 608438, Bandini, ha ribadito che l'art. 50 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 dell'area dirigenza dei ruoli sanitario, professionale tecnico ed amministrativo del S.S.N., nel prevedere, da parte delle aziende, la determinazione della graduazione delle funzioni dirigenziali, attribuendo ad ogni relativa posizione un valore economico complessivo, riconosce ai dirigenti una retribuzione di posizione complessiva, che, ai sensi dell'art. 53 del medesimo c.c.n.l. e dell'art. 40 del c.c.n.l. dell'8 giugno 2000, come autenticamente interpretato dall'art. 24, comma 11, del c.c.n.l. 3 novembre 2005, è composta da una quota stabilita tabellarmente in sede contrattuale, divisa in una parte fissa e in una variabile, nonché da un'ulteriore quota, parimenti variabile e definita in sede aziendale, collegata all'incarico conferito sulla base della graduatoria delle funzioni. Fino al conferimento degli incarichi, inoltre, deve essere corrisposta una retribuzione di posizione minima, costituita 319 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dalle componenti, fissa e variabile, della quota tabellare, destinata ad essere riassorbita nel valore economico complessivo successivamente attribuito all'incarico conferito, in quanto mera anticipazione prevista dal contratto collettivo. La stessa pronuncia, con altro principio in corso di massimazione, soggiunge che i commi 1 e 2 dell'art. 41 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 dell'area dirigenza dei ruoli sanitario, professionale tecnico ed amministrativo del S.S.N. riconoscono ai dirigenti dei predetti ruoli, con incarico di direzione di struttura complessa ai sensi dell'art. 54, comma 1 fascia a) del c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, il pagamento di un incremento della retribuzione di posizione, condizionatamente alla disponibilità nel fondo di cui all'art. 50, comma 3, precisando che detta erogazione costituisce un emolumento ulteriore. Con riguardo, invece, alla dirigenza medico-veterinaria Sez. L, n. 05465/2016, Di Paolantonio, Rv. 639226 ha precisato che l'art. 17, comma 5, del c.c.n.l. 3 novembre 2005 per la dirigenza medico- veterinaria, secondo cui sussiste il diritto del dirigente in reperibilità, chiamato a rendere la prestazione, a percepire, oltre alle indennità ivi stabilite, anche la maggiorazione per il lavoro straordinario, o, in alternativa, ad usufruire di un corrispondente recupero orario, non esclude che l'ASL debba, inoltre, garantire al medico, anche senza sua richiesta, il riposo settimanale, trattandosi di diritto indisponibile. E' stato, poi, precisato, da Sez. 6-L, n. 06962/2016, Arienzo, Rv. 639248 che, in materia di computo del beneficio previsto dall'art. 5 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 344, relativo al personale ex dipendente da organismi militari della Comunità atlantica ( NATO), assume rilievo lo stipendio tabellare in godimento al momento dell'assunzione alle dipendenze dello Stato. Non deve, pertanto, essere inclusa l'indennità integrativa speciale, nella relativa base di calcolo, per il personale assunto in epoca anteriore all'inglobamento di tale indennità nel suddetto emolumento, disposto dall'art. 20, comma 3, del c.c.n.l. 2002/2005 comparto Ministeri solo a decorrere dal 1° gennaio 2003. In proposito, la S.C. ha chiarito che in tal caso, non sorgono dubbi di contrasto con l'art. 36 Cost., che richiede proporzionalità e adeguatezza della retribuzione nella sua globalità e non delle singole componenti. Ai fini del calcolo dell'indennità premio di servizio, secondo Sez. 6-L, n. 15302/2016, Marotta, Rv. 640866, non sono computabili i versamenti effettuati dal datore di lavoro al fondo individuale integrativo di previdenza, in quanto la retribuzione 320 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO contributiva, alla quale la stessa si commisura a norma dell'art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152, è costituita solo dagli emolumenti testualmente menzionati dall'art. 11, comma 5, legge cit., la cui elencazione ha carattere tassativo e il cui riferimento allo 'stipendio o salario' richiede un'interpretazione restrittiva, attesa la specifica ed esclusiva indicazione, quali componenti di tale voce, dei soli aumenti periodici della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura. Con riguardo, invece, all'indennità integrativa speciale spettante ai medici medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena, Sez. L, n. 14957/2016, Blasutto, Rv. 640735, ha chiarito che, ai sensi dell'art. 39 della legge 9 ottobre 1970, n. 740, essa è soggetta ai limiti previsti nell'art. 1 della legge 27 maggio 1959, n. 324, richiamati dal predetto art. 39 che regola il rapporto libero- professionale parasubordinato dei sanitari presso tali strutture. Tale indennità, dunque, compete ad un solo titolo, con opzione per la misura più favorevole nei casi in cui sia consentito il cumulo di impieghi. In relazione alla sospensione della retribuzione, durante il periodo di custodia cautelare in carcere, Sez. L, n. 20321/2016, Boghetich, Rv 641496, ha chiarito che non può trovare applicazione l'istituto della revoca previsto dall'art. 97 del T.U. n. 3 del 10 gennaio 1957. Si tratta di un'autonoma causa di esclusione dal diritto alla retribuzione che si sovrappone alla sospensione cautelare e che trova il fondamento nel generale principio per il quale, se la prestazione lavorativa non è resa per fatto imputabile al lavoratore, il datore di lavoro non è tenuto al pagamento della retribuzione. In materia di ex lettori di lingua straniera, secondo Sez. L, n. 09907/2016, Lorito, Rv. 639778, all'esito della soppressione ex lege della tipologia contrattuale del lettore di madrelingua, non è configurabile una sorta di ruolo ad esaurimento per il rapporto di lettorato. Ai fini della fruizione del trattamento economico previsto dalla legge 5 marzo 2004, n. 63, come interpretata dalla legge 30 dicembre 2012, n. 240, quindi, è necessario l'accesso alla posizione di collaboratore esperto linguistico attraverso il superamento di una procedura selettiva, predisposta dai singoli ordinamenti universitari, e la stipula del relativo contratto. In fattispecie diversa, relativa all'ipotesi di costituzione giudiziale del rapporto a tempo indeterminato degli ex lettori di lingua straniera, Sez. L, n. 19190/2016, Di Paolantonio, Rv. 641380 ha affermato, l'applicabilità del trattamento economico previsto per il collaboratore esperto linguistico. 321 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Con riguardo al personale scolatico è di rilievo quanto espresso da Sez. L. n. 23868/2016, Di Paolantonio, in corso di massimazione, secondo cui il personale scolastico non di ruolo deve essere equiparato al personale di ruolo relativamente all'anzianità di servizio ai fini retributivi. E' stata, infine, esclusa da Sez. L, n. 26348/ 2016, Blasutto, in corso di massimazione, l'estensione dei benefici previsti dagli artt. 1 e 2 della l. n. 336 del 1970, Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati, a tutte le categorie indicate dagli articoli citati. La pronuncia, dopo ampia ricostruzione sistematica, ha ritenuto, infatti, il beneficio applicabile solo alle categorie equiparate a quella dei profughi per l'applicazione del trattato di pace. Da ultimo, in tema di ricostruzione della carriera, Sez. L, n. 20967/2016, Tria, Rv. 641408, ha precisato la portata applicativa dell'art. 29 del c.c.n.l. Ministeri 1998-2001, chiarendo che il relativo diritto sorge solo nel caso in cui il dipendente sia oggetto di una sentenza definitiva di assoluzione, senza che possa essere considerata tale quella dichiarativa dell'estinzione del reato per prescrizione. In tal senso, sussiste, infatti, l'interesse dell'imputato ad impugnare tale sentenza, o la facoltà dello stesso di rinunciare alla prescrizione, al fine di ottenere un'assoluzione nel merito. 12.7. Il procedimento disciplinare. Numerosi sono stati gli interventi della S.C. sull'interpretazione degli art. 55 e 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Preliminarmente, in relazione all'individuazione della disciplina applicabile, Sez. L, n. 11627/2016, Napoletano, Rv. 640008, ha chiarito che la regola del tempus regit actum va riferita al tempo del procedimento, confermando la decisione di merito che, in un'ipotesi di illecito riguardante un'attività protrattasi fino al vigore della nuova disciplina, aveva ritenuto applicabile quella prevista dalla l. n. 15 del 2009 e dal d.lgs. n. 150 del 2009. La novella da ultimo citata, secondo Sez. L, n. 11985/2016, Blasutto, Rv. 640028, ha individuato, quale momento determinante per l'applicazione della nuova disciplina, la data di acquisizione della notizia dell'infrazione acquisita dagli organi dell'azione disciplinare, con riguardo a fatti rilevanti a decorrere dal 16 novembre 2009. Il termine a difesa, previsto dall'art. 55, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2009, secondo Sez. L, n. 12108/2016, Blasutto, Rv. 640374, di quindici giorni dalla convocazione per la difesa del 322 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dipendente si considera decorso "inutilmente", se in tale lasso temporale il lavoratore non abbia svolto le sue difese, mentre tale condizione non si realizza ove esse siano state spiegate. Solo nel primo caso, dunque, decorre, dall'intervenuta scadenza, l'ulteriore termine di quindici giorni entro il quale irrogare la sanzione, mentre la disposizione resta inapplicabile in presenza di giustificazioni del lavoratore, che possono implicare una valutazione ulteriore e richiedere un più ampio lasso di tempo. In ordine alla natura dei termini del procedimento disciplinare, secondo Sez. L, n. 12213/2016, Blasutto, Rv. 640390, nella vigenza del c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995, come modificato dall'art. 12 del successivo c.c.n.l. 12 giugno 2003, solo il termine iniziale e quello finale del procedimento disciplinare sono perentori, mentre quelli endoprocedimentali hanno carattere ordinatorio ancorché debbano essere applicati nel rispetto dei principi di tempestività ed immediatezza. Ne consegue che non si verifica la decadenza dall'azione disciplinare in caso di inosservanza del termine previsto dall'art. 55, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 per la trasmissione degli atti all'ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente, che ravvisi fatti non rientranti nella propria competenza, nonché di quello di cinque giorni, di cui al comma 4 bis all'art. 24 del c.c.n.l. citato, per l'ipotesi in cui il responsabile della struttura si avveda nel corso del procedimento innanzi a lui avviato di una diversa e più grave rilevanza dei fatti contestati. Nella medesima pronuncia, in massima Rv. 640391, si afferma anche che l'omessa comunicazione, nella vigenza del c.c.n.l. da ultimo citato (art. 24 comma 4), all'interessato della segnalazione del fatto illecito all'ufficio competente, non determina l'inefficacia del procedimento, in quanto, avendo una funzione meramente informativa, non arreca pregiudizio per le garanzie difensive. Sulla stessa linea è stato precisato da Sez. L, n. 17245/2016, Boghetich, Rv. 640922, che l'art. 55 bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede un termine a difesa dell'incolpato, di dieci o, nel caso di provvedimenti più gravi, venti giorni di carattere meramente endoprocedimentale per la convocazione. La contrazione di tale termine, di conseguenza, può dare luogo alla nullità del procedimento, e della relativa sanzione, solo ove sia dimostrato, dall'interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa. La concreta tutela del diritto costituzionale di difesa è alla base di Sez. L, n. 14106/2016, Blasutto, Rv. 640464, con 323 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO riferimento all'art. 55 bis del d.lgs.n.165 del 2001, secondo cui, il procedimento disciplinare non è illegittimo, qualora il lavoratore incolpato, sebbene non convocato dal datore di lavoro, al fine di esporre le proprie difese, abbia comunque, in un congruo termine decorrente dalla conoscenza dell'addebito (nella specie, dieci giorni), esercitato il proprio diritto, mediante l'invio di una memoria scritta; la difesa scritta, infatti, è prevista quale forma alternativa rispetto all'audizione personale. Sulla natura perentoria del termine previsto per la contestazione disciplinare per le Agenzie fiscali, ai sensi dell'art. 66 del c.c.n.l. del 28 maggio 2004, si è pronunciata anche Sez. L, n. 14198/2016, Di Paolantonio, Rv. 640474. Ha affermato, invece, la natura ordinatoria del termine per la contestazione ex art. 61 del c.c.n.l. del 16 giugno 2003 dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, Sez. L, n. 22930/2016, Ghinoy, in corso di massimazione, sia in considerazione dell'utilizzo dell'espressione "di norma", sia dell'obbligo previsto di valutazione delle circostanze del caso concreto. La pronuncia si pone in linea con l'orientamento espresso Sez. L, n. 24529/2015, Doronzo, Rv. 638063 (con riferimento all'art. 24, comma 2, del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995), secondo cui in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali possono verificarsi solo in presenza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale. Sotto il profilo dell'organo competente ad instaurare il procedimento disciplinare, secondo Sez. L, n. 22487/2016, Nappi, in corso di massimazione, l'art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n.165 del 2001, non postula un'istituzione ex novo dell'ufficio competente, né una sua individuazione espressa, essendo sufficiente, ai fini della sua legittimità, che all'organo che ha irrogato la sanzione sia stata attribuita, in modo univoco e chiaro, la potestà di gestione del personale. Nella specie la S.C., riformando la pronuncia di merito, ha dichiarato legittimo il licenziamento disposto dal direttore generale, ritenendo irrilevante la circostanza che, solo dopo il provvedimento espulsivo, l'ente si fosse dotato di un ufficio per i procedimenti disciplinari. Tutte le fasi del procedimento disciplinare devono essere svolte dall'ufficio per i procedimenti disciplinari, competente anche, secondo Sez. L, n. 11632/2016, Torrice, Rv. 640005, all'irrogazione delle sanzioni, salvo quelle comprese fra il rimprovero scritto e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino a dieci giorni. L'interferenza di organi esterni determina, dunque, l'illegittimità del 324 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO procedimento, e la nullità della relativa sanzione, solo ove si sia tradotta in una compartecipazione sostitutiva e non meramente additiva. Per i procedimenti avviati successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, Sez. L, n. 18128/2016, Di Paolantonio, Rv. 641087, ha chiarito che la natura perentoria dei termini del procedimento disciplinare stabiliti dalla contrattazione collettiva e dagli artt. 55 bis e ss. del d.lgs. n. 165 del 2001, impedisce la rinnovazione del procedimento disciplinare che si sia concluso con sanzione annullata per vizio di forma, qualora la nuova iniziativa disciplinare venga intrapresa per i medesimi fatti, una volta spirati i termini. Una precisazione è stata effettuata da Sez. L, n. 19183/2016, Di Paolantonio, Rv. 641384, a proposito dell'ambito di applicazione dell'art. 3 della legge 27 marzo 2001, n. 97, sulla sospensione del procedimento, una volta venuta meno la pregiudiziale penale. In particolare, la norma trova applicazione nei limitati casi di cui all'art. 55 ter, comma 1, del d.l.gs. n. 165 del 2001, in cui l'ufficio competente per il procedimento disciplinare decida, a causa della complessità degli accertamento, di sospendere il procedimento fino al passaggio ingiudicato della sentenza penale. Non è, poi, stata ritenuta necessaria da Sez. L, n. 11628/2016, Tricomi I, Rv. 640006, alcuna comunicazione della sospensione del procedimento disciplinare, in mancanza di una espressa previsione nell'art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Tale articolo è da ritenersi di stretta interpretazione, in quanto ha introdotto una normativa procedimentale; né è stata ritenuta ravvisabile alcuna violazione del diritto di difesa, posto che la sospensione è prevista a favore dell'incolpato. Ai fini della decadenza dall'azione disciplinare, ad avviso di Sez. L, n. 16900/2016, Torrice, Rv. 640924, occorre avere riguardo alla data in cui l'amministrazione datrice di lavoro esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza e consistenza disciplinare della notizia dei fatti e la consolida nell'atto di contestazione. L'eventuale ritardo nella comunicazione acquisisce rilievo solo allorché sia di entità tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa da parte dell'incolpato. Per gli illeciti disciplinari di maggiore gravità, nella stessa p r o n u n c i a , c o n m a s s i m a R v . 6 4 0 9 2 3 , s i a ffe r m a c h e l a comunicazione all'interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura amministrativa nella quale l'impiegato presta servizio, all'ufficio competente per i procedimenti 325 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO disciplinari, prevista dall'art. 55 bis, comma 3, del d.lgs. citato, ha una funzione meramente informativa. L'omissione di tale adempimento non determina l'inefficacia del procedimento disciplinare, il quale può proseguire regolarmente. Il fondamento dell'azione disciplinare evidenziato da Sez. L, n. 17307, Di Paolantonio, Rv. 641012, coincide con l'interesse dell'amministrazione ad accertare le responsabilità, al fine di impedire che il dipendente possa essere riammesso in servizio, partecipare a successivi concorsi pubblici, o far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della p.a. L'azione disciplinare, pertanto, non si arresta neanche nelle ipotesi di dimissioni del lavoratore intervenute prima dell'avvio del procedimento. L'assenza ingiustificata ex art. 55 quater, lett. b), del d.lgs. n. 165 del 2001, pur costituendo un'ipotesi di licenziamento disciplinare, secondo Sez. L, n.18326/2016, Boghetich, Rv. 641265, presuppone sempre un vaglio attraverso il procedimento disciplinare all'esito del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, la ricorrenza di circostanze influenti sull'intensità del dolo o la gravità della colpa in senso attenuante della responsabilità del dipendente, si può irrogare anche una sanzione conservativa. Deve, quindi, escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione. L'assenza per malattia, secondo Sez. L, n. 17335/2016, Torrice, Rv. 640876, per essere priva di rilievo disciplinare deve essere non solo esistente e comunicata, ma anche "giustificata" nelle forme, inderogabili, previste dall'art. 55 septies, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001; in altri termini, solo se sia stata attestata da certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale. Secondo, Sez. L, n. 22550/2016, Tria, in corso di massimazione, il rifiuto del dipendente di sottoporsi a visita medica di idoneità per almeno due volte costituisce un'ipotesi autonoma di licenziamento disciplinare ex art. 55-octies, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001. Per l'individuazione del termine iniziale per la sospensione del procedimento disciplinare, previsto dall'art. 14, comma 2, del c.c.n.l. Ministeri 2002-2005, secondo Sez. L, n. 20813/2016, Boghetic, Rv. 641391, occorre avere riguardo al momento in cui l'amministrazione ha avuto conoscenza della trasmissione della 326 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO "notitia criminis" e dell'iscrizione nel registro degli indagati, senza che sia necessario attendere l'esercizio dell'azione penale, in linea con quanto affermato da Sez. L, n. 17373/2016, Di Paolantonio, Rv. 641011. Sul medesimo argomento Sez. L, n. 20544/2016, Blasutto, Rv. 641472, ha confermato quanto già affermato da Sez. L, n. 12560/2014, Nobile, Rv. 631037 per il Comparto Ministeri, ha chiarito che l'art. 29, comma 2, del c.c.n.l. Dirigenza Enti locali del 10 aprile 1996, deve interpretarsi nel senso che il datore di lavoro, cessato lo stato di restrizione della libertà personale del dipendente, può ulteriormente prolungare il periodo di sospensione dal servizio in presenza di fatti, oggetto dell'accertamento penale, che siano direttamente attinenti al rapporto di lavoro o, comunque, tali da comportare, se accertati, l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento, a prescindere dalla circostanza che nei confronti dello stesso sia stato, o meno, emesso un provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale. In materia, infine, di rimborso per le spese legali, Sez. 6-L, n. 02366/2016, D'Antonio, Rv. 639052, ha affermato che il contributo, da parte della P.A., alle spese per la difesa del proprio dipendente, che sia imputato in un procedimento penale, presuppone l'esistenza di uno specifico interesse proprio dell'amministrazione, che sussiste ove l'attività sia imputabile alla P.A. e, dunque, si ponga in diretta connessione con il fine pubblico, dovendosi ritenere che il diritto al rimborso costituisca espressione di un principio generale di difesa volto, da un lato, a tutelare l'interesse personale del dipendente coinvolto nel giudizio nonché l'immagine della P.A. per cui lo stesso abbia agito, e, dall'altro, a riferire al titolare dell'interesse sostanziale le conseguenze dell'operato di chi agisce per suo conto. 12.8. I licenziamenti e altre ipotesi di cessazione dal servizio. In tema di licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 17304/2016, Torrice, Rv. 640878, ha chiarito la ripartizione degli oneri probatori nell'ipotesi di false dichiarazioni commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro, o di progressioni di carriera, ai sensi dell'art. 55 quater, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001. In particolare, la prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, a carico del datore di lavoro, ha ad oggetto solo la falsità delle attestazioni delle dichiarazioni nella loro oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possono giustificare la falsa attestazione, e la sua 327 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dipendenza da causa a lui non imputabile, in quanto solo l'autore è in grado di provare che la sua condotta è frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni. Integra, inoltre, l'ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolenta, in forza dell'art. 55 quater citato, ad avviso di Sez. L, n. 17637/2016, Napoletano, Rv. 640818, la timbratura del cartellino marcatempo non corrispondente alla reale situazione di fatto, suscettibile altresì di integrare il reato di truffa aggravata, nel caso in cui il pubblico dipendente si allontani senza far risultare i periodi di assenza, sempre che siano economicamente apprezzabili. In un'analoga ipotesi, Sez. L, n. 24574/2016, Torrice, in corso di massimazione, ha colto l'occasione per precisare che l'art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001 va interpretato nel senso che le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo (c. 1 lett. da a) ad f) e c. 2), sono aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, devono ritenersi sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.. Una volta affermata la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale collettiva, si deve ritenere che il giudizio di adeguatezza delle sanzioni alle condotte ex lege tipizzate non è rimesso alla contrattazione collettiva ma compete soltanto al giudice in sede di giudizio di proporzionalità ai sensi dell'art. 2106 c.c. In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel rapporto degli autoferrotranvieri Sez. U, n. 15540/2016, Napoletano, Rv. 640793, a composizione di un contrasto sorto all'interno della S.C., ha chiarito che l'esonero dal servizio connesso a cessione di linee, a mutamento nei sistemi di esercizio ovvero a limitazione, semplificazione o soppressione di servizi è disciplinato dall'art. 26 del regolamento, allegato A al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148. In tal caso è necessaria la preventiva autorizzazione dell'ente concedente e deve essere impossibile una utile ricollocazione del lavoratore, eventualmente anche in mansioni inferiori; viceversa, nelle ipotesi di esonero per motivi oggettivi differenti da quelle regolate dall'art. 26 cit., opera la normativa generale di cui all'art. 3, seconda parte, della l. n. 604 del 1966. In tema, invece, di esonero dal servizio per inidoneità fisica o psichica, Sez. L, n. 14113/2016, Di Paolantonio, Rv. 640466, ha chiarito la portata applicativa dell'art. 22 ter del c.c.n.l. del 16 maggio 1995 comparto Ministeri che si esprime in termini di assoluta doverosità riguardo ai comportamenti richiesti alla P.A., la quale 328 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO deve esperire ogni utile tentativo per il recupero del dipendente al servizio attivo, se del caso con mansioni diverse e, in carenza di posti e previo consenso dell'interessato, anche inferiori. L'obbligo di vagliare tutte le strade alternative, previste nello stesso c.c.n.l., prima di adottare il provvedimento di dispensa permane anche in assenza dell'iniziativa del lavoratore, non più idoneo alla mansione. E' stata esclusa da Sez. L, n. 19774/2016, Negri Della Torre, Rv. 641394, la risoluzione automatica del rapporto di lavoro nell'ipotesi di permanente inidoneità psico-fisica del lavoratore, sul presupposto che essa possa al più costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse. E' stato chiarito, infatti, che l'art. 55 octies del d.lgs. n. 165 del 2001 attribuisce all'amministrazione un diritto potestativo di recesso che le consente in ogni caso di valutare la correttezza del procedimento attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, l'adeguatezza delle motivazioni addotte, nonché l'opportunità di un'ulteriore integrazione o approfondimento. Di sicura rilevanza, inoltre, è la pronuncia di Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640001, secondo cui le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all'art. 18 della l. n. 300 del 1970 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato. La tutela del dipendente pubblico, quindi, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall'art. 18 st.lav. nel testo antecedente la riforma. A conforto di tale convincimento sono stati ritenuti elementi rilevanti: il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell'art. 1, comma 8, della l. n. 92 del 2012, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate al comma 6 dell'art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all'art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato. Con riguardo, poi, alla facoltà di collocamento a riposo d'ufficio, prevista dall'art. 72, comma 11, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in ragione del raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di quaranta anni, ad avviso di Sez. L, n. 11595/2016, Tricomi, Rv. 640007, la P.A. è tenuta a fornire una motivazione, ancor più necessaria in difetto di un formale atto organizzativo, che consenta il controllo di 329 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO legalità sull'appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita. L'assenza di motivazione costituisce, quindi, violazione dei principi generali di correttezza e buona fede, dell'imparzialità e buon andamento della P.A., delle norme imperative che richiedono la rispondenza dell'azione amministrativa al pubblico interesse e dell'art.6, comma 1, della direttiva n. 78/2000/CE. In tema di prepensionamento volontario dei dipendenti dell'ente Ferrovie dello Stato, Sez. L, n. 14210/2016, Amendola F., Rv. 640432, ha chiarito che, ai fini del computo del servizio effettivo utile alla pensione, l'art. 1, comma 4, della legge 1° giugno 1990, n. 141 distingue tra "i servizi computabili d'ufficio" e quelli relativi a periodi di servizio pregresso, per i quali, richiedendo che siano stati già "computati" sulla base della domanda dell'avente interesse, presuppone l'avvenuta adozione di un provvedimento di riconoscimento o di ricongiungimento formale. 12.9. I lavoratori disabili. Alcune importanti pronunce si segnalano in materia. In particolare, con riguardo all'assunzione, al fine di garantire l'ineludibile rispetto delle quote di riserva, secondo Sez. L, n. 12441/2016, Di Paolantonio, Rv. 640373, l'art. 16, comma 2, della l. n. 68 del 1999 va interpretato nel senso che la P.A. ha l'obbligo di assumere il disabile dichiarato idoneo, anche se non in possesso del requisito della disoccupazione prescritto dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 della stessa legge, qualora, all'esito della procedura concorsuale, non vi siano idonei in possesso del requisito. In tal modo le quote di riserva possono restare non attribuite nelle sole ipotesi in cui non vi siano "riservisti in senso stretto", né altri disabili idonei ma non vincitori. E' stato affermato, inoltre, da Sez. L, n. 14388/2016, Tria, Rv. 640568, il diritto a che l'Amministrazione consenta la concreta fruibilità dei buoni pasto al lavoratore disabile, con conseguente possibilità di ottenere il diritto al risarcimento del danno in sua mancanza. Con riferimento alla proposta di assunzione, secondo Sez. L, n. 20325/2016, Blasutto, Rv 641499, la falsa attestazione dello status di invalido, costituisce un'ipotesi di errore essenziale riconoscibile. 12.10. Contrattazione collettiva. In materia di rapporti tra contratti collettivi di diverso ambito territoriale Sez. L, n. 00355/2016, Esposito L., Rv. 638376, ha ribadito il principio 330 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO consolidato secondo cui, il contrasto va risolto non già in base al criterio della gerarchia, riconoscendo prevalenza alla disciplina di livello superiore, o temporale (criterio che, assegnando prevalenza al contratto più recente, è determinante solo nel caso di successione di contratti collettivi con identità di soggetti stipulanti, ossia del medesimo livello), ma secondo il principio di autonomia (e, reciprocamente, di competenza), alla stregua del collegamento funzionale che le associazioni sindacali pongono, con statuti o altri idonei atti di limitazione, fra i vari gradi o livelli della struttura organizzativa e della corrispondente attività. In relazione ai rapporti tra la legge e la contrattazione collettiva e alla legittimità della deroga da parte di quest'ultima di previgenti disposizioni di legge, prevista dall'art. 2 comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 10064/2016, Riverso, Rv. 639644, ha chiarito che gli artt. 116 e 117 del c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, fissando la durata dei periodi di permanenza degli insegnanti nelle scuole italiane all'estero e le cause di cessazione, disciplinano compiutamente la materia, derogando legittimamente al d.lgs. n. 297 del 1994. Sotto il diverso profilo, invece, della denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro, ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, Sez. L, n. 07671/2016, Negri DellaTorre, Rv. 639470, ha chiarito che essa è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, trattandosi di norma di stretta interpretazione. Nello stesso senso, Sez. L, n. 17716/2016, Napoletano, Rv. 641014, secondo cui l'interpretazione del contratto collettivo di ambito territoriale spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per vizio di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua. 12.11. Infortunio ed equo indennizzo. Un'importante precisazione è stata effettuata da, Sez. L, n. 12591/2016, Spena, Rv. 640335, con riguardo alle patologie con eziologia multifattoriale, secondo cui la definizione di "causa di servizio" è quella generale di cui all'art. 64 del d.P.R. n. 1092 del 1973. E', quindi, inapplicabile il principio di equivalenza delle condizioni di cui all'art. 41 c.p. e il giudizio di adeguatezza della causa deve essere compiuto verificando ex ante l'astratta idoneità di un antecedente a produrre l'evento, tenuto conto di tutte le altre circostanze di fatto concorrenti in concreto. Nelle patologie ad eziologia multifattoriale, 331 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO pertanto, ciascuna delle circostanze di fatto che, con giudizio prognostico appaiono adeguate, nel concorso con le altre, alla produzione dell'evento, è concausa della patologia. 13. Agenzia. Ragguardevole importanza riveste Sez. L, n. 00486/2016, Tria, Rv. 638520, in tema di indennità per cessazione del rapporto di agenzia. La pronuncia chiarisce che, a seguito della sentenza della CGUE, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, interpretativa degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653, ai fini della quantificazione del predetto emolumento, nel regime precedente l'accordo economico collettivo (AEC) del 26 febbraio 2002 che ha introdotto l'"indennità meritocratica", ove l'agente provi di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) ai sensi dell'art. 1751, comma 1, c.c., è necessario verificare - non secondo una valutazione complessiva ex ante dell'operato dell'agente, ma secondo un esame dei dati concreti ex post - se, fermi i limiti posti dall'art. 1751, comma 3, c.c., l'indennità determinata secondo l'accordo collettivo per gli agenti di commercio, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, in particolare, delle provvigioni che l'agente perde, sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per ricondurla ad equità. Nella specie, la Corte ha cassato la pronuncia di appello per non aver effettuato alcun accertamento del carattere equo e compensativo dell'indennità calcolata sulla base dei criteri previsti dall'AEC del 1992, solo apparentemente adeguandosi al principio di diritto espresso dalla sentenza rescindente. Un'importante "bussola" nel contesto della distinzione fra rapporto di mandato e rapporto di agenzia è offerta da Sez. L 02828/2016, Ghinoy, Rv. 638716. La pronuncia sottolinea come la qualificazione in un senso o nell'altro debba essere operata avendo riguardo principalmente al criterio della stabilità ed alla natura dell'incarico, tenendo presente che il contratto di agenzia ha ad oggetto tipicamente la promozione di affari, sicché un'attività promozionale può rientrare nello schema del mandato, e non dell'agenzia, solo se è episodica ed occasionale e, quindi, tale da esibire le caratteristiche del procacciamento di affari. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la decisione di merito che, senza approfondire l'aspetto della stabilità, aveva escluso che fossero riconducibili all'agenzia rapporti di lavoro di 332 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO promotori finanziari che presentavano gli elementi tipici del mandato. Di rilievo si mostra pure Sez. L, n. 05221/2016, Patti, Rv. 639045, secondo cui l'indennità per riduzione del portafoglio dell'agente, di cui all'art. 8 bis dell'Accordo Nazionale Agenti di Assicurazione del 28 luglio 1994, presuppone un ridimensionamento di esso disposto dal preponente, da intendersi quale diminuzione derivante da trasferimento (o frazionamento) in favore di altri agenti, come chiarito dalle eccezioni di cui ai commi 6 e 7 dello stesso articolo, relative ad ipotesi di limitata circolazione del portafoglio aziendale o di sua diversa allocazione interna, nell'ambito di eventi che non integrano perdita della disponibilità da parte del preponente. Un'utile chiarificazione dogmatica non priva di una saliente ripercussione pratica è stata resa da Sez. L, n. 17770/2016, Spena, Rv. 640999: secondo la pronuncia, la clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà, non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell' obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non-concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c. Di rilievo si palesa Sez. L, n. 20047/2016, De Gregorio, Rv 641439, asserendo che la spettanza dell'indennità di cessazione del rapporto di agenzia, ai sensi dell'art. 1751 c.c. è condizionata alla sussistenza di una duplice condizione, occorrendo, per un verso, che l'agente abbia procurato nuovi clienti o abbia sviluppato sensibilmente gli affari con quelli preesistenti, per altro verso, che permangano per il preponente sostanziali vantaggi derivanti dagli affari correlati a tali clienti. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza d'appello, che aveva ritenuto non dovuta l'indennità reclamata da una promotrice finanziaria, osservando che i clienti presso i quali quest'ultima aveva collocato prodotti finanziari e assicurativi non erano stati da lei procurati e non erano rimasti clienti dell'istituto bancario a seguito della cessazione del rapporto di agenzia. Sez. L, n. 21994/2016, Patti, in corso di massimazione, ha, poi, incisivamente osservato che l'obbligo di garanzia assunto con lo 333 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO "star del credere", ossia del rischio di inadempimento del terzo, assume quale presupposto l'autonomia contrattuale dell'agente, tale che, la società preponente non gli possa imporre di curare o di concludere affari che reputi dannosi, se non esonerandolo dalla garanzia stessa. Nondimeno, l'autonoma e spontanea assunzione di garanzia dell'agente, in funzione della stipulazione di un contratto dallo stesso procurato con un cliente ritenuto non solvibile dal preponente, per tale ragione rifiutatosi di accedere alla conclusione contrattuale e ad essa determinatosi per la sola garanzia così prestata senza alcuna propria imposizione di un vincolo coercitivo, si iscrive nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti, ai sensi dell'art. 1322 c.c. Essa infatti accede, in funzione di prestazione accessoria quale autonoma garanzia, al contratto di agenzia, senza interferire nell'equilibrio sinallagmatico delle sue prestazioni. 334 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE CAPITOLO XVII PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE (di Renato Perinu e Cristiano Valle)* SOMMARIO: 1. L'obbligo contributivo. – 1.1. La determinazione della retribuzione. − 1.2. I soggetti obbligati. − 2. L'esenzione dagli obblighi contributivi. − 3. I benefici contributivi. − 3.1. I lavoratori esposti (all'amianto, al cloro, nitro ed ammine). − 4. Gli sgravi. − 5. Accertamento e riscossione dei crediti contributivi. − 6. La prescrizione dei crediti contributivi. − 7. Sanzioni civili. − 8. Omesso versamento della contribuzione. − 9. Risarcimento del danno da omissione contributiva. − 10. Le prestazioni assistenziali. − 10.1. Azione di mero accertamento e profili processuali. − 10.2. Indennità di accompagnamento. − 10.3. Pensione d'inabilità civile ed assegno d'invalidità civile. − 10.4. Assegno mensile di assistenza in favore dei sordomuti. − 10.5. Reddito minimo d'inserimento. − 10.6. Assegno per il nucleo familiare. − 10.7. Indennizzo da emotrasfusione. − 10.8. Prestazioni a carico del S.S.N. − 10.9. Assegno sociale. − 10.10. Permessi per l'assistenza ai disabili. – 10.11. Benefici in favore delle vittime del dovere. - 11. L'indebito previdenziale. − 12. Le prestazioni previdenziali dell'INPS. – 12.1. Questioni procedimentali e sostanziali. − 12.2. Assegno di invalidità. − 12.3. Pensione di reversibilità. − 12.4. Equiparazioni, ricongiunzioni e cumuli. − 12.5. Indennità di mobilità. − 12.6. Indennità di disoccupazione. − 12.7. Indennità di mobilità. − 13. Le tutele dellINAIL. − 13.1. I principi generali. − 13.2. Il regresso. − 13.3. Il danno differenziale. − 14. La previdenza di categoria. − 14.1. ENASARCO. – 14.2. INPGI. − 14.3. Cassa Nazionale Forense. − 14.4. Cassa Dottori Commercialisti. – 14.5. Cassa di previdenza ragionieri. – 15. La previdenza complementare. − 15.1 Il Fondo di garanzia dell'INPS. − 15.2. Il Fondo per impiegati di esattorie e ricevitorie. 1. L'obbligo contributivo. 1.1. La determinazione della retribuzione. Con particolare riferimento alla disciplina prevista dal d.m. Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 28 aprile 2000, n. 158, istitutivo, presso l'INPS, del "Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione e qualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito", Sez. L, n. 13873/2016, D'Antonio, Rv. 640456, ha affermato che, ai fini della determinazione della retribuzione utile, su cui deve essere calcolata la contribuzione per i periodi di erogazione straordinaria di sostegno al reddito, occorre fare riferimento alla regole previste dall'art. 10, commi 12 e 7, del d.m. medesimo (l'ultima mensilità di retribuzione percepita dall'interessato, secondo il criterio comune del 1/360 della retribuzione annua per ogni giornata) e non agli accordi raggiunti tra lavoratore ed istituto di credito. Sez. L, n. 17162/2016, Berrino, Rv. 640895, sempre con riguardo alla disciplina di cui al citato d.m. n. 158 del 2000, ha * Renato Perinu paragrafi da 12 a 15, Cristiano Valle paragrafi da 1 a 11. 335 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE ritenuto che la contribuzione figurativa, prevista nel quadro dei processi di agevolazione all'esodo del personale ammesso a fruirne, con erogazione in via straordinaria di assegni straordinari per il sostegno al reddito, è obbligatoria, perché come tale prevista nell'art. 2, lett. d), della legge 23 dicembre 1996, n. 662, espressamente richiamato dall'art. 5 del d.m. citato. Secondo Sez. L, n. 13578/2016, De Gregorio, Rv. 640469, l'art. 12, comma 4, lett. c) della legge 30 aprile 1969, n. 153, che esclude dall'imponibile contributivo "i proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento danni" è norma speciale e, quindi, prevalente sulla disciplina fiscale di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, con la conseguenza che non sono assoggettabili a contribuzione previdenziale le somme corrisposte al lavoratore a titolo di risarcimento del danno da demansionamento. Con riferimento al sistema contributivo dell'ENPAM, Sez. L, n. 11254/2016, Lorito, Rv. 639840, ha affermato che il contributo del due per cento, dovuto dalle società di capitali ai sensi dell'art.1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243, ha come base di calcolo il fatturato annuo attinente le prestazioni specialistiche rimborsate dal S.S.N. ed effettuate con l'apporto di medici o odontoiatri operanti con le società in forma di collaborazione autonoma libero professionale, tenuto conto dell'abbattimento forfettario per costo dei materiali e spese generali ex d.P.R. nn. 119 e 120 del 23 marzo 1988 e con esclusione del fatturato attinente a prestazioni specialistiche rese senza l'apporto di medici o odontoiatri. Il profilo temporale del criterio del cd. minimale retributivo – secondo cui l'obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro va determinata in relazione al parametro minimo virtuale del c.c.n.l. di categoria - è stato esaminato da Sez. L, n. 04926/2016, Spena, Rv. 639153, che ha fissato al 1° gennaio 1989 la data di inizio del suo regime di applicabilità, e ciò in forza dell'art. 1, comma 2, della legge 7 dicembre 1989, n. 389, che ha disposto la salvezza degli effetti prodotti dai decreti legge non convertiti n. 548 del 30 dicembre 1988, n. 110 del 28 marzo 1989 e n. 279 del 29 maggio 1989. Sez. L, n. 17531/2016, Berrino, Rv. 641180, ha ritenuto che il già richiamato principio del cd. minimo retributivo imponibile è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali, sia nel caso in cui il datore di lavoro paghi di meno la prestazione lavorativa a pieno 336 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE orario, sia nel caso di prestazione a orario ridotto, rispondendo tale parificazione alla finalità costituzionale di assicurare comunque un minimo di contribuzione dei datori di lavoro al sistema della previdenza sociale. Con riferimento all'individuazione della base imponibile per la determinazione dei contributi dovuti in relazione alla posizione di lavoratori italiani che prestano attività lavorativa all'estero, Sez. L, n. 17646/2016, Ghinoy, Rv. 640998, ha affermato che deve aversi riguardo alla retribuzione effettivamente corrisposta e non alle retribuzioni convenzionali individuate con i d.m. richiamati dall'art. 4, comma 1, del d.l. 31 luglio 1987, n. 317, conv. con modif. in legge 3 ottobre 1987, n. 398, non essendo applicabile l'art. 48, comma 8 bis del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917(poi divenuto art. 51 per effetto del d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344) introdotto dall'art. 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 42, che opera esclusivamente ai fini fiscali e non incide sulla determinazione della retribuzione imponibile. In materia di retribuzione imponibile (e di diritto agli sgravi), Sez. L, n. 02112/2016, Esposito L., Rv. 638700, ha precisato che la fiscalizzazione degli oneri sociali, presupponendo la verifica in concreto dell'adempimento da parte del datore di lavoro, non compete in relazione alle retribuzioni corrisposte, e denunciate agli istituti previdenziali, in misura non inferiore a quella minima prevista dai contratti collettivi ma in ritardo rispetto alla scadenza, trattandosi d'inadempimento dell'obbligo contrattuale che incide sull'effettiva consistenza dell'emolumento. Consolidando un orientamento settoriale, relativo all'edilizia, Sez. L, n. 22314/2016, Berrino, Rv. 641426, ha riaffermato che qualora l'Inps pretenda differenze contributive da impresa edile sulla retribuzione virtuale ai sensi dell'articolo 29 del d.l. 23 giugno 1995, n. 244, conv. con modif. in legge 8 agosto 1995, n. 341, il relativo onere probatorio è assolto mediante l'indicazione dell'attività edile espletata, e con l'invocazione dell'articolo 29 cit., con la conseguenza che è onere dell'impresa edile allegare, e provare, le ipotesi eccettuative dell'obbligo contributivo previste dallo stesso articolo 29 e dal d.m. cui esso rinvia, e il giudice di merito è tenuto a motivare con precisione l'ipotesi eccettuativa ricorrente nella specie. 1.2. I soggetti obbligati. Ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto alla contribuzione, Sez. L, n. 06180/2016, Amendola F., Rv. 639161, ha, con riferimento ai lavoratori 337 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE socialmente utili, statuito che la parte essenziale del compenso per l'opera prestata è a carico dello Stato in virtù di convenzioni tra le Regioni e il Ministero del lavoro, che dispongono il trasferimento di fondi statali vincolati alla realizzazione di misure di politica attiva dell'impiego, ai sensi dell'art. 45, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144, cosicché, non essendo configurabile un rapporto di lavoro subordinato, l'ente beneficiario - utilizzatore della prestazione che legittima la pretesa creditoria nei confronti della Regione - è un mero delegato al pagamento, in quanto estraneo alla determinazione dell'emolumento e tenuto solo al rendiconto, all'eventuale restituzione di somme residue, all'importo integrativo per le ore eccedenti quelle così remunerate, nonché agli oneri relativi all'assicurazione obbligatoria presso l'INAIL e alla responsabilità civile verso terzi. Secondo Sez. L, n. 03835/2016, Di Paolantonio, Rv. 638952, nelle società in accomandita semplice, in forza dell'art. 1, comma 203, della l. n. 662 del 1996, che ha modificato l'art. 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, e dell'art. 3 della legge 28 febbraio 1986, n. 45, la qualità di socio accomandatario non è sufficiente a far sorgere l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui prova è a carico dell'istituto assicuratore. All'orientamento ha dato continuità, ribadendo il richiamato principio di diritto, Sez. L, n. 23360/2016, Doronzo, in corso di massimazione, che, con riferimento ad attività consistente nella mera riscossione dei canoni di un immobile affittato ha affermato che essa non costituisce di norma attività d'impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarlo sia una società commerciale, salvo che sia data prova che costituisca attività commerciale d'intermediazione immobiliare, non potendo, l'eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell'art. 2248 c.c., trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui mancano i presupposti propri. Con riferimento alla materia dei servizi in house, Sez. L, n. 04274/2016, De Gregorio, Rv. 639000, ha ritenuto che la mera partecipazione di un ente pubblico ad una s.p.a., finalizzata alla gestione di un servizio pubblico secondo detta modalità (in house), non è sufficiente a determinare la natura pubblica dell'organismo ai fini previdenziali (nella specie è stata cassata la decisione di merito che aveva ritenuto sottratta all'obbligo del versamento dei contributi 338 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE cd. minori una società a capitale pubblico che non prevedeva per statuto il divieto di cessione delle partecipazioni ai privati). Ugualmente, avuto riguardo ai profili pubblicistici dell'ente, Sez. L, n. 00600/2016, Napoletano, Rv. 638232, ha affermato che il carattere pubblico di una società, rilevante ai fini dell'esenzione contributiva, va individuato verificando la funzione ed i limiti del potere di controllo pubblico sulla gestione e, pertanto, le società a capitale misto sono tenute al versamento dei contributi cd. minori (per assegni familiari, malattia, maternità e tfr), in quanto in esse l'ente pubblico partecipante è soggetto alle evenienze della dialettica societaria, nell'esercizio del potere decisionale e nell'organizzazione aziendale, senza l'autonomia propria dei casi in cui detenga la totalità del pacchetto azionario. In tema di "doppia iscrizione", Sez. 6-L, n. 00873/2016, Marotta, Rv. 638344, ha ritenuto che l'esercizio di attività in forma d'impresa ad opera di commercianti, di artigiani, ovvero di coltivatori diretti in contemporanea allo svolgimento di attività autonoma, per la quale è obbligatoriamente prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui all'art. 2, comma 26, della l. 8 agosto 1995, n. 335, impone, ai fini della "doppia iscrizione", l'effettiva "coesistenza" delle due distinte attività (quali il commercio e l'amministrazione societaria), ognuna delle quali dev'essere valutata, ai fini della sussistenza degli obblighi contributivi, secondo gli ordinari criteri, non applicandosi il parametro dell'attività "prevalente" di cui all'art. 1, comma 208, della l. n. 662 del 1996. L'assoggettamento a contribuzione previdenziale di una società cooperativa non comporta – secondo Sez. L, n. 16356/2016, Berrino, Rv. 640853 - automaticamente la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra essa ed il socio, in quanto il riconoscimento, in favore dei soci delle cooperative, di una tutela previdenziale assimilabile a quella propria dei lavoratori subordinati, con il corrispondente obbligo della società di versare la contribuzione, presuppone che il giudice accerti che il lavoro svolto dai soci sia prestato in maniera continuativa e non saltuaria e non si atteggi quale prestazione di lavoro autonomo. 2. L'esenzione dagli obblighi contributivi. Circa l'applicabilità o meno della nuova disciplina degli ammortizzatori sociali, Sez. 6-L, n. 26016/2015, Pagetta, Riv. 638061, ha affermato che le società partecipate a capitale misto non beneficiano dell'esonero dall'obbligo contributivo per cig e cigs di cui all'art. 3 del d.lgs. C.p.S. 12 agosto 1947, n. 869 (ora abrogato ma) ratione 339 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE temporis vigente, che resta riservato alle imprese industriali degli enti pubblici a partecipazione totalitaria, senza che assuma rilievo la disciplina di cui al d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, che ha introdotto un sistema di ammortizzatori sociali nuovo, unitario ed autonomo rispetto a quello previgente, avendo il legislatore ridefinito i criteri di concessione ed utilizzo della cig, con semplificazione delle procedure burocratiche ed introduzione di un meccanismo di responsabilizzazione delle imprese che vi ricorrono, a carico delle quali è previsto un contributo aggiuntivo, sicché dalla nuova disciplina non possono trarsi, neppure in via interpretativa, indicazioni sulla portata della normativa abrogata. 3. I benefici contributivi. Sez. L, n. 12603/2016, Cavallaro, Rv. 640425, precisa che per le agevolazioni contributive di cui all'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, di estensione a favore dei soggetti colpiti dagli eventi alluvionali del novembre 1994 dei benefici di cui all'art. 9, comma 17, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il termine decadenziale del 31 luglio 2007 - per la presentazione delle domande, fissato a seguito di proroga di cui all'art. 3 quater del d.l. 28 dicembre 2006, n. 300, conv. con modif. nella legge 26 febbraio 2007, n. 17 - si applica anche alle imprese che abbiano già versato i contributi previdenziali, ritenendosi irragionevole una distinzione tra coloro che non li abbiano corrisposti e coloro che, invece, abbiano già effettuato il pagamento, in quanto la locuzione "regolarizzare la posizione", di cui all'art. 4, comma 90, della l. n. 350 del 2003, include sia l'ipotesi dell'esborso non ancora effettuato che quella in cui questo sia avvenuto, senza che rilevi che la definizione della posizione previdenziale intervenga mediante il pagamento (del dieci per cento del dovuto) ovvero il rimborso (del novanta per cento del versato), purché nel rispetto degli stessi termini di decadenza previsti dalla legge (l'orientamento è ribadito da Sez. L, n. 24988/2016, Doronzo, in corso di massimazione). Con riferimento alle dette agevolazioni di cui alla l. n. 350 del 2003, Sez. L, n. 13458/2016, Spena, Rv. 640271, ha precisato che esse, pur realizzando, secondo la Decisione della Commissione UE del 14 agosto 2014, aiuti di Stato, ai sensi dell'art. 107, par. 1, del T.F.U.E., possono essere ugualmente concesse qualora l'aiuto individuale rientri nei limiti del regolamento UE de minimis applicabile (nella specie, il n. 1407 del 2013) oppure possa rientrare nella deroga prevista dall'art. 107, par. 2, del T.F.U.E; in termini si veda anche Sez. L, n. 21895/2016, Cavallaro, in corso di massimazione. 340 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE Sez. L, n. 24809/2016, Cavallaro, in corso di massimazione, ha escluso che le agevolazioni di cui all'art. 4, comma 90, della l. n. 350 del 2003 possano applicarsi anche alle Pubbliche Amministrazioni, affermando che il termine "soggetti" sulla base di una lettura sistematica che lo rapporti non solo alle altre disposizioni del d.l. n. 646 del 1994 ma anche al complesso delle disposizioni che concernono gli interventi straordinari istituiti per fronteggiare le calamità naturali, non le include nel novero dei beneficiari. In tema di contribuzione figurativa per servizio militare, Sez. L, n. 17312/2016, Doronzo, Rv. 640883, affrontando la materia a seguito delle modifiche di cui alla l. n. 335 del 1995, ha affermato che l'art. 2 di detta legge, pur estendendo l'assicurazione obbligatoria per la invalidità e vecchiaia ai lavoratori iscritti alla gestione separata, non ne comporta una assoluta equiparazione a quelli subordinati, rientrando nella discrezionalità del legislatore differenziare le posizioni attesa la loro radicale diversità, sicché, ai fini del riconoscimento della contribuzione figurativa per il periodo di svolgimento del servizio militare, sia volontario che obbligatorio, il tenore letterale dell'art. 49 della l. n. 153 del 1969 - che espressamente richiede l'iscrizione all'assicurazione obbligatoria per poter richiedere il computo del periodo in questione - non consente un'interpretazione estensiva in favore dei lavoratori parasubordinati, né, per il carattere eccezionale della norma citata - che ritiene utili ai fini di pensione periodi per i quali non sono stati versati contributi assicurativi - ne è possibile una interpretazione analogica. Sez. L, n. 05318/2016, Cavallaro, Rv. 639098, ritiene che per la fruizione dei benefici contributivi in favore dei datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà, in relazione agli accordi di riduzione dell'orario di lavoro, di cui all'art. 5 del d.l. 20 maggio 1993, n. 148, conv. con modif. in legge 19 luglio 1993, n. 236, è necessaria un'apposita domanda amministrativa, distinta da quella di conguaglio con le somme anticipate a titolo di cigs, atteso che si tratta di un beneficio autonomo, di cui è titolare l'impresa e non, invece, il lavoratore, che avrà azione verso l'ente previdenziale nel caso in cui il datore di lavoro non gli anticipi il trattamento. Con riferimento ai benefici contributivi in favore di perseguitati politici e razziali, Sez. L, n. 15633/2016, Berrino, Rv. 640723, ha ribadito, come da orientamento già affermato negli anni '90, che la possibilità di riconoscimento di una contribuzione figurativa, prevista dall'art. 5 della legge 10 marzo 1955, n. 96 (come sostituito dall'art. 2 della legge 22 dicembre 1980, n. 932) 341 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE presuppone la preesistenza di un rapporto di lavoro e, dunque, di un rapporto assicurativo rimasto interrotto a causa degli atti persecutori. Sullo stesso tema, Sez. L, n. 20054/2016, Cavallaro, Rv. 641441, afferma che fini della concessione del beneficio della contribuzione figurativa, di cui all'art. 5 della l. n. 96 del 1955, la deliberazione della commissione di cui all'art. 8 della stessa legge è un provvedimento di certazione di fatti giuridicamente rilevanti, in quanto attributiva al soggetto di una qualificazione giuridica destinata ad operare in altri rapporti giuridici intersoggettivi e, in quanto tale obbliga i partecipanti ad essi ad assumere come certo ciò che vi è enunciato, ma non ha un'efficacia vincolante nei confronti dell'INPS ai fini della ricostruzione della pensione, essendo comunque necessario il concorso degli ulteriori requisiti di cui alla legge 15 febbraio 1974, n. 36. La stessa pronuncia, Rv. 641442, ha precisato che la locuzione, di cui all'art. 8 della l. n. 36 del 1974, "superstiti aventi diritto" deve essere interpretata, per ragioni di ordine logico-sistematico – in quanto collocata in un insieme di precetti volti ad assicurare, a favore dei lavoratori il cui rapporto di lavoro fosse stato risolto per motivi politici o sindacali, la "ricostruzione del rapporto assicurativo obbligatorio" e dovendosi ricondurre la materia pensionistica ad un sistema unitario, caratterizzato da regole per quanto possibili uniformi -, nel senso di cui all'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 (quale risultante dalla modifica apportata dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903), quale ricomprendente il coniuge, i figli minori e quelli maggiorenni ma inabili al lavoro che fossero a carico del de cuius, e, quindi, in un significato più ristretto di quello di "eredi". Sez. L, n. 10946/2016, Doronzo, Rv. 639781, ha affermato che ai fini del prepensionamento degli autoferrotramvieri, di cui all'art. 4 del d.l. 25 novembre 1995, n. 501, conv. con modif. in legge 5 gennaio 1996, n. 11, la maggiorazione contributiva va imputata alla quota di pensione maturata successivamente al 31 dicembre 1994, sicché ad essa deve essere applicata l'aliquota annua di rendimento del due per cento, prevista dalla normativa in vigore a tale momento. Con orientamento innovatore (non risultando precedenti in termini), Sez. L, n. 08565/2016, Balestrieri, Rv. 639588, ha ritenuto, in tema di anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, che l'art 7, comma 1, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modif. dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, in conformità al principio di non discriminazione di cui all'art. 4 della Direttiva n. 342 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 97/81/CE, come applicato dalla Corte di giustizia 10 giugno 2010 C-395/08 e C-396/08, va interpretato nel senso che, ai fini dell'acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all'inclusione anche dei periodi non lavorati, incidendo la contribuzione ridotta sulla misura della pensione e non sulla durata del rapporto di lavoro. Per Sez. L, n. 24555/2016, Berrino, in corso di massimazione, ribadendo orientamento oramai risalente (Sez. L, n. 02090/1998, Vidiri, Rv. 513055), l'impresa che chiede nei confronti dell'INPS l'accertamento della sua natura artigiana per ottenere il corrispondente inquadramento ai fini contributivi ha l'onere di provare la sussistenza degli elementi richiesti per tale inquadramento, senza potersi limitare ad invocare l'iscrizione nell'albo delle imprese artigiane che ha valore meramente indiziario e che, anche quando acquisisce valore costitutivo per effetto dell'art. 5 della l. n. 443 del 1985 può essere contestata a fini specifici, quale quello della classificazione dell'impresa agli effetti del regime previdenziale. Sez 6-L, n. 26753/2016, Mancino, in corso di massimazione (ribadendo quanto a Sez. L, n. 03044/2012, Mancino, Rv. 620909), ha escluso che in tema di pensione di vecchiaia il requisito contributivo in regime di favore per i lavoratori discontinui possa essere esteso ai lavoratori domestici. 3.1. I lavoratori esposti (all'amianto, al cloro, nitro ed ammine). Numerose le pronunce in materia. Sez. L, n. 16552/2016, Berrino, Rv. 640845, ha ribadito che il beneficio di cui all' 3, comma 133, della l. n. 350 del 2003 in favore dei lavoratori esposti al rischio chimico da cloro, nitro e ammine dello stabilimento ex ACNA di Cengio spetta anche a coloro che, pur non essendo dipendenti di detta azienda, hanno lavorato in quel luogo, ivi comandati da imprese esterne, giacché la legge si riferisce ai "lavoratori" e non ai dipendenti, ed allo "stabilimento" e non alla società Acna, in conformità alla ratio legis di agevolare indistintamente coloro che sono stati esposti al rischio morbigeno, accelerando, in via generale, la maturazione dei requisiti di pensionamento. Consolidando un orientamento risalente al decennio precedente, Sez. L, n. 16553/2016, Berrino, Rv. 640849, ha escluso che la maggiorazione del periodo lavorativo ai fini pensionistici di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, sia applicabile ai lavoratori autonomi, ribadendo che per essi non ha 343 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE riscontro la finalità di agevolazione del prepensionamento a fronte del rischio di disoccupazione per cessazione dell'attività delle aziende obbligate alla dismissione dell'amianto del ciclo produttivo, non essendo essi vincolati ad una determinata attività ed in grado di sostituire, nell'espletamento del lavoro, i materiali contenenti la sostanza nociva con altri reperibili sul mercato. La stessa pronuncia ha escluso dubbi di costituzionalità della norma, in considerazione delle peculiarità che differenziano le due categorie di lavoratori e delle particolari condizioni in cui operano i prestatori di lavoro subordinato, costretti a svolgere la loro attività in ambienti e con orari stabiliti dal datore di lavoro ed impossibilitati a ricorrere a misure di protezione contro l'azione nociva dell'amianto, diverse da quelle apprestate dall'azienda. In relazione agli oneri probatori per ottenere il riconoscimento dei benefici di cui all'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, Sez. L, n. 00588/2016, Mammone, Rv. 638236, ha affermato che il giudice di merito deve, accertare, nel rispetto dei criteri di ripartizione dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c., se colui che ha proposto la domanda, oltre ad aver provato la specifica lavorazione praticata, abbia anche dimostrato che nell'ambiente nel quale la svolgeva era presente una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori limite. Sez. L, n. 17376/2016, Cavallaro, Rv. 640884, ha ritenuto sussistere ipotesi di mutatio libelli qualora l'istante dapprima rivendichi i benefici di cui all'art. 13 della l. n. 257 del 1992, allegando la qualità di lavoratore autonomo, e successivamente deduca quella di lavoratore subordinato, trattandosi di azione personale – in quanto volta al pagamento di una prestazione previdenziale – e, quindi, diversamente da quanto accade per le azioni reali, connessa ad un fatto insuscettibile di mutazione senza che muti la domanda, anche qualora il fatto costitutivo presupponga la sussistenza di una certa qualifica normativa. Avuto riguardo all'arco temporale, Sez. L, n. 18863/2016, Berrino, Rv. 641206, ha interpretato l'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 nel senso che ai fini della rivalutazione contributiva rileva il solo periodo di lavoro di effettiva e provata esposizione al rischio e non già l'intero periodo coperto da assicurazione obbligatoria contro l'amianto, sicché, in caso di lavoratori marittimi, non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per l'applicazione analogica dell'art. 24 della legge 26 luglio 1984, n. 413 - che prevede l'accredito di una retribuzione figurativa per la concessione delle prestazioni pensionistiche per i giorni di sabato, domenica, festivi e 344 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE di ferie trascorsi durante l'imbarco - dovendosi escludere che un periodo di tempo virtuale ai fini pensionistici possa essere equiparato a quello di effettiva esposizione all'amianto. Sez. L, n. 17395/2016, Doronzo, Rv. 640677, in controversia concernente i benefici da esposizione all'amianto, ha affermato che il principio della rilevabilità d'ufficio della mancata presentazione della domanda amministrativa, posto a tutela dell'interesse pubblico, deve essere coordinato con quello della rituale e tempestiva allegazione dei fatti che determinano l'improponibilità della domanda, sicché la relativa questione non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora implichi indagini di fatto non indicate nel ricorso. Sez. 6-L, n. 11201/2016, Mancino, Rv. 639835, fa decorrere il termine di decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 dalla data di presentazione della domanda diretta ad ottenere la maggiorazione contributiva e non da quella dell'erogazione della prestazione oggetto di rivalutazione Il diritto alla rivalutazione monetaria sugli incrementi pensionistici tardivamente corrisposti, essendo necessaria la domanda amministrativa ai fini del riconoscimento del beneficio in oggetto, decorre, secondo Sez. 6-L, n. 08653/2016, Mancino, Rv. 639585, dal centoventesimo giorno dalla presentazione della stessa, allo spirare dello spatium deliberandi in favore dell'INPS di cui all'art. 7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, fermo in ogni caso il divieto di cumulo di cui all'art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991. 4. Gli sgravi. Diverse le pronunce in materia: con riferimento agli sgravi per le aziende industriali che impiegano dipendenti nei territori di cui all'art. 1 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, Sez. L, n. 02208/2016, Tricomi I., Rv. 638656, ha escluso che possa usufruirne, ai sensi dell'art. 59 dello stesso d.P.R., una società farmaceutica che, pur impiegando informatori scientifici che operavano nelle regioni meridionali ed erano ivi residenti, aveva altrove i propri insediamenti produttivi. Sez. L, n. 15688/2016, Doronzo, Rv. 640795, ha affermato che la concessione degli sgravi contributivi di cui all'art. 3, comma 6, della l. 23 dicembre 1998, n. 448, presuppone che il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel periodo agevolato stante la finalità della legge di favorirne l'incremento, cosicché il venir meno di detta condizione determina l'integrale perdita del diritto al beneficio, avendo la norma natura eccezionale e, quindi, ove diversamente interpretata, 345 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE si porrebbe in contrasto con i vincoli in tema di aiuti di Stato imposti dalla Commissione UE. Ancora con riferimento all'incremento occupazionale, Sez. L, n. 18402/2016, Ghinoy, Rv. 641138, (riprendendo l'orientamento di Sez. L, n. 17071/2007, Miani Canevari, Rv. 599310) ha ritenuto che il riconoscimento dei benefici previsti dall'art. 8, commi 2 e 4, della l. n. 223 del 1991, in favore delle imprese che assumono personale licenziato a seguito di procedura di mobilità ex artt. 4 e 24 della stessa legge, presuppone che sia accertato che la situazione di esubero sia effettivamente sussistente e che l'assunzione di detto personale da parte di una nuova impresa risponda a reali esigenze economiche e non concreti condotte elusive finalizzate al solo godimento degli incentivi, sicché il diritto ai benefici va escluso ove tra le due imprese sia intervenuto un contratto di affitto del complesso dei beni aziendali, idoneo a configurare un trasferimento di azienda che, ai sensi dell'art. 2112 c.c., importa la continuazione dei rapporti di lavoro con l'acquirente, non avendo rilievo il disposto dell'art. 47, comma 5, della l. n. 428 del 1990, che, nell'escludere l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. in caso di trasferimento di azienda in crisi, disciplina la posizione contrattuale dei lavoratori nel passaggio alla nuova impresa, senza aver riguardo agli aspetti contributivi. Sez. L, n. 07124/2016, Balestrieri, Rv. 639592, ha precisato che lo sgravio di cui all'art. 59, comma 9, del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (già art. 14 della legge 2 maggio 1976, n. 183), in quanto concesso al fine dell'incremento occupazionale in zone svantaggiate, spetta anche ai lavoratori assunti con contratti di formazione e lavoro stipulati nei limiti temporali fissati dalla legge premiale, ma convertiti in rapporti a tempo indeterminato successivamente alla data ultima di stipula fissata dalla legge stessa. Da segnalare Sez. L, n. 12683/2016, Doronzo, Rv. 640257, laddove afferma, con riferimento agli sgravi contributivi di cui all'art. 8, comma 9, della l. 24 dicembre 1990, n. 407, che l'omissione della comunicazione telematica (nella specie, modello "unificato lav") secondo le modalità di cui al d.m. 30 ottobre 2007, emanato in attuazione dell'art. 4 bis del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181, introdotto dall'art. 6, comma 1, del d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, non comporta perdita del beneficio, non prevedendo le norme richiamate alcuna comminatoria di decadenza, ma solo, in forza dell'art. 19 del d.lgs. n. 276 del 2003, l'applicazione di una sanzione amministrativa. 346 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 5. Accertamento e riscossione dei crediti contributivi. Sez. L, n. 04032/2016, D'Antonio, Rv. 639164, di conferma della pronuncia di merito che aveva escluso la correttezza dell'iscrizione a ruolo effettuata dall'INAIL sulla base di un verbale di accertamento dell'INPS non esecutivo, in quanto impugnato in un giudizio ancora pendente nei confronti del solo ente accertatore, afferma che l'iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali è subordinata, ai sensi dell'art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 46 del 1999, all'emissione di un provvedimento esecutivo del giudice ove l'accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti all'autorità giudiziaria, senza distinguere se esso sia eseguito dall'ente previdenziale ovvero da altro ufficio pubblico e senza richiedere la conoscenza, da parte dell'ente creditore, dell'impugnazione proposta. Con riferimento alla procedura di accertamento Sez. L, n. 01974/2016, Ghinoy, Rv. 638606, ha ribadito che il verbale di accertamento relativo ad omissioni contributive, ritualmente notificato, vale a costituire in mora il contribuente e, ai sensi dell'art. 2943 c.c., interrompe il decorso del termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute. I profili processuali risultano più specificamente affrontati dalle seguenti pronunce: Sez. L, n. 03486/2016, Manna A., Rv. 638963, ha ribadito che l'opposizione alla cartella esattoriale introduce un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il rapporto previdenziale, sicché, intervenuta la decadenza per tardiva iscrizione a ruolo dei crediti, l'INPS, pur non potendo più avvalersi del suddetto titolo esecutivo, può chiedere la condanna al corrispondente adempimento nel medesimo giudizio, senza che ne risulti mutata la domanda; la precedente Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, ha affermato che nell'opposizione a cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali proposta ai sensi dell'art. 615 c.p.c., sussiste la legittimazione passiva necessaria del concessionario allorché si deduca un vizio di notifica degli atti (nella specie, l'omessa tempestiva notifica della cartella determinante la prescrizione del credito) che, in caso di accoglimento dell'opposizione, potrebbe incidere sul rapporto con l'ente impositore, titolare della potestà sanzionatoria sottesa al conseguente inserimento nei ruoli trasmessi. Sez. 6-L, n. 25928/2016, Arienzo, in corso di massimazione, ha affermato che il giudice di appello, a fronte di una modifica della prospettazione dell'opponente, che aveva precisato in sede di gravame la data di notifica della cartella esattoriale sulla base della documentazione già 347 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE allegata in prime cure (non incorrendo, quindi, secondo la S.C., nei divieti di cui all'art. 345 c.p.c.), è tenuto ad attivare i poteri istruttori ufficiosi, con conseguente ammissibilità della produzione della stampa di una visura del percorso della raccomandata spedita dal concessionario, tratta dal sito internet di Poste italiane. Sempre con riguardo ai profili processuali, e senza specifici precedenti in termini, Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, ha ritenuto che nell'opposizione allo stato passivo fallimentare promossa dal concessionario dei servizi di riscossione di contributi previdenziali ex art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria, o eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, unico reale legittimato a stare in giudizio, essendo quella del concessionario una legittimazione meramente processuale. Sez. L, n. 06585/2016, Tria, Rv. 639243, ha affermato che la neutralizzazione dei periodi di sospensione del rapporto assicurativo previdenziale obbligatorio, di cui all'art. 37 del d.p.r. 26 aprile 1957, n. 818 per le obiettive situazioni impeditive ivi indicate, è espressione di un principio generale del sistema previdenziale, diretto ad impedire che il lavoratore perda il diritto alla prestazione previdenziale allorché il versamento contributivo sia carente per ragioni a lui non imputabili. Ne consegue che: 1) non è necessario che la causa impeditiva operi nel corso di un rapporto di lavoro, in atto sospeso; 2) in caso di mancata maturazione del requisito specifico, consistente nella contribuzione richiesta nell'ultimo quinquennio precedente la domanda per la pensione d'invalidità, è sufficiente il requisito contributivo cd. generico; 3) la normativa si applica anche nel caso di contratto a termine purché la causa di sospensione si verifichi dopo l'inizio del rapporto; 4) qualora la causa impeditiva sia la malattia, non è necessario che essa sia definitivamente invalidante. Con riferimento ai contributi previdenziali dovuti alla gestione artigiani – ma con affermazione suscettibile di estensione generalizzata – Sez. L, n. 07980/2016, Esposito L., Rv. 639379, ha escluso che l'assicurato responsabile dell'omissione possa invocare l'esercizio dei poteri coercitivi dell'INPS al fine di pretendere, successivamente, la fruizione degli effetti della contribuzione omessa. La successiva Sez. L, n. 07981/2016, Esposito L., Rv. 639249 ha statuito che la diversità dei periodi di debenza, pur nella identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a far 348 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti, sicché il giudice non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro l'obbligo contributivo si atteggi in un determinato modo, in quanto per questa parte giudicherebbe di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti e, pertanto, ha escluso che in un giudizio relativo al mancato versamento di contributi per la cig e mobilità avesse effetto preclusivo la sentenza passata in giudicato che, con riferimento ad un periodo antecedente, aveva negato ad una società, in quanto a capitale misto, l'esenzione prevista dall'art. 3 del d.lgs. C.p.S. n. 869 del 1947 per le imprese industriali degli enti pubblici. In materia di emersione del lavoro irregolare, Sez. L, n. 03821/2016, Esposito L, Rv. 638960, ha ritenuto che l'art. 1 della legge 18 ottobre 2001, n. 383 è volto, in un'ottica costituzionale di tutela dei diritti previdenziali ed assistenziali, a dare continuità al lavoro irregolare svolto in epoca precedente alla denuncia di emersione, che mira a favorire, e presuppone la prosecuzione effettiva ed almeno annuale del rapporto regolarizzato, in uno alla regolarizzazione di venti mesi per ogni anno di lavoro successivo all'emersione, cosicché l'espletamento dell'attività lavorativa per il suddetto arco temporale dopo la denuncia, costituisce requisito indispensabile per il godimento dei benefici contributivi, non rilevando, tuttavia, la proposizione della domanda, da parte del lavoratore, in epoca precedente al maturarsi del periodo. Il tema della sospensione dei termini per l'adempimento degli obblighi contributivi ha ancora occupato la giurisprudenza di legittimità e, con orientamento suscettibile di future applicazioni – stante, purtroppo, la notevole frequenza degli eventi sismici nel nostro paese – Sez. L, n. 02833/2016, Boghetich, Rv. 638932, ha ritenuto che il detto beneficio, per il periodo dall'ottobre 2002 al novembre 2005, disposto, a seguito del terremoto dell'ottobre- novembre 2002, dall'art. 4 del d.l. 4 novembre 2002, n. 245 conv. con modif. in legge 27 dicembre 2002, n. 286, nonché dall'art. 7 dell'ordinanza del Presidente del consiglio dei ministri n. 3253 del 2002 e dalle successive ordinanze omologhe, opera automaticamente in favore dei soggetti residenti o aventi sede operativa o legale nei territori colpiti, non costituendo la comunicazione all'INPS di volerne beneficiare una condizione per la fruizione del beneficio, né un elemento costitutivo del diritto. 349 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 6. La prescrizione dei crediti contributivi. A seguito di rimessione della Sez. 6-L, le Sez. U, n. 23397/2016, Tria, in corso di massimazione, su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato – superando così l'orientamento fatto proprio, da ultimo, da Sez. L, n. 05060/2016, Torrice, Rv. 639223 - che la scadenza del termine per proporre opposizione a cartella esattoriale, di cui all'art. 24, comma 5, del d.lgs. n.46 del 1999 - ritenuto pacificamente perentorio dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità e di merito – determina la decadenza dalla possibilità di produrre impugnazione, con conseguente irretrattabilità del credito per i contributi previdenziali, ma non comporta alcun effetto di "conversione" del termine di prescrizione breve, nella specie quinquennale ai sensi dell'art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995, in quello ordinario (decennale). Ciò in quanto l'art. 2953 c.c., che prevede tale effetto, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la cartella esattoriale, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Le S.U. hanno ritenuto di escludere detta "conversione" del termine prescrizionale anche con riferimento all'avviso di addebito dell'INPS, che dal 1° gennaio 2011 ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale dello stesso Istituto. Nella stessa pronuncia si rimarca il peculiare carattere della prescrizione in materia contributivo-previdenziale, in quanto caratterizzata da un regime di "irrinunciabilità", non essendo ammessa – in forza dell'art. 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 - la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che rispetto ad essi sia intervenuta la prescrizione, che nella materia in oggetto ha quindi, efficacia estintiva e non meramente preclusiva. Sul detto termine per la proposizione dell'opposizione nel merito, ai sensi dell'art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, Sez. L, n. 11596/2016, Riverso, Rv. 640229, nel ribadirne la natura decadenziale, ha escluso che la sospensione della riscossione del credito, disposta ai sensi dell'art. 25, comma 2, dello stesso decreto possa incidere sul suo decorso. L'INPS, secondo Sez. L, n. 08377/2016, Torrice, Rv. 639555, essendo subentrato, in forza dell'art. 19 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e dell'art. 9 sexies della legge 28 novembre 1996, n. 608, di conv. con modif. del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, a titolo universale nella posizione del soppresso S.C.A.U., è legittimato ad avvalersi dell'effetto interruttivo della prescrizione dei contributi a 350 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE seguito di verbale di constatazione di illecito amministrativo effettuato da detto ente. In tema di iscrizione nell'elenco dei lavoratori agricoli, Sez. L, n. 02739/2016, Boghetich, Rv. 638722, – fermo restando che in una controversia avente ad oggetto la prestazione previdenziale lo status di lavoratore agricolo può essere accertato solo incidentalmente – ha ribadito che l'iscrizione suddetta svolge una funzione di agevolazione probatoria ai fini dell'attribuzione delle prestazioni previdenziali, suscettibile di venire meno quando l'INPS, a seguito di controllo, disconosca l'esistenza del rapporto di lavoro, esercitando la facoltà di cui all'art. 9 del d.lgs. 11 agosto 1993, n. 375. Sez. L, n. 17095/2016, Riverso, Rv. 640787, con riferimento al regime prescrizionale dei contributi INAIL, ha ritenuto applicabile il termine quinquennale di cui all'art. 3, comma 9, della l. n. 335 del 1995, precisando che esso inizia a decorrere con riferimento alla prima rata, dall'inizio della lavorazione e, per quelle successive, dal 16 febbraio di ogni anno, in forza degli artt. 28 e 44 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, posto che alla detta data il datore di lavoro deve calcolare il premio anticipato per l'anno in corso, sulla base delle retribuzioni effettive dell'anno precedente, ed il relativo conguaglio. In complessa fattispecie relativa a contributi dovuti da società fallita ed a seguito di opposizione alla cartella esattoriale della socia dichiarata fallita in estensione, Sez. L, n. 17412/2016, Spena, Rv. 640678, ha ritenuto che la presentazione da parte dell'INPS dell'istanza di insinuazione al passivo fallimentare, equiparabile alla domanda giudiziale, determina, ai sensi dell'art. 2945, comma 2, c.c., l'interruzione della prescrizione del credito, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, anche nei confronti del condebitore solidale del fallito, ex art. 1310, comma 1, c.c., escludendo che gli effetti permanenti dell'interruzione possano collegarsi non già alla presentazione della domanda, ma alla successiva ammissione al passivo Con riferimento ai profili processuali, Sez. L, n. 23652/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha escluso l'attivabilità dei poteri istruttori del giudice ai fini dell'acquisizione, in grado di appello, di atti comprovanti l'interruzione della prescrizione da parte dell'INPS. 7. Sanzioni civili. Sul punto non si segnalano mutamenti degli orientamenti consolidati. Sez. L, n. 02112/2016, Esposito L., Rv. 638701, ha ribadito che in controversia relativa alle sanzioni 351 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE civili ed interessi per omesso versamento di contributi dovuti all'INPS possa rilevare lo ius superveniens di cui all'art. 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante norme di maggior favore per l'obbligato, atteso che nessuna delle disposizioni di detta legge induce a ritenerne la retroattività ed il riferimento del comma 18 dell'art. 116 ai crediti già accertati al 30 settembre 2000 esclude la deroga al principio di irretroattività quanto all'obbligo di immediato pagamento delle predette sanzioni, limitandosi la norma a disciplinare un meccanismo di conguagli per la differenza tra il dovuto e il calcolato ai sensi dei commi precedenti. In tema di riduzione dell'ammontare delle sanzioni civili, di cui all'art. 116, comma 15, lett. a) della l. n. 388 del 2000, secondo Sez. 6-L, n. 04077/2016, Pagetta, Rv. 639078 - per l'ipotesi in cui il ritardato o mancato versamento dei contributi derivi da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza dell'obbligo - l'integrale pagamento della contribuzione controversa costituisce un presupposto indefettibile ai fini dell'applicazione del più favorevole regime sanzionatorio. 8. Omesso versamento della contribuzione. Sez. L, n. 00838/2016, De Marinis, Rv. 638690, ha affermato che in caso di omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali all'INPGI, privatizzato ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994, la disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 116 della l. n. 388 del 2000 non si applica automaticamente poiché detto Istituto, per assicurare l'equilibrio del proprio bilancio, ha il potere di adottare autonome deliberazioni, soggette ad approvazione ministeriale, fermo l'obbligo, a norma dell'art. 76 della stessa legge, di coordinare l'esercizio di tale potere con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, ed ha ritenuto che il nuovo regime sanzionatorio è inapplicabile alle obbligazioni contributive riferite a periodi antecedenti al recepimento della disciplina da parte dell'INPGI. 9. Risarcimento del danno da omissione contributiva. Sez. L, n. 02327/2016, Esposito L., Rv. 638993, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso una responsabilità dell'INPS per aver ricevuto, e poi annullato, la contribuzione da subordinazione versata per il socio di maggioranza e membro del consiglio di amministrazione di una società - il quale si era ritrovato carente dei requisiti per la pensione di anzianità ma doveva ritenersi 352 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE consapevole dell'invalidità della contribuzione per essere stato previamente accertato in sede processuale il difetto di subordinazione - affermando che in sede di accertamento sull'affidamento incolpevole, da parte del contraente, sulla validità ed efficacia del rapporto assicurativo con la P.A., il giudice di merito, al fine di escludere o affermare la responsabilità della stessa a norma dell'art. 1338 c.c., deve verificare in concreto se l'invalidità o inefficacia del rapporto assicurativo fossero conoscibili dall'interessato, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione delle norme e della conoscenza o conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità o inefficacia. Con riferimento agli aspetti processuali, Sez. L, n. 00983/2016, Berrino, Rv. 638601, ha specificato che in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi da parte del datore di lavoro e di avvenuta prescrizione dei medesimi, ai fini della costituzione della rendita di cui all'art. 13, comma 5, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, sebbene la necessità della prova scritta riguardi solo l'esistenza del rapporto di lavoro mentre la durata e la retribuzione possono essere provati con ogni mezzo, deve logicamente escludersi che sia suscettibile di libera prova la risalenza del rapporto a un periodo antecedente a quello risultante da un attestato di addestramento professionale propedeutico. La stessa pronuncia, Rv. 638600, dando continuità a Sez. L, n. 03756/2003, ha precisato che il diritto del lavoratore di vedersi costituire, a spese del datore di lavoro, la rendita vitalizia è soggetto al termine ordinario di prescrizione, che decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell'INPS, senza che rilevi la conoscenza o meno, da parte del lavoratore, della omissione contributiva. Sez. L, n. 23282/2016, Berrino, in corso di massimazione, ha affermato, richiamando orientamento già consolidato (Sez. 6-L, n. 01660/2012, Ianniello, Rv. 621088), che la responsabilità contrattuale dell'ente previdenziale per erronee od omesse informazioni da fornire all'assicurato può configurarsi solo ove queste siano rese od omesse su specifica domanda dell'interessato e si riferiscano a dati di fatto concernenti la sua posizione assicurativa, che sono gli unici che l'ente è tenuto a comunicare ex art. 54 della l. n. 88 del 1989. Sez 6-L, n. 26666/2016, Arienzo, in corso di massimazione (ribadendo quanto a Sez. L., n. 10577/2005, Lamorgese A., Rv. 581901) ha affermato che "in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi da parte del datore di lavoro e di avvenuta prescrizione dei medesimi, la necessità della prova scritta ai fini della 353 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE costituzione della rendita vitalizia (prevista dall'art. 13, commi 4 e 5, della l. n. 1338 del 1962), è relativa solo all'esistenza del rapporto di lavoro, mentre l'estensione temporale di esso e l'importo delle retribuzioni possono essere provati con altri mezzi istruttori, anche orali. E' tuttavia escluso il ricorso ad altri mezzi di prova per accertare che il rapporto di lavoro si sia costituito prima di quanto risulta dai versamenti effettuati, quando dal documento emerga con certezza la data della costituzione del rapporto di lavoro." 10. Le prestazioni assistenziali. 10.1. Azione di mero accertamento e profili processuali. Riallacciandosi ad orientamento oramai stabile, Sez. 6-L, n. 09013/2016, Pagetta, Rv. 639682, ha ribadito che è inammissibile la domanda di accertamento dell'esistenza di un grado di invalidità finalizzata a fruire di prestazioni previdenziali o assistenziali, non essendo proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionati della fattispecie costitutiva di un diritto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva ritenuto ammissibile l'azione di mero accertamento del grado di invalidità, il cui interesse ad agire era stato specificato solo nel corso del giudizio di primo grado come volto a fruire del beneficio di cui all'art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000 o dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario). Sez. 6-L, n. 17461/2016, Arienzo, Rv. 640792, ha precisato con riferimento alla pensione d'inabilità civile, prevista dall'art. 12 della l. 30 marzo 1971, n. 118, che i requisiti relativi alle condizioni sanitarie e a quelle reddituali integrano fatti costitutivi del diritto, per cui, ove in primo grado la domanda sia stato negata in base all'esclusione del solo requisito economico, senza alcun esame di quello sanitario, l'ente convenuto, totalmente vittorioso, non ha alcun onere di impugnativa, stante il disposto dell'art. 346 c.p.c. che impone la riproposizione a pena di decadenza delle eccezioni in senso proprio e non delle mere difese - dirette ad evidenziare il difetto di un elemento costitutivo della domanda - con l'ulteriore conseguenza che, ove la corte d'appello abbia accolto la pretesa sull'esame del solo requisito reddituale, è ammissibile il ricorso per cassazione per l'omessa verifica di quello sanitario. Nello stesso senso si veda Sez. 6-L, n. 20257/2016, Garri, Rv. 641467, secondo la quale, in presenza di una domanda volta al ripristino della pensione di inabilità di cui all'art. 12 della l. n. 118 del 1971, il giudice può riconoscere la minore prestazione 354 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dell'assegno d'invalidità, di cui all'art. 13 della stessa legge, ove ravvisi la sussistenza del requisito sanitario, dovendo, tuttavia, verificare che ne sussistano anche i requisiti socio economici ugualmente previsti. Dando continuità ad orientamento risalente, Sez. L, n. 21528/2016, Doronzo, Rv. 641435, ha ribadito che, allorché il giudice di appello disponga una nuova (rispetto a quella eseguita in prime cure) ctu, l'eventuale accoglimento della tesi del secondo consulente d'ufficio presuppone necessariamente una comparazione critica delle due relazioni peritali che, peraltro, non postula, tassativamente, un'esplicita esposizione delle deduzioni dell'uno o dell'altro consulente, con analitica confutazione delle argomentazioni poste a base delle conclusioni del primo dei due ausiliari. E' tuttavia necessario, precisa la pronuncia, che il giudice del merito non si limiti ad una acritica adesione al parere del secondo ausiliario, ma valuti le eventuali censure di parte, indicando le ragioni per cui ritiene di dover disattendere le conclusioni del primo consulente, così dimostrando di avere tenuto conto delle critiche mosse dalla parte. In tema di accertamento tecnico preventivo di cui all'art. 445 bis c.p.c., secondo Sez. 6-L, n. 22721/2016, Pagetta, in corso di massimazione, la dichiarazione di dissenso che la parte deve formulare al fine di evitare l'emissione del decreto di omologa - ai sensi dei commi 4 e 5 del citato articolo - può avere ad oggetto sia le conclusioni cui e' pervenuto il c.t.u., sia gli aspetti preliminari che sono stati oggetto della verifica giudiziale e ritenuti non preclusivi dell'ulteriore corso, relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell'azione, sicché, in mancanza di contestazioni anche per profili diversi da quelli attinenti l'accertamento sanitario, il decreto di omologa diviene definitivo e non e' successivamente contestabile, né il provvedimento ricorribile ai sensi dell'art. 111 Cost. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall'INPS, avverso un decreto di omologa avente ad oggetto l'assegno di invalidità civile, in assenza di una espressa dichiarazione di dissenso per far valere la condizione ostativa del raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età alla data dell'istanza amministrativa). 10.2. Indennità di accompagnamento. Seguendo l'orientamento già manifestatosi all'inizio del corrente decennio, Sez. L, n. 00593/2016, Tricomi I., Rv. 638229, ha ribadito che il cittadino straniero, titolare del solo permesso di soggiorno, ha il 355 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE diritto di vedersi attribuire l'indennità ove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge per effetto delle pronunce n. 306 del 29 luglio 2008, n. 11 del 23 gennaio 2009, n. 187 del 2 maggio 2010 e n. 40 del 15 marzo 2013 della Corte cost., che hanno espunto l'ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno, in quanto, se è consentito al legislatore nazionale subordinare l'erogazione di prestazioni assistenziali alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, quando tali requisiti non siano in discussione, sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono, nei soli confronti dei cittadini extraeuropei, particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani. Sez. 6-L, n. 18443/2016, Pagetta, Rv. 641195, ha ritenuto che la provvidenza di cui all'art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 non è cumulabile con l'indennità per cecità totale, ai sensi dell'art.1, comma 2, lett. a), della legge 21 novembre 1988, n. 508 - salvo che il requisito sanitario sia integrato da infermità diverse - in quanto entrambe le prestazioni assistenziali assolvono alle medesime finalità di sopperire a bisogni primari di soggetti in condizioni di gravissima menomazione nello svolgimento della vita quotidiana e dei rapporti sociali. In tema di indennità di accompagnamento per i ciechi civili, Sez. L, n. 17648/2016, Riverso, Rv. 640820, ha affermato che ai fini della determinazione dell'indennità di accompagnamento spettante ai ciechi civili assoluti, deve applicarsi la tabella E, lett. a), n. 1, allegata alla l. n. 656 del 1986, relativa all'indennità di accompagnamento prevista per le persone affette da cecità bilaterale assoluta per causa di guerra, stante il testuale richiamo contenuto nell'art. 1 della legge 31 dicembre 1991, n. 429 e nell'art. 2, comma 2, della l. n. 508 del 1988; sullo stesso tema, con riferimento all'adeguamento della prestazione, Sez. 6-L, n. 14723/2016, Garri, ha specificato che qualora la richiesta sia effettuata nella vigenza dell'art. 2, comma 1, della l. n. 429 del 1991, esso deve essere effettuato sulla base di quella prevista per le persone affette da cecità bilaterale assoluta e permanente per causa di guerra e non in relazione a quella di assistenza per i grandi invalidi di guerra, con esclusione, pertanto, del diritto all'assegno integrativo di cui al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834. Sez. L, n. 24982/2016, Riverso, in corso di massimaizone, ha ecluso che l'importo dell'indennità di accompagnamento per i ciechi civili assoluti possa esser equiparato 356 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE a quello dell'assegno di superinvalidità per i ciechi di guerra, di cui all'art. 1 ed allegato 1 della l. 29 dicembre 1990, n. 422, in quanto la prestazione spettante ai ciechi civili comprende il solo importo base stabilito a titolo di indennità di accompagno e assistenza, oltre all'adeguamento, con esclusione dell'assegno di superinvalidità. Secondo Sez. L, n. 26473/2016, Berrino, in corso di massimazione, può affermarsi che l'interpretazione letterale e logica della norma di cui all'art. 14 septies, comma quarto, del d.l. n. 663 del 1979, conv. con modif. in l. n. 33 del 1980, consente di affermare che ai fini dell'individuazione del limite di reddito ivi previsto per il diritto alle prestazioni spettanti ai ciechi civili ed alle altre specificate categorie di invalidi va preso in considerazione il reddito effettivo, cioè quello imponibile agli effetti dell'imposta sul reddito delle persone fisiche al netto degli oneri deducibili. Con riferimento ai profilli processuali - e con statuizione suscettibile di estensione alle altre prestazioni assistenziali - Sez. 6-L, n. 01221/2016, Pagetta, Rv. 638284, ha ritenuto che l'ordinanza di rinnovo della consulenza tecnica di ufficio, emanata dalla corte di appello, adita per ottenere la modifica della data di decorrenza della prestazione già riconosciuta dal tribunale, deve intendersi implicitamente revocata qualora, all'esito di successiva valutazione, il relativo motivo di gravame sia dichiarato inammissibile. Sez. 6-L, n. 24184/2016, Marotta, in corso di massimazione, ha poi ritenuto spettante a soggetto invalido prima dell'inizio del rapporto assicurativo la pensione di inabilità di cui all'art. 2 della l. n. 222 del 1984, reputando irrilevante la titolarità dell'indennità di accompagnamento. Sez. L, n. 23443/2016, Doronzo, in corso di massimazione, ha affermato che l'art. 3 della l. n. 18 del 1980, nel prevederne la decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione dell'istanza amministrativa, non pone una presunzione di sussistenza, a detta data, dei presupposti per il beneficio, ma un limite temporale alla riconoscibilità di esso, sicché lo stato di infermita' mentale o di incapacità naturale del soggetto richiedente, che non determina la perdita della capacità legale della persona di compiere gli atti per il riconoscimento della prestazione, non giustifica il riconoscimento della prestazione assistenziale perun periodo antecedente a quello fissato dalla legge. 10.3. Pensione d'inabilità civile ed assegno d'invalidità civile. Sez. 6-L, n. 03027/2016, Arienzo, Rv. 638659, ha ribadito che il giudice investito della domanda di pensione di inabilità (art. 357 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 12 della l. n. 118 del 1971), per la quale risulti carente il requisito sanitario, qualora, per la percentuale accertata, ricorrano le condizioni per l'attribuzione dell'assegno di invalidità (di cui all'art. 13 della stessa legge), può riconoscere, pur in mancanza di esplicita richiesta dell'interessato, quest'ultima prestazione se sussistano i necessari requisiti socio-economici, in quanto implicitamente compresa nella più ampia domanda di pensione. In tema di pensione di inabilità, contribuendo a consolidare un precedente orientamento in materia, Sez. L, n. 12837/2016, Riverso, Rv. 640370, ha confermato che, in caso di malattie coesistenti, il danno globale non va computato addizionando le percentuali di invalidità risultanti dalla tabella di cui al d.m. Sanità del 5 febbraio 1992, bensì nella sua incidenza concreta sulla validità complessiva del soggetto, giusta previsione di cui all'art. 4 del d.lgs. 23 novembre 1988 n. 509. Sez. L, n. 21529/2016, Ghinoy, Rv. 641436, ha precisato che il reddito cui fare riferimento per la pensione d'inabilità civile è quello "imponibile" e pertanto, secondo la formulazione dell'art. 3 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), la base imponibile da assoggettare a tassazione ai fini Irpef, costituita dal reddito complessivo del contribuente al netto degli oneri deducibili indicati nell'art. 10 del TUIR (quali tra gli altri le spese mediche, gli assegni periodici corrisposti al coniuge legalmente separato, i contributi) Detta conclusione – afferma la pronuncia – posto che è il legislatore ad individuare quale debba essere il reddito rilevante per una determinata prestazione, è sostenuta dall'osservazione che nell'ambito del sistema previdenziale ed assistenziale l'art. 26 della l. n. 153 del 1969 ha escluso dal reddito computabile gli assegni familiari e il reddito della casa di abitazione, che proprio la funzione della prestazione assistenziale, di sostegno a fronte di una situazione di bisogno, impone, ove non previsto diversamente, di fare riferimento al reddito nell'effettiva disponibilità dell'assistibile, assumendo rilievo il grado di bisogno della persona, tutelato dall'art. 38 Cost., e la sua capacità contributiva, valevole in generale ai sensi dell'art. 53 Cost., che quando si è inteso includere nel reddito per una prestazione anche quello esente da imposta, ciò è stato oggetto di espressa previsione (come nel caso dell'art. 3, comma 6, l. n. 335 del 1995). Né induce a diverso avviso, conclude la S.C., l'art. 2 del d.m. n. 553 del 1992 - emanato in forza della delega di cui all'art. 3, comma 2 della l. n. 407 del 1990 – laddove prevede che debbano essere denunciati, al lordo degli oneri deducibili e delle ritenute fiscali, i redditi di qualsiasi natura, assoggettabili all'Irpef o esenti da 358 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE detta imposta, trattandosi di disciplina individuativa di oneri formali, che non può, quindi, avere alcun carattere interpretativo in ordine al requisito reddituale. Sempre in tema viene in considerazione Sez. 6-L, n. 01997/2016, Arienzo, Rv. 638713, secondo la quale, ai fini della sussistenza del requisito reddituale per l'erogazione della pensione di inabilità dal 28 giugno 2013 in poi è determinante " il solo reddito personale dell'invalido", mentre non rileva più quello degli altri componenti il nucleo familiare, giusta previsione di cui all'art. 10, comma 5, della legge 28 giugno 2013, n. 76. Per quanto riguarda la prova del requisito reddituale, Sez. 6- L, n. 09010/2016, Pagetta, Rv. 639683, ha affermato che la stessa può essere soddisfatta solo attraverso la specifica attestazione fornita dall'ufficio finanziario, attestazione rilasciata ai sensi dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, posto che le autocertificazioni possono sostituire tale attestazione solo nell'ambito del correlato procedimento amministrativo. Sul punto risulta di fondamentale importanza anche Sez. L, n. 22484/2016, Doronzo, in corso di massimazione, secondo la quale pur non possedendo l'autocertificazione valore probatorio, nel senso che non può essere posta a fondamento della decisione neppure come indizio, ciò non esclude, tuttavia «che essa possa essere utilizzata dal giudice di merito nella sua realtà fenomenica», come "documento" idoneo a sollecitare il suo potere istruttorio d'ufficio. Sez. 6-L, n. 24094/2016, Arienzo, in corso di massimazione, ha affrontato la materia dei presupposti per la revoca dell'assegno di cui all'art. 12 l. n. 118 del 1971, - con riferimento alla legislazione vigente all'epoca della domanda amministrativa – e a precedente giudicato. 10.4. Assegno mensile di assistenza in favore dei sordomuti. Sez. L, n. 22122/2016, Berrino, Rv. 641428, ha escluso la spettanza, in favore del sordomuto ultrasessantacinquenne, dell'assegno di cui all'art. 1, della legge 26 maggio 1970, n. 381, affermando trattarsi di beneficio avente funzione di integrare il presunto mancato guadagno dovuto alla condizione di minorità derivante dalla patologia, logicamente non riconoscibile ai minori degli anni diciotto ed agli ultrasessantacinquenni. 10.5. Reddito minimo d'inserimento. In materia, Sez. L, n. 20050/2016, Boghetich, Rv. 641440, ha affermato che la 359 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE presentazione di istanza di fruizione della prestazione di cui all'art. 1 del d.lgs. 18 giugno 1998 n. 237, corredata da dichiarazione (di atto notorio) concernente una situazione reddituale, del nucleo familiare, non corrispondente al vero comporta l'applicabilità della fattispecie di cui all'art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 237 del 1998, che sanziona con la revoca e la restituzione delle somme il comportamento dei beneficiari che abbiano presentato dichiarazioni mendaci (nella specie, autodichiarazione sulla mancata percezione di redditi da parte del coniuge). 10.6. Assegno per il nucleo familiare. Sez. L, n. 08573/2016, Di Paolantonio, Rv. 639587, (dando continuità ad orientamento emerso in via generale già nel 2011 – Sez. L, n. 28540/2011, Bandini, Rv. 620366 -, in ordine alla disciplina dei lavori socialmente utili e di quelli di pubblica utilità) ha precisato che il rapporto tra il disposto di cui all'art. 2 del d.lgs.1 dicembre 1997, n. 468, che delinea i settori di attività per i "progetti di lavoro di pubblica utilità", e quello di cui all'art. 3 del d.lgs. 7 agosto 1997, n. 280 diretto ad individuare i "lavori di pubblica utilità", si configura in termini di specificazione all'interno di una medesima tipologia di attività e di un'unica finalità, connessa ad obiettivi di tutela dalla disoccupazione e di inserimento nel lavoro, sicché anche ai lavoratori di pubblica utilità, ove ne ricorrano i presupposti, va riconosciuto l'assegno per il nucleo familiare, spettante ai lavoratori socialmente utili per il richiamo contenuto nell'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 468 del 1997 alle disposizioni in materia di indennità di mobilità, che ne prevedono il diritto all'art. 7, comma 10, della l. n. 223 del 1991. 10.7. Indennizzo da emotrasfusione. In tema, Sez. 6-L, Garri, n. 17800/2016, Rv. 640814, ha affermato che l'esistenza di una soglia minima di indennizzabilità, costituita dalla presenza di una patologia causalmente ascrivibile ad una emotrasfusione - dalla quale sia derivato un danno irreversibile inquadrabile, per equivalente e non in via strettamente tabellare, in una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834 - comporta che, ai fini della decorrenza del termine decadenziale di cui all'art. 3, comma 1, della l. 25 febbraio 1992, n. 210, sia decisiva la consapevolezza, da parte del richiedente l'indennizzo, del suo superamento. 360 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE Sez. L, n. 16842/2016, Blasutto, Rv. 640865, ha specificato che in tema di danni da vaccinazioni obbligatorie, gli artt. 1 e 4 della l. 29 ottobre 2005, n. 229 attribuiscono ai "soggetti danneggiati", rispettivamente, un ulteriore indennizzo aggiuntivo rispetto a quello già riconosciuto dalla l. n. 210 del 1992, nonché un assegno "una tantum" per il periodo compreso nel periodo tra il manifestarsi dell'evento dannoso e l'ottenimento dell'indennizzo, sicché entrambi operano retroattivamente attesa, quanto all'assegno, la chiara ratio della disposizione e, quanto all'ulteriore indennizzo, il suo carattere incrementale rispetto a quello di cui il soggetto è già titolare, concorrendo con questo con la medesima decorrenza. Con affermazione di carattere innovativo, in assenza di specifici precedenti in termini, Sez. L, n. 11018/2016, Amendola F., Rv. 639824, ha riconosciuto l'indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 anche in favore di cittadino italiano il quale, a seguito di interventi chirurgici all'estero, si era ivi sottoposto ad emotrasfusione, sviluppando il virus dell'epatite B, affermando che l'intervento terapeutico effettuato all'estero, a causa della necessità di sopperire a deficienze del S.S.N., e da questo preventivamente autorizzato nella verificata sussistenza dei presupposti di legge, rientra nell'ambito della copertura predisposta da detta legge per la tutela della salute del cittadino italiano. Sez. L, n. 18401/2016, Tricomi I., Rv. 641196, ha affermato che l'assegno una tantum, previsto dall'art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992, in favore dei superstiti qualora a causa delle vaccinazioni o delle patologie indicate dalla legge sia derivata la morte del soggetto danneggiato, ha come fatto costitutivo del diritto azionato iure proprio l'evento morte, ma presuppone necessariamente anche il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo ex art. 1, comma 1, della medesima legge, sicché il giudicato formatosi sulla carenza dei presupposti dell'indennizzo in favore del danneggiato spiega efficacia anche nei confronti del superstite. Dando continuità all'orientamento già espresso (da Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077), Sez. L, n. 00597/2016, Buffa, ha ritenuto applicabile il termine triennale di decadenza, di cui alla legge 25 luglio 1997, n. 238, anche all'indennizzo previsto dall'art. 1, comma 6, della stessa legge in favore dei figli, danneggiati nella vita intrauterina, da madre affetta da epatite post-trasfusionale, affermando che esso non costituisce prestazione autonoma ma un'estensione di quella generale di cui alla l. n. 210 del 1992. 361 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 10.8. Prestazioni a carico del S.S.N. Sez. L, n. 22776/2016, Boghetich, in corso di massimazione, ha affermato che l'art. 30 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 – che per la prima volta ha menzionato le attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali – deve essere interpretato alla stregua della legge 23 dicembre 1978, n. 833, che prevede l'erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini, da parte del S.S.N., entro i livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale. Ne consegue che gli oneri delle attività di rilievo sanitario, connesse con quelle socio-assistenziali, sono a carico del Fondo sanitario nazionale. In detta prospettiva si è consolidato l'indirizzo interpretativo, costituente diritto vivente, nel senso che, nel caso in cui oltre alle prestazioni socio-assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l'attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto di competenza del S.S.N. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello, che aveva escluso dall'ambito delle prestazioni socio-assistenziali – ritenendoli unicamente di carattere assistenziale - i trattamenti farmacologici somministrati con continuità a soggetto con grave psicopatologia cronica ospitato in struttura idonea all'effettuazione di terapie riabilitative, ed aveva, pertanto, accolto l'azione di rivalsa esperita dall'ASL, avente ad oggetto le somme spese per la quota alberghiera del ricovero). 10.9. Assegno sociale. Sez. L, n. 20558/2016, Cavallaro, Rv. 641392, ha escluso che nella formazione del reddito coniugale utile ai fini del calcolo della soglia massima consentita per l'accesso all'assegno sociale di cui all'art. 3 della l. n. 335 del 1995 possa rientrare anche l'importo dell'assegno sociale stesso con gli incrementi di cui agli artt. 67 della legge 23 dicembre 1988, n. 448 e 52 della legge 23 dicembre 1999, n. 488. Secondo Sez. L, n. 22475/2016, Doronzo, in corso di massimazione, il divieto di cumulo, posto dall'art. 1, comma 43, della l. n. 335 del 1995, delle prestazioni di invalidità a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti con la rendita vitalizia liquidata dall'INAIL per il medesimo evento invalidante, non incide sulla titolarità del diritto, ma determina solo l'impossibilità per l'assicurato di conseguire l'importo della quota della prestazione di invalidità sino alla concorrenza della rendita. Sez. L, n. 23529/2016, Cavallaro, in corso di massimazione, ha ritenuto che la domanda amministrativa volta a conseguire l'assegno sociale di cui al detto art. 3 della l. n. 335 del 1995, erogato 362 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE in via provvisoria salvo successivo conguaglio, a differenza di quanto previsto dall'art. 26, comma 11, della l. n. 153 del 1969 in tema di pensione sociale, non dev'essere corredata dalla certificazione degli uffici finanziari attestante le condizioni di indigenza dell'assistito, sicche' anche la successiva domanda giudiziale non puo' essere ritenuta improponibile per la suddetta omessa allegazione. 10.10. Permessi per l'assistenza ai disabili. Sez. L, n. 17968/2016, Blasutto, Rv. 641079, ha affermato che il permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile, rispetto alla quale l'assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari. Delimitando il perimetro di applicabilità del beneficio, Sez. L, n. 18950/2016, Tricomi I., Rv. 641207, ha affermato che la possibilità di usufruire di due ore di permesso giornaliero in alternativa al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa è riservata, ai sensi dei commi 2 e 7 dell'art. 33 della l. n. 104 del 1992, ai lavoratori genitori, anche adottivi, di minori handicappati nonché agli affidatari di quest'ultimi, mentre i commi 3 e 7 attribuiscono tre giorni di permesso mensile retribuito - e non anche quello di due ore giornaliere - al lavoratore dipendente che assista persona con handicap in situazione di gravità e che di questi sia coniuge, parente, affine entro il secondo grado o affidatario, giustificandosi tale differenziazione di disciplina, ai sensi dell'art. 3 Cost., in relazione alla diversità delle situazioni messe a confronto. 10.11. Benefici in favore delle vittime del dovere. Sez. U, n. 23300/2016, Curzio, in corso di massimazione, ha precisato che in ordine ai benefici di cui all'art. 1, comma 565, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, in favore delle vittime del dovere, il legislatore ha configurato un diritto soggettivo, e non un interesse legittimo, in quanto, sussistendo i requisiti previsti, i soggetti di cui al comma 563 dell'art.1 della detta legge, o i loro familiari, hanno 363 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE una posizione giuridica soggettiva nei confronti della P.A. priva di discrezionalità, sia in ordine alla decisione di erogare o meno le provvidenze che alla misura di esse. Detto diritto non rientra nell'ambito di quelli inerenti il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con l'amministrazione un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, e trattandosi di diritto di natura prevalentemente assistenziale la competenza è regolata dall'art. 442 c.p.c. e la giurisdizione è del giudice ordinario, quale giudice del lavoro e dell'assistenza sociale. Sez. U, n. 23396/2016, Curzio, in corso di massimazione, ha quindi affermato che al militare di leva rimasto ferito, con esiti permanenti, nel corso di un'azione di addestramento notturna, svolta accidentalmente – per errore commesso da altro militare – con armi cariche, competono i benefici di cui di cui all'art. 1, commi 563 e 564, della l. n. 266 del 2005, la cui attribuzione presuppone che i compiti, rientranti nella normale attività d'istituto, siano svolti in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, e si siano complicati per l'esistenza o per il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari (quale, nella specie, l'uso di bomba a mano carica anziché inerte), ulteriori rispetto al rischio tipico ontologicamente e ordinariamente connesso all'ambiente militare. 11. L'indebito previdenziale. Riprendendo un orientamento risalente, Sez. L, n. 02739/2016, Boghetich, Rv. 638721, ha ribadito che nel giudizio instaurato per ottenere l'accertamento negativo dell'obbligo di restituire quanto l'ente previdenziale ritenga indebitamente percepito, è a carico esclusivo dell'accipiens l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto a conseguire la prestazione contestata, ovvero l'esistenza di un titolo che consenta di qualificare come adempimento quanto corrisposto. Sez. L, n. 17417/2016, Spena, Rv. 640791, ha ritenuto insussistente l'errore imputabile all'ente erogatore, ai fini dell'applicazione dell'art. 13, comma 1, della l. n. 412 del 1991, qualora la liquidazione della pensione sia avvenuta sulla base dei dati contributivi trasmessi dal datore di lavoro, non essendo configurabile un onere dell'ente previdenziale di sottoporre a verifica tali dati prima di procedere all'erogazione della prestazione. Sez. L, n. 18963/2016, Berrino, Rv. 641204, ha ritenuto che in caso di indebita percezione del trattamento pensionistico, per effetto della reintegra nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, non è ravvisabile un comportamento doloso del 364 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE pensionato, di cui alla speciale disciplina dettata dall'art. 1, comma 265, della l. n. 662 del 1996, pur nell'ipotesi di omessa comunicazione del provvedimento di reintegra, tenuto conto dell'originaria buona fede sussistente nel momento in cui il lavoratore ha iniziato ad usufruire del trattamento pensionistico ma che, tuttavia, l'obiettiva incompatibilità con il trattamento retributivo, in assenza di un titolo idoneo a giustificare l'erogazione dei ratei di pensione, rende applicabile la disciplina generale di cui all'art. 2033 c.c. 12. Le prestazioni previdenziali dell'INPS. Le fonti normative che regolano la materia della previdenza sociale si caratterizzano per una estesa eterogeneità, che anche per il 2016 ha determinato nell'ambito giurisprudenziale l'affermarsi di significativi principi regolanti in via generale le prestazioni previdenziali rese dall' INPS. 12.1 Questioni procedimentali e sostanziali. Restringendo l'ambito di applicabilità della decadenza in materia di prestazioni previdenziali, Sez. L, n. 16549/2016, Riverso, Rv. 640846, seguita da Sez. L, n. 21319/2016, Riverso, Rv. 641501, hanno affermato che l'art. 47 del d.P.R. n. 639, del 1970, come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. in legge 15 luglio 2011, n. 111, non si applica alle domande di riliquidazione di prestazioni pensionistiche, aventi ad oggetto l'adeguamento di prestazioni già riconosciute, ma in misura inferiore a quella dovuta, liquidate prima del 6 luglio 2011, data di entrata in vigore della nuova disciplina. In tema si veda anche Sez. L, n. 18097/2016, Di Paolantonio., che ha ritenuto applicabile alle prestazioni previdenziali in favore dei lavoratori socialmente utili la decadenza annuale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 (nel testo modificato dall'art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, conv. con modif. in l. n. 438 del 1992), che non consente lo spostamento in avanti del dies a quo per l'inizio del computo del termine decadenziale, affermando che qualora l'azione giudiziaria sia iniziata decorso detto termine, risulta irrilevante l'omessa comunicazione all'interessato degli avvertimenti di cui al comma 5 del medesimo art. 47. Su tematica di carattere generale, Sez. 6-L, n. 03990/2016, Garri, Rv. 638889, ha ribadito come la decadenza contemplata nell'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 e successive modificazioni, sanzionante la mancata proposizione dell'azione giudiziaria 365 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE finalizzata al riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali, sia dettata a tutela dell'interesse pubblico alla definitività e certezza dei provvedimenti concernenti l'erogazione di spesa e gravanti sui bilanci pubblici, con la conseguenza che la stessa è sottratta alla disponibilità delle parti, ed è rilevabile d'ufficio. Sez. 6-L, n. 24104/2016, Fernandes, in corso di massimazione, con riferimento agli accessori dovuti sui ratei di prestazioni assistenziali o previdenziali ha chiarito, ribadendo orientamento costante, che quando il diritto ad una (maggiore) prestazione previdenziale sorga dalla data di entrata in vigore della legge che lo prevede, e non vi sia necessità di presentazione della domanda amministrativa per il suo conseguimento, gli interessi e la rivalutazione maturano, a norma dell'art. 442 c.p.c. come inciso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 1991, dopo il decorso del termine di centoventi giorni computato a partire dalla data stessa di entrata in vigore della nuova legge (Nella specie, la S.C. ha applicato detto principio a fattispecie in cui a decorrere dal 1 luglio 1997 - data di entrata in vigore dell'art. 3, comma 22, del d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164 abrogativo della disciplina anticumulo - decorrevano i 120 giorni, trascorsi i quali era configurabile un ritardo dell'adempimento, ribadendo la necessità della domanda amministrativa prima dell'inizio dell'azione giudiziaria relativa al pagamento degli accessori prevista dall'art. 41, comma 1, del d.l. n. 269 del 2003 conv. con modifiche in l. n. 326 del 2003). Sez. L, n. 26161/2016, Berrino, in corso di massimazione, ha ritenuto venuta meno la decadenza in tema di ricorso avverso rigetto dell'iscrizione negli elenchi lavoratori agricoli, a seguito dell'abrogazione dell'art. 22 del d.l. del 3 febbraio 1970 n. 7, conv. con. modif. nella l. 11 marzo 1970, n. 83, ad opera dell'art. 24 (e del richiamato allegato A) del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. nella l. 6 agosto 2008, n. 133. 12.2. Assegno di invalidità. Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638391, ha approfondito la problematica concernente la riduzione della capacità lavorativa necessaria per ottenere l'attribuzione dell'assegno di invalidità in relazione al carattere usurante dell'attività lavorativa, ed ha chiarito che costituisce lavoro usurante quello che accelera ed accentua il logoramento dell'organismo in quanto sproporzionato rispetto alla residua efficienza fisiopsichica di cui il lavoratore dispone. Sez. L, n. 21708/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha poi affermato che per l'assegno di invalidità ex art. 1 della l. n. 222 366 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE del 1984, riconosciuto per tre anni e rinnovabile a domanda per lo stesso periodo, l'INPS, in forza dell'art. 9 della stessa legge, è titolare di un autonomo potere di revisione, attivabile discrezionalmente anche prima della scadenza del triennio di durata della prestazione, tanto sia in base alla lettera della normativa richiamata, che non sottopone a limiti temporali il detto potere, né lo raccorda al periodo per il quale la prestazione è stata riconosciuta, sia in base ad una sua lettura logica e sistematica, in quanto i trattamenti previdenziali sono prestazioni temporanee correlate all'esistenza di requisiti sanitari, suscettibili di verifiche per accertarne la permanenza. La coeva Sez. L, n. 21709/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha specificato che, in tema di assegno di cui all'art. 1, della l. n. 222 del 1984, dal comma 7 di tale articolo, che ne prevede la conferma per tre periodi triennali consecutivi previa domanda del titolare - della quale la stessa legge regola termini ed effetti - deriva il principio dell'indispensabilità della domanda amministrativa in relazione a ciascuno dei tre periodi di fruizione triennali, precedenti quello di godimento automatico di cui al successivo comma 8. Ne consegue che la pendenza di un giudizio sulla spettanza dell'assegno per un triennio, su domanda dell'interessato, non può comportare né che l'assicurato non abbia l'onere di inoltrare domanda per il successivo triennio, né che l'accertamento giudiziario pendente si debba estendere automaticamente al triennio successivo. 12.3. Pensione di reversibilità. Sul tema concernente la decorrenza del termine di prescrizione del diritto alla percezione della pensione di reversibilità del coniuge scomparso, si segnala Sez. L, n. 17133/2016, Cavallaro, Rv. 640896, in base alla quale viene affermato il principio secondo cui il diritto alla percezione della prestazione nasce dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di morte presunta, con la conseguenza che anteriormente a tale momento non decorre il relativo termine di prescrizione del diritto. Sul rapporto intercorrente tra l'assegno divorzile e la pensione di reversibilità è di rilievo citare Sez. L, n. 09054/2016, Doronzo, Rv. 639581, secondo la quale la corresponsione dell'assegno divorzile in unica soluzione, a seguito di accordo tra le parti, essendo satisfattivo di qualsivoglia obbligo di sostentamento nei confronti del soggetto beneficiario, comporta l'impossibilità per quest'ultimo di avanzare ulteriori pretese di contenuto economico, comprese quelle correlate al decesso dell'ex coniuge, tra le quali si annovera il diritto alla pensione di reversibilità. 367 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE In tema, poi, di attribuzione di quota di reversibilità spettante per il figlio studente, la recentissima Sez. L, n. 23285/2016, Riverso, in corso di massimazione, ha affermato un importante principio, secondo il quale sia per avere diritto alla prestazione pensionistica " pro quota", sia per escludere la cumulabilità del reddito del beneficiario, è sufficiente che lo studente (infra ventunenne ) frequenti un istituto scolastico ( anche privato) che si occupi anche del recupero degli anni scolastici e della prosecuzione degli studi al fine del conseguimento di un diploma presso un istituto abilitato che abbia valore legale e permetta l'accesso a qualsiasi concorso e scuola universitaria. Sull'istituto della pensione di reversibilità si segnala, inoltre, quanto affermato da Sez. L, n. 21707/2016, D'Antonio, Rv. 641421, secondo la quale è conforme agli orientamenti in materia assunti dalla Corte costituzionale, ritenere che il diritto al trattamento pensionistico ai superstiti debba essere ricondotto all'impossibilità per l'orfano studente di procurarsi un reddito, con la conseguenza che la prestazione di un lavoro retribuito, quale ragione di esclusione della quota di pensione, non può attenere ad attività lavorative precarie, saltuarie e con reddito minimo, bensì riguardare solo le normali prestazioni lavorative, durature e qualificate da adeguata retribuzione. Va infine certamente annotata anche Sez. L, n. 20680/2016, Berrino, Rv. 641418, che, ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile in tema di diritto all'integrazione al minimo della pensione di reversibilità, ha ribadito che quello previdenziale è un tipico rapporto di durata, che nasce in presenza dei presupposti previsti dalla legge per la sua insorgenza, e che perdura nel tempo, fino a quando non sopraggiungano altre condizioni di fatto previste dal legislatore per la sua estinzione, con la conseguenza che nell'ipotesi in cui nel corso del rapporto intervenga una successione di leggi, la nuova disciplina, mentre non può incidere negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione previdenziale, le cui condizioni di esistenza sono definitivamente disciplinate dalla legge abrogata, può, invece, legittimamente regolamentare gli effetti giuridici che sono sorti sulla base del fatto generatore del diritto alla prestazione previdenziale. 12.4. Equiparazioni, ricongiunzioni e cumuli. In materia di ricongiuzione dei periodi assicurativi, Sez. L, n. 08726/2016, Torrice, Rv. 639554, ha chiarito che, ai fini della pensione di anzianità, costituisce presupposto indispensabile che il lavoratore sia 368 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE titolare di contribuzione in almeno due gestioni pensionistiche differenti. In tema di cumulo tra pensione e redditi di lavoro, Sez. L, n. 08067/2016, Negri Della Torre, Rv. 639572, ha stabilito che gli iscritti all'Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani non sono assoggettabili alla stessa disciplina prevista per gli iscritti all'AGO, dovendosi ai primi applicare l'art. 15 del regolamento dell' INPGI, con la conseguenza che la non comparabilità tra le due diverse discipline rende manifestamente infondata qualsiasi questione di legittimità costituzionale. In materia di ricongiunzione tra periodi assicurativi, va annotata Sez. L, n. 00015/2016, Esposito L., Rv. 638386, secondo la quale il lavoratore dipendente o il lavoratore autonomo, già iscritto a forme di previdenza per liberi professionisti e cessato dall'iscrizione per avvenuta cancellazione dall'albo professionale, ai fini del conseguimento della pensione di anzianità presso l'INPS, può effettuare " la ricongiunzione" dei periodi di contribuzione maturati presso altre forme previdenziali nella gestione cui risulti iscritto in qualità di lavoratore dipendente, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge 5 marzo 1990, n. 46. 12.5. Indennità di mobilità. Secondo Sez. L, n. 00705/2016, Manna A., Rv. 638233, il lavoratore che sia titolare di due rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale cd. orizzontale, collocato in mobilità per uno dei due con prosecuzione dell'altro, ha diritto all'indennità di mobilità considerata la facoltà, contemplata per l'iscritto alle liste di mobilità, dall'art. 8, comma 6, della l. n. 223 del 1991, di svolgere lavoro a tempo parziale pur mantenendo la relativa iscrizione. In tema di anticipazione della indennità di mobilità, Sez. L, n. 17174/2016, Doronzo, Rv. 640899, ha stabilito che, il lavoratore beneficiato della corresponsione anticipata dell'indennità di mobilità deve restituire la provvidenza, qualora assuma una occupazione alle altrui dipendenze nel settore privato o in quello pubblico, con decorrenza dal giorno in cui vi è stata l'effettiva corresponsione della suddetta prestazione, e non invece dal giorno della domanda volta ad ottenere il beneficio. 12.6. Indennità di disoccupazione. In riferimento all'assicurazione contro la disoccupazione, Sez. L, n. 17303/2016, Cavallaro, Rv. 640882, ha chiarito che la relativa indennità prevista dall'art. 34, comma 5, della l. n. 448 del 1998, non può essere 369 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE erogata nell'ipotesi di dimissioni del lavoratore, quando lo stesso rinunci spontaneamente al posto, pur potendo proseguire il rapporto di lavoro, con la conseguenza che detta ipotesi deve, parimenti, ritenersi operante nel caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Sulle modalità procedimentali finalizzate ad ottenere l'attribuzione dell'indennità di disoccupazione si segnala Sez. L, n. 17404/2016, Doronzo, Rv. 641002, secondo cui la mancata presentazione della domanda di ammissione alla prestazione entro il termine di sessanta giorni previsto dall'art. 129, comma 5, del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, produce la decadenza dal diritto, essendo termine stabilito nell'interesse della certezza di una determinata situazione giuridica, la cui proroga, sospensione o interruzione può intervenire solo in casi eccezionali espressamente previsti dalla legge. 12.7. Indennità di maternità. In tema di provvidenze per la maternità, assume particolare rilievo la pronuncia Sez. L, n. 11129/2016, Balestrieri, Rv. 639837, secondo la quale i diritti fondamentali tutelati dalla cd. Carta di Nizza possiedono efficacia precettiva solo quando una normativa nazionale ricada nell'ambito di applicazione del diritto dell' Unione; sulla base di tale principio ne deve escludersi, pertanto, l'immediata applicabilità in tema di diritto del padre libero professionista alla percezione dell'indennità di maternità di cui all'art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001, n.151.in alternativa alla madre biologica. Sempre in tema di corresponsione dell'indennità di maternità ai liberi professionisti (notai), Sez. L, n. 09757, Spena, Rv. 639732, ha stabilito che, in base al regime giuridico di cui all'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, come modificato dalla legge 15 ottobre 2003, n. 289, la Cassa Nazionale del Notariato, non è tenuta a motivare il mancato esercizio del potere discrezionale di aumento del massimale, atteso che tale facoltà si conforma a parametri esterni e certi, prefissati per legge. Va segnalata infine Sez. L, n. 08594/2016, Bronzini, Rv. 639586, la quale ha specificato che l'indennità di maternità per le libere professioniste, disciplinata dall'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 ha come scopo primario, oltre la protezione del nascituro e del nucleo familiare, anche l'ulteriore finalità di tutela della madre biologica, che nel periodo anteriore e successivo al parto assume una posizione non assimilabile a quella del genitore di sesso maschile, di conseguenza non risulta irragionevole nè 370 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE discriminatoria la mancata estensione al padre della relativa provvidenza.. 13. Le tutele dell'INAIL. Il quadro del sistema della tutela infortunistica emerge dall'assetto complessivo, nel suo valore storico di dirittto vivente, attraverso l'indicazione delle varie pronunce dalle quali si possono trarre fondamentali indicazioni nomofilattiche. 13.1. I principi generali. In tema di contributi INAIL, viene in rilievo Sez. L, n. 05904/2016, Spena, Rv. 639051, secondo la quale, in base al disposto dell'art. 5 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, l'obbligo assicurativo per i lavoratori subordinati indicati nell'art. 49, comma 2, lett. a) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, opera soltanto a condizione che gli stessi svolgano le attività previste dall'art. 1 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, o in correlazione allo svolgimento di mansioni che richiedano in via non occasionale l'utizzo di veicoli a motore da essi personalmente condotti. Sempre sul piano generale assume prioritaria rilevanza quanto stabilito da Sez. U, n. 13372/2016, Vivaldi, in corso di massimazione, che, sul tema dei limiti dell'azione di surrogazione esercitabile dall'istituto previdenziale, ha stabilito che la surrogabilità ed i suoi limiti rappresentano un posterius rispetto alla sussistenza dei presupposti costituiti dall'entità del danno e della sua risarcibilità, e ciò, anche ai fini dell'individuazione degli elementi necessari per l' applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, che è strettamente connesso con il tema della cumulabilità delle varie voci di danno e dell'applicazione del correlato principio del risarcimento del danno effettivo. Sulla tematica centrale dell'infortunio in itinere, Sez. L, n. 07313/2016, Riverso, Rv. 639304, ha affermato che l'uso della bicicletta privata per il tragitto " luogo di lavoro - abitazione" è ammissibile sulla base del principio di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, anche per garantire un più intenso rapporto con la comunità familiare e per assicurare l'esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro, restando tuttavia escluso il cd. rischio elettivo, da intendersi, quale estraneo e non inerente all'attività lavorativa, e correlato ad una opzione arbitraria del lavoratore. Sempre sull'istituto dell'infortunio in itinere, Sez. L, n. 13882/2016, Riverso, Rv. 640481, ha stabilito che, ai fini dell'indennizzabilità rappresenta occasione di lavoro rilevante ai 371 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE sensi dell'art. 2 del d.P.R.. n. 1124 del 1965, anche la riunione promossa dal datore di lavoro presso la propria sede, ed avente ad oggetto l'organizzazione dell'impresa, con la conseguenza che la presenza del lavoratore lungo il percorso necessario per recarsi a tale riunione è sicuramente riferibile all'attività lavorativa, senza alcuna rilevanza per la qualità soggettiva di sindacalista rivestita dal lavoratore, che, in tale veste, ha partecipato alla riunione; ciò in quanto la tutela prevista dagli artt. 4 e 9 del d.P.R. n. 1124 del 1965 trova applicazione anche nei confronti dei dirigenti sindacali che non siano in aspettativa. In ordiena alla rendita da malattia professionale, Sez. L, n. 14774/2016, Doronzo, Rv. 640732, ha chiarito che nell'ipotesi di soppressione della rendita la posizione dell'interessato al ripristino della provvidenza va equiparata a quella dell'assicurato nel giudizio di revisione, con la conseguente applicabilità nel giudizio di ripristino, del termine di decadenza annuale di cui all'art. 137, comma 7, del d.P.R. n. 1124 del 1965, con decorrenza dal giorno di maturazione del diritto (ovvero dalla data in cui è sorto il diritto alla rendita). Sulla tematica generale concernente gli obblighi assicurativi del datore di lavoro deve segnalarsi Sez. L, n. 23146/2016, De Gregorio, in via di massimazione, secondo la quale deve escludersi la responsabilità del datore di lavoro in materia di tutela assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali in ragione dei limiti posti dall' art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre nell'ipotesi di eventi lesivi eccedenti la copertura assicurativa obbligatoria, verificatisi in danno del lavoratore e causalmente collegati alla nocività dell'ambiente di lavoro, opera l'art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema antifortunistico; disposizione che impone al datore di lavoro di adottare anche in difetto di una specifica norma preventiva tutte le necessarie misure generiche di prudenza e diligenza. Di fondamentale importanza risulta anche Sez. L, n. 23653/2016, Riverso, in corso di massimazione, che, in relazione ed ai fini delle erogazioni delle prestazioni assicurative gestite dall'INAIL in materia di esposizione all'amianto, individua quale presupposto fondamentale che il lavoratore sia stato, comunque, esposto all'amianto per motivi professionali, con conseguente tutela dello stesso da parte del sistema assicurativo in caso di acclaramento della malattia professionale. 372 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE In materia di rendita ai superstiti, Sez. L, n. 13060/2016, Doronzo, Rv. 640249, ha dato continuità a precedenti pronunce sul punto, ribadendo che la fattispecie costitutiva del relativo diritto è data non solo dall'eziologia della malattia, ma, anche dalla sussistenza del nesso di causalità intercorrente tra la tecnopatia e la morte del lavoratore. Sul tema concernente la classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi dovuti all'INAIL, Sez. L, n. 07429/2016, Boghetich, Rv. 639249, ha affermato che, qualora un'impresa sia organizzata su moduli lavorativi multipli, spetta al giudice di merito accertare in concreto, quale tra quelle svolte, possieda la connotazione di lavorazione principale e, quindi, se le altre lavorazioni si pongano in correlazione non solo tecnica, bensì funzionale con la prima, fornendo beni e servizi strettamente necessari per la lavorazione principale, sicchè solo all'esito di tale positivo riscontro potrà essere attribuita alle lavorazioni ausiliarie la voce tariffaria corrispondente alla lavorazione principale. In riferimento ai postumi invalidanti da infortunio sul lavoro, nella fattispecie di danni composti, ovvero comprensivi di più lavorazioni, Sez. L, n. 11509/2016, Ghinoy, Rv. 639826, ha ribadito che ai fini della costituzione della rendita, l'incidenza della menomazione va valutata complessivamente, avuto conto dell'entità del pregiudizio effettivo dell'apparato e della funzione coinvolta, senza la sommatoria delle percentuali relative alle singole menomazioni secondo i criteri di cui al d.m. 12 luglio 2000. Della tematica generale dell'azione di rivalsa dell'INAIL ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, si è occupata, approfondendo un rilevante profilo processuale, Sez. L, n. 12198/2016, Negri Della Torre, Rv. 640329, secondo la quale, la prova che le erogazioni assicurative di cui l'Istituto chieda il rimborso siano nella fattispecie concreta superiori rispetto al risarcimento del danno conseguibile dal lavoratore infortunato, spetta al datore di lavoro, posto che trattasi di fatto impeditivo del diritto azionato dall'ente. 13.2. Il regresso. Sul fondamentale istituto del regresso all'interno del sistema assicurativo infortunistico, risulta di particolare rilievo il principio affermato da Sez. L, n. 04089/2016, D'Antonio, Rv. 639145, secondo cui le variazioni di ammontare del credito vantato dall'ente nei confronti del datore di lavoro responsabile dell'infortunio subito dal lavoratore, essendo conseguenti a quelle della rendita, non costituiscono domande 373 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE nuove ma mere precisazioni del petitum originario, sicchè tale credito, in quanto di valore, va determinato con riferimento alla data di liquidazione definitiva, con l'ulteriore effetto che l'eventuale maggior ammontare rispetto a quanto dedotto in primo grado per effetto di svalutazione monetaria o di rivalutazione della rendita, può essere richiesto senza necessità di dover proporre appello incidentale sul punto. In linea con un orientamento in via di consolidamento, Sez. L, n. 04225/2016, Blasutto, Rv. 639196, sul tema dei rapporti tra l'esercizio dell'azione penale e l'azione di regresso ha chiarito che nel caso di infortunio sul lavoro per il quale sia stata esercitata l'azione penale, ove il relativo processo si sia concluso con sentenza di non doversi procedere o in sede dibattimentale per essersi il reato estinto per intervenuta prescrizione, non essendovi stato accertamento sui fatti-reato, il termine triennale di decadenza per la proposizione dell'azione di regresso decorrerà solo dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale. Sul piano processuale, con specifico collegamento con le problematiche inerenti l'azione di regresso, Sez. 6-L, n. 17387/2016, Arienzo, Rv. 640879, ha ribadito che la competenza territoriale a conoscere del giudizio avente ad oggetto l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro spetta al giudice del luogo in cui si trova la sede territoriale dell'ente previdenziale che ha istruito la pratica dell'infortunio ed ha disposto l'erogazione della relativa indennità. Infine rileva quanto affermato da Sez. L, n. 13061/2016, Riverso, Rv. 640182, secondo la quale il datore di lavoro è uno dei soggetti del rapporto trilaterale instaurato con l' INAIL, di conseguenza, se convenuto in regresso, può declinare la pretesa recuperatoria provando che al lavoratore ed ai suoi eredi sono state erogate dall'ente prestazioni indebite. 13.3. Il danno differenziale. Sulla tematica concernente il danno differenziale, si segnala Sez. L, n. 04025/2016, Boghetich, Rv. 639165, secondo la quale, il datore di lavoro risponde dei danni subiti dal lavoratore infortunato entro i limiti del cd. danno differenziale, che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall'assicurazione obbligatoria, con la conseguenza che per le fattispecie antecedenti all'entrata in vigore dell'art. 13 del d.lgs n. 38 del 2000, il datore di lavoro risponde dell'intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtato quanto erogato a titolo di rendita INAIL. 374 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 14. La previdenza di categoria. 14.1. ENASARCO. L'istituto del cumulo dei contributi versati presso diverse gestioni previdenziali disciplinato dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 42, che consente la ricongiunzione dei vari periodi contributivi, a condizione che gli stessi non siano coincidenti, secondo Sez. L, n. 08887/2016, Boghetich, Rv. 639583, non è applicabile agli agenti e rappresentanti di commercio il cui trattamento pensionistico gravante sul fondo di previdenza gestito dall' ENASARCO non sostituisce il regime generale con caratteri di esclusività ed autonomia, ma lo integra, con persistente e contemporanea obbligatorietà dell' iscrizione all'assicurazione generale dell'INPS. Dando soluzione di continuità ad un orientamento ormai consolidato, Sez. L, n. 04296/2016, Tria, Rv. 639003, ha ribadito che l'art. 343, comma 6, del d.lgs. 7 settembre 2005, n.209, che ha previsto la non assoggettabilità all'obbligo di iscrizione all'ENASARCO degli agenti e sub-agenti assicurativi, non possiede natura interpretativa ad effetto retroattivo, o valore innovativo esclusivamente per il futuro, poichè trattasi di disposizione meramente ricognitiva di un'esclusione già operante al momento della sua entrata in vigore. 14.2. INPGI. In materia di omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali all' INPGI, secondo Sez. L, n. 12897/2016, Riverso, Rv. 640369, il datore di lavoro che ritenesse sussistente l'obbligo contributivo con l' INPS anzichè con l' INPGI, non può invocare l'errore scusabile ai sensi dell' art. 1189 c.c., posto che il datore di lavoro, sul quale incombe il relativo onere probatorio, non può ignorare il contenuto dell'attività lavorativa espletata dai propri dipendenti. In materia di iscrizione all' INPGI, Sez. L, n. 11407/2016, De Gregorio, Rv. 639932, ha affermato che l'art. 38 della legge 5 agosto 1981, come modificato dall'art. 76 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha esteso il regime sostitutivo dell' INPGI in favore dei giornalisti pubblicisti con correlata attribuzione della facoltà di optare per il mantenimento dell'iscrizione presso l' INPS entro il termine di sei mesi a decorrere dal 1° gennaio 2001, e con la conseguenza che il mancato esercizio di tale opzione determina l' automatica iscrizione alla gestione INPGI. 375 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 14.3. Cassa Nazionale Forense. In ordine alla pensione di anzianità, Sez. L, n. 04092/2016, Blasutto, Rv. 639205, ha ribadito che l'art. 3 della legge 20 settembre 1980, n. 576, che prevede la corresponsione della pensione di anzianità a coloro che vantano trentacinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla cassa di previdenza ed assistenza per gli avvocati ed i procuratori, va interpretato nel senso che l'iscrizione per essere effettiva deve essere correlata al continuativo esercizio dell'attività professionale, con la conseguenza che la sola iscrizione, quale presupposto indefettibile, non è di per se stessa utile ai fini della maturazione del diritto alla prestazione. 14.4. Cassa Dottori Commercialisti. Sez. L, n. 06701/2016, Torrice, Rv. 639298, ha ribaditto la legittimità dell' art. 10, comma 8, del regolamento della Cassa di Previdenza dei Dottori Commercialisti, approvato con decreto interministeriale del 10 luglio 2004, che ha modificato il sistema di gestione con passaggio dal modello di calcolo reddituale a quello contributivo in termini conformi all'obbligo di assicurare l'equilibrio di bilancio previsto dall'art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995. 14.5. Cassa di previdenza ragionieri. Sul principio generale dell'intangibilità del trattamento pensionistico, risulta di notevole rilievo quanto affermato da Sez. L, n. 06702/2016, Torrice, Rv. 639927, la quale dopo aver premesso che in tema di pensione dei liberi professionisti, non si rinviene nel sistema un'espressa previsione di tale principio, ha ribadito l'illegittimità dell'art. 40 del regolamento della Cassa dei Ragionieri e Periti commerciali, che, con l'introduzione del contributo di solidarietà ha violato i limiti posti dall' art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, imponendo una trattenuta incompatibile con il rispetto del principio del "pro rata" previsto in relazione alle anzianità già maturate, ed ulteriormente lesivo dell'affidamento dell'assicurato a conseguire una pensione proporzionale rispetto ai contributi versati. 15. La previdenza complementare. In materia di previdenza integrativa Sez. L, n. 06004/2016, Spena, Rv. 639050, ha chiarito che i dipendenti del cd. parastato potevano far valere la responsabiltà per mancata ricongiunzione o riscatto della posizione pensionistica fino al 1° ottobre 1999, data di soppressione dei Fondi di previdenza integrativa degli enti parastatali, previa formale diffida da esperire nei conftonti del Ministero del lavoro, sul quale 376 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE incombeva l'obbligo di emanare il decreto recante i necessari criteri attuativi sugli oneri di ricongiunzione o riscatto ai sensi dell' art. 18, comma 9, del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124. Sull'istituto della portabilità della posizione individuale, ovvero del trasferimento dei contributi maturati da un dipendente cessato dal servizio prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare verso un fondo cui lo stesso dipendente acceda dopo aver intrapeso una nuova attività, Sez. L, n. 17960/2016, D'Antonio, in corso di massimazione, ha ribadito che la portabilità e la riscattabilità della posizione contributiva individuale trovano immediata applicazione anche ai fondi di previdenza preesistenti alla entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ed indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, e quindi con riferimento non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, bensì, anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva. 15.1. Il Fondo di garanzia dell'INPS. In tema di intervento del Fondo di garanzia gestito dall'INPS, Sez. 6-L, n. 17801/2016, Garri, Rv. 640812, ha dato continuità a precedenti intervenuti in materia, chiarendo che, nel caso di insolvenza del datore di lavoro, gli importi inerenti le ultime tre retribuzioni spettanti ai lavoratori, sono esenti da contribuzione, e si calcolano con applicazione del limite del triplo del trattamento di integrazione salariale mensile, determinato al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali. Sempre sul tema dell'insolvenza del datore di lavoro e delle tutele apprestate in favore del lavoratore dal Fondo di garanzia dell'INPS, si segnala Sez. L, n. 17593/2016, Cavallaro, Rv. 640886, la quale ha ribadito che, in caso di insolvenza del datore di lavoro non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il lavoratore per poter accedere al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, istituito presso l'INPS con l'art. 2, della legge 29 maggio 1982, n. 297, deve dimostrare che le garanzie patrimoniali della controparte sono risultate in tutto o in parte insufficienti a seguito dell' esperimento dell' esecuzione forzata; esperimento da espletarsi secondo l'uso della normale diligenza, attraverso la ricerca dei beni presso luoghi ricollegabili de jure alla persona del debitore. Sempre nella subiecta materia, appare di rilievo quanto affermato da Sez. L, n. 08072/2016, Doronzo, Rv. 639603, secondo la quale, in caso di insolvenza del datore di lavoro non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il lavoratore per ottenere, da parte del Fondo di garanzia, il pagamento del t.f.r. gravante sull'eredità giacente, dovrà dimostrare l'esistenza e la consistenza del 377 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE credito risultante da un titolo anche giudiziale, nonchè l'insufficienza del patrimonio ereditario, che potrà essere attestata per mezzo dell'infruttuoso esperimento dell'esecuzione, con lo stato di graduazione dei crediti predisposto dal curatore dell'eredità giacente o con la dichiarazione del curatore sull'insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore. Secondo Sez. L, n. 10543/2016, Patti, Rv. 639849, il commitente che, ai sensi dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, abbia corrisposto il trattamento retributivo ed il t.f.r. ai dipendenti dell'impresa appaltatrice, non subentra nella posizione del lavoratore avente diritto, in quanto adempie ad un'obbligazione propria nascente dalla legge, di conseguenza lo stesso è, invece, legittimato a surrogarsi nei diritti del lavoratore verso l'appaltatore ex art. 1203, n. 3, c.c., ma non ha titolo per attivare l'intervento del Fondo di garanzia gestito dall' INPS. Secondo Sez. L, n. 17592/2016, Cavallaro, Rv. 640881, la domanda presentata per ottenere dal Fondo di garanzia dell'INPS la liquidazione delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo le norme che disciplinano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, costituisce atto interrutivo della prescrizione e segna l'apertura del relativo procedimento amministrativo finalizzato alla liquidazione della prestazione, con l'ulteriore conseguenza di determinare la sospensione del termine di prescrizione fino alla conclusione della procedura amministrativa. 15.2. Il Fondo per impiegati di esattorie e ricevitorie. In merito alla natura del Fondo di previdenza per gli impiegati esattoriali e delle ricadute di tale qualificazione sulle prestazioni erogabili dal fondo, Sez. L, n. 08892/2016, Torrice, Rv. 639553, ha chiarito che tale fondo possiede natura speciale obbligatoria a carattere integrativo, costituente, quindi, un sistema previdenziale autonomo ed autosufficiente, non essendo erogabili, durante il periodo di iscrizione ad esso, le prestazioni a carico dell' AGO ove non ne sussistano i prescritti presupposti, con la conseguenza che, una volta trasferita ed utlizzata la quota di contribuzione per la gestione suddetta presso la gestione generale dell'AGO, non è consentito ottenere le prestazioni a carico del Fondo, il cui presupposto è dato dall'unitarietà dei versamenti. 378 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA PARTE SESTA IL DIRITTO DEL MERCATO CAPITOLO XVIII I DIRITTI DI PRIVATIVA (di Lorenzo Delli Priscoli) SOMMARIO: 1. Confondibilità di marchi e brevetti. – 2. Tutela del marchio di fatto. – 3. Marchi deboli e forti. – 4. Decadenza e nullità del marchio. – 5. Principio di territorialità del marchio. – 6. Invenzioni industriali. – 7. Violazione del diritto d'autore. – 8. Risarcimento del danno. – 9. Il brevetto europeo. 1. Confondibilità di marchi e brevetti. L'azione di contraffazione del marchio d'impresa, di natura reale, tutela il diritto assoluto all'uso esclusivo del segno distintivo come bene autonomo sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, sicché non è esperibile allorquando si lamenti la potenziale confondibilità tra prodotti generata dall'accostamento, ai fini della vendita, tra quelli con un certo marchio ed altri di diversa o ignota provenienza. La maggior parte della pronunce in tema di marchi e brevetti hanno riguardato il tema dell'accertamento circa la non distinguibilità e la confondibilità, che costituiscono un presupposto comune delle azioni di nullità e contraffazione del marchio o del brevetto stesso, attività quest'ultima che non è configurabile in mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa, ove l'attività del contraffattore preesista al marchio o al brevetto stesso (Sez. 1, n. 19174/2015, Scaldaferri, Rv. 637121). È stato coerentemente affermato che è preclusa, per difetto di novità, la registrazione di un successivo marchio che riproduca il marchio anteriore, nonostante l'aggiunta di elementi differenziatori di contorno, potendosi determinare un rischio di confusione per il pubblico, quale rischio di un erroneo riferimento dell'attività dell'una all'altra impresa, soprattutto qualora tale eventualità sia resa altamente probabile dalla identità, o quantomeno affinità, dei prodotti e dei servizi resi, nonché dalla collocazione delle imprese (Sez. 1, n. 10519/2016, Ragonesi, Rv. 639857). Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca Sez. 1, n. 01276/2016, Ragonesi, Rv. 638428, secondo cui il divieto di usare nel marchio l'altrui ditta, posto sia dall'art. 14 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929, che dall'art. 12 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, non è 379 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA assoluto, ma è sempre condizionato alla possibilità di confusione di prodotti. Analogamente, è stato ritenuto che l'inserimento, in un marchio registrato, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l'abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l'abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all'attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa, ma senza trasformare la stessa in un'attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva (Sez. 1, n. 10826/2016, Genovese, Rv. 639860). 2. Tutela del marchio di fatto. Secondo Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639807, la tutela del marchio non registrato (cd. marchio di fatto) trova fondamento nella funzione distintiva che esso assolve in concreto, per effetto della notorietà presso il pubblico, e, pertanto, presuppone la sua utilizzazione effettiva, con la conseguenza che la tutela medesima non è esperibile in rapporto a segni distintivi di un'attività d'impresa mai (o da lungo tempo non) esercitata dal preteso titolare. Prosegue la sentenza affermando che i segni distintivi di fatto possono articolarsi in maniera separata, sicché è astrattamente possibile che un imprenditore abbia preusato del segno per la ditta- denominazione sociale, senza aver fatto uso dello stesso come marchio, per contraddistinguere merci prodotte o servizi forniti, onde la necessità, in caso di affermazione del possesso di un marchio di fatto, che colui il quale chieda di affermare il conseguimento di un proprio diritto fornisca, al riguardo, una prova completa sia della ditta-denominazione sociale sia di quello del segno in funzione di marchio (e della conseguente notorietà di esso), atteso che l'uso di fatto di un segno in funzione di ditta/denominazione sociale non ne comporta l'automatica e meccanica estensione in funzione di marchio e viceversa (Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639808). Ha inoltre affermato Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639807, che l'art. 48 del r.d. n. 929 del 1942 , laddove prevede la cosiddetta convalidazione del marchio successivo e confondibile se usato in buona fede per cinque anni senza contestazioni, trova applicazione non soltanto nell'ipotesi di conflitto tra un marchio 380 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA anteriore di fatto ed uno successivo registrato, ma anche in quella di conflitto tra due marchi ambedue registrati, ciò desumendosi, tra l'altro, dalla lettera della legge, che faceva riferimento ai marchi "conosciuti", i quali non sono soltanto quelli di fatto. 3. Marchi deboli e forti. La Cassazione ha posto in evidenza come, in assenza di un marchio forte, la tutela di un marchio o in genere di un segno distintivo sia tendenzialmente circoscritta all'ambito merceologico in cui tale segno ha conosciuto una diffusione più o meno ampia e la confondibilità può essere esclusa in presenza di modifiche del segno significative ma non particolarmente rilevanti. Secondo Sez. 1, n. 13170/2016, Genovese, Rv. 640226, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non incide sull'attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte. Analogamente, si è affermato che i marchi "deboli" sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l'uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Un marchio, tuttavia, può essere valido, benché "debole", per l'esistenza di un pur limitato grado di capacità distintiva, e la sua "debolezza" non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte, in ciò differenziandosi rispetto al marchio cd. "forte", per il quale sono illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo, che costituisce l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante (Sez. 1, n. 01267/2016, Ragonesi, Rv. 638432). 381 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA 4. Decadenza e nullità del marchio. Secondo la S.C. la decadenza parziale del marchio è ammissibile pur se non prevista espressamente dalla legge e si realizza quando il marchio sia registrato per più di un prodotto o servizio e la decadenza avvenga con riguardo solo ad alcuni di essi (Sez. 1, n. 15027/2016, Nazzicone, Rv. 640807). È stato inoltre stabilito che il marchio denominativo può ritenersi nullo quando i nomi utilizzati non siano idonei ad indicare la provenienza di un prodotto, oppure qualora, pur essendolo, non valgano a distinguerlo da altri prodotti simili (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638500). La decadenza del brevetto per marchio d'impresa, ai sensi dell'art. 41 del r.d. n. 929 del 1942, quando esso «sia divenuto denominazione generica di un prodotto», si verifica per il fatto obiettivo e nel momento dell'avvenuta "volgarizzazione", che consiste nell'acquisizione nel linguaggio comune dell'espressione oggetto del marchio, ovvero costituente un elemento del medesimo, come rappresentativa del tipo di prodotto, indipendentemente dal concorso dell'inattività del titolare del brevetto ed in esito ad un processo svoltosi nell'ambiente sociale, al quale lo stesso titolare non potrebbe opporsi, sicché la disposizione, atteso il carattere dichiarativo della sentenza di accertamento, si applica anche ai rapporti in corso alla data di entrata in vigore delle modifiche di cui all'art. 38 del d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 (Sez. 1, n. 15027/2016, Nazzicone, Rv. 640806). 5. Principio di territorialità del marchio. Le Sezioni Unite hanno affermato che il principio di territorialità, vigente in tema di protezione di un marchio, comporta che l'accertamento giudiziale della contitolarità di quest'ultimo è, di regola, insuscettibile di estensione in uno Stato diverso da quello – nella specie, l'Italia – in cui è avvenuto, salvo che si tratti di marchio comunitario (registrato, cioè, per la prima volta in sede comunitaria, oppure nascente dalla registrazione ivi di un marchio già registrato in uno Stato membro, con conseguente estensione della protezione per tutti i paesi dell'Unione) o internazionale (la cui procedura di rilascio, ai sensi dell'Accordo di Madrid, sfocia nel conferimento di una pluralità di distinti marchi nazionali che producono, in ciascuno Stato ad esso aderente, gli stessi effetti della domanda di registrazione di un marchio nazionale che fosse lì direttamente depositato), per i quali, però, quell'effetto estensivo non deriva immediatamente dalla sentenza, ma dal suo successivo avvalimento che le parti riterranno 382 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA di fare innanzi agli organismi comunitari o internazionali competenti (Sez. U, n. 13570/2016, Ragonesi, Rv. 640219). 6. Invenzioni industriali. Ha affermato Sez. 1, n. 16949/2016, Di Marzio, Rv. 640906, che l'invenzione industriale si fonda sulla soluzione di un problema tecnico, non ancora risolto, che la rende idonea ad avere concrete realizzazioni nel campo industriale, tali da apportare un progresso rispetto alla tecnica ed alle cognizioni preesistenti, mentre il modello di utilità, che pure richiede un carattere di intrinseca novità, opera sul piano dell'efficacia e della comodità di impiego di un oggetto preesistente, al quale conferisce, in certa misura, un'utilità nuova ed ulteriore. L'accertamento della sussistenza, in concreto, dell'una o dell'altra figura spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, salvo il vizio di motivazione. 7. Violazione del diritto d'autore. La Cassazione ha ritenuto, con riferimento in genere al diritto d'autore, che la violazione di un diritto d'esclusiva che spetta all'autore ai sensi dell'art. 12 della legge 22 aprile 1941, n. 633, costituisce danno in re ipsa, analogamente a quella di un diritto assoluto o di un diritto personale, senza che incomba al danneggiato altra prova che non quella della sua estensione (Sez. 1, n. 12954/2016 Dogliotti, Rv. 640103). È stato altresì chiarito che la proiezione sullo schermo televisivo del testo di canzoni contemporaneamente all'esecuzione in studio degli stessi brani musicali (nell'ambito di trasmissioni che seguono lo schema del cd. karaoke), costituisce atto di riproduzione che necessita dell'autorizzazione dell'autore, indipendentemente dalle finalità di profitto, atteso che presuppone la registrazione, anche transitoria, del testo su un supporto, qualunque esso sia; né il diritto di riproduzione del testo può ritenersi compreso nel diritto di rappresentazione, esecuzione, radiodiffusione del brano musicale per il quale l'autorizzazione sia stata eventualmente rilasciata, trattandosi di diritti separati, tanto più nel caso di canzoni, per le quali la legge distingue tra compositore della musica e paroliere (Sez. 1, n. 00873/2016 Lamorgese, Rv. 639914). 8. Risarcimento del danno. L'art. 124 del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui attribuisce al giudice il potere di fissare, con la sentenza che accerta la contraffazione di un marchio, una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente 383 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA constatata e per ogni ritardo nella esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa, non presuppone che con quest'ultima si sia provveduto anche alla liquidazione del danno, ma solo l'avvenuta adozione di provvedimenti inibitori. La collocazione della norma nel medesimo comma dedicato alla liquidazione del danno, giustificata dal riferimento di entrambe le disposizioni alle obbligazioni risarcitorie conseguenti alla commissione dell'illecito, non esclude, infatti, la distinzione tra le due forme di risarcimento, l'una riguardante i danni accertati, e quindi già verificatisi, l'altra eccezionalmente relativa ad un pregiudizio futuro, la cui incerta verificazione ed imprevedibile collocazione nel tempo comportano l'inutilizzabilità degli ordinari criteri di liquidazione del danno (Sez. 1, n. 10519/2016, Ragonesi, Rv. 639858). Quanto alla valutazione equitativa del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un'opera dell'ingegno, non è precluso al giudice il potere-dovere di commisurarlo, nell'apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall'attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo (Sez. 1, n. 04048/2016, Ragonesi, Rv. 638807). 9. Il brevetto europeo. Secondo la S.C., la decisione sull'istanza di nullità del brevetto comunitario presentata all'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno (UAMI) ha carattere pregiudiziale rispetto alla domanda di concorrenza sleale basata sul medesimo brevetto, costituendo la validità della privativa l'elemento fondante di tale azione ed implicando, pertanto, la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. (Sez. 1, n. 07450/2016, Ragonesi, Rv. 639602). La stessa pronuncia ha affermato che il provvedimento di sospensione del giudizio di contraffazione emesso in conseguenza dell'avvenuta presentazione, nel corso del processo ed a seguito di invito rivolto dal giudice alla parte convenuta che abbia ivi proposto domanda riconvenzionale di nullità del brevetto europeo, della medesima istanza di nullità innanzi all'UAMI ha carattere facoltativo ed è censurabile in sede di legittimità limitatamente alla completezza, correttezza e logicità delle argomentazioni ivi utilizzate, ma non anche avuto riguardo all'opportunità della sua adozione (Sez. 1, n. 07450/2016, Ragonesi, Rv. 639601). 384 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA Ha inoltre affermato la S.C. che la conversione prevista dall'art. 76, comma 3, del d.lgs. n. 30 del 2005 è applicabile anche al cd. brevetto europeo, il quale, risolvendosi in una sommatoria dei brevetti nazionali, non sottrae il giudice all'obbligo di fare applicazione della normativa interna al fine di vagliare la validità della frazione nazionale del medesimo (Sez. 1, n. 16949/2016, Rv. Di Marzio, Rv. 640907). 385 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA CAPITOLO XIX IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA (di Aldo Ceniccola) SOMMARIO: 1. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge 12 ottobre 1990, n. 287. – 2. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. – 3. Il consumatore e il professionista. 1. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge 12 ottobre 1990, n. 287. La questione dell'applicabilità delle regole poste dalla legge n. 287 del 1990 a soggetti che svolgono anche attività di rilevanza pubblicistica è affrontata da Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639767, che ha affermato che le norme in tema di tutela della concorrenza e del mercato non si applicano, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della menzionata legge, ai Consigli notarili distrettuali che assumano l'iniziativa del procedimento disciplinare, atteso che, limitatamente all'esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale fondata su un principio di solidarietà, affidatagli dalla legge, ed esercitano prerogative tipiche dei pubblici poteri. Lo stesso tema è affrontato, per pervenire in differente fattispecie a conclusioni opposte, da Sez. 1, n. 05763/2016, Genovese, Rv. 639088, che ha precisato che in tema di accertamento dell'esistenza di un danno derivante dall'abuso di posizione dominante, secondo la disciplina, nazionale e comunitaria, della concorrenza, la pratica dell'Agenzia del Territorio, svolta a latere delle sue funzioni istituzionali, e consistente nell'offerta al pubblico della cd. "ricerca continuativa", ossia nella possibilità di reperimento di ogni dato ed informazione relative alle formalità giornalmente riportate nei registri (catastali e immobiliari) da essa tenuti in regime di monopolio legale, oltre a quella di dare la cd. comunicazione dell'elenco dei detti soggetti risultanti dalle formalità accumulatesi in un solo giorno presso le proprie sedi territoriali, costituisce attività d'impresa vera e propria, esercitata in modo organizzato e durevole sul mercato, ed è, come tale, svolta in violazione della disciplina antimonopolistica, in riferimento al mercato dell'utilizzazione economica delle informazioni tratte, per fini commerciali, dalla consultazione di detti registri, considerato che l'Agenzia stessa è abilitata, per statuto, a consentire ad altri soggetti, previa stipula di convenzioni, alle condizioni da essa 386 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA stabilite e dietro pagamento di tasse, l'utilizzazione di quei servizi. Sotto il profilo più strettamente processuale, Sez. 6-1, n. 16272/2016, Bisogni, Rv. 641029, si è occupata del problema relativo alla connessione tra domande ordinarie e domande relative alle violazioni antitrust, statuendo che la controversia in cui la responsabilità contrattuale di una società di telecomunicazioni è dedotta come un aspetto della sua condotta abusiva ed anticoncorrenziale di cui la parte attrice chiede in primo luogo l'accertamento, appartiene alla competenza funzionale delle sezioni specializzate in materia di imprese, atteso che le disposizioni di cui all'art. 3, commi 1 e 3, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, attribuiscono a tali sezioni anche le cause ed i procedimenti che presentino ragioni di connessione con quelli relativi alla verifica della violazione della normativa antitrust. Sempre in tema di connessione, Sez. U, n. 15539/2016, Ragonesi, Rv. 640800, ha rimesso alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE, la questione se, proposte domande di abuso di posizione dominante e concorrenza sleale nell'ambito di una controversia di accertamento negativo di contraffazione di disegno comunitario, cui sono connesse perché il loro accoglimento presuppone il preventivo esito favorevole di quest'ultima, ne sia possibile, o meno, la loro complessiva trattazione congiunta innanzi al medesimo giudice, e se quelle domande, ove ritenute costituire una fattispecie di illecito civile, incidano sull'applicabilità dell'art. 5, n. 3, del regolamento CE n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000, ovvero quello del regolamento CE n. 6/2002 del Consiglio del 12 dicembre 2001, per quanto concerne la competenza giurisdizionale. Sotto il profilo del riparto di giurisdizione, Sez. U, n. 06020/2016, Scarano, Rv. 638988, ha statuito che la domanda con la quale il titolare di un distributore di carburanti chieda nei confronti della P.A. il risarcimento del danno cagionato da un'attività concorrenziale autorizzata con provvedimento amministrativo successivamente annullato rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto è in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio di un potere amministrativo discrezionale. 2. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. Utili indicazioni per delineare l'ambito di applicazione oggettivo della fattispecie generale di cui all'art. 2598 c.c. possono essere tratte da Sez. 1, n. 06274/2016, Mercolino, Rv. 639213, che ha puntualizzato 387 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA come, in materia di concorrenza sleale, integri gli estremi dello sviamento di clientela la condotta posta in essere da un imprenditore che, per il tramite di propri dipendenti già al servizio di un concorrente, si appropri di tabulati recanti i nominativi di clienti e distributori di quest'ultimo, essendo irrilevante la circostanza che detti nominativi fossero già noti al medesimo imprenditore ed a tali dipendenti, trattandosi di informazioni comunque riservate e, come tali, non divulgabili. Sempre a proposito dell'ambito applicativo dell'art. 2598 c.c., secondo Sez. 1, n. 16948/2016, Di Marzio, Rv. 640908, costituisce atto di concorrenza sleale la commercializzazione di un whisky con una denominazione fuorviante (nella specie, Scottish Swordsman e Scottish Piper), tale, quindi, da suggerire, contro il vero, la provenienza del prodotto dalle tradizionali aree geografiche di produzione, e cioè dalla Scozia. La fattispecie della concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell'impresa altrui (art. 2598, n. 2, c.c.), è stata invece esaminata da Sez. 6-1, n. 00100/2016, Genovese, Rv. 638572, secondo cui la condotta alla quale la norma fa riferimento non consiste nell'adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all'impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori. (Nella specie, è stata considerata concorrenza sleale l'aver presentato i propri prodotti come simili o identici a quelli di un concorrente noto, facendo espresso riferimento al marchio di quest'ultimo, sfruttandone la rinomanza tra i destinatari del messaggio e così facendo accreditare i propri prodotti presso la clientela senza sforzi di investimento). In materia di concorrenza sleale riveste particolare interesse anche Sez. 1, n. 24658/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, la quale, ritenuta l'ammissibilità del cumulo con l'azione concessa a tutela del brevetto, ha escluso peraltro che la semplice deduzione da parte dell'attore della violazione della privativa industriale integri, di per sé, anche un atto rilevante ai fini di cui all'art. 2598, n. 1, c.c. Secondo Sez. 1, n. 22042/2016, Lamorgese, in corso di massimazione, la diffusione di informazioni che arrecano discredito e pregiudizio all'azienda dell'impresa concorrente rientra nel 388 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA legittimo esercizio del diritto di critica e non costituisce atto di concorrenza sleale per denigrazione allorquando tali informazioni siano veritiere e non costituiscano l'occasione per formulare vere e proprie offese ed invettive nei confronti del concorrente. Del divieto di concorrenza, con particolare riferimento all'ambito applicativo dell'art. 2301 c.c., si è occupata Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639795, che ha evidenziato come il divieto, posto dalla norma con riguardo ai soci di società in nome collettivo, sia applicabile anche nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale. 3. Il consumatore e il professionista. Sulla nozione di professionista, tratteggiata in via generale dall'art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, interessante è il chiarimento reso da Sez. 6- 3, n. 15391/2016, Sestini, Rv. 641154, riguardo al contratto sottoscritto da una parte nell'interesse o a nome della propria impresa individuale, che svolga un'attività non incompatibile con l'oggetto del contratto stesso; dovendo tale contratto ritenersi concluso per scopi professionali, nelle relative controversie lo speciale foro del consumatore non è applicabile, salva prova contraria da parte del contraente interessato. Sempre a proposito della nozione di professionista, Sez. 6-2, n. 00780/2016, Giusti, Rv. 638267, ha precisato che nel procedimento di liquidazione dei compensi di avvocato non trovano applicazione le regole sul foro del consumatore ove la prestazione professionale sia stata resa in un giudizio inerente l'attività imprenditoriale e professionale svolta dal cliente. (Nella specie, l'avvocato aveva prestato patrocinio in un procedimento tributario avente ad oggetto la pretesa tributaria nei confronti del cliente in qualità di socio ed amministratore unico di una società di capitali). Quanto al riscontro della qualifica soggettiva di consumatore in presenza di un contratto di fideiussione, ai fini dell'applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore di cui agli artt. 1469 bis e ss. c.c., nel testo vigente ratione temporis, il requisito soggettivo deve riferirsi all'obbligazione garantita, cui quella del fideiussore è accessoria: è quanto statuito da Sez. 1, n. 16827/2016, Valitutti, Rv. 640914, per trarne la conseguenza che, 389 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA difettando tale condizione, è valida la clausola derogativa della competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione per le esposizioni bancarie di una società di capitali stipulato da un socio o da un terzo. La protezione del consumatore, affidata all'assolvimento degli obblighi informativi da parte del professionista, è particolarmente valorizzata da Sez. 6-2, n. 18171/2016, Falaschi, Rv. 641097, che ha affermato che in tema di sicurezza ed etichettatura delle merci, il dettagliante che immette sul mercato prodotti privi delle informazioni prescritte è sanzionabile, alla stregua di un'interpretazione sistematica della relativa disciplina, per la violazione dell'art. 6 del d.lgs. n. 206 del 2005, senza che possa invocare la propria buona fede per aver acquistato i prodotti da rivenditori autorizzati o grossisti, trattandosi di errore di diritto non scusabile, stante la semplicità degli adempimenti richiesti, basati su una conoscenza minima e necessaria della legislazione nazionale ed europea, tanto più che il suo operato si colloca nella fase in cui è maggiore l'esigenza di tutelare la libera autodeterminazione del consumatore. Con due importanti pronunce la Corte è poi intervenuta sul tema della tutela collettiva dei diritti dei consumatori. Sez. U, n. 23304/2016, Didone, in corso di massimazione, ha ritenuto che se, giusta l'art. 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281, le associazioni iscritte possono agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori, a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore. Sez. 1, n. 23631/2016, Acierno, in corso di massimazione, ha statuito che l'ordinanza adottata dalla corte d'appello in sede di reclamo che ha dichiarato ammissibile l'azione di classe ex art. 140 bis del codice del consumo non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. 390 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' CAPITOLO XX IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ (di Lorenzo Delli Priscoli) SOMMARIO: 1. Limiti dell'oggetto sociale e tutela dell'affidamento dei terzi. – 2. La responsabilità degli amministratori. – 3. Le società di persone. – 4. Differenze tra s.r.l. e s.p.a. – 5. La soggettività giuridica delle società. – 6. Recesso del socio e liquidazione della quota. – 7. Redazione del bilancio. – 8. Fusione, scissione e trasformazione d società. – 9. Cancellazione ed estinzione delle società. – 10. Le società a partecipazione pubblica. – 11. Le società cooperative. – 12. Le società consortili. 1. Limiti dell'oggetto sociale e tutela dell'affidamento dei terzi. La Suprema Corte è stata chiamata in due occasioni a pronunciarsi in merito al tema dei limiti per gli amministratori di società di capitali del rispetto dell'oggetto sociale nel loro agire con i terzi. Entrambe le sentenze si sono interessate delle conseguenze dell'eccedenza dell'atto rispetto ai limiti dell'oggetto sociale (art. 2328, n. 3, e 2384 c.c.), ovvero del suo compimento al di fuori dei poteri conferiti all'amministratore. La Corte ha ritenuto che in tali ipotesi non si verifica un caso di nullità, ma, al più, soltanto di inefficacia e di opponibilità nei rapporti con i terzi, cui consegue, ma solo eventualmente, la responsabilità degli amministratori che lo hanno compiuto. Il primo arresto (Sez. 1, n. 17761/2016, Ferro, Rv. 641173) ha sottolineato che ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società di capitali all'oggetto sociale, e della conseguente efficacia dello stesso ai sensi dell'art. 2384 c.c., il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell'atto rispetto all'oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell'atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell'ente. Non sono invece sufficienti, al predetto fine, né il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere (la cui elencazione non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, funzionali all'esercizio di una determinata attività, né assicurando l'espressa previsione statutaria di un atto tipico che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività), né il criterio della conformità dell'atto all'interesse della società (in quanto l'oggetto sociale costituisce, ai sensi dell'art. 2384 c.c., un limite al potere rappresentativo degli amministratori, i quali non possono perseguire 391 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' l'interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell'atto costitutivo). La seconda decisione (Sez. 3, n. 12273/2016, Genovese, Rv. 640013) si pone invece nella prospettiva della necessità di offrire una adeguata tutela ai terzi, affermandosi che il principio dell'apparenza del diritto e dell'affidamento, traendo origine dalla legittima e quindi incolpevole aspettativa del terzo di fronte ad una situazione ragionevolmente attendibile, ancorché non conforme alla realtà, non altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni, non è invocabile nei casi in cui la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare con l'ordinaria diligenza la consistenza effettiva dell'altrui potere, come accade nel caso di organi di società di capitali regolarmente costituiti; tuttavia, anche in tale ipotesi, il principio dell'affidamento può essere invocato, qualora il potere sulla cui esistenza si assume di aver fatto incolpevolmente affidamento possa sussistere indipendentemente dalla sua regolamentazione statutaria e possa essere conferito per determinati atti e senza particolari formalità. La terza pronuncia (Sez. 1, n. 24547/2016, Cristiano, in corso di massimazione) riguarda specificamente il tema dell'eccedenza dell'atto rispetto ai poteri conferitigli, che non integra un'ipotesi di nullità, ma di inefficacia e di opponibilità dell'atto medesimo ai terzi; è dunque rimesso alla società, e solo ad essa, la decisione di respingere gli effetti dell'atto, sicchè deve correlativamente esserle riconosciuto il potere di assumere ex tunc quegli effetti, attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri, attraverso una delibera autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell'amministratore. Ne deriva che ogni questione relativa alla estraneità dell'atto compiuto dall'amministratore rispetto all'oggetto sociale è da ritenersi irrilevante a seguito e per effetto dell'adozione di una delibera di autorizzazione preventiva, o di ratifica successiva, adottata dalla società, posto che tale delibera impegna la società medesima alla condotta di essa esecutiva e ad essa conforme posta in essere dall'organo di gestione, idonea o meno che sia rispetto al perseguimento dell'oggetto sociale. Il rispetto dell'oggetto sociale, d'altro canto, non può ritenersi espressione di un interesse superiore a quello dei soci, se è vero che questi non trovano alcun limite nel loro potere di modificarlo in ogni tempo, senza che nessun creditore abbia diritto di esserne informato o il diritto di opporvisi. In ossequio a tale principio, la S.C. ha respinto la tesi dell'attore secondo cui la fideiussione 392 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' rilasciata da una società per assicurare il finanziamento di altra società avrebbe dovuto essere dichiarata inefficace attesa la presunta nullità della delibera sociale che aveva ratificato l'operato dell'amministratore il quale, essendo allo stesso tempo anche socio della società garantita, agiva in palese conflitto di interesse. Riprendendo un principio già enunciato a proposito delle società di capitali (Sez. 1, n. 16416/2002, De Chiara, Rv. 558636), è stato infine affermato in tema di società di persone che, ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società all'oggetto sociale, il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell'atto rispetto all'oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell'atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell'ente (Sez. 1, n. 25409/2016, De Chiara, in corso di massimazione). Quest'ultima pronuncia precisa altresì che non sono invece sufficienti, al predetto fine, né il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere (in quanto, da un lato, la elencazione statutaria di atti tipici non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, che possono essere funzionali all'esercizio di una determinata attività, e, dall'altro, anche la espressa previsione statutaria di un atto tipico non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività), ne' il criterio della conformità dell'atto all'interesse della società (in quanto l'oggetto sociale costituisce, ai sensi dell'art. 2384 c.c., un limite al potere rappresentativo degli amministratori, i quali non possono perseguire l'interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell'atto costitutivo), né infine l'affidamento in buona fede del terzo circa la validità dell'atto compiuto dagli amministratori. 2. La responsabilità degli amministratori. La Corte sviluppa e precisa, il principio, di origine nordamericana, della business judgement rule (temperato dal "nostro" principio di ragionevolezza), già espresso negli anni passati (ad esempio, Sez. 1, n. 03409/2013, Rordorf, Rv. 625022), secondo cui all'amministratore di una società non può essere imputato di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della 393 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. La responsabilità degli amministratori di società per azioni delineata dal legislatore della riforma del 2003 può discendere non solo dalla violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico già delineato dalla legge e dallo statuto, ma anche dall'inadempimento all'obbligo generale di gestire l'impresa con la dovuta diligenza. Tuttavia l'attenzione della giurisprudenza si è focalizzata prevalentemente sulla violazione da parte degli amministratori di specifici obblighi previsti dalla legge o dallo statuto: a quelli di ampia portata – quali i divieti di agire in conflitto di interessi (art. 2391 c.c.) e di esercitare un'attività in concorrenza con quella della società in assenza di specifica autorizzazione da parte dell'assemblea (art. 2390 c.c.) – si affiancano disposizioni assai più specifiche, la cui violazione, se foriera di danno, è anch'essa idonea a determinare la responsabilità dell'organo di gestione. Sono i casi, fra gli altri, del precetto che impone agli amministratori di convocare l'assemblea su richiesta della minoranza, del regime dell'acquisto di azioni proprie, del dovere di verificare la congruità della stima dei conferimenti in natura, delle norme in materia di diritto di opzione, nonché dell'art. 2404 quater, comma 2, c.c., in tema di fusione. Le disposizioni che più di frequente vengono in rilievo a livello operativo sono poi gli artt. 2485 e 2486 c.c., i quali stabiliscono che, una volta verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori devono iscriverla senza indugio nel registro delle imprese, con il che sorge l'obbligo di limitare la gestione alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. Più raramente invece la S.C. ha riconosciuto che la responsabilità degli amministratori si riferisce anche al generico obbligo di amministrare con diligenza, pur se deve considerarsi che anche la gestione della società è un'attività contemplata dalla legge: l'art. 2380 bis, comma 1, c.c. stabilisce infatti che «la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale». 394 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' Del resto, l'esistenza di un generale principio di diligente amministrazione lo si evince anche dalla previsione, al comma 3 dell'art. 2381 c.c., di un obbligo di valutazione da parte del consiglio di amministrazione del generale andamento della gestione da parte degli amministratori delegati e di un obbligo specifico di vigilanza sul rispetto di tali principi in capo agli organi di controllo, anche se, per un difetto di coordinamento, la statuizione espressa si rinviene soltanto per il collegio sindacale (art. 2403 c.c.: «il collegio sindacale vigila (...) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione») e per il consiglio di sorveglianza (art. 2403 terdecies, comma 1, lett. c), ma non per il comitato per il controllo sulla gestione (art. 2403 octiesdecies); anche sul quale però si ritiene che, ricorrendone la stessa ratio, gravi in via analogica un obbligo di vigilanza sul rispetto di una condotta diligente e corretta da parte degli amministratori. Il principio di corretta e diligente amministrazione, prima espressamente contemplato soltanto per le società quotate (cfr. art. 149, co. 1, lett. a) e b), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, secondo cui «il collegio sindacale vigila (...)» non solo «sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo», ma anche «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione», è dunque assunto a clausola generale di comportamento degli amministratori di tutte le società di capitali. Il rispetto delle regole, anche tecniche e non solo giuridiche, di buona gestione è oggi, pertanto, norma di diritto comune, e come tale è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità. Le regole organizzative escono dunque dall'area della tecnica aziendalistica, superano i confini dei settori vigilati (banche, assicurazioni, società quotate) e si estendono a tutte le società azionarie. Occorre pertanto distinguere non tra l'attività degli amministratori prevista dalla legge e quella non prevista, ma, nell'ambito dell'attività degli amministratori (che è interamente prevista dalla legge), tra attività discrezionale e attività vincolata. In altre parole, ciò che cambia è la più o meno penetrante specificità dell'obbligo di legge, che altro non significa che nel caso di attività discrezionale è più difficile la prova della non diligenza dell'amministratore, non anche che egli possa tenere una diligenza inferiore e diversa da quella che accompagna l'esecuzione di obblighi specifici o possa non averne affatto. L'attività di amministrare e gestire l'impresa con la dovuta diligenza costituisce infatti un obbligo di legge degli amministratori derivante dal contratto che li lega alla società (cfr. Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621, secondo cui il rapporto che lega 395 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court), al pari di altri obblighi specifici, quale ad esempio quello di convocare, in certe circostanze, l'assemblea. L'unica differenza è la maggiore discrezionalità che è posta in capo agli amministratori nel perseguire l'obiettivo di gestire la società. Ha conseguentemente affermato Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio, Rv. 641164 che la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell'art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) – ferma l'applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell'art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c. cui implicitamente si richiama anche il nuovo testo dell'art. 2392 c.c. La Cassazione ha anche ritenuto nella medesima pronuncia (Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio, Rv. 641165) che in virtù della modifica dell'art. 2392 c.c. avvenuta a seguito della riforma delle società di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (cd. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di questi ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Sempre in tema di natura contrattuale della responsabilità dell'amministratore, Sez. 1, n. 00952/2016, Didone, Rv. 640932 ha 396 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' affermato che tale natura consente alla società che agisca per il risarcimento del danno, o al curatore in caso di sopravvenuto fallimento di quest'ultima, di allegare l'inadempimento dell'organo gestorio quanto alla giacenze di magazzino, restando a carico del convenuto l'onere di dimostrare l'utilizzazione delle merci nell'esercizio dell'attività di impresa. Ha poi precisato Sez. 1, n. 17197/2016, Ferro, Rv. 641043, che l'azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali. Ne consegue che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie, siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale, ai sensi dell'art. 20 c.p.c. la competenza territoriale si determina, facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda. Quanto ai danni subiti dalla società a responsabilità limitata da operazioni illegittime, il giudice ben può tenere conto, al fine di ricostruire nei limiti del possibile l'andamento degli affari sociali, e di valutare gli effetti concreti dell'operato degli amministratori medesimi, delle risultanze di scritture contabili informali, ossia non conformi alle prescrizioni di legge (Sez. 2, n. 12454/2016, Scaldaferri, Rv. 640108). È stato infine affermato che nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante può far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l'azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest'ultimo per gravi inadempienze, l'impugnativa del rendiconto, o la revoca per giusta causa dell'amministratore, mentre non è legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società (Sez. 2, n. 17691/2016, Falabella, Rv. 641008). 3. Le società di persone. Ha ritenuto, in tema di società in nome collettivo, Sez. 6-T, n. 15966/2016, Caracciolo, Rv. 640644, che la cartella esattoriale non è un atto esecutivo ma preannuncia l'esercizio dell'azione esecutiva ed è, pertanto, parificabile al precetto, sicché è inapplicabile l'art. 2304 c.c. che disciplina il beneficium excussionis relativamente alla sola fase esecutiva. 397 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' È stato anche evidenziato, questa volta in tema di società in accomandita semplice, che la responsabilità del socio accomandatario per le obbligazioni contratte dalla società (nella specie relative ad IVA e IRAP) è illimitata e non circoscritta alle somme conferitegli in base al bilancio finale di liquidazione nonostante l'estinzione della società conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, atteso che tale evento non determina l'estinzione dell'obbligazione sociale, ma solo il suo trasferimento in capo ai soci, i quali ne rispondono secondo lo stesso regime di responsabilità vigente pendente societate (Sez. 6-T, n. 13805/2016, Caracciolo, Rv. 640167). La differenza fra soci accomandanti e accomandatari è messa in rilievo sotto il classico punto di vista della responsabilità per le obbligazioni sociali da Sez. L, n. 11250/2016, Lorito, Rv. 639934, secondo cui il socio accomandante assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, a norma dell'art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società, o di compiere atti di gestione aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della stessa e sotto lo specifico profilo del divieto di concorrenza previsto dall'art. 2301 c.c. con riguardo ai soci di società in nome collettivo (Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639795): tale norma è applicabile nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con un'apposita disposizione contenuta nel contratto sociale. La Cassazione ha confermato il principio, già espresso dalle sezioni unite (Sez. U, n. 04060/2010, Forte, Rv. 612084). secondo cui una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495, comma 2, c.c., nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento. In applicazione di tale principio, la Cassazione ha ritenuto inammissibile l'appello proposto da una s.a.s. dopo oltre un anno dalla sua cancellazione, ritenendo invece che l'impugnazione, per essere valida, sarebbe dovuta provenire dai soci succeduti alla 398 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' società estinta (Sez. 2, n. 26196/2016, Ferro, Rv. 640108, in corso di massimazione). 4. Differenze tra s.r.l. e s.p.a. La Cassazione si è occupata dei rapporti tra società a responsabilità limitata e per azioni evidenziando come le due discipline abbiano subito una maggiore divaricazione a seguito della riforma di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Ha in particolare affermato la Corte che nelle s.r.l. il potere di convocare l'assemblea (nella specie, per decidere sulla revoca dell'amministratore), in caso di inerzia dell'organo di gestione, deve riconoscersi, nel silenzio della legge e dell'atto costitutivo, ai soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale, stante, da un lato, il mancato richiamo, nella disciplina di tali società, all'art. 2367 c.c., dettato per le società per azioni e non applicabile in via analogica, attesa la forte differenza tra i due tipi societari, e, dall'altro, l'inutilizzabilità dell'art. 2487 c.c., in quanto relativo alla nomina e revoca non degli amministratori ma dei liquidatori (Sez. 1, n. 10821/2015, Bernabai, Rv. 639856). Implicitamente la differenza di disciplina tra s.p.a. e s.r.l. è stata evidenziata anche da Sez. 1, n. 10509/2016, Bernabai, Rv. 639813, sentenza la quale, ritenendo che i finanziamenti erogati dalle compagnie finanziarie in qualità di soci sovventori di società cooperative non sono soggetti alla postergazione prevista dall'art. 2467 c.c. in tema di s.r.l., atteso che, giusta l'art. 2519 comma 1, c.c., alle cooperative risulta applicabile la disciplina delle società per azioni che non riproduce l'effetto postergativo, ha ritenuto che il richiamo alle s.p.a. non valesse quale possibilità di applicare alle società cooperative la disciplina delle s.r.l. Coerentemente, secondo Sez. 1, n. 01095/2016, Nazzicone, Rv. 638275, la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege 399 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' prevista dall'art. 147, comma 1, l.fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza. 5. La soggettività giuridica delle società. Le società di persone, a differenza di quelle di capitali, pur avendo una soggettività giuridica, sono prive di personalità giuridica, avendo questa la sua genesi imprescindibile nel dato normativo. Del resto, La Relazione al codice (nn. 927-928) è netta nell'affermare che la personalità giuridica «è stata riconosciuta alle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, mentre è stata negata, pur riconoscendosi una limitata autonomia patrimoniale, alla società in nome collettivo e in accomandita semplice», oltre che alla società semplice. Ha così stabilito Sez. 1, n. 01261/2016, Di Virgilio, Rv. 638430 che nelle società di persone, se l'amministratore non presenta il rendiconto, il socio – diversamente da quanto accade nelle società di capitali, ove occorre una delibera assembleare che ne autorizzi la distribuzione – non percepisce gli utili, subendo così, in via diretta ed immediata, un danno che, come tale, può invocare agendo per far valere la responsabilità extracontrattuale dell'organo amministrativo, ai sensi dell'art. 2395 c.c., ivi applicabile analogicamente, atteso che la società personale, ancorché priva di autonoma personalità giuridica, costituisce un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, sicché, anche con riguardo ad essa, è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, alla stregua di quanto previsto in materia di società per azioni. La Cassazione ha altresì affermato il principio secondo cui il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o da altro socio (Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158). È stato anche specificato, in tema di capacità processuale, che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., il potere di rappresentanza di un ente o di una società dotata di personalità giuridica, ove spettante al presidente, deve essere di regola riconosciuto al vice presidente, cui normalmente competono funzioni vicarie senza necessità di apposita delega (Sez. 3, n. 14362/2016, Carluccio, Rv. 640600). 400 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' 6. Recesso del socio e liquidazione della quota. Ha affermato la S.C. che il recesso legale del socio, sancito dagli artt. 2523 e 2437 c.c. (nei rispettivi testi anteriori alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6 del 2003), non può essere limitato o soppresso, neppure da clausole statutarie, senza violare la norma di legge attributiva del diritto potestativo, mentre, qualora tale facoltà trovi la sua fonte nelle clausole statutarie e, dunque, sorga con l'atto costitutivo come manifestazione della volontà negoziale, è suscettibile di essere disciplinata e conformata attraverso clausole che specifichino le situazioni legittimanti il relativo esercizio, oppure lo limitino o condizionino, prevedendo (come nella specie) la necessità, per la sua efficacia, di una positiva constatazione del consiglio d'amministrazione circa l'effettiva ricorrenza della situazione legittimante il recesso stesso (Sez. 1, n. 02979/2016, Scaldaferri, Rv. 638748). In tema di liquidazione della quota del socio receduto da società di persone (nella specie, società in accomandita semplice) Sez. 1, n. 08233/2016, Genovese, Rv. 639465, ha stabilito che l'art. 2289, comma 3, c.c., nel porre a favore ed a carico di detto socio, rispettivamente, gli utili e le perdite inerenti ad "operazioni in corso" alla data del recesso, si riferisce alle sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti a quella data. Esso, pertanto, trova applicazione con riguardo alle somme versate dalla società in base a condono fiscale attinente a violazioni commesse prima del recesso, anche se richiesto in epoca successiva – sempre che non siano in discussione la sussistenza della violazione ed il carattere vantaggioso della definizione agevolata – in quanto la relativa istanza e gli ulteriori adempimenti connessi sono rivolti ad estinguere un debito già sorto. 7. Redazione del bilancio. In tema di bilancio prevalgono le decisioni dirette ad evidenziare la funzione di esso in chiave informativa dei soci e dei potenziali investitori circa la reale situazione patrimoniale della società. La Cassazione (Sez. 1, n. 07586/2016, Genovese, Rv. 639466) ha così affermato che il bilancio di esercizio di una società per azioni, in forza del principio di continuità, deve partire dai dati di chiusura del bilancio dell'anno precedente, anche nel caso in cui l'esattezza e la legittimità di questi ultimi siano state poste in discussione in sede contenziosa e siano state negate con sentenza non passata in giudicato (nella specie, per il mancato rispetto dei termini di convocazione di un socio). Infatti, solo il passaggio in giudicato di quella sentenza fa sorgere il dovere 401 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' degli amministratori di apporre al bilancio contestato le variazioni imposte dal comando giudiziale, e, quindi, di modificare di conseguenza i dati di partenza del bilancio successivo. Coerentemente, gli amministratori devono soddisfare l'interesse del socio ad una conoscenza concreta dei reali elementi contabili recati dal bilancio al fine di realizzare il diritto di informazione previsto dall'art. 2423 c.c., che è in rapporto di strumentalità con il principio di chiarezza, sicché sono obbligati a rispondere alla domanda d'informazione pertinente e a cui non ostino oggettive esigenze di riservatezza, in modo da dissipare le insufficienze, le incertezze e le carenze di chiarezza in ordine ai dati di bilancio ed alla relativa relazione (Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638815). Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638814, secondo cui il bilancio di esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art. 2423, comma 2, c.c., è illecito, sicché la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato è nulla non soltanto se la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte. La Corte ha infine precisato che il bilancio di una società di capitali regolarmente approvato, al pari dei libri e delle scritture contabili dell'impresa soggetta a registrazione, fa prova, ai sensi dell'art. 2709 c.c., in ordine ai debiti della società medesima, il cui apprezzamento è affidato alla libera valutazione del giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa (Sez. 1, n. 03190/2016, Bisogni, Rv. 638751). 8. Fusione, scissione e trasformazione di società. Ha affermato la Cassazione (Sez. L, n. 18188/2016, Boghetich, Rv. 641143) che in caso di fusione per incorporazione, ai sensi degli artt. 2501 e ss. c.c., come modificati dal d.lgs. 9 gennaio 2003, n. 6, la società incorporata, in quanto coinvolta in una vicenda evolutiva- modificativa, con mutamento solo formale dell'organizzazione societaria già esistente, non si estingue e, sopravvivendo in tutti i suoi rapporti, anche processuali, resta legittimata all'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali di cui è parte. 402 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' È stato altresì specificato che, nel giudizio volto al risarcimento del danno subito dal socio in ragione della determinazione di un rapporto di cambio incongruo, il rilievo del patrimonio della società incorporata avviene attraverso la mediazione del rapporto di cambio tra le azioni dell'incorporata e quelle dell'incorporante, mediante la valutazione di entrambe le società e la fissazione dei rapporti matematici relativi; non costituisce, invece, un criterio corretto di liquidazione l'immediato pagamento a favore del socio di minoranza – in via proporzionale pro quota – del minor incasso conseguito dalla società partecipata per la dismissione di un bene sottocosto, perché varrebbe come risarcire il danno indiretto al di fuori dei casi ammessi dalla legge (Sez. 1, n. 15025/2016, Nazzicone, Rv. 640808). Venendo alla scissione di società, l'art. 2504 decies, comma 2, c.c. (applicabile ratione temporis, oggi art. 2506 quater, comma 3, c.c.) va interpretato nel senso che la società scissa risponde in via solidale, unitamente alla società di nuova costituzione, beneficiaria di una parte del patrimonio originario, del debito a quest'ultima trasferito o mantenuto. Tali debitrici solidali, peraltro, sono tenute con modalità diverse: da un lato, infatti, la responsabilità della società scissa, presupponendo che il credito da far valere sia rimasto insoddisfatto, postula solo la previa costituzione in mora della società beneficiaria (cd. beneficium ordinis), non anche la sua preventiva escussione; dall'altro, esclusivamente la società cui il debito è trasferito o mantenuto risponde dell'intero debito, mentre la società scissa risponde nei limiti della quota di patrimonio netto rimastale al momento della scissione e, dunque, disponibile per il soddisfacimento dei creditori, atteso che la suddetta disposizione tende a mantenere integre le garanzie dei creditori sociali per l'ipotesi di scissione, non anche ad accrescerle (Sez. 1, n. 04455/2016, Nappi, Rv. 639023). Infine, ha stabilito la Cassazione che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all'originaria organizzazione societaria (Sez. 1, n. 10332/2016, Di Virgilio, Rv. 639805). 403 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' 9. Cancellazione ed estinzione delle società. Secondo la Suprema Corte (Sez. 3, n. 15782/2016, Barreca, Rv. 641155), in caso di cancellazione volontaria di una società dal registro delle imprese, effettuata in pendenza di un giudizio risarcitorio introdotto dalla società medesima, si presume che quest'ultima abbia tacitamente rinunciato alla pretesa relativa al credito, ancorché incerto ed illiquido, per la cui determinazione il liquidatore non si sia attivato, preferendo concludere il procedimento estintivo della società; tale presunzione comporta che non si determini alcun fenomeno successorio nella pretesa sub iudice, sicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnare la sentenza d'appello che abbia rigettato questa pretesa. La Cassazione ha altresì affermato, in tema di giudizio di legittimità, che è inammissibile il controricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese atteso che, da un lato, l'estinzione, intervenuta in pendenza di giudizio, determina la perdita della capacità processuale, l'interruzione del processo ex art. 299 e ss. c.p.c. e la successione dei soci ai sensi dell'art. 110 c.p.c., e, dall'altro, la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso della controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso per cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci (Sez. T, n. 15177/2016, Criscuolo, Rv. 640969). 10. Società a partecipazione pubblica. Hanno affermato le Sezioni Unite (Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090) che la controversia riguardante l'impugnazione della deliberazione della giunta comunale, recante la nomina del rappresentante del comune nel consiglio di amministrazione di una s.p.a. interamente partecipata da enti locali, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, stante la natura di diritto soggettivo della posizione coinvolta oggetto di contestazione e l'assenza di una specifica attribuzione al giudice amministrativo, per tale fattispecie, di una giurisdizione su diritti. Sempre le sezioni unite hanno precisato che non è configurabile la responsabilità contabile degli amministratori nei confronti delle società in house per l'assenza di un rapporto di servizio con gli enti pubblici azionisti, risolvendosi il pregiudizio patrimoniale derivante dall'eventuale loro mala gestio in un vulnus gravante, in via diretta, solo sul patrimonio della società stessa, soggetta a regole privatistiche e dotata di autonoma e distinta 404 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' personalità giuridica rispetto ai soci, mentre è ipotizzabile a carico dei sindaci dei comuni stessi che non abbiano esercitato i poteri ed i diritti spettanti al socio pubblico al fine di indirizzare correttamente l'azione degli organi sociali o di reagire opportunamente ai loro illeciti, in relazione ai quali non vale la distinzione tra danno diretto ed indiretto per l'ente locale, occorrendo fare riferimento al danno concretamente imputabile agli enti di cui sono rappresentanti (Sez. U, n. 21692/2016, Chindemi, Rv. 641528). Inoltre, secondo Sez. L, n. 15636/2016, Patti, Rv. 640276, incorre in vizio di omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il giudice (nella specie, corte di appello) che abbia escluso, con affermazione sostanzialmente apodittica, la natura privata di una società, ritenendola, viceversa, "società a partecipazione pubblica totale", senza effettuare un esame critico della documentazione prodotta ed in particolare dello statuto della società. Ha affermato Sez. L, n. 24109/2016, Patti, Rv. 641702 che, nel caso di trasformazione di enti creditizi pubblici (nella specie, Banco di Napoli) in società per azioni, non può essere esclusa l'applicabilità della disciplina sui licenziamenti di cui alla l. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro con un ente pubblico economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni soggettive già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico. In tema di riparto di giurisdizione tra il giudice contabile e quello ordinario le Sezioni unite (Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, in corso di massimazione), hanno affermato che la società in house è sottoposta alla giurisdizione contabile quando, al di là della sua veste formale societaria, è un soggetto che tramite i suoi amministratori e dipendenti, in ragione della sua struttura e delle modalità del suo agire, deve operare in modo simile da un ente pubblico territoriale (nella specie una Regione). Pertanto, l'agire dei medesimi che provochi un danno al patrimonio della società si configura come potenzialmente determinativo di un danno erariale, perché la società, sotto lo schermo formale della veste assunta, opera nel mondo giuridico con una struttura e con modalità di svolgimento della sua attività ascrivibili all'ente pubblico territoriale, di modo che, l'una e l'altra, sebbene formalmente imputabili alla società ed incidenti sul suo patrimonio, incidono direttamente su un patrimonio pubblico. Ciò, perché tale soggetto è dalla legge considerato, agli effetti della giurisdizione contabile, un sostanziale ente pubblico e, quindi, la funzione degli amministratori, pur 405 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' essendo il soggetto amministrato una società, è rapporto di amministrazione di un ente pubblico, mentre quello dei dipendenti è assimilabile ad un rapporto di servizio con un ente pubblico. 11. Le società cooperative. Ritiene Sez. 1, n. 16622/2016, Ferro, Rv. 641044, che è legittima la clausola statutaria che preveda l'obbligo dei soci di rimborsare alla società cooperativa a responsabilità limitata tutte le spese e gli oneri per il suo funzionamento, poiché non implica un'incidenza sulla tipologia societaria così da far assumere alla cooperativa la veste di società a responsabilità illimitata, atteso che non impegna i soci per le obbligazioni sociali verso i terzi, ma regola solo i rapporti interni alla società e, inoltre, è pienamente compatibile con la realizzazione dell'oggetto sociale, afferendo ad una prestazione accessoria ad esso funzionale. Secondo la Cassazione, nel giudizio di impugnazione della deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo solo se la relativa esigenza è sorta in conseguenza delle difese della parte convenuta (Sez. 1, n. 16617/2016, Di Marzio, Rv. 641037). Le Sezioni Unite hanno stabilito che il termine di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione del socio di una società cooperativa previsto dall'art. 2527, comma 3, c.c., nella sua formulazione antecedente alla modifica introdotta dall'art. 8 del d.lgs. n. 6 del 2003, è applicabile anche nel caso in cui il relativo giudizio sia introdotto davanti agli arbitri in ragione della presenza di una clausola compromissoria nello statuto (Sez. U, n. 13722/2016, Didone, Rv. 640190). Secondo Sez. L, n. 06373/2016, Riverso, Rv. 639246, in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, l'onere di comunicazione della delibera di esclusione del socio, in un contenuto minimo necessario a specificarne le ragioni, è imposto, come per il licenziamento, a pena d'inefficacia, sia dalla disciplina generale di cui all'art. 2533 c.c., ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, sia, per la gravità degli effetti che ne discendono, dalla disciplina speciale di cui alla legge 3 aprile 2001, n. 142, che la rende idonea ad estinguere contemporaneamente il rapporto associativo e quello lavorativo sicché, in presenza di un'esclusione non impugnata, non potrebbe essere dichiarata l'illegittimità del licenziamento né ripristinato il solo rapporto di lavoro. 406 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' Ha affermato Sez. 1, n. 23514/2016, Manna, Rv. 641676, che il trasferimento di un immobile da una società cooperativa al socio prevede una fattispecie a formazione progressiva, in cui la prima fase - che presuppone l'acquisizione dello "status" di socio da parte dell'assegnatario e la prenotazione dell'alloggio - deve qualificarsi come contratto preliminare, perché con l'individuazione del bene e del corrispettivo nasce l'obbligo per la società di prestare il proprio consenso al trasferimento, e in cui la seconda fase, consistente nella successiva assegnazione dell'alloggio, si identifica con il contratto definitivo. Ne consegue che, in caso di fallimento della cooperativa, è in facoltà del curatore, prima dell'assegnazione, di sciogliersi dal contratto preliminare, ai sensi dell'art. 72, comma 4, l. fall. Sez. 2, n. 22978/2016, Picaroni, Rv. 641683 ha sostenuto che l'attività, svolta da una società cooperativa, di macellazione, lavorazione, trasformazione, confezionamento e commercializzazione di prodotti agricoli e zootecnici conferiti dai soci, avendo natura commerciale e non rientrando tra quelle previste dall'art. 2135 c.c., non può usufruire del relativo regime di favore non potendo la qualifica di imprenditore agricolo essere ricondotta allo svolgimento delle sole attività connesse a quelle propriamente agricole in assenza di queste ultime, non rilevando, in senso contrario, che il soggetto imprenditore sia strutturato in forma di società cooperativa, che è veste neutra ai fini qualificatori predetti. È stato poi precisato che i finanziamenti erogati dalle compagnie finanziarie ai sensi dell'art. 17 della legge 27 febbraio 1985, n. 49, come modificato dall'art. 12 della legge 5 marzo 2001, n. 57, in qualità di soci sovventori di società cooperative ex art. 4 della legge 31 gennaio 1992, n. 59, non sono soggetti alla postergazione prevista dall'art. 2467 c.c., atteso che, giusta l'art. 2519, comma 1, c.c., alle cooperative risulta applicabile la disciplina delle società per azioni che non riproduce l'effetto postergativo (Sez. U, n. 10509/2016, Bernabai, Rv. 639813). Deve infine evidenziarsi che la S.C. ha affermato che lo scopo di lucro (cd. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, poiché è configurabile attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest'ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, può essere presente anche in una società cooperativa pur quando essa operi solo nei confronti dei propri soci, sicché anche tale 407 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' società, ove svolga attività commerciale, può, in caso di insolvenza, essere assoggettata a fallimento in applicazione dell'art. 2545 terdecies c.c. (Sez. 1, n. 14250/2016, Genovese, Rv. 640519). 12. Le società consortili. Hanno affermato le Sezioni Unite (Sez. U, n. 12190/2016, Iacobellis, Rv. 639970) che la società consortile può svolgere una distinta attività commerciale con scopo di lucro ed è questione di merito accertare i rapporti tra la società stessa e i consorziati nell'assegnazione dei lavori o servizi per stabilire la necessità del "ribaltamento" integrale o parziale di costi e ricavi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto; in caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato alla società consortile, il consorziato ha l'onere di provare – nel rispetto dei principi di certezza, effettività, inerenza e competenza – che la differenza stessa non integri suoi ricavi occulti ovvero che essa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo. È stato anche chiarito che alla società consortile a responsabilità limitata costituita per l'esecuzione delle opere pubbliche appaltate alle imprese consorziate, pur se già riunite in raggruppamento temporaneo di imprese, si applica la regola dettata dall'art. 2472, comma 1, c.c., in virtù della quale nella società a responsabilità limitata per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. Invero, in caso di consorzio costituito in forma di società di capitali, la causa consortile giustifica la deroga delle norme che disciplinano il tipo di società scelto, ma non anche a quelle che fissano le regole fondamentali del tipo; e la personalità giuridica propria delle società di capitali costituisce un diaframma tra i singoli soci e i terzi creditori della società, che è il tratto essenziale della disciplina in subiecta materia (Sez. 1, n. 07734/2016, Bernabai, Rv. 639313). 408 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI CAPITOLO XXI IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI (di Aldo Ceniccola) SOMMARIO: 1. I contratti bancari. – 2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. 1. I contratti bancari. La valenza conformativa delle regole della buona fede e della diligenza si manifesta in modo significativo in tema di contratti bancari. Quanto alla rilevanza del principio di buona fede e correttezza, Sez. 1, n. 17291/2016, Genovese, Rv. 640946, ha evidenziato che il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito in cui non sia stato superato il limite dell'affidamento concesso, benché pattiziamente previsto anche in difetto di giusta causa, deve considerarsi illegittimo, in ragione di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari, contrastando, cioè, con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale di quelli in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e non sia, dunque, pronto alla restituzione, in qualsiasi momento, delle somme utilizzate. Il debitore, il quale agisce per far dichiarare l'arbitrarietà del recesso, ha l'onere di allegare l'irragionevolezza delle giustificazioni date dalla banca, dimostrando la sufficienza della propria garanzia patrimoniale così come risultante a seguito degli atti di disposizione compiuti. Il richiamo al rispetto del criterio della diligenza è invece presente in Sez. 1, n. 00806/2016, Acierno, Rv. 638492, secondo cui, ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione illecita, da parte di terzi, di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un'esplicita richiesta della parte, la verifica dell'adozione da parte dell'istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l'intempestività della denuncia dell'avvenuta sottrazione da parte del cliente e le contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento, assumendo come parametro la figura dell'accorto banchiere. (Così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, 409 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI ritenendola priva di un'effettiva verifica del comportamento della banca, da effettuarsi ex art. 1176, comma 2, c.c., in ordine al riscontrato difetto di manutenzione e custodia del servizio bancomat, nonché alla condotta del responsabile presente in sede a seguito della segnalazione di spossessamento della carta da parte del cliente). Numerose sono poi le sentenze emesse in tema di conto corrente bancario. Sez. 1, n. 12953/2016, Acierno, Rv. 640117, si occupa, in particolare, della disposizione di cui all'art. 1853 c.c. (a mente della quale, se tra la banca ed il correntista esistono più rapporti o più conti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente salvo patto contrario), che, dettata allo di scopo di garantire la banca contro ogni scoperto non specificamente pattuito che risulti a debito del cliente quale effetto di un qualsiasi rapporto o conto corrente fra le due parti, prevede che la compensazione tra saldi attivi e passivi, anche a favore del correntista, sia attuata mediante annotazioni in conto, e, in particolare (alla luce del principio dell'unità dei conti), attraverso la immissione del saldo di un conto, come posta passiva, in un altro conto ancora aperto (con le modalità proprie di tale tipo di operazione), salva manifestazione di volontà di segno contrario da parte del cliente. Il meccanismo compensativo di cui all'art. 1853 c.c. è preso in considerazione anche da Sez. 1, n. 00512/2016, Nappi, Rv. 638260, per precisare che la compensazione tra i saldi attivi e passivi di più rapporti di conto corrente tra banca e cliente presuppone non che si tratti di conti chiusi, ma solo che siano esigibili i contrapposti crediti. Ne deriva che, in caso di giroconto da un rapporto con saldo attivo e, come tale, immediatamente disponibile per il cliente (salvo patto contrario ex art. 1852 c.c.), ad uno ancora aperto ma con saldo passivo già esigibile per la banca, l'estinzione di tale debito non consegue ad un pagamento revocabile ai sensi dell'art. 67 l.fall. ma alla compensazione, ammessa dall'art. 56 l.fall., tra il credito della banca verso il cliente poi fallito ed il debito della stessa banca nei confronti di quest'ultimo. La questione dell'efficacia probatoria dell'estratto di saldo conto costituisce il nucleo argomentativo centrale in Sez. 3, n. 08944/2016, Pellecchia, Rv. 639911, secondo cui l'estratto può essere utilizzato, fino a prova contraria, anche nei confronti del fideiussore del correntista non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione, perché, ove il debitore principale sia decaduto a norma dell'art. 1832 c.c. dal diritto di 410 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI impugnare gli estratti di saldo conto, il fideiussore chiamato in giudizio dalla banca medesima per il pagamento della somma dovuta non può sollevare contestazioni in ordine alla definitività di quegli estratti. Il meccanismo di approvazione disciplinato dall'art. 1832 c.c. è richiamato anche da Sez. 1, n. 00817/2016, Nazzicone, Rv. 638496, con la precisazione che sono qualificabili come "estratti- conto di chiusura", ai fini di cui all'art. 1832, comma 2, c.c., le comunicazioni al cliente sulla situazione finale del conto, inviate dalla banca non solo allo scioglimento del rapporto, ma anche alle scadenze periodiche contrattualmente previste, quando non si limitino a contenere l'indicazione del saldo, con il calcolo delle spese e degli interessi, ma portino anche un preciso riferimento alle partite di dare ed avere che hanno condotto a quel risultato. Tuttavia, a tali fini, la riproduzione di tutte le partite contabili non è necessaria quando l'estratto conto finale faccia seguito e richiami espressamente precedenti estratti parziali inviati al cliente con l'indicazione di tutte le operazioni afferenti il relativo periodo – in sé idonea a soddisfare l'esigenza di porre il cliente in condizione di riscontrare ogni eventuale vizio incidente sul saldo finale – poiché in tal caso è sufficiente, affinché decorra il termine semestrale di decadenza di cui all'art. 1832 c.c., che l'estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura offra al correntista la comunicazione del saldo definitivo riflettente il periodo considerato, comprensivo delle spese e degli interessi. Deve poi segnalarsi, sempre in tema di documenti bancari, Sez. 1, n. 07972/2016, Didone, Rv. 639462, che ha escluso che la banca possa sottrarsi all'onere di provare il proprio credito invocando l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell'ultima registrazione, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all'attività imprenditoriale, non può sollevarla dall'onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore. Diverse sono poi le sentenze che hanno avuto modo di pronunciarsi sugli snodi problematici più rilevanti in tema di interessi sui crediti bancari. Sez. 1, n. 17150/2016, Genovese, Rv. 641046, ricorda che ove il cliente lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente e negoziato dalle parti in data anteriore al 22 aprile 2000, il giudice, dichiarata la nullità della predetta clausola, per 411 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c., deve calcolare gli interessi a debito del correntista senza operare alcuna capitalizzazione. Sempre in tema di capitalizzazione trimestrale, Sez. 1, n. 10713/2016, Lamorgese, Rv. 639791, ha ribadito che l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola relativa agli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti sono stati eseguiti in pendenza del rapporto, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Di sicuro rilievo è la pronuncia Sez. 1, n. 12965/2016, Ferro, Rv. 640110, che ha chiarito che la commissione di massimo scoperto (CMS), applicata fino all'entrata in vigore dell'art. 2 bis del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, introdotto con la legge di conversione 28 gennaio 2009, n. 2, è in thesi legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio, fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il tasso effettivo globale medio (TEGM) – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla Banca d'Italia, non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario (essendo ciò avvenuto solo dall'1 gennaio 2010); ne consegue che l'art. 2 bis del d.l. n. 185, cit. non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644, comma 3, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta a modificare – per il futuro – la complessa disciplina, anche regolamentare (richiamata dall'art. 644, comma 4, c.p.), tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari. Ne deriva, inoltre, che, per i rapporti bancari esauritisi prima dell'1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non deve tenersi conto delle CMS applicate dalla banca, ma occorre procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della rimunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso soglia usurario, come sopra specificato. 2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. Il problema generale della natura giuridica e della struttura dell'offerta pubblica di strumenti finanziari di cui agli artt. 412 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI 94 e 95 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, è affrontato da Sez. 1, n. 03625/2016, Nazzicone, Rv. 638799, per precisare come venga in rilievo un contratto consensuale ad effetti reali che si perfeziona attraverso un procedimento a formazione progressiva di cui la volontà del proponente, manifestata attraverso il prospetto informativo approvato dalla CONSOB ed immodificabile in ragione della sua rilevanza pubblicistica, costituisce il primo atto e l'adesione dell'investitore, espressa in forma adeguata, integra l'accettazione. In tale contesto normativo, il promotore finanziario – che, in ragione della sua collocazione nell'organizzazione dell'impresa dell'intermediario, non ha il potere di rappresentanza di quest'ultimo – non partecipa alla determinazione del contenuto negoziale e, pertanto, non è in grado, di propria iniziativa, di introdurre clausole che determinino una deviazione dalla disciplina del modello invariabile predisposto nel prospetto informativo, sicché, ove prometta rendimenti più vantaggiosi rispetto a quelli indicati nel prospetto pubblicato, il terzo contraente non può invocare i principi dell'apparenza del diritto e, in particolare, la propria condizione di buona fede, per farne discenderne conseguenze a sé favorevoli, vincolando ad essi l'offerente, vertendo egli in una condizione di colpa inescusabile. Numerose sono poi le sentenze che affrontano la questione della forma che i contratti di intermediazione finanziaria devono possedere. In particolare Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486, ha statuito che la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall'investitore non soddisfa l'obbligo della forma scritta ad substantiam imposto, a pena di nullità, dall'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 e, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall'investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto a mezzo dei quali è stato data esecuzione al contratto viziato. Sempre a proposito degli oneri formali di cui all'art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, Sez. 1, n. 03950/2016, Lamorgese, Rv. 638817, ha evidenziato che la forma scritta, imposta dalla norma a pena di nullità per i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, si riferisce solo ai contratti quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è, invece, soggetta a requisiti formali, salvo che lo stesso contratto quadro li preveda anche per quelli. In tal caso, infatti, il principio di cui all'art. 1352 c.c., secondo cui la forma convenuta dalle parti per la futura 413 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI stipulazione di un contratto si presume pattuita ad substantiam, è estensibile, giusta il richiamo operato dall'art. 1324 c.c., agli atti che seguono a quella stipulazione, come nell'ipotesi degli ordini suddetti. Sulla questione della rilevabilità d'ufficio della nullità per mancata osservanza della forma scritta, Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639021, ha chiarito che, ove sia stata dedotta dall'investitore la nullità dei soli ordini di investimento, deve escludersi che il giudice, anche in sede di appello, possa rilevare d'ufficio la nullità del contratto quadro per difetto del requisito della forma scritta. Invero, da un lato, il rilievo officioso della nullità riguarda solo il contratto posto a fondamento della domanda e, quindi, i singoli contratti di investimento, dotati di una propria autonoma individualità rispetto al contratto quadro, sebbene con esso collegati; dall'altro, il principio del rilievo officioso della nullità va coordinato, nel giudizio di gravame, con quello del divieto di domande nuove, cosicché l'istanza, ivi formulata per la prima volta, di declaratoria della nullità non può essere esaminata, potendo solo convertirsi nella corrispondente eccezione: con la conseguenza che, nella specie, il giudice di appello non può dichiarare d'ufficio la nullità del contratto quadro, traducendosi tale pronuncia nell'inammissibile accoglimento di una domanda nuova. Sempre in tema di oneri formali, secondo Sez. 1, n. 00612/2016, Scaldaferri, Rv. 638276, l'art. 60 del regolamento CONSOB 1 luglio 1998, n. 11522, che impone alla banca intermediaria di registrare su nastro magnetico, o altro supporto equivalente, gli ordini inerenti alle negoziazioni in valori mobiliari impartiti telefonicamente dal cliente, costituisce uno strumento atto a garantire agli intermediari, mediante l'oggettivo ed immediato riscontro della volontà manifestata dal cliente, l'esonero da ogni responsabilità quanto all'operazione da compiere, ma non impone, in assenza di specifica previsione, un requisito di forma, sia pure ad probationem, degli ordini suddetti, restando inapplicabile la preclusione di cui all'art. 2725 c.c. Particolarmente costante ed intenso appare, poi, il confronto con la problematica delle asimmetrie informative. Richiama una distinzione di carattere generale Sez. 1, n. 08733/2016, Nazzicone, Rv. 639507, secondo cui la pubblicazione del "prospetto informativo" è prevista nelle ipotesi di sollecitazione all'investimento, ai sensi dell'art. 94, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 58 del 1998 (nel testo ratione temporis applicabile), caratterizzate per essere l'offerta comunque rivolta, secondo lo schema dell'art. 1336 c.c., ad 414 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI un numero indeterminato ed indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati. Quando, invece, la diffusione di strumenti finanziari presso il pubblico avvenga mediante la prestazione di "servizi di investimento" (art. 1, comma 5, d.lgs. n. 58 del 1998), cioè attività di negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini, a condizioni diverse a seconda dell'acquirente e del momento in cui l'operazione è eseguita, la tutela del cliente è affidata all'adempimento, da parte dell'intermediario, di obblighi informativi specifici e personalizzati, ai sensi degli artt. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 e 26 ss. del reg. CONSOB n. 11522 del 1998, anche nel caso in cui la negoziazione individuale avvenga nel periodo del cd. grey market, cioè prima che i titoli siano emessi ufficialmente. Più in particolare, riguardo alla seconda ipotesi, Sez. 1, n. 17292/2016, Genovese, Rv. 641166, ha precisato che la rivendita di strumenti finanziari (nella specie, bond Cirio) da parte di operatori qualificati, presso i quali erano stati precedentemente collocati, nei confronti della propria clientela retail nel cd. mercato grigio (cioè, prima che i titoli siano emessi ufficialmente) comporta il radicarsi di obblighi informativi specifici da parte dei predetti operatori e costituisce una vendita lecita e legittima di cosa futura, consentita dall'art. 100 bis del d.lgs. n. 58 del 1998, sicché deve escludersi la nullità del negozio per non essere stato il collocamento dei titoli eseguito direttamente presso il pubblico dei risparmiatori. Una puntuale enunciazione dei particolari obblighi informativi posti a carico dell'intermediario finanziario è presente in Sez. 1, n. 01376/2016, Valitutti, Rv. 638414, che ha affermato che la pluralità degli obblighi (di diligenza, di correttezza e trasparenza, di informazione, di evidenziazione dell'inadeguatezza dell'operazione che si va a compiere) previsti dagli artt. 21, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 58 del 1998, 28, comma 2, e 29 del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998 (applicabile ratione temporis) e facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie, convergono verso un fine unitario, consistente nel segnalare all'investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere (cd. suitability rule). Tale segnalazione deve contenere specifiche indicazioni concernenti: 1) la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto; 2) la precisa individuazione del soggetto emittente, non essendo sufficiente la mera indicazione che si tratta di un "Paese emergente"; 3) il rating nel periodo di 415 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI esecuzione dell'operazione ed il connesso rapporto rendimento/rischio; 4) eventuali carenze di informazioni circa le caratteristiche concrete del titolo (situazioni cd. di grey market); 5) l'avvertimento circa il pericolo di un imminente default dell'emittente. Significative poi sono le pronunce che si occupano dello specifico obbligo informativo concernente il grado di rischio connesso all'acquisto dello strumento finanziario. Riguardo a tale aspetto, Sez. 1, n. 17290/2016, Di Virgilio, Rv. 641163, ha statuito che nei contratti aventi ad oggetto la gestione di portafogli di valori mobiliari, gli obblighi di comportamento normativamente posti a carico dell'intermediario (art. 36 e ss. del reg. CONSOB n. 11522 del 1998) prevedono, tra l'altro – quale prescrizione vincolante, evincibile dall'Allegato 3, sub C), del menzionato regolamento, dettata al fine d'indicare le modalità di esecuzione dell'obbligo di fornire all'investitore un parametro oggettivo coerente del grado di rischio connesso alle singole gestioni – la preventiva indicazione del grado di rischio di ciascuna linea di gestione patrimoniale, sicché il solo fatto che l'intermediario professionale abbia comunicato al cliente il parametro di riferimento benchmark, che non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, ma fornisce unicamente la possibilità di confrontare i risultati del proprio investimento rispetto all'andamento del mercato, non costituisce valido adempimento del suo obbligo informativo circa le operazioni di investimento rispetto al profilo dell'investitore ed alla sua propensione al rischio. In linea con tale pronuncia, Sez. 1, n. 24545/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, ha evidenziato che il cd. benchmark non può rappresentare l'unico indicatore della correttezza della gestione dell'intermediario, essendo un elemento concorrente, ma non esclusivo a definire il grado di rischio. La rilevanza del comportamento del cliente a fronte di asimmetrie informative imputabili all'intermediario è il tema preso in esame da Sez. 1, n. 08394/2016, Bernabai, Rv. 639561, per sostenere, in linea generale, che nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l'intermediario abbia dato corso all'acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi, ed il cliente non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore, non è configurabile alcun concorso di colpa di quest'ultimo, nella produzione del danno, per non essersi informato aliunde della rischiosità dell'acquisto, atteso che lo speciale rapporto di intermediazione implica necessariamente un grado di affidamento 416 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI nella professionalità dell'intermediario – e, dunque, nell'adeguatezza delle informazioni da lui fornite – che sarebbe contraddittorio bilanciare con l'onere dello stesso cliente di assumere direttamente informazioni da altra fonte. Diverso è, però, il caso in cui alla violazione, da parte del promotore finanziario, degli obblighi di comportamento che la legge pone a suo carico, corrisponda, da parte del cliente, un contegno significativamente anomalo ovvero quest'ultimo, sebbene a conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento, ometta di adottare comportamenti osservanti delle regole dell'ordinaria diligenza o avalli condotte del promotore devianti rispetto alle ordinarie regole del rapporto professionale con il cliente ed alle modalità di affidamento dei capitali da investire, così concorrendo al verificarsi dell'evento dannoso per inosservanza dei più elementari canoni di prudenza ed oneri di cooperazione nel compimento dell'attività di investimento. In tal caso, secondo Sez. 1, n. 09892/2016, Valitutti, Rv. 639656, non è esclusa la configurabilità di un concorso di colpa dell'investitore. Diverso ancora è il caso in cui l'investitore, nel contratto quadro, si sia rifiutato di fornire informazioni sui propri obiettivi di investimento e sulla propria propensione al rischio: in tale ipotesi, secondo Sez. 1, n. 05250/2016, Di Marzio, Rv. 638899, l'intermediario finanziario, convenuto nel giudizio di risarcimento del danno per violazione degli obblighi informativi, non è esonerato dall'obbligo di valutare l'adeguatezza dell'operazione di investimento, dovendo comunque compiere quella valutazione, in base ai principi generali di correttezza e trasparenza, tenendo conto di tutte le notizie di cui egli sia in possesso (come, ad esempio, l'età, la professione, la presumibile propensione al rischio alla luce delle operazioni pregresse e abituali, la situazione di mercato). Il problema del concorso di colpa è affrontato anche da Sez. 1, n. 04037/2016, Cristiano, Rv. 638800, precisandosi che l'intermediario finanziario non può invocare, quale causa di esclusione della responsabilità per i danni arrecati a terzi ex art. 23 del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (applicabile ratione temporis) nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, la semplice allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore le somme di denaro di cui quest'ultimo si è illecitamente appropriato con modalità difformi da quelle con cui lo stesso sarebbe legittimato a riceverle ai sensi dei vigenti regolamenti CONSOB (nella specie, versate con assegno bancario recante, in 417 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI bianco, il nome del prenditore invece che con assegni non trasferibili intestati al soggetto abilitato per conto del quale il promotore operava); né un tal fatto può essere addotto dall'intermediario come concausa del danno subito dall'investitore al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, atteso che le disposizioni regolamentari emanate dalla CONSOB, anche se inserite nel documento contrattuale sottoscritto dal cliente, sono dirette unicamente a porre a carico del promotore finanziario un obbligo di comportamento a tutela dell'interesse del risparmiatore, sicché non possono tradursi in un onere di diligenza a carico di quest'ultimo, tale da risolversi in un addebito di colpa nei confronti del danneggiato dall'altrui atto illecito, salvo che la condotta dell'investitore presenti connotati, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore (diventando, così, rilevante ai fini dell'art. 1227 c.c.). Passando, quindi, in rassegna le sentenze che si sono occupate del problema del riparto dell'onere probatorio nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall'investitore, aventi ad oggetto l'accertamento della corretta esecuzione, da parte dell'intermediario, delle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, Sez. 1, n. 00810/2016, Nazzicone, Rv. 638346, ha ritenuto necessario per l'investitore allegare l'inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell'intermediario, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l'inadempimento, anche sulla base di presunzioni, dovendo per converso l'intermediario dimostrare l'avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte, e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito «con la specifica diligenza richiesta». Con particolare riguardo al contenuto della prova liberatoria, poi, Sez. 1, n. 05089/2016, Nappi, Rv. 639056, ha precisato che il giudice di merito, per assolvere l'intermediario finanziario dalla responsabilità conseguente alla violazione degli obblighi informativi previsti dalla legge, non può limitarsi ad affermare che manca la prova della sua negligenza ovvero dell'inadempimento, ma deve accertare se sussista effettivamente la prova positiva della sua diligenza e dell'adempimento delle obbligazioni poste a suo carico e, in mancanza di tale prova, che è a carico dell'intermediario fornire (art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998), questi sarà tenuto al risarcimento degli eventuali danni causati al risparmiatore. Ne consegue che, in caso di operazione non adeguata, l'intermediario può darvi corso 418 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI solo a seguito di un ordine impartito per iscritto dall'investitore, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. La sottoscrizione, da parte del cliente, della clausola in calce al modulo d'ordine, contenente la segnalazione d'inadeguatezza dell'operazione sulla quale egli è stato avvisato, è tuttavia idonea a far presumere assolto l'obbligo previsto in capo all'intermediario dall'art. 29, comma 3, del reg. CONSOB n. 11522 del 1998; è quanto sostenuto da Sez. 1, n. 11578/2016, Nazzicone, Rv. 639884, con la precisazione che, a fronte della contestazione del cliente, il quale alleghi l'omissione di specifiche informazioni, grava sulla banca l'onere di provare, con qualsiasi mezzo, di averle specificamente rese. Le conseguenze del mancato assolvimento degli obblighi informativi sono evidenziate da Sez. 1, n. 16820/2016, Mercolino, Rv. 640905, dovendosi, secondo tale pronuncia, distinguere a seconda che le inosservanze si siano verificate in epoca antecedente o successiva rispetto alle operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro", verificandosi, rispettivamente, la risoluzione dell'intero rapporto ovvero soltanto di quelli derivanti dai singoli ordini impartiti alla banca. Proprio il rapporto tra il contratto quadro e le singole operazioni di investimento è il profilo specificamente preso in considerazione da Sez. 1, n. 08394/2016, Bernabai, Rv. 639562, che ha ritenuto che queste ultime, in quanto concretanti autonomi contratti, esecutivi del contratto quadro originariamente stipulato dall'investitore con l'intermediario, possono essere oggetto di risoluzione, ricorrendone i presupposti, indipendentemente dalla risoluzione di quest'ultimo, con conseguente diritto alla restituzione dell'importo pagato e all'eventuale risarcimento dei danni subiti, senza che la risoluzione del singolo contratto esecutivo integri una risoluzione parziale del contratto quadro. 419 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI CAPITOLO XXII LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI (di Giuseppe Fichera) SOMMARIO: 1. Il fallimento dell'imprenditore: i presupposti. – 2. Gli organi delle procedure. – 3. Le revocatorie fallimentari: i presupposti. – 3.1. Gli atti a titolo gratuito e post fallimentari. – 3.2. Gli atti negoziali. – 3.3. I pagamenti. – 4. I rapporti pendenti. – 5. La formazione dello stato passivo. – 5.1. I privilegi. – 6. La liquidazione dell'attivo. – 7. Il concordato fallimentare – 8. Il concordato preventivo: questioni sostanziali. – 9. Il sovraindebitamento. 1. Il fallimento dell'imprenditore: i presupposti. Anche nel corso del 2016 la S.C. si è occupata dei presupposti, oggettivi e soggettivi, per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore. Così, in tema di requisiti dimensionali per l'esonero dalla fallibilità, Sez. 1, n. 00501/2016, Nazzicone, Rv. 638271, ricorda che ai fini del computo del triennio cui fa riferimento l'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) per la determinazione dell'attivo patrimoniale occorre fare riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti alla data del deposito dell'istanza di fallimento. Sez. 6-1, n. 14727/2016, Mercolino, Rv. 640749, invece, ai fini del computo del limite minimo di fallibilità previsto dall'art. 15, comma 9, l.fall., precisa che deve aversi riguardo al complesso dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare, dovendosi escludere ogni rilievo a quelli successivamente accertati in sede di verifica dello stato passivo. Sez. 1, n. 00625/2016, Bernabai, Rv. 638150, ricorda che l'onere della prova del mancato superamento dei limiti di fallibilità previsti dall'art. 1, comma 2, l.fall., nella formulazione derivante dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile ratione temporis, grava sul debitore, atteso che la menzionata disposizione, anche prima delle ulteriori modifiche ad essa apportate dal d.lgs. n. 169 del 2007, già poneva come regola generale l'assoggettamento a fallimento degli imprenditori commerciali e, come eccezione, il mancato raggiungimento dei ricordati presupposti dimensionali. Non osta a tale conclusione la natura officiosa del procedimento prefallimentare, che impone al tribunale unicamente di attingere elementi di giudizio dagli atti e dagli elementi acquisiti, anche indipendentemente da una specifica allegazione della parte, senza che, peraltro, il giudice debba trasformarsi in autonomo organo di 420 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI ricerca della prova, tanto meno quando l'imprenditore non si sia costituito in giudizio e non abbia, quindi, depositato i bilanci dell'ultimo triennio, rilevanti ai fini in esame. L'esenzione dal fallimento per gli imprenditori agricoli, secondo Sez. 1, n. 16614/2016, Bernabai, Rv. 640937, non è invocabile quando non sussista, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all'art. 2135, comma 3, c.c. assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, gravando su chi invochi l'esenzione, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione ex art. 2135, comma 1, c.c., il corrispondente onere probatorio. Soggiunge Sez. 6-1, n. 09788/2016, Genovese, Rv. 639611, che ai fini dell'esenzione dal fallimento di una cooperativa avente ad oggetto attività agricole, è dovere del giudice, oltre che verificarne le clausole statutarie ed il loro tenore, esaminare anche in concreto l'atteggiarsi dell'attività d'impresa svolta dal sodalizio mutualistico, valutando le attività economiche dalla stessa effettivamente svolte, alla luce della disciplina introdotta dall'art. 1 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, senza che su tale esame si sovrapponga la considerazione dell'effettività dello scopo mutualistico, rilevante a diversi fini, ma non assorbente della verifica dei presupposti di legge, previsti dall'art. 2135 c.c., per il riconoscimento (o l'esclusione) della qualità di impresa agricola esentata dal fallimento. Sul termine annuale entro cui può intervenire la dichiarazione di fallimento, merita di essere segnalate: - Sez. 1, n. 00501/2016, Nazzicone, Rv. 638270, a tenore della quale il recesso del socio da una società di persone composta da due soli soci (nella specie, una società in nome collettivo) e la mancata ricostituzione della pluralità della compagine sociale da parte del socio superstite determinano lo scioglimento della società, ex art. 2272, n. 4, c.c., non già la sua estinzione, con conseguente possibilità della stessa di essere sottoposta a fallimento entro l'anno dall'intervenuta cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell'art. 10 l.fall.; - Sez. 1, n. 08092/2016, Nazzicone, Rv. 639316, secondo cui l'imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito ai sensi dell'art. 10 l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007), entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza 421 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI possibilità per l'imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell'effettiva cessazione dell'attività; - Sez. 1, n. 24549/2016, Terrusi, in corso di massimazione, nel ribadire l'irrilevanza, nei confronti dei terzi, della eventuale diversa data di effettiva cessazione dell'attività, rispetto alle risultanze del registro delle imprese – atteso che l'imprenditore non può dimostrare il momento asseritamente anteriore di una tale condizione di fatto –, afferma come non possa riconoscersi rilievo alcuno a quale sia stato l'iter procedimentale che abbia portato all'individuazione, presso il detto registro, della data di cancellazione. - Sez. 1, n. 15346/2016, Terrusi, Rv. 640753, ove è precisato che il detto termine, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese e si applica anche alle società ivi non iscritte, nei confronti delle quali, tuttavia, il bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, impone d'individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell'attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei o, comunque, sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata. L'onere di fornire la prova di tali circostanze spetta al resistente; - Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638843, la quale aggiunge che non assume alcun rilievo la circostanza che l'impresa apparentemente individuale, ad essa in realtà riferibile, sia stata cancellata dal registro delle imprese da oltre un anno, posto che la società, sia pur di fatto, assume un'identità soggettiva distinta da quella delle persone (fisiche e non) che la compongono; - Sez. 1, n. 16535/2016, Terrusi, Rv. 640934, ove si afferma che lo scioglimento di diritto, con conseguente perdita della personalità giuridica, della cooperativa edilizia di abitazione che non abbia depositato, nei termini stabiliti, i bilanci relativi agli ultimi due anni, non ne impedisce l'assoggettamento, ove sia accertata l'insolvenza, alla procedura concorsuale stabilita dalla legge in relazione al tipo sociale, atteso che la stessa permane come centro di imputazione degli atti compiuti fino alla data di cancellazione dal registro delle imprese, onde scongiurare il verificarsi di situazioni di incertezza con ripercussioni per i soci e per i terzi, e l'estinzione della società come cooperativa, supponendo quella cancellazione, può avvenire solo a seguito dell'avvenuta liquidazione del patrimonio dell'ente, attraverso l'azione dell'autorità di vigilanza o, se la liquidazione sia stata chiesta dalla società, dei liquidatori. 422 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 2. Gli organi delle procedure. Sugli organi delle procedure concorsuali, come di consueto, plurime sono le decisioni della Corte, riguardanti particolare soprattutto i compensi spettanti ai professionisti. Così, Sez. 1, n. 04269/2016, Terrusi, Rv. 638881, ricorda che la liquidazione del compenso spettante al difensore che abbia patrocinato la curatela in un giudizio, effettuata dal giudice delegato ex art. 25 l.fall., può essere inferiore a quanto corrispondentemente disposto, in favore della curatela, con la sentenza conclusiva di quel giudizio, allorché la stessa non sia ancora passata in giudicato, ma, ove la sua definitiva decisione determini l'importo delle spese processuali dovute alla curatela medesima in misura superiore a quella liquidata al professionista in sede fallimentare, ricevendo in parte qua fruttuosa esecuzione, quest'ultima può invocare tale decisione come titolo per ottenere l'eventuale maggior somma che gli compete per l'opera prestata e che, se incamerata dal cliente, ne determinerebbe un'ingiusta locupletazione. Sez. 1, n. 04458/2016, Ragonesi, Rv. 639012, in tema di concordato preventivo con cessione di beni, afferma che ove al medesimo soggetto, già nominato commissario giudiziale, sia poi stato affidato, senza contestazione alcuna, anche l'incarico di liquidatore, non può essergli negato il relativo compenso per tale distinto ruolo assunto ed il conseguente espletamento dell'ulteriore e diversa attività, la quale, pertanto, merita separata ed autonoma remunerazione rispetto a quella da lui già ottenuta per quanto svolto come commissario giudiziale. A sua volta Sez. 1, n. 07591/2016, Didone, Rv. 639257, ricorda che, sempre nel concordato preventivo, il liquidatore giudiziale svolge funzioni equiparabili a quelle del curatore del fallimento ed ha, pertanto, diritto, al pari di quest'ultimo, ad un compenso che, in mancanza di una specifica disciplina normativa ex art. 182 l.fall., dev'essere quantificato, ai sensi dell'art. 39 l.fall. e del decreto ministeriale ivi richiamato, in una percentuale sull'attivo realizzato o, in assenza di risultati utili della liquidazione, nel minimo legale. Tale compenso, inoltre, come per il curatore, può essere liquidato solo dopo l'approvazione del rendiconto, benché, nella normativa anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006, la sua presentazione non sia imposta da una norma di legge ma solo dalla sentenza di omologazione. Ancora sul liquidatore giudiziale nel concordato preventivo, Sez. 1, n. 07973/2016, Nappi, Rv. 639464, ricorda che nel 423 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, le funzioni svolte dal liquidatore nominato ex art. 182 l.fall. sono assimilabili a quelle esercitate dal curatore fallimentare, sicché sono utilizzabili, per la quantificazione del compenso del primo, i medesimi criteri stabiliti per quella del secondo. Pertanto, è ragionevole che il tribunale riconosca al commissario giudiziale somme maggiori rispetto a quelle attribuite al liquidatore, posto che l'attività espletata dal primo prende avvio già dal decreto di ammissione alla procedura ex art. 163 l.fall. e si protrae anche dopo l'omologazione del concordato, dovendo egli sorvegliarne l'adempimento ex art. 185 l.fall., mentre il ruolo del liquidatore è necessariamente ristretto alla sola fase esecutiva del concordato, successiva rispetto all'omologa della proposta. Sez. 6-1, n. 16269/2016, Bisogni, in corso di massimazione, afferma infine che, quando alla revoca dell'ammissione al concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento, la già proposta domanda di liquidazione del compenso del commissario giudiziale è improcedibile, dovendo essere riproposta, esaminata e decisa in sede di ammissione al passivo fallimentare. 3. Le revocatorie fallimentari: i presupposti. Tradizionalmente anche nel 2016 sono state ancora numerose le pronunce della S.C. in tema di atti pregiudizievoli per la massa dei creditori. Anzitutto va ricordata Sez. 1, n. 13165/2016, Cristiano, Rv. 640223, che, riferendosi ad una azione revocatoria fallimentare proposta con il rito camerale dalla curatela di un fallimento pronunciato nella vigenza dell'art. 24, comma 2, l.fall. ma dopo la sua avvenuta abrogazione ad opera dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007, l'ha ritenuta inammissibile in applicazione del principio tempus regit actum, svolgendosi altrimenti il processo, ancor prima del suo inizio, secondo un rito ormai abrogato, tanto più che l'art. 22 del cd. decreto correttivo, recante la disciplina transitoria conseguente alla sua entrata in vigore, deve intendersi riferito, alla stregua della sua interpretazione letterale, alla regolamentazione propria delle "procedure concorsuali", e dunque, sul piano processuale, ai soli procedimenti che tipicamente si innestano nel corso delle stesse, ma non anche alle controversie che, pur originando dal fallimento, sono regolate dalle legge speciale solo quanto all'esclusiva competenza a conoscerle del tribunale che ha emesso la sentenza dichiarativa. 424 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI Di interessa appare poi Sez. 6-1, n. 01103/2016, Cristiano, Rv. 638422, la quale in primo luogo ribadisce il principio, pacifico nella giurisprudenza della S.C., secondo cui in ipotesi di fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili, il curatore del fallimento sociale è legittimato ad agire in revocatoria contro gli atti disposizione compiuti dal socio poiché l'accrescimento del patrimonio di quest'ultimo, in conseguenza dell'accoglimento dell'azione, produce risultati positivi ai fini del soddisfacimento non solo dei suoi creditori particolari, ma anche dei creditori della società, il cui credito si intende dichiarato per intero anche nel fallimento del primo. Ne deriva che la sentenza che definisce il relativo giudizio fa stato, nei confronti dei creditori di entrambe le masse, così precludendo al curatore del fallimento personale del socio di riproporre la medesima azione già introdotta quale curatore del fallimento sociale. Sez. 1, n. 09453/2016, Scaldaferri, Rv. 639620, ricorda che il commissario dell'amministrazione straordinaria di cui alla l. 3 aprile 1979, n. 95 ha gli stessi poteri attribuiti a quello della liquidazione coatta amministrativa, in virtù del richiamo operato dall'art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 (poi convertito dalla menzionata legge) alle disposizioni della legge fallimentare, sicché egli, per intraprendere o proseguire l'azione revocatoria fallimentare, non necessita dell'autorizzazione dell'autorità di vigilanza, richiesta dall'art. 206 l.fall. – norma speciale ed esaustiva rispetto al rinvio generale ai poteri del curatore contenuto nell'art. 201 l.fall. – solo per il promovimento delle azioni di responsabilità di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c. e per il compimento degli atti ex art. 35 l.fall. Degna di sicura menzione si mostra Sez. 6-1, n. 13719/2016, Genovese, Rv. 640362, che occupandosi per la prima volta degli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento a norma dell'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. (nel testo previgente al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), afferma che, per ritenere tali atti esenti dalla domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla curatela, il giudice deve verificare, con giudizio ex ante, la manifesta idoneità del piano medesimo, del quale gli atti impugnati costituiscono strumento attuativo, a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria della stessa. Sempre in tema di esenzioni dalla revocatoria fallimentare, Sez. 1, n. 25192/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione, si è soffermata, per la prima volta, sull'interpretazione dell'art. 67, comma 3, lett. a), l.fall. ed ha chiarito che con l'espressione 425 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI «pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso» il legislatore ha inteso riferirsi esclusivamente al rapporto diretto tra le parti, dando rilievo al mutamento dei termini, da intendersi non solo come tempi, ma anche come complessive modalità di pagamento. Significative anche le decisioni che si sono occupate della decorrenza del cd. "periodo sospetto". Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640743, in presenza di un pagamento effettuato lo stesso giorno della dichiarazione di fallimento, afferma che, poiché nella disciplina anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, la legge non prescrive, tra gli elementi di individuazione della data della sentenza dichiarativa di fallimento, l'annotazione dell'ora in cui è stata emessa la decisione, il fallito resta privo dell'amministrazione e della disponibilità dei beni sin dall'ora zero del giorno della sua pubblicazione. Sez. 1, n. 24792/2016, Ferro, in corso di massimazione, riafferma, anche dopo la novella dell'art. 67, comma 1, n. 4), l.fall. – introdotta dal d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005 – che ai fini del calcolo del periodo sospetto deve intendersi come data di costituzione dell'ipoteca, volontaria o giudiziale, non già quella dell'atto notatile o del titolo giudiziale, bensì quella dell'iscrizione nei pubblici registri. E invero, l'atto di concessione attribuisce al creditore il diritto a procedere all'iscrizione e gli conferisce il titolo idoneo a pretenderla dal conservatore dei registri immobiliari, ma solo a seguito dell'iscrizione il creditore medesimo acquista il diritto di espropriare i beni vincolati anche in confronto del terzo acquirente e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dall'espropriazione e solo con l'iscrizione si verificano gli effetti pregiudizievoli, che alterano la condizioni di parità dei creditori. Sez. 1, n. 05924/2016, Ferro, Rv. 639058, ribadisce che anche dopo la riforma della legge fallimentare, nel caso di ammissione di una società di persone al concordato preventivo seguita dalla dichiarazione di fallimento della medesima società e dei soci illimitatamente responsabili, ai sensi dell'art.147 l.fall., il termine a ritroso per l'esercizio dell'azione revocatoria degli atti aventi natura depauperativa, indicati dall'art. 67 l. fall. e posti in essere dal socio o da terzi sul patrimonio di quest'ultimo, decorre dal decreto di ammissione della società al concordato preventivo e non dalla data della sentenza di fallimento del socio. Sez. 1, n. 07324/2016, Di Virgilio, Rv. 639325, afferma che il principio della consecuzione processuale tra le procedure di 426 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI concordato preventivo e di fallimento non può essere applicato con riferimento ai creditori personali dei soci illimitatamente responsabili di società di persone, in quanto l'efficacia del concordato preventivo della società nei confronti dei soci illimitatamente responsabili riguarda esclusivamente i debiti sociali. Ne consegue che, ai fini dell'opponibilità di eventuali ipoteche al fallimento o del computo degli interessi sui crediti vantati nei confronti dei singoli soci, non rileva la data di ammissione della società di persone al concordato preventivo, ma quella della successiva dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 147 l.fall., dei soci illimitatamente responsabili. Ancora nell'ipotesi di fallimento dichiarato dopo la modifica, operata con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, dell'art. 67 l.fall., in consecuzione rispetto ad un concordato preventivo precedente a tale novella, secondo Sez. 1, n. 06045/2016, Terrusi, Rv. 639090, l'entità del periodo sospetto rilevante ai fini della revoca degli atti pregiudizievoli compiuti anteriormente al concordato stesso va determinata in base al testo della norma vigente al momento dell'apertura di quest'ultimo e non del successivo fallimento, attesa l'unitarietà giuridica dell'intera procedura. Infine Sez. 1, n. 00803/2016, Cristiano, Rv. 638277, ricorda che lo stato di insolvenza dell'imprenditore forma oggetto di una presunzione iuris et de iure conseguente all'apertura della procedura concorsuale, cosicché il convenuto in revocatoria non è ammesso a provare che, nel periodo suddetto, il debitore versava in una situazione di sola temporanea difficoltà ad adempiere, potendo solamente contestare la percezione dei sintomi del dissesto con l'allegazione, se del caso, dei fatti dimostrativi della propria inscientia decoctionis. 3.1. Gli atti a titolo gratuito e post fallimentari. Da segnalare, in primo luogo, Sez. 1, n. 12261/2016, Bernabai, Rv. 640039, a tenore della quale le somme versate dalla compagnia assicuratrice all'assicurato fallito a titolo di riscatto della polizza vita sono sottratte all'azione di inefficacia di cui all'art. 44 l.fall. in virtù del combinato disposto degli artt. 1923 c.c. e 46, comma 1, n. 5, l.fall., riguardando l'esonero dalla disciplina del fallimento tutte le possibili finalità dell'assicurazione sulla vita e, dunque, non solo la funzione previdenziale ma anche quella di risparmio. Per Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640744, in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso 427 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI terzi, l'azione con la quale il curatore fa valere l'inefficacia, ai sensi dell'art. 44 l.fall., del pagamento eseguito dal debitor debitoris al creditore assegnatario, ha ad oggetto un atto estintivo di un debito del fallito, a lui riferibile in quanto effettuato con il suo denaro e in sua vece, sicché va esercitata nei soli confronti dell'accipiens, ossia di colui che ha effettivamente beneficiato dell'atto solutorio. Sempre in caso di debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, Sez. 6-1, n. 01227/2016, Bisogni, Rv. 638560, afferma che il pagamento eseguito dal debitor debitoris al creditore che abbia ottenuto l'assegnazione del credito pignorato ex art. 553 c.p.c. è inefficace, ai sensi dell'art. 44 l.fall., se intervenuto successivamente alla dichiarazione di fallimento, non assumendo rilievo, a tal fine, l'anteriorità dell'assegnazione, che, disposta "salvo esazione", non determina l'immediata estinzione del debito dell'insolvente, sicché l'effetto satisfattivo per il creditore procedente è rimesso alla riscossione del credito, ossia ad un pagamento che, poiché eseguito dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, subisce la sanzione dell'inefficacia. 3.2. Gli atti negoziali. In tema di revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di un contratto preliminare, secondo Sez. 1, n. 06040/2016, Didone, Rv. 639089, l'accertamento dei relativi presupposti va compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto l'art. 67 l.fall. ricollega la consapevolezza dell'insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo con cui è assunta l'obbligazione, di cui l'atto finale comporta esecuzione, salvo che ne sia provato il carattere fraudolento; del resto, qualora nel momento fissato per la stipulazione del contratto definitivo, sussista pericolo di revoca dell'acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha la facoltà di non addivenire alla stipulazione, invocando la tutela dell'art. 1461 c.c. Sempre con riguardo agli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, Sez. 6-1, n. 03237/2016, Genovese, Rv. 638622, chiarisce che l'esenzione da revocatoria prevista dall'art. 10 del d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, introducendo una diversa ed innovativa disciplina rispetto a quella previgente, non può retroagire fino ad applicarsi a contratti stipulati e ad insolvenze dichiarate prima della sua entrata in vigore. 428 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 3.3. I pagamenti. Sul dibattuto tema della revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario, Sez. 1, n. 06042/2016, Ferro, Rv. 639091, ribadisce che nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l'onere di dimostrare l'esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti, cronologia che non può essere desunta dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto, sicché in mancanza di tale prova devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti. Per Sez. 1, n. 06282/2016, Cristiano, Rv. 639198, la revocatoria fallimentare del pagamento di debiti del fallito, ex art. 67, comma 2, l.fall., è esperibile anche quando il pagamento sia stato effettuato dal terzo garante, purché risulti che questi, dopo aver pagato, abbia esercitato azione di rivalsa verso il debitore principale prima dell'apertura del fallimento. Precisa, tuttavia, Sez. 6-1, n. 13611/2016, Genovese, Rv. 640364, che non costituisce pagamento del terzo, ma adempimento diretto del debitore, il pagamento eseguito mediante l'invio, fatto da quest'ultimo al proprio creditore, di un assegno bancario tratto da un terzo, consegnato e trasferito al debitore poi dichiarato insolvente, il quale, divenutone proprietario, ha legittimamente esercitato i diritti incorporati nel titolo. Nella fattispecie di pagamento mediante assegno postdatato, Sez. 1, n. 03136/2016, Ferro, Rv. 638518, afferma che trattandosi di un mezzo di pagamento equivalente al denaro, non perde le sue caratteristiche di titolo di credito, per cui i relativi atti estintivi di debiti non costituiscono mezzi anormali di pagamento e non sono, pertanto, assoggettati all'azione revocatoria fallimentare prevista dall'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall. Occupandosi di un tema parecchio dibattuto in giurisprudenza, Sez. 1, n. 03955/2016, Terrusi, Rv. 638838, chiarisce che è revocabile, ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., ed, in ogni caso, ex art. 67, comma 2, l.fall., la rimessa conseguente alla concessione di un mutuo garantito da ipoteca destinata a ripianare uno scoperto di conto, laddove il mutuo ipotecario ed il successivo impiego della somma siano inquadrabili nel contesto di 429 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI un'operazione unitaria il cui fine ultimo è quello di azzerare la preesistente obbligazione. Infatti la garanzia ipotecaria non è espressione di autotutela preventiva, in quanto costituita per debito preesistente, in tutti i casi in cui il mutuatario non abbia ad acquisire contestualmente nuova disponibilità finanziaria, essendo, in tal caso, la garanzia associata ad un rischio di credito già in atto. 4. I rapporti pendenti. In tema di rapporti pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, per l'esercizio da parte del curatore del fallimento del promissario acquirente, della facoltà di scioglimento dal contratto preliminare di vendita pendente, ex art. 72 l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2006), secondo Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639959, non è richiesto un negozio formale né la necessità dell'autorizzazione del giudice delegato, trattandosi di una prerogativa discrezionale, rimessa all'autonomia del curatore. Sempre in tema di contratti preliminari, qualora il negozio abbia ad oggetto un bene da acquistarsi in comunione, per Sez. 1, n. 12462/2016, Genovese, Rv. 639960, si deve presumere, salvo che risulti il contrario, che le parti lo abbiano considerato un unicum inscindibile. Ne consegue che la scelta del curatore del fallimento del promissario coacquirente di scioglimento dal rapporto ex art. 72 l.fall. determina la caducazione complessiva del vincolo contrattuale e preclude al promittente venditore la possibilità di esercitare l'azione di esecuzione in forma specifica nei confronti degli altri. Sez. 6-1, n. 17627/2016, Acierno, in corso di massimazione, dà continuità all'insegnamento delle sezioni unite della S.C. del 2015 (Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343), ribadendo che in forza dell'art. 2652, comma 2, c.c., il potere del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare, ex art. 72 l.fall., stavolta nel testo anteriore alla riforma del 2006, non è opponibile al terzo acquirente che abbia trascritto la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. prima della dichiarazione di fallimento. Sul contratto d'opera professionale pendente, Sez. 1, n. 10526/2016, Di Virgilio, Rv. 639847, afferma che il commissario liquidatore di una società in liquidazione coatta amministrativa può sciogliersi anche da un tale contratto, avvalendosi del combinato disposto degli artt. 72 (nel testo anteriore alla modifica di cui al d.lgs. n. 5 del 2006) e 201 l.fall; ciò in quanto la facoltà prevista dal citato art. 72 per la vendita è espressione di un principio di carattere generale, se non derogato da norme specifiche, che può risultare 430 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI anche per fatti concludenti, costituendo la dichiarazione espressa prevista dal comma 2 della disposizione solo la condotta legale tipica, nella sua forma ordinaria ma non tassativa. In tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, secondo Sez. 1, n. 03193/2016, Ferro, Rv. 638564, l'art. 50 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 – anche alla stregua dell'interpretazione autentica fornitane dall'art. 1 bis del d.l. 28 agosto 2008, n. 134, conv., con modif., dalla l. 27 ottobre 2008, n. 166 – prevede la continuazione dei contratti preesistenti all'am- ministrazione straordinaria unicamente ai fini della conservazione aziendale e per assicurare al commissario uno spatium deliberandi per l'esercizio della facoltà di scioglimento o di subentro. Ne consegue che la prosecuzione di una precedente somministrazione di servizi dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza, ove non sia stata accompagnata da un'espressa dichiarazione di subentro da parte del commissario, non comporta il trasferimento del rapporto in capo alla procedura anche per le prestazioni pregresse e la prededucibilità del relativo credito. Merita, infine, di essere menzionata Sez. 1, n. 02538/2016, Genovese, Rv. 638568, a tenore della quale l'art. 72 quater l.fall. trova applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente al momento del fallimento dell'utilizzatore, mentre, ove si sia già anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o traslativo, solo per quest'ultimo potendosi utilizzare, in via analogica, l'art. 1526 c.c.; con l'ulteriore conseguenza che, in tal caso, il concedente ha l'onere, se intenda insinuarsi al passivo del fallimento, di proporre la corrispondente domanda completa in tutte le sue richieste nascenti dall'applicazione della norma da ultimo citata. 5. La formazione dello stato passivo. Sull'assai ricorrente problematica della data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, pare senz'altro meritevole di andare segnalata Sez. 1, n. 18938/2016, Mercolino, in corso di massimazione, secondo cui ai fini della decisione circa l'opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa, mediante la quale voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell'art. 2704 c.c. (registrazione, morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori, riproduzione in un atto pubblico), spetta al giudice il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l'idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il 431 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità. Sempre in tema di data certa, Sez. 1, n. 19595/2016, Bisogni, in corso di massimazione, ricorda che anche il creditore ammesso al passivo fallimentare, il quale si opponga, con l'impugnazione prevista dall'art. 100 l.fall. (applicabile in data antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006), all'ammissione di altro creditore, si pone nella qualità di terzo, e può quindi invocare, al fine di contestare l'anteriorità rispetto al fallimento del titolo posto a sostegno di detto altro credito i limiti fissati dall'art. 2704 c.c. in tema di certezza e computabilità della data della scrittura privata nei confronti dei terzi, con la conseguenza che, a fronte di tale contestazione, spetta al creditore opposto di fornire la dimostrazione di detta anteriorità, tramite i fatti contemplati dal citato art. 2704 c.c., e quindi con esclusione della prova per testi o presunzioni che sia direttamente vertente sulla certezza della data medesima. Sez. 1, n. 19196/2016, Bisogni, in corso di massimazione, precisa che la violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l'art. 1418, comma 1, c.c., con l'inciso ‹‹salvo che la legge disponga diversamente››, impone all'interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma. Pertanto, in assenza di un divieto generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, la stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario avvenuta in violazione dell'art. 216, comma 3, l.fall., che punisce la condotta di bancarotta preferenziale, non dà luogo a nullità di quel contratto, per illiceità di causa, ai sensi del citato art. 1418 c.c., ma costituisce il presupposto per la revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum. In tema di omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro poi fallito, di estrema rilevanza pratica appare Sez. 1, n. 23426/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, a tenore della quale il credito retributivo del lavoratore va ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro al lordo della quota contributiva altrimenti gravante sul lavoratore, in privilegio trattandosi di credito per retribuzione, con esclusione della quota contributiva a carico del datore di lavoro. E ciò in quanto in caso di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, della retribuzione a questi non corrisposta, la quota contributiva altrimenti dovuta dal lavoratore rimane definitivamente 432 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI a carico del datore di lavoro, poiché non è configurabile un diritto del lavoratore ad invocare in proprio favore l'adempimento dell'obbligazione contributiva. 5.1. I privilegi. Sulla vasta tematica dei crediti privilegiati, anzitutto, va ricordata Sez. 1, n. 17141/2016, Terrusi, Rv. 641041, che ribadisce l'orientamento della S.C. a tenore del quale il privilegio speciale sul bene immobile, che assiste (ai sensi dell'art. 2775 bis c.c.) i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell'art. 2645 bis c.c., siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall'ultima parte dell'art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dall'art. 2748, comma 2, c.c., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Ne consegue che, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell'art. 72 l.fall.), il conseguente credito del promissario acquirente, benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato con grado inferiore, in sede di riparto, rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice. Per Sez. 1, n. 06285/2016, Di Virgilio, Rv. 639200, la domanda di insinuazione al passivo fallimentare proposta da uno studio associato fa presumere l'esclusione della personalità del rapporto d'opera professionale da cui quel credito è derivato, e, dunque, l'insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio ex art. 2751 bis, n. 2, c.c., salvo che l'istante dimostri che il credito si riferisca ad una prestazione svolta personalmente dal professionista, in via esclusiva o prevalente, e sia di pertinenza dello stesso professionista, pur se formalmente richiesto dall'associazione. Sez. 6-1, n. 11656/2016, Cristiano, Rv. 639881, ribadisce che in tema di formazione dello stato passivo, il creditore che invochi il riconoscimento di un privilegio speciale ha l'onere, giusta l'art. 93, comma 3, n. 4, l.fall., come modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006, di specificare su quale bene intende esercitare la prelazione, altrimenti il credito insinuato deve essere considerato chirografario in ragione della previsione del successivo comma 4 della medesima disposizione. Sui privilegi in tema di tributi locali, merita senz'altro di essere segnalata Sez. 1, n. 12275/2016, Ferro, Rv. 640011, a tenore 433 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI della quale la tassa rifiuti (TARI) ha sostituito, a decorrere dall'1 gennaio 2014, i preesistenti tributi dovuti ai comuni dai cittadini, enti ed imprese quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (già TARES e prima ancora TIA e TARSU), conservandone la medesima natura tributaria, quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza alcun rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve. Ne consegue che al credito relativo si applica il privilegio previsto dall'art. 2752, comma 3, c.c., in quanto tale norma, con l'espressione «legge per la finanza locale», non rinvia ad una legge specifica istitutiva della singola imposta, bensì a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali, così come chiarito dall'art. 13, comma 13, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv., con modif., dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha fornito un'interpretazione autentica del menzionato comma. 5.2. La prededuzione. Secondo Sez. 1, n. 09995/2016, Nappi, Rv. 639802, in tema di opposizione allo stato passivo, i crediti maturati per canoni di contratti di leasing, stipulati dalla società in bonis, rimasti insoluti nel periodo anteriore alla sua ammissione ad una procedura di concordato preventivo e fino al fallimento della società stessa, possono essere soddisfatti in prededuzione, ex art. 111 l.fall., nel successivo fallimento, ove siano esposti già nel piano analitico allegato alla proposta ai sensi dell'art. 161, comma 2, l. fall., secondo un principio generale che può ricavarsi dall'art. 182 quater, comma 2, l.fall., atteso che solo una preventiva indicazione in seno alla proposta concordataria del novero e dell'ammontare dei "debiti della massa" consente ai creditori ammessi al voto le necessarie valutazioni sulla sua convenienza, nonché di formulare una ragionevole prognosi sulle possibilità di effettivo adempimento. Va, altresì, segnalata Sez. 1, n. 24791/2016, Ferro, in corso di massimazione, per la quale, dando continuità al principio già affermato (Sez. 6-1, n. 25589/2015, Mercolino, Rv. 637877), i crediti prededucibili ex art. 111, comma 2, l.fall. vanno individuati sulla base di un duplice criterio, cronologico e teleologico, in modo tale da ricomprendere non solo le obbligazioni della massa sorte all'interno della procedura, ma tutte quelle che interferiscono con l'amministrazione fallimentare e, conseguentemente, con gli interessi del ceto creditorio, ma non anche qualsiasi obbligazione 434 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI caratterizzata da un sia pur labile collegamento con la procedura concorsuale, dovendosi accertare in ogni caso il vantaggio arrecato alla massa dei creditori, ha precisato che tale accertamento, riservato al giudice di merito, va compiuto con valutazione da operare ex ante, non potendo l'evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale, di per sé sola e pena la frustrazione dell'obiettivo della norma, escludere il ricorso all'istituto della prededuzione. 6. La liquidazione dell'attivo. Sul procedimento per la ripartizione dell'attivo fallimentare, secondo Sez. 1, n. 00502/2016, Ferro, Rv. 638133, i creditori, nel regime anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, possono proporre reclamo avverso il decreto che rende esecutivo il progetto di riparto pur quando non abbiano presentato le osservazioni di cui all'art. 110, comma 3, l.fall., configurandosi, di solito, quel decreto come l'unico provvedimento definitivo suscettibile di determinare preclusioni circa la collocazione dei crediti correnti. Sempre in tema di riparto, secondo Sez. 1, n. 00525/2016, Di Virgilio, Rv. 638273, il giudice delegato deve normalmente limitarsi a risolvere le questioni relative alla graduatoria dei privilegi ed alla collocazione dei crediti, mentre non può apportare modifiche allo stato passivo, impugnabile solo nelle forme previste dalla legge; può, tuttavia, procedere all'esclusione di un credito già ammesso al concorso laddove il curatore faccia valere un fatto estintivo dello stesso sopravvenuto alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo e, dunque, nuovo e posteriore rispetto al giudicato endofallimentare. 7. Il concordato fallimentare. Una sola sentenza, ma di sicura rilevanza, si registra in tema di concordato fallimentare. Secondo, Sez. 1, n. 20045/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ai fini dell'omologazione del concordato fallimentare, il pagamento integrale ed immediato dei creditori aventi diritto di prelazione non è equivalente ad un loro pagamento integrale ma dilazionato, sia pure con riconoscimento degli interessi legali. Ne discende che i creditori concorsuali vanno ammessi al voto in misura percentuale pari all'entità del sacrificio subito, senza che, sotto altro profilo, sia necessaria la relazione del professionista di cui all'art. 124, comma 3, l.fall. 435 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 8. Il concordato preventivo: questioni sostanziali. In ordine ai presupposti oggettivi per l'ammissibilità del concordato, di sicuro rilievo appaiono talune decisioni della S.C., anche a Sezioni Unite, in tema di falcidiabilità dei crediti IVA e di transazione fiscale. Si tratta di importanti arresti della S.C., destinati peraltro ad essere invocati nei futuri concordati preventivi, alla luce del nuovissimo testo dell'art. 182 ter l.fall., come introdotto – a decorrere dal 1 gennaio 2017 – dall'art. 1, comma 81, della l. 11 dicembre 2016, n. 232-Legge di bilancio 2017, che, per un verso, ha reso obbligatoria l'applicazione della cennata norma quando il debitore intenda formulare una proposta concordataria che preveda il pagamento "parziale o anche dilazionato" dei crediti tributari e contributivi e, per altro verso, ha consentito la falcidia senza limiti di sorta dei detti crediti, "se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d)". Così, superando il precedente orientamento espresso dalla S.C. (e inaugurato da Sez. 1, n. 22931/2011, Zanichelli, Rv. 620056), Sez. U, n. 26988/2016, Nappi, in corso di massimazione, afferma che la previsione dell'infalcidiabilità del credito IVA di cui al vigente art. 182 ter l.fall., trova applicazione solo nell'ipotesi di proposta di concordato che sia accompagnata da una transazione fiscale. Sez. 1, n. 18561/2016, Didone, in corso di massimazione, ricorda che il proponente che abbia innestato nell'ambito di un concordato preventivo una proposta di transazione di tutti i crediti fiscali non può offrire il pagamento del credito IVA in misura falcidiata, anche a volerlo ritenere integralmente degradato a chirografo per mancanza assoluta dei beni su cui soddisfarsi, ostandovi, all'attualità, il disposto del vigente art. 182 ter, comma 1, l.fall., che ne consente la sola dilazione, con una previsione già ritenuta costituzionalmente legittima perché configurante il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo. Sempre Sez. 1, n. 18561/2016, Didone, in corso di massimazione, precisa poi che, in presenza di una proposta di transazione fiscale, la certificazione del credito proveniente dal concessionario della riscossione, ovvero dall'Agenzia delle Entrate, ex art. 182 ter, comma 2, l.fall. – nel testo vigente fino al 31 436 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI dicembre 2016 –, non può essere contestata dal contribuente al momento della formulazione di quella proposta, atteso che, da un lato, ai sicuri benefici per il proponente discendenti dalla definitiva determinazione di tutte le pretese fiscali e dall'estinzione delle liti pendenti non può che contrapporsi l'onere, per il medesimo, di prestare adesione alla quantificazione del debito accertata dall'Amministrazione finanziaria; dall'altro, che il principio di indisponibilità della pretesa tributaria, espressione di quello di legalità che permea l'intera materia, impone di ritenere non negoziabile la pretesa fiscale salvi i casi espressamente previsti dalla legge. Sez. 1, n. 07066/2016, Cristiano, Rv. 639260, afferma poi che è ammissibile la domanda di concordato che – ferme restando la proposta e le modalità di attuazione della stessa previste nel piano –, prospetti la possibilità di diverse percentuali di soddisfacimento dei creditori, ricomprese entro una forbice variabile tra una soglia minima ed una massima, a seconda dell'esito dell'accertamento dei crediti in contestazione vantati da terzi. Sez. 1, n. 26329/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ritiene senz'altro inammissibile la proposta di concordato preventivo con cessione dei beni, per carenza del necessario requisito della fattibilità giuridica, allorquando sia stato disposto, da parte del giudice penale, il sequestro preventivo degli stessi (in tutto o in parte), destinato, secondo il regime del d.lgs. n. 231 del 2001, alla confisca, essendo sottratto al giudice civile il potere di sindacare la legittimità del provvedimento reso in sede penale. Merita di essere menzionata, infine, Sez. 6-1, n. 02560/2016, Cristiano, Rv. 638465, secondo cui nel concordato preventivo, i crediti per IVA e ritenute non versate non sono falcidiabili, ma ciò non impone l'integrale pagamento di tutti i crediti privilegiati di grado anteriore. 9. Il sovraindebitamento. Nel corso dell'annata si sono registrate le prime decisione della S.C. sulla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinata dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221. Afferma in tema Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638759, che la nozione di "consumatore abilitato al piano", quale modalità di ristrutturazione del passivo e per l'esercizio delle altre prerogative previste dalla l. n. 3 del 2012, pur non escludendo il professionista o l'imprenditore – attività non incompatibili purché non residuino o, 437 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI comunque, non siano più attuali obbligazioni sorte da esse e confluite nell'insolvenza –, comprende solo il debitore, persona fisica, che abbia contratto obbligazioni, non soddisfatte al momento della proposta di piano, per far fronte ad esigenze personali, familiari ovvero attinenti agli impegni derivanti dall'estrinsecazione della propria personalità sociale e, dunque, anche a favore di terzi, ma senza riflessi diretti in un'attività d'impresa o professionale propria, salvi solo gli eventuali debiti di cui all'art. 7, comma 1, terzo periodo (tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, imposta sul valore aggiunto e ritenute operate e non versate) che vanno pagati in quanto tali, sulla base della verifica di effettività solutoria commessa al giudice nella sede di cui all'art. 12 bis, comma 3, della l. n. 3 del 2012. Soggiunge Sez. 1, n. 26328/2016, Didone, in corso di massimazione, che la proposta di composizione della crisi presentata dal consumatore può prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca siano soddisfatti in misura non integrale, solo allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi ai sensi dell'art. 7 della l. n. 3 del 2012. 438 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO PARTE SETTIMA DIRITTO TRIBUTARIO CAPITOLO XXIII L'ACCERTAMENTO (di Marzia Minutillo Turtur) SOMMARIO: 1. Le Sezioni Unite. 2. Rapporti tra Amministrazione e contribuente. 2.1. Autorizzazioni. – 2.2. Dichiarazioni dei terzi. – 2.3. Partecipazione del privato e diritto di difesa. – 2.4. Lo Statuto del contribuente. – 3. La verifica sulle movimentazioni bancarie. – 4. La prova. – 5. Accertamento e fallimento. - 6. Accertamento e incentivi agli investimenti in aree svantaggiate ex art. 8 l. n. 388 del 2000. – 7. Accertamento e solidarietà. 8. L'abuso del diritto. 9. Prescrizione e decadenza. 1. Le Sezioni Unite. In materia di dichiarazioni del contribuente, ed in particolare di dichiarazione integrativa e sua emendabilità, Sez. U, n. 13378/2016, Iacobellis, Rv. 640206, ha affermato che in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui all'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 se diretta ad evitare un danno per la P.A. (art. 2, comma 8, del d.P.R. 22 luglio 1998 n. 322), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8-bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento ed, in ogni caso, opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione finanziaria. Occorre, inoltre, menzionare Sez. U, n. 17758/2016, Cirillo, Rv. 640942, in ordine alla possibilità per l'Amministrazione finanziaria di iscrivere a ruolo l'imposta detratta in caso di omessa presentazione della dichiarazione IVA, e Sez. U, n. 08587/2016, Di Iasi, Rv. 639392, in ordine ai limiti d'impugnabilità dell'autorizzazione del procuratore della Repubblica necessaria, ai sensi dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire l'esame di documenti relativamente ai quali è stato 439 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO eccepito il segreto professionale: per l'esame di tali pronunzie si rinvia al capitolo sull'IVA e sul processo tributario. 2. Rapporti tra l'Amministrazione ed il contribuente. Numerose le pronunzie della Corte che hanno affrontato i diversi aspetti della relazione tra l'Amministrazione finanziaria e il contribuente nell'attività di accertamento. 2.1. Autorizzazioni. Sez. T, n. 12549/2016, Cricenti, Rv. 640072, chiarisce come l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria alla trasmissione all'Amministrazione finanziaria degli atti di indagine penale non va allegata a pena di nullità all'avviso di accertamento, poiché si tratta di atto che ha la funzione di salvaguardare il segreto istruttorio, ma non anche a rendere conoscibili le ragioni della pretesa tributaria, con la conseguenza che la sua mancata conoscenza da parte del contribuente non determina alcuna violazione dell'art. 7 della l. 27 luglio del 2000 n. 212. Sempre in materia di autorizzazione, dell'autorità giudiziaria in favore della Guardia di Finanza, ai sensi dell'art. 33, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la Sez. T, n. 01464/2016, Cappabianca, Rv. 638810, ha evidenziato come l'utilizzazione conseguente a fini fiscali dei dati rilevati nel corso di una indagine penale include anche la loro trasmissione all'Agenzia delle entrate. 2.2. Dichiarazioni dei terzi. Sez. T, n. 05382/2016, Greco, Rv. 639132, ha precisato che in tema di accessi, ispezioni e verifiche, l'inutilizzabilità derivante dall'acquisizione di documenti al di fuori degli specifici limiti di accesso autorizzati dal Procuratore della Repubblica (ex art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 in tema di IVA, nonché per le imposte dirette, in forza del richiamo di cui all'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973), non si estende alle prove o alle fonti di prova che trovano nell'accesso una mera occasione, come le informazioni di terzi e le dichiarazioni del contribuente raccolte nell'ambito di un accesso non autorizzato, ovvero le operazioni di verifica e riscontro dei movimenti bancari effettuate secondo i criteri di cui all'art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto collegate all'accesso in rapporto di mera occasionalità. È dunque proprio il concetto di mera occasionalità ad aprire il campo all'utilizzabilità al fine dell'accertamento tributario delle dichiarazioni acquisite da terzi in sede di controllo. 440 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO 2.3. Partecipazione del privato e diritto di difesa. Nello stesso senso, evidenziando una piena utilizzabilità della documentazione acquisita in sede di accertamento, anche se sottoposta a sequestro penale, la Sez. 6-T, n. 12059/2016, Conti, Rv. 640053, secondo la quale tale situazione non determina alcuna illegittimità della pretesa fiscale dell'Amministrazione finanziaria, considerato che non viene in alcun modo leso il diritto di difesa del contribuente che potrà sempre accedere al rilascio di copie ai sensi degli artt. 258 e 116 c.p.p., e ove tale richiesta non venga accolta potrà ottenere la rimessione in termini o la sospensione del procedimento amministrativo. Un'interpretazione evolutiva ed innovativa emerge dalla Sez. T, n. 13145/2016, Bruschetta, Rv. 640155, in tema di revoca dell'agevolazione prima casa, secondo la quale è legittimo l'accertamento realizzato mediante accesso all'abitazione di un privato ai sensi dell'art. 53-bis del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, dovendosi ritenere chiara l'intenzione del legislatore di estendere tale potere, già previsto dall'art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, anche nei confronti di chi non è imprenditore o soggetto IVA. La finalità antielusiva rende evidente la volontà del legislatore di tutelarsi contro eventuali frodi anche mediante l'accesso all'abitazione del privato e, dunque, con un potere particolarmente incisivo. Sempre in ambito relativo al rapporto diretto in sede di accertamento tra Amministrazione e contribuente la Sez. T, n. 15851/2016, Iannello, Rv. 640619, ha affermato che, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, la partecipazione del contribuente alle operazioni di verifica senza contestazioni, quanto, ad esempio, alla rappresentatività dei campioni di prodotti posti a base del calcolo della percentuale di ricarico, pur senza la ricorrenza di un'approvazione espressa, debba essere intesa quale sostanziale accettazione delle operazioni effettuate e dei loro risultati, considerato il mancato esercizio della facoltà di formulare immediatamente e formalmente il proprio dissenso rispetto al metodo di accertamento utilizzato. La considerazione della posizione del contribuente in sede di accesso ai fini di accertamento, emerge anche in Sez. T, n. 16960/2016, Perrino, Rv. 640761, che ha ritenuto applicarsi l'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso di non possedere i libri, i registri, le scritture e i documenti richiestigli, ne preclude la valutazione a suo favore in sede amministrativa o contenziosa, solo in caso di un sostanziale rifiuto 441 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO di esibizione da parte del contribuente, non invece in caso di effettiva indisponibilità della documentazione per colpa, caso fortuito o forza maggiore, incombendo la prova dei presupposti di fatto per l'applicazione della norma sull'Amministrazione finanziaria. Un principio diverso in relazione all'onere della prova posto a carico dell'Amministrazione finanziaria è, invece, affermato in tema di "redditometro": infatti, secondo Sez. 6-T, n. 16912/2016, Cigna, Rv. 640968, in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l'Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all'esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, con la conseguenza che è legittimo l'accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell'esistenza di quei fattori, l'onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. 2.4. Lo Statuto del contribuente. Sez. T, n. 17829/2016, Virgilio, Rv. 640985, ha evidenziato che in tema di garanzie del contribuente l'art. 6, comma 5, della l. 27 luglio 2000, n. 212, secondo il quale è obbligatorio l'interpello del contribuente in caso di liquidazione di tributi in base alla dichiarazione ove sussistano incertezze su aspetti rilevanti della stessa o risulti la spettanza di un minor rimborso d'imposta rispetto a quello richiesto, ha natura procedimentale, sicché è applicabile immediatamente all'attività accertativa dell'Amministrazione finanziaria posta in essere successivamente all'entrata in vigore della norma pur se relativa ad anni d'imposta anteriori a tale momento. La pronuncia in questione ha evidenziato per la prima volta e in modo univoco l'espansività dei principi dello statuto del contribuente e la portata di garanzia degli stessi anche per gli accertamenti precedenti alla sua data di entrata in vigore. Sez. T, n. 18450/2016, Luciotti, Rv. 641058, ha precisato che, in tema di diritti e garanzie del contribuente, l'omissione della prescritta comunicazione dell'avvio del procedimento volto ad addivenire alla revoca del credito d'imposta di cui alla l. 30 dicembre 1997, n.449 per incrementi occupazionali determina l'invalidità del provvedimento adottato, per violazione del principio generale di cui all'art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, qualora, senza 442 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO quell'irregolarità e sulla base delle allegazioni del contribuente, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso. Nel caso concreto tuttavia la Corte ha confermato la legittimità dell'avviso di recupero, nonostante l'omessa attivazione del contradditorio preventivo, in ragione dell'ineludibile emissione dell'atto di revoca, anche a seguito di preventiva informativa. Sez. T, n. 05149/2016, Perrino, Rv. 639141, conferma l'orientamento ormai costante della Corte secondo il quale, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'imminente scadenza del termine decadenziale dell'azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell'inosservanza del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000. In concreto è stata esclusa la presenza di ragioni d'urgenza, tanto più a fronte della possibilità, derivante dall'adesione del condono in forma riservata, di una proroga del termine ordinario d'accertamento. Non ha, invece, ritenuto la ricorrenza di alcuna violazione dello Statuto del contribuente Sez. T, n. 03583/2016, Vella, Rv. 639031, secondo la quale, in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l'avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni presentate dal contribuente ai sensi dell'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, atteso che la nullità consegue solo alle irregolarità per cui essa sia espressamente prevista dalla legge, oppure, in difetto di previsione, allorché ricorra una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell'atto cui ineriscono. Ancora in tema di corretto espletamento dell'attività di accertamento e di conseguente chiarezza e legittimità dell'attività di accertamento Sez. 6-T, n. 11682/2016, Conti, Rv. 640042, ha chiarito che l'avviso di accertamento che contenga solo l'indicazione dell'aliquota minima e massima applicata viola il principio di precisione e chiarezza delle "indicazioni" che è alla base del precetto dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, incorrendo, pertanto, nella sanzione di nullità, fermo l'onere del contribuente, peraltro, di indicare le ragioni per le quali, sulla base dei dati riportati nell'atto, non gli è stato possibile pervenire all'immediata ed agevole individuazione dell'aliquota. Sempre in un'ottica di piena garanzia del contribuente Sez. 6- T, n. 11543/2016, Caracciolo, Rv. 640048, in materia di accertamento sulle imposte sui redditi, ha escluso che, in applicazione dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 - che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva - l'Amministrazione finanziaria possa ancora procedere 443 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro. Quanto all'obbligo di conservazione delle scritture contabili ed agli effetti conseguenti a carico del contribuente Sez. T, n. 09834/2016, Marulli, Rv. 639870 ha evidenziato che, in tema di determinazione del reddito d'impresa, l'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, nell'imporre la conservazione delle scritture contabili sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, va interpretato nel senso che l'ultrattività dell'obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all'art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dall'art. 8, comma 5, della l. n. 212 del 2000, opera solo se l'accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza, derivandone, diversamente, la protrazione dell'obbligo per una durata direttamente dipendente dalla volontà dell'Ufficio attesa la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamento nei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. In materia di dati fiscali conosciuti da un ufficio e ancora non in possesso di quello che ha emesso l'avviso di accertamento, relativi ad accertamento su imposte sui redditi, Sez. T, n. 00576/2016, Locatelli, Rv. 638734, ha precisato che costituiscono, ai sensi dell'art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, elementi sopravvenuti, che legittimano l'integrazione o la modificazione in aumento dell'avviso di accertamento, mediante notificazione di nuovi avvisi, dovendosi limitare il contenuto preclusivo della norma al solo divieto di fondare il suddetto avviso integrativo sulla base di una mera rivalutazione o di un maggior apprendimento di dati già originariamente in possesso dell'ufficio procedente. Sempre in materia di imposte sui redditi, Sez. T, n. 00386/2016, Federico, Rv. 638251, ha affermato che è legittimo l'avviso di accertamento emesso nei confronti del socio di maggioranza, per la quota del 96 per cento, di una società di capitali a ristretta base azionaria, operando, in tal caso, la presunzione di attribuzione pro quota ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti, che si fonda sul disposto di cui all'art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, senza che assuma rilievo che la società abbia aderito al cd. condono tombale ex art. 9 della l. n. 289 del 27 dicembre 2002, essendo la società ed il socio titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti. Tenendo conto della portata della previsione di cui all'art. 7, comma 2, lett. b) della l. n. 212 del 2000, 444 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO nella parte in cui prescrive che gli atti dell'Amministrazione finanziaria devono indicare l'organo o l'autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere il loro riesame nel merito, Sez. T, n. 13322/2016, Zoso, Rv. 640149 ha chiarito che tuttavia tale disposizione non impone anche l'avviso al contribuente della facoltà di avvalersi, a norma dell'art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997 n. 218, dell'accertamento con adesione, la cui mancanza dunque, non comporta la nullità dell'atto impositivo, essendone le cause tassative. Si deve invece ritenere nullo l'avviso di accertamento, secondo Sez. T, n. 12781/2016, Genovese, Rv. 640198, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, tanto che in caso di contestazione, l'Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega, sebbene non necessariamente dal primo grado, visto che si tratta di un atto che non attiene alla legittimazione processuale, avendo l'avviso di accertamento natura sostanziale e non processuale. Nello stesso senso, in tema di avviso di accertamento e imposte sui redditi, si è espressa anche Sez. 6-T, n. 09736/2016, Iofrida, Rv. 639958, che ha affermato che a norma dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, deve essere sottoscritto, a pena di nullità, dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, incombendo sull'Amministrazione finanziaria dimostrare, in tale ultima evenienza e in caso di contestazione, l'esistenza della delega e l'appartenenza dell'impiegato delegato alla carriera direttiva, con ciò confermando l'orientamento emerso già nell'anno 2015 in tal senso. In tema di contraddittorio endoprocedimentale e garanzie del contribuente Sez. 6-T, n. 11283/2016, Iofrida, Rv. 639865, ha precisato che l'Amministrazione finanziaria è gravata esclusivamente per i tributi armonizzati di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, mentre, per quelli non armonizzati, non essendo rinvenibile, nella legislazione nazionale, una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria, solo ove risulti specificamente sancito, come avviene per l'accertamento sintetico in virtù dell'art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione introdotta dall'art. 22, comma 1, del d. l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito in l. 30 luglio 2010 n. 122, applicabile, però, solo dal periodo d'imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l'instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale. 445 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO 3. La verifica sulle movimentazioni bancarie. Al fine di determinare in modo adeguato il confine e la portata degli accertamenti effettuati, Sez. T, n. 15857/2016, Barreca, Rv. 640618, ha chiarito che qualora l'accertamento effettuato dall'Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto, secondo l'art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso l'acquisizione dei dati e degli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili. Nello stesso senso si è espressa Sez. T, n. 16697/2016, Luciotti, Rv. 640983, che ha evidenziato come la presunzione di cui all'art. 32, del d.P.R. n. 600 del 1973 resta invariata con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l'estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all'esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l'equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti. Un caso particolare relativamente all'accertamento su conti correnti bancari è quello analizzato da Sez. T, n. 16751/2016, Marulli, Rv. 641064, relativamente ai pagamenti effettuati attraverso conti correnti da società, enti o associazioni sportive dilettantistiche, che godono del regime di agevolazioni di cui alla legge n. 398 del 16 dicembre 1991, ove si evidenzia che è onere del Fisco quello di dimostrare che, a seguito della mancata indicazione nelle movimentazioni bancarie del percipiente, dell'erogante e della causale, non è stato possibile espletare un'efficace attività di controllo, atteso che l'art. 25, comma 5, della l. 13 maggio 1999, n. 133, come riformulato dall'art. 37, comma 2, lett. s), della l. 21 novembre 2000, n. 342, applicabile ratione temporis, impone che i pagamenti a favore di tali soggetti, se d'importo superiore a un milione di lire, debbano essere effettuati tramite conti correnti bancari o postali o comunque con modalità idonee a consentire lo svolgimento di efficaci controlli, senza, tuttavia, null'altro aggiungere ai fini della loro tracciabilità. In materia societaria Sez. T, n. 08112/2016, Greco, Rv. 639699, ha precisato che in sede di rettifica e di accertamento d'ufficio delle imposte sui redditi, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, l'utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli 446 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all'ente, ma riguarda anche quelli intestati ai soci, agli amministratori o ai procuratori generali, allorché risulti provata dall'Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell'intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all'ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali, atteso che, ai sensi dell'art. 32 del d.P.R. n. 600 cit., incombe sulla società contribuente dimostrarne l'estraneità alla propria attività di impresa. 4. La prova e i termini. Sez. T, n. 17422/2016, Federico, Rv. 640984, richiamando e confermando un risalente orientamento del 2006, in materia di accertamento sintetico e dei suoi presupposti ai sensi dell'art. 38, comma 4 e seguenti, del d.P.R. n. 600 del 1973 ha evidenziato che, nella versione vigente ratione temporis il presupposto necessario, costituito dallo scostamento di almeno un quarto del reddito induttivamente accertabile rispetto al reddito dichiarato, in applicazione dei coefficienti presuntivi, deve essere valutato con riferimento al reddito sinteticamente determinabile al netto dei redditi esenti, giacché questi ultimi possono costituire ragionevole giustificazione dei maggiori indici di redditività riscontrati, secondo quanto del resto si desume dallo stesso comma 6 del citato art. 38. Sempre in tema di accertamento sintetico Sez. T, n. 00930/2016, Virgilio, Rv. 638706, affronta un caso particolare evidenziando che ai sensi dell'art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, qualora il contribuente abbia acquistato la sola nuda proprietà di un immobile con contestuale costituzione di usufrutto a favore di un terzo, è solo con riferimento a detto acquisto che l'Amministrazione finanziaria deve fare riferimento per la determinazione in via sintetica del reddito in base a spese per incrementi patrimoniali. In tema di liberalità ed accertamento induttivo, Sez. 6-T, n. 00916/2016, Crucitti, Rv. 638438, ha confermato l'orientamento secondo il quale qualora l'ufficio accerti induttivamente il reddito con metodo sintetico, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del d.P.R. n. 600 del 1973, il contribuente, ove deduca che l'incremento patrimoniale sia frutto di liberalità, nella specie, ad opera della madre, è tenuto a fornirne la prova con documentazione idonea a dimostrare l'entità e la permanenza nel tempo del possesso del relativo reddito. 447 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO Sez. 6-T, n. 14150/2016, Caracciolo, Rv. 640561, ha affrontato il tema dell'incompletezza della dichiarazione risultante dalla contabilità in nero ed ha chiarito che la contabilità in nero, costituita da appunti personali ed informazioni dell'imprenditore, anche se rinvenuta presso terzi, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e legittima di per sé, a prescindere da ogni altro elemento, il ricorso all'accertamento induttivo, incombendo al contribuente l'onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l'atto impositivo notificatogli. In materia di studi di settore, Sez. T, n. 14288/2016, Lamorgese, Rv. 640541, conformandosi al costante orientamento della Corte ha chiarito che i parametri o studi di settore previsti dall'art. 3, commi 181 e 187, della l. n. 549 del 28 dicembre 1995, rappresentando la risultante dell'estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quanto eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell'Ufficio dell'accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 600 del 1973, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l'onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all'ente impositore fa carico la dimostrazione dell'applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento. Ancora in relazione all'accertamento induttivo Sez. T, n. 13735/2016, Virgilio, Rv. 640543 ha affermato che la legittimità dell'avviso di accertamento emesso ex art. 39, comma 2, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 va valutata in base ai presupposti di legge esistenti all'epoca della sua adozione, dei quali non è necessario il perdurare in sede contenziosa, per cui non viene meno nell'ipotesi in cui il contribuente esibisca successivamente, in giudizio, la contabilità risultata omessa o irregolarmente tenuta all'atto della verifica fiscale. In materia di IVA e accertamento induttivo Sez. 6-T, n. 01020/2016, Caracciolo, Rv. 638480, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, l'inottemperanza del contribuente all'obbligo della dichiarazione annuale rende legittimo 448 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO l'accertamento induttivo da parte dell'Ufficio - il quale può desumere i dati per la ricostruzione del giro d'affari del contribuente da qualunque elemento a sua conoscenza, ivi compresa la dichiarazione tardivamente presentata da quest'ultimo - e preclude che l'imposta versata sugli acquisti di beni e servizi nel periodo dell'omessa dichiarazione possa essere detratta, se non risulti dalle dichiarazioni periodiche, essendo irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d'impresa. Sempre in materia IVA e accertamento induttivo Sez. T, n. 15615/2016, Centonze, Rv. 640629, ha confermato un orientamento risalente, secondo cui l'accertamento induttivo avente ad oggetto la ricostruzione delle rimanenze iniziali e finali può essere effettuato o sulla base dei dati della contabilità aziendale, che costituiscono prova a carico del contribuente e di cui deve presumersi l'esattezza, o attraverso la ricerca di elementi che contraddicano in modo inoppugnabile i dati forniti dal contribuente. In tema di frodi carosello Sez. T, n. 17818/2016, Olivieri, Rv. 640767 ha evidenziato quale debba essere la prova fornita dall'Amministrazione finanziaria, anche mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, relativa agli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di cartiera, l'inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell'I.V.A.) e alla connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell'irregolarità delle operazioni, mentre spetta al contribuente, che ha portato in detrazione l'IVA, la prova contraria di aver concluso realmente l'operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l'impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d'ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni, non essendo a tal fine sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti. La valutazione dei canoni in materia di onere della prova in sede di accertamento IVA emerge anche dalla Sez. T, n. 18232/2015, Marulli, Rv. 641056, secondo la quale anche nel caso di regolarità formale della contabilità, l'Amministrazione può disconoscere la detrazione in ragione di presunzioni semplici basate su dati e notizie apprese da terzi o su accertamenti effettuati presso terzi, atteso l'ampio potere conoscitivo della posizione fiscale, riconosciuto dalla legge e limitato solo dal rispetto dei diritti 449 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO costituzionali, con conseguente inversione dell'onere della prova, essendo il contribuente tenuto a dare prova dell'infondatezza della pretesa erariale. Sempre in materia IVA, Sez. T, n. 02633/2016, Scoditti, Rv. 638908, ha affermato che l'accertamento parziale dell'IVA e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l'esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di automatismo argomentativo, per modo che il confezionamento dell'atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento. In relazione al potere di autonoma valutazione da parte dell'Amministrazione finanziaria in sede di accertamento Sez. 6-T, n. 14858/2016, Crucitti, Rv. 640666, ha precisato che in tema di condono fiscale, la definizione della lite pendente, ai sensi dell'art. 16 della l.27 dicembre 2002, n. 289, da parte di una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, trattandosi di beneficio lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascun contribuente, sicché non comporta alcuna preclusione all'esercizio del potere dovere di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta ad adeguare il reddito da partecipazione dei soci, che abbiano scelto di non avvalersi di tale istituto, a quello - ricalcolato in base al condono - della società. In tema di deducibilità e prova in materia di accertamento Sez. T, n. 08322/2016, Greco, Rv. 639773, ha affermato che in virtù dell'art. 2, comma 6-bis, della l. n. 165 del 26 Giugno 1990, avente, come norma interpretativa, efficacia retroattiva, sia l'art. 74 del d.P.R. n. 597 del 29 settembre 1973 che l'art. 75 (ora 109, comma 5) del d.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 devono intendersi nel senso che le spese ed i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili. In materia di prova posta a base dell'accertamento Sez. T, n. 13770/2016, Tricomi, Rv. 640616, in tema di esenzioni e riduzioni daziarie ha affermato che gli accertamenti compiuti dagli organi comunitari, anche se a posteriori, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari e, quindi, possono essere 450 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO posti a fondamento dell'avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni del regime agevolativo. Quanto alle società di comodo, Sez. 6-T, n. 13699/2016, Caracciolo, Rv. 640340, ha precisato come i parametri previsti dall'art. 30 della l. 23 dicembre 1994 n. 724 sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, sicché la determinazione dell'imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi sia in sede di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente. 5. Accertamento e fallimento. Sez. T, n. 05392/2016, Scoditti, Rv. 639036, si è invece occupata della notifica dell'avviso di accertamento in caso di fallimento del contribuente evidenziando che l'avviso di accertamento, concernente crediti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al fallito, il quale conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all'inerzia della curatela, sicché, in caso contrario, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l'atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d'impugnazione instaurato dal curatore. Sempre nella stessa materia Sez. T, n. 05384/2016, Marulli, Rv. 639435, secondo la quale in materia di accertamento, l'omessa notifica al fallito dell'atto impositivo, pur in presenza di regolare notifica al curatore del fallimento e conseguente impugnazione da parte della curatela non determina irritualità, nullità o inesistenza di tale atto, poiché l'obbligo di notificazione al contribuente fallito è strumentale a consentire allo stesso l'esercizio in via condizionata del diritto di difesa, azionabile solo nell'inerzia degli organi della procedura fallimentare. 6. Accertamento e incentivi agli investimenti in aree svantaggiate ex art. 8 l. n. 388 del 2000. Un vivace e in parte contrastante dibattito ha caratterizzato la considerazione dell'attività di accertamento possibile o meno a seguito dell'accesso al condono ex art. 9, comma 9, della l. 27 dicembre 2002 n. 289 da parte dei contribuenti che hanno avuto accesso alle agevolazioni e incentivi 451 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO per investimenti in aree svantaggiate. Infatti secondo Sez. T, n. 03112/2016, Bruschetta, Rv. 639041, il condono di cui all'art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide i debiti del contribuente verso l'erario, comportando la preclusione nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati di ogni accertamento tributario, con conseguente illegittimità di ogni attività accertatrice ivi compresa quella di recupero del credito d'imposta, ai sensi dell'art. 9 comma 10, della l. n. 289 del 2002. Tuttavia in senso contrario a tale orientamento si è espressa Sez. T, n. 16157/2016, Sabato, Rv. 640769, che ha invece affermato che il condono ex art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l'erario, ma non opera sui suoi crediti, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio ai sensi dell'art. 9, comma 10, lett. a), della l. n. 289 del 2002, dovendosi interpretare la previsione del comma 9 della norma citata - secondo cui la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate - nel senso che tale definizione non sottrae all'Amministrazione il potere di contestare il credito esposto dal contribuente e, quindi, di emettere avvisi di recupero delle agevolazioni da esso indicate. Tale pronuncia risulta tuttavia a sua volta in contrasto con Sez. T, n. 16186/2016, Ragonesi, Rv. 640770, che ha affrontato la questione negli stessi termini del primo orientamento affermando che in materia di accertamento, il credito d'imposta, conseguente all'agevolazione ex art. 8 della l. n. 388 del 2000, può essere oggetto di definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002, sicché, ove sia stato effettivamente indicato nella richiesta di condono, il cui importo sia stato versato, ne è precluso all'Amministrazione finanziaria il recupero in virtù dello stesso art. 9, comma 10, lett. a). La tempestiva indicazione del credito d'imposta dunque precluderebbe qualsiasi accertamento sul punto dell'amministrazione. Alla luce di tale contrasto, Sez. T, n. 25092, Stalla, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente l'interpretazione dell'art. 9, commi 9 e 10, della l. n. 289 del 2002 e più precisamente la permanenza o la perdita, in capo all'Amministrazione finanziaria, del potere di contestare e recuperare i crediti del contribuente derivanti dalle agevolazioni, ove sia definito il rapporto tributario tramite condono e conseguentemente precluso, in virtù di tale disposizione, ogni accertamento tributario. 452 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO 7. Accertamento e solidarietà. Sez. T, n. 11925/2016, La Torre, Rv. 640015, ha affrontato il tema della dichiarazione congiunta dei redditi dei coniugi ed ha affermato che la loro responsabilità solidale vale anche per gli accertamenti nei confronti di uno solo di essi, dipendenti da comportamenti non riconducibili alla sfera volitiva e cognitiva di entrambi, attesa, da un lato, la scelta volontariamente operata di presentare un'unica dichiarazione, accettando i rischi della relativa disciplina, e, dall'altro, la possibilità del coniuge coodichiarante - entro i termini decorrenti dalla notifica dell'atto con il quale viene a conoscenza della pretesa tributaria - di contestare nel merito l'obbligazione dell'altro. La pronuncia si pone in termini di continuità con le valutazioni della Corte quanto alla dichiarazione congiunta dei coniugi; in tal senso Sez. T, n. 08533/2016, La Torre, Rv. 639774, ha precisato e chiarito che in tema d'IRPEF, i coniugi non legalmente separati possono presentare un'unica dichiarazione dei redditi, in virtù della quale le imposte determinate separatamente per ciascuno di loro si sommano e le ritenute e i crediti d'imposta si applicano sull'ammontare complessivo, verificandosi un'unificazione delle due posizioni con riferimento alle componenti che ne consentono una riduzione, sicché il debito d'imposta dell'uno è compensabile con il credito d'imposta dell'altro. Sempre in tema di solidarietà, in questo caso riferita al sostituto d'imposta, Sez. 6-T, n. 12076/2016, Conti, Rv. 640069, ha confermato un orientamento risalente evidenziando che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il fatto che il sostituto d'imposta sia definito ex art. 64, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 come colui che, in forza di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall'origine obbligato solidale al pagamento dell'imposta, sicché anch'egli è soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l'abbia versata all'erario. 8. L'abuso del diritto. La Corte, dopo le numerose pronunzie intervenute lo scorso anno sul tema, ha valutato e definito in senso costituzionalmente orientato il concetto di abuso del diritto in relazione a diverse fattispecie, precisando l'ambito della disciplina di cui all'art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973. In particolare con la Sez. T, n. 10216/2015, Stalla, Rv. 639984, si è confermato l'orientamento costante in tema di imposta 453 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO di registro (già Sez. T, n. 03481/2014, Terrusi, Rv. 630075), in relazione al disposto di cui all'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, quanto alla prevalenza della natura intrinseca ed effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, con conseguente necessità di dare preminenza alla causa reale perseguita dai contraenti anche con pattuizioni non contestuali, al fine di escludere nella valutazione complessiva la ricorrenza di comportamenti a carattere elusivo. Nel caso di specie il conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore del socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente è stato considerato un'operazione a carattere unitario da qualificare cessione di azienda, esclusa in concreto la finalità elusiva. In materia di benefici fiscali "prima casa", Sez. T, n. 14510/2016, La Torre, Rv. 640513, ha evidenziato come il requisito necessario per fruire dell'agevolazione è rappresentato dall'effettivo trasferimento della residenza nel comune in cui si trova l'immobile entro il termine di diciotto mesi dall'acquisto, con irrilevanza di un successivo spostamento della residenza, non incluso tra le cause espresse di revoca, salva la sussistenza di un concreto abuso del diritto. La pronuncia in questione evidenzia dunque la necessità di una valutazione in concreto del comportamento del contribuente al fine di poter verificare l'effettiva ricorrenza di un caso di abuso del diritto, ovvero la realizzazione di una serie di attività a carattere strumentale per ottenere benefici fiscali non dovuti, in mancanza di valide ragioni economiche, la cui prova tuttavia incombe sull'Amministrazione finanziaria (orientamento conforme Sez. T, n. 4603/2014, Greco, Rv. 629749). Negli stessi termini si è espressa Sez. T, n. 13343/2016, Bruschetta, Rv. 640169, che ha chiarito che il contribuente che abbia venduto la sua abitazione prima del decorso di cinque anni dall'acquisto l'immobile per il quale abbia usufruito dei benefici prima casa e ne abbia acquistato un altro entro un anno dall'alienazione può conservare l'agevolazione purché trasferisca la residenza proprio nell'immobile di nuovo acquisto (e dunque non più solo nel comune di residenza), considerata la volontà del legislatore di non favorire operazioni meramente speculative, oggettivamente integranti abuso del diritto. La necessità di considerare nella sua più ampia portata il comportamento tenuto dal contribuente al fine di escludere l'abuso del diritto emerge anche nella Sez. T, n. 15830/2016, Cricenti, Rv. 640621, con la quale si evidenzia, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, come si debba ritenere l'imputazione al 454 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO contribuente di redditi formalmente intestati ad altro soggetto quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, egli ne risulti l'effettivo titolare, senza distinguere tra interposizione fittizia o reale, sicché l'applicazione della disposizione non è limitata alle sole operazioni simulate. Sez. T, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, precisa, in materia di operazioni a possibile carattere elusivo, che normalmente l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare in adempimento di condizioni di separazione non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici perché diretto a sistemare globalmente i rapporti tra i coniugi nella prospettiva di una stabile definizione della crisi familiare, ed è quindi un atto relativo a tali procedimenti, che può, dunque, usufruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987 n. 74, salva la contestazione da parte dell'Amministrazione della finalità elusiva, con onere a suo carico. Altra pronuncia da evidenziare è Sez. T, n. 08855/2016, Scoditti, Rv. 639650, secondo la quale le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall'art. 2909 c.c., e dalla sua eventuale proiezione oltre il periodo di imposta, che ne costituisce specifico oggetto, atteso che, secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia, 3 settembre 2009, iC-2/08, la certezza del diritto non può tradursi in una violazione dell'effettività del diritto euro- unitario. La rilevanza di tale decisione è da collegare aln tema molto dibattuto della portata ed efficacia vincolante del giudicato ed al limite derivante dall'abuso del diritto, così come evidenziato dal precedente Sez. 5, n, 16996/2012, Cirillo, Rv. 624024, secondo cui le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall'art. 2909 c.c., e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove gli stessi impediscano - secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08 - la realizzazione del principio di contrasto dell'abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato di imposta. Nel caso concreto era, infatti, stato negato il valore di giudicato esterno a sentenze di merito che, pronunciandosi con riferimento ad avvisi di accertamento in materia di IVA emessi in contestazione di fatture 455 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO per operazioni inesistenti in ordine ad anni diversi di imposta, avevano escluso la fittizietà di tali operazioni. Il principio del giudicato esterno e la durevolezza dei suoi presupposti trovano dunque un limite nel principio dell'abuso de diritto e nella necessità di garantire effettivamente il sistema armonizzato dell'imposta. 9. Prescrizione e decadenza. Nelle pronunzie relative alla prescrizione e decadenza la Corte ha valutato e considerato le posizioni dell'Amministrazione finanziaria e del contribuente in diverse situazioni concrete. Quanto all'accertamento in diminuzione, Sez. 6-T, n. 11699/2016, Iofrida, Rv. 640043, ha evidenziato come il provvedimento non esprime una nuova pretesa tributaria, limitandosi a ridurre quella originaria, per cui non costituisce atto nuovo, ma solo revoca parziale di quello precedente, che non deve rispettare il termine decadenziale di esercizio del potere impositivo. Una ulteriore considerazione in tema di termini per l'accertamento e loro decorrenza emerge da Sez. 6-T, n. 11171/2016, Crucitti, Rv. 639877, secondo la quale il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l'obbligo di denuncia penale, ai sensi dell'art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011. In riferimento alla dichiarazione congiunta dei coniugi ex art. 17 della l. 13 aprile 1977 n. 114, Sez. T, n. 01463/2016, Cappabianca, Rv. 638737, ha richiamato la solidarietà tra coniugi come principio perseguito dal legislatore ed ha precisato come la notifica al marito dell'avviso di accertamento, così come della cartella di pagamento, impedisce qualsiasi decadenza dell'Amministrazione finanziaria anche nei confronti della moglie coodichiarante. Dalla disciplina richiamata consegue anche che la pendenza di un processo tra Amministrazione e marito determina anche la sospensione di qualsiasi termine – di decadenza e di prescrizione, nei confronti della moglie, nella sua veste di condebitore solidale rimasto estraneo al giudizio, con la conseguente applicazione dei principi in tema di obbligazione solidale ai sensi dell'art. 1310, comma 1, c.c. In materia di tributi locali la Sez. T, n. 14908/2016, Stalla, Rv. 640826, ha evidenziato per la prima volta come, considerato l'art. 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, che attribuisce ai comuni il 456 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO potere di determinare alcuni aspetti dell'ICI, tra i quali la previsione del termine di decadenza per l'esercizio del potere di accertamento, debba essere ritenuta legittima e non in contrasto con lo Statuto del contribuente la delibera municipale che rechi un termine più lungo di quello fissato dall'art. 11 del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504. Sempre in materia di decadenza relativamente all'accertamento ICI, la Sez. T, n. 08364/2016, Stalla, Rv. 639775, ha precisato che l'elevazione del termine di decadenza da due a tre anni di cui all'art. 1, comma 163, della l. 27 dicembre 2006 n. 296, non ha prorogato il previgente termine biennale, ma ne ha introdotto uno nuovo, con decorrenza diversa da identificare non in relazione alla notifica dell'atto impositivo, ma in considerazione della definitività dell'accertamento o, in caso di contenzioso, dalla pubblicazione della sentenza. Tale termine proprio per le sue caratteristiche è stato ritenuto applicabile anche ai rapporti pendenti, e dunque l'amministrazione comunale potrà formare e rendere esecutivo il ruolo anche prima che decorra il termine triennale, sebbene al momento dell'entrata in vigore della nuova disposizione fosse già scaduto il termine biennale all'epoca previsto. Quanto alle agevolazioni conseguenti agli investimenti in aree svantaggiate ai sensi della l. 23 dicembre 2000 n. 388, art. 8 comma 7, Sez. T, n. 15186/2016, Botta, Rv. 640824, ha per la prima volta chiarito che l'azione di recupero del credito di imposta è sottoposta ad un termine di decadenza, che non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il potere di accertamento dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, mentre il dies a quo va individuato nel momento dell'effettivo utilizzo del credito. In materia doganale, Sez. 6-T, n. 12074/2016, Conti, Rv. 640070, richiamando un orientamento della Corte del 2010, ha affermato che una volta che sia stata respinta, con sentenza passata in giudicato l'opposizione avverso l'ingiunzione di pagamento, l'azione dello Stato per la riscossione dei diritti medesimi non si prescrive nel termine di cinque anni, previsto dall'art. 84 del d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, ma entro quello più lungo di dieci anni, previsto dall'art. 2953 c.c., decorrente dal passaggio in giudicato della decisione di rigetto dell'opposizione, alla quale va riconosciuta la funzione di accertamento dell'esistenza del diritto di credito fatto valere dall'Amministrazione finanziaria con l'ingiunzione. In materia di servizio radiomobile pubblico terreste di comunicazione, Sez. T, n. 20517/2016, De Masi, Rv. 000000, ha precisato che in tema di tassa sulle concessioni governative relative alla stipula di contratti di abbonamento per la fornitura di servizi di 457 CAP. XXIII – L'ACCERTAMENTO telefonia mobile deve essere applicata la speciale disciplina della decadenza ex art. 13 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 641, e non quella prevista in via generale dall'art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997, considerata la natura di disposizione speciale dell'art. 13, sicché il dies a quo deve essere identificato nel "giorno nel quale è stata commessa la violazione" da ravvisare nella mancata riscossione della tassa all'atto di emissione della bolletta ai sensi della nota 1 all'art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 641 del 1972. Sez. T, n. 16730/2016, Luciotti, Rv. 640965, in ordine agli effetti della notifica di cartella esattoriale fondata su sentenza passata in giudicato ha confermato, richiamando un orientamento coerente della Corte sul punto, che non sono applicabili i termini di decadenza e/o prescrizione che scandiscono i tempi dell'azione amministrativa/tributaria, ma soltanto il termine di prescrizione generale previsto dall'art. 2953 c.c., perché il titolo della pretesa tributaria cessa di essere l'atto e diventa la sentenza che, pronunciando sul rapporto, ne ha confermato la legittimità, derivandone l'inapplicabilità del termine di decadenza di cui all'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, che concerne la messa in esecuzione dell'atto amministrativo e presidia l'esigenza di certezza dei rapporti giuridici e l'interesse del contribuente alla predeterminazione del tempo di soggezione all'iniziativa unilaterale dell'ufficio. Infine in caso di violazione di norme tributarie, ad avviso di Sez. T, n. 21826/2016, Fernandes, Rv. in corso di massimazione, l'art. 20 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, come modificato, con effetto dal 1° aprile 1998, dal d.lgs. n. 203 del 1998 e successivamente dal d.lgs. n. 99 del 2000, stabilisce che la contestazione debba essere notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione "o nel diverso termine previsto per l'accertamento dei singoli tributi". Tale ultimo inciso, per il suo riferimento operato in termini generali, rende applicabili anche eventuali disposizioni di proroga dei termini medesimi, fra le quali quella di cui all'art. 10 della l. n. 289 del 2002, che prevede per i contribuenti che non si avvalgono delle norme di definizione agevolata, dettate dagli artt. 7 e 9 della medesima legge, la proroga di due anni dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento, sia per le imposte sui redditi, che per l'imposta sul valore aggiunto. 458 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI CAPITOLO XXIV LE IMPOSTE SUI REDDITI (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. La dichiarazione integrativa ex art. 2 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. – 2. La dichiarazione congiunta dei coniugi. – 3. La determinazione del reddito. – 4. I costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cd. Paesi black list). – 5. IRPEG. – 6. La repressione del cd. transfer pricing. – 7. Le plusvalenze. – 8. Il reddito d'impresa. – 9. I fondi previdenziali integrativi. 1. La dichiarazione integrativa ex art. 2 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. L'art. 2, comma 8, del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) prevede che, salva l'applicazione delle sanzioni, le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d'imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni di cui all'art. 3, non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Il successivo comma 8-bis dispone che le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti di imposta possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, ed aggiunge che l'eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. La Sezione Tributaria della Corte di cassazione, con ordinanza interlocutoria del 18 settembre 2015, n. 18383, ha segnalato un contrasto di decisioni sulla questione se il contribuente, in caso dei imposta sui redditi, ha la facoltà di rettificare la dichiarazione prevista dagli artt. 1 e ss. del d.P.R. n. 600 del 1973, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito o minor credito d'imposta, solo entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, come stabilito dall'art. 2, comma 8-bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, oppure se, al contrario, quest'ultimo termine 459 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI sia previsto solo ai fini della compensazione richiamata dalla norma, per cui la predetta rettifica è possibile anche a mezzo di dichiarazione da presentare entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, a norma dell'art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998, ed, in ogni caso, mediante l'allegazione di errori nella dichiarazione ed incidenti sull'obbligazione tributaria, tanto in sede rimborso, purché la relativa istanza sia presentata nei relativi termini di decadenza e/o di prescrizione, quanto in sede di processuale, e cioè per opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato. A composizione del contrasto, Sez. U, n. 13378/2016, Iacobellis, Rv. 640206, ha affermato il principio per cui, in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 se diretta ad evitare un danno per la P.A. (art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8-bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento ed, in ogni caso, opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione finanziaria. Il sistema normativo creatosi a seguito dell'introduzione dei commi 8 e 8-bis consente – ha osservato la Corte - di distinguere, nell'ambito dello stesso articolo 2, i limiti e l'oggetto delle rispettive dichiarazioni integrative, nel senso, precisamente, che la correzione di errori od omissioni in danno della P.A. sono emendabili non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 mentre gli errori o omissioni in danno del contribuente possono, di contro, essere emendati non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, portando in compensazione il credito eventualmente risultante. Tale distinzione, circa l'oggetto delle dichiarazioni integrative di cui ai commi 8 e 8-bis - rispettivamente in malam o in bonam partem - porta ad escludere che il disposto di cui al comma 8-bis si ponga in rapporto di species a genus rispetto al comma 8. D'altra parte – hanno osservato ancora le Sezioni Unite – il diverso campo applicativo delle norme in materia di accertamento (d.P.R. n. 600 del 1973 e d.P.R. n. 322 del 1998) rispetto a quelle 460 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI relative alla riscossione (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) comporta la necessità di distinguere tra la dichiarazione integrativa, di cui all'art. 2 comma 8-bis, e il diritto al rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973. Ne consegue che, ove il contribuente opti per la presentazione della istanza di rimborso di cui all'art. 38 cit., verrà introdotto un autonomo procedimento amministrativo (in cui la istanza di parte costituisce l'atto di impulso della fase iniziale) del tutto distinto dalla attività di controllo automatizzato - formale ed in rettifica - originato dalla mera presentazione della dichiarazione fiscale. La natura giuridica della dichiarazione fiscale quale mera esternazione di scienza, il principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost., il disposto dell'art. 10 dello Statuto del contribuente - secondo cui i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede - nonché il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, comportano, poi, l'inapplicabilità in tale sede, delle decadenze prescritte per la sola fase amministrativa. Deve, pertanto, riconoscersi al contribuente la possibilità, in sede contenziosa, di opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco - anche con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato - allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella sua redazione ed incidenti sul'obbligazione tributaria, indipendentemente dal termine di cui all'art. 2 cit.. La Corte ha, quindi, concluso affermando i seguenti principi di diritto: 1) la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa di cui all'art. 2 comma 8-bis cit.è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante; 2) la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l'amministrazione, è esercitabile non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973; 3) il rimborso dei versamenti diretti di cui all'art. 38 del d.P.R. 602 del 1973 è esercitabile entro il termine di decadenza di 461 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e modalità della dichiarazione integrativa di cui all'art. 2 comma 8-bis d.P.R. n. 322 del 1998; 4) il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dall'art. 2 d.P.R. n. 322 del 1998 e dall'istanza di rimborso di cui all'art. 38 d.P.R. n. 602 del 1973, in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sul'obbligazione tributaria. 2. La dichiarazione congiunta dei coniugi. I coniugi non legalmente separati, a norma dell'art. 17 della l. 13 aprile 1977, n. 114, possono presentare un'unica dichiarazione dei redditi, in virtù della quale le imposte determinate separatamente per ciascuno di loro si sommano e le ritenute e i crediti d'imposta si applicano sull'ammontare complessivo, verificandosi un'unificazione delle due posizioni con riferimento alle componenti che ne consentono una riduzione, sicché il debito d'imposta dell'uno è compensabile con il credito d'imposta dell'altro: Sez. T, 08533/2016, La Torre, Rv. 639774. I coniugi, in conseguenza della dichiarazione congiunta, sono responsabili in solido per il pagamento di imposta, soprattasse, pene pecuniarie e interessi iscritti a ruolo. La natura solidale di tale responsabilità comporta, da un lato, che tempestiva notifica al marito dell'avviso di accertamento, come della cartella di pagamento, impedisce qualsiasi decadenza dell'Amministrazione finanziaria anche nei confronti della moglie co-dichiarante e, dall'altro, che la pendenza del processo tra l'Amministrazione finanziaria ed il marito determina la sospensione di qualsiasi termine - di decadenza come di prescrizione - riguardo alla stessa moglie co-dichiarante, trattandosi di un condebitore solidale rimasto estraneo al giudizio, sicché trovano applicazione gli ordinari principi codicistici in tema di obbligazione solidale di cui agli artt. 1310, comma 1, e 2945 c.c.: Sez. T, n. 01463/2016, Cappabianca, Rv. 638737. Del resto, ha aggiunto Sez. T, n. 11925/2016, La Torre, Rv. 640015, la scelta volontariamente operata di presentare un'unica dichiarazione comporta l' accettazione dei rischi della relativa disciplina, ferma restando la possibilità del coniuge coodichiarante - entro i termini decorrenti dalla notifica dell'atto con il quale viene a 462 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI conoscenza della pretesa tributaria - di contestare nel merito l'obbligazione dell'altro. 3. La determinazione del reddito. Quanto alla determinazione del reddito, particolarmente importante è la pronuncia di Sez. T, n. 16969/2016, Scoditti, Rv. 640953, secondo la quale il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale. La sentenza ha rilevato come, in materia di prestazioni professionali, vige la regola della postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale il diritto al compenso pattuito si matura una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui la prestazione è diretta (regola mitigata da un duplice ordine di diritti del professionista: quello all'anticipo delle spese occorrenti all'esecuzione dell'opera e quello all'acconto, da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire una volta portato a termine l'incarico). La prestazione difensiva ha così carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato debbano essere liquidati in base alla tariffa vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale, unitarietà che va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado. L'unitarietà della prestazione è, infine, confermata – ha concluso la Corte – dalla decorrenza della prescrizione: ai sensi dell'art. 2957 c.c., la prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso decorre dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente. Sez. 6-T, n. 19240/2016, Federico, Rv. 641116, ha, poi, ritenuto che, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo - per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall'art. 8 della l. 9 dicembre 1998, n. 431 - è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto. I proventi dell'attività di prostituzione svolta autonomamente sono assoggettabili – secondo Sez. T, n. 15596/2016, Locatelli, Rv. 463 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI 640638 - ad imposta e sono riconducibili alla categoria dei redditi di lavoro autonomo, in caso di esercizio abituale, o a quella dei redditi diversi, in caso di esercizio occasionale, atteso che si tratta di prestazioni di servizi retribuite e, pertanto, di attività economica, peraltro, di per sé priva di profili di illiceità, a differenza del suo sfruttamento o favoreggiamento, i cui introiti, derivando da un reato, prima ancora che imponibili, sono confiscabili. In caso di operazioni oggettivamente inesistenti, Sez. T, n. 07896/2016, Federico, Rv. 639570 ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 8, comma 2, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. nella l. 26 aprile 2012, n. 44, che ha portata retroattiva ed è applicabile anche d'ufficio, i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese. Non è, invece, deducibile dal reddito – ad avviso di Sez. 6-T, n. 11183/2016, Crucitti, Rv. 639991 – l'assegno corrisposto in un'unica soluzione, ai sensi dell'art. 5, comma 8, della l. 1 dicembre 1970, n. 898, del 1970, all'ex coniuge. Sez. T, n. 11949/2016, Iannello, Rv. 640017 ha, infine, affermato che le detrazioni di cui all'art. 15 del d.P.R. n. 917 del 1986 degli interessi passivi e dei relativi oneri accessori pagati in dipendenza dei mutui garantiti da ipoteca su immobili da adibire ad abitazione principale, spettano, con riferimento alle somme corrisposte dagli assegnatari degli alloggi di cooperative, alla società, parte contraente dei mutui indivisi, e non ai singoli soci assegnatari, i quali vantano un diritto di godimento e non di proprietà. Sempre in argomento, secondo Sez. T, n. 19501/2016, Locatelli, Rv. 641237, la detrazione di quota di spese relative alla realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali all'abitazione principale, secondo un'interpretazione estensiva dell'art. 1, comma 1, della l. n. 449 del 1997, spetta al proprietario dell'abitazione principale sia ove realizzi direttamente il manufatto (in proprio o con appalto a terzi) sia ove acquisti l'autorimessa, fermo restando, in ogni caso, che l'importo deducibile deve essere commisurato al solo costo di realizzazione dell'opera, attestato dal costruttore, e non può corrispondere al prezzo versato per l'acquisto, in quanto comprensivo anche dell'utile che il venditore ricava dalla compravendita. 464 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI 4. I costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cd. Paesi black list). Le modifiche retroattive introdotte dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della l. 27 dicembre 2006, n. 296, e prima di quelle di cui alla l. 28 dicembre 2015, n. 208, applicabili a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015, comportano che la separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi delle spese e degli altri componenti negativi inerenti ad operazioni commerciali intercorse con fornitori aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi black list) sia un mero obbligo formale, che non ne condiziona la deducibilità e la cui violazione espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa ex art. 8, comma 3-bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all'entrata in vigore della l. n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1: Sez. T, n. 11933/2016, Virgilio, Rv. 640084. Peraltro, ha aggiunto Sez. T, n. 10989/2016, La Torre, Rv. 639986, a seguito della contestazione della mancata dichiarazione autonoma dei compensi corrisposti a fornitori operanti in Stati a fiscalità privilegiata, è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione, in quanto, ove fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni stabilite dal legislatore per inosservanza della correlativa prescrizione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto sanabile, con dichiarazione integrativa, la mancata separata indicazione dei costi successivamente all'accesso della Guardia di Finanza). 5. IRPEG. Sez. T, n. 03087/2016, Tricomi, Rv. 639043, ha confermato il principio per cui il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obbiettivi perseguiti, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio della società senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle aventi come scopo preminente quello di pubblicizzare prodotti, marchi e servizi dell'impresa con una diretta finalità promozionale e di incremento delle vendite. In applicazione del principio, la S.C. ha escluso la qualificazione delle spese di rinfresco per l'inaugurazione di un centro commerciale quali spese pubblicitarie, non essendo provati quali prodotti o attività fossero pubblicizzati e quale fosse la diretta aspettativa di ritorno commerciale. 465 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI Anche i costi sostenuti per la cessione gratuita a v.i.p. dei capi d'abbigliamento griffati di produzione del contribuente, senza alcun obbligo giuridico d'indossarli in manifestazioni pubbliche, integrano, ai sensi dell'art. 74 (ora 108), comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili, e non di pubblicità o propaganda, interamente deducibili, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l'aspettativa diretta di un maggior ricavo: in tal senso, Sez. T, n. 08121/2016, Cirillo, Rv. 639437. Interessante è, poi, Sez. T, n. 02800/2016, Greco, Rv. 638896, per la quale, in caso di mandato non oneroso a vendere autoveicoli usati, conferito ad una società commerciale come "corrispettivo" dello sconto concesso sull'acquisto di autoveicoli nuovi, senza obbligo di rendiconto e senza rimessione al mandante di quanto il mandatario abbia realizzato in esecuzione del mandato, il ricavato delle vendite inerisce alla gestione sociale, costituendo, quindi, posta attiva dei componenti del reddito ai fini del prelievo fiscale dell'IRPEG e dell'ILOR. Resta, infine, pendente la questione, devoluta alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria di Sez. T, n. 01703/2016, Perrino, sull'applicabilità del divieto di ammortamento dei costi di acquisizione dei terreni anche nel caso in cui emerga che il terreno che funga da area di sedime di un impianto di distribuzione carburanti abbia possibilità di utilizzazione limitata nel tempo. 6. La repressione del cd. transfer pricing. Sez. T, n. 13387/2016, Locatelli, Rv. 640134, ha ritenuto che la stipula di un mutuo gratuito tra una società controllante residente e una controllata estera soggiace all'art. 76, comma 5 (ora 110, comma 7), del d.P.R. n. 917 del 1986, finalizzato alla repressione del cd. transfer pricing, che deve trovare applicazione non solo quando il prezzo pattuito sia inferiore a quello mediamente praticato nel comporto economico di riferimento, ma anche quando sia nullo, atteso che pure in tale ipotesi, peraltro maggiormente elusiva, si realizza un indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, a cui l'ordinamento reagisce sostituendo il corrispettivo contrattuale nullo con il «valore normale» dell'operazione, costituito in caso di prestito di una somma di danaro dagli interessi al tasso di mercato. Va, però, segnalata l'esistenza, nelle giurisprudenza di legittimità, di una diversa opinione, espressa da Sez. T, n. 466 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI 27087/2014, Olivieri, Rv. 633915, in fattispecie analoga a quella decisa dalla riportata Sez. T, n. 13387/2016, Locatelli, Rv. 640134, che l'ha consapevolmente disattesa. Secondo il precedente del 2014, "la stipula di un finanziamento non oneroso, riconducibile allo schema del mutuo a titolo gratuito, erogato dalla società controllante a favore delle controllate, non subisce limitazioni per il fatto che la controllante, residente nello Stato, e le società residenti in altri Paesi appartengano al medesimo gruppo societario, realizzando quindi una operazione infragruppo transfrontaliera, non contrastando la gratuità della operazione, che esclude la pattuizione di interessi corrispettivi dovuti dalla mutuataria, con la previsione dell'art. 76, comma 5 (oggi art. 110, comma 7), del d.P.R. n. 917 del 1986. Invero, l'applicazione della norma tributaria è subordinata dalla legge alla duplice condizione che dalla operazione negoziale infragruppo derivino per la società contribuente componenti (positivi o negativi) reddituali e che dalla applicazione del criterio del valore normale derivi un aumento del reddito imponibile; e tali condizioni non risultano integrate nella concessione del mutuo non oneroso, essendo estranea a tale schema negoziale la stessa prestazione - avente ad oggetto la corresponsione di interessi corrispettivi - che costituisce il necessario termine di comparazione rispetto ai valore normale". In senso conforme al precedente del 2014 si era espressa anche Sez. T, n. 15005/2015, Iofrida (non massimata), mentre Sez. T, n. 07493/2016, Virgilio (anch'essa non massimata), si era pronunciata nel medesimo senso del precedente del 2016. A tali fini, peraltro, il controllo di cui all'art. 110, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, alla luce delle specifiche finalità antielusive della disciplina fiscale del transfer pricing, non coincide con quello di cui all'art. 2359 c.c., che, difatti, non è espressamente richiamato, ma si estende ad ogni ipotesi d'influenza economica potenziale o attuale desumibile da singole circostanze, tra cui, ad esempio, la vendita esclusiva, da parte di un'impresa, dei prodotti dell'altra o l'impossibilità di funzionamento di un'impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell'altra: Sez. T, n. 08130/2016, Iannello, Rv. 639440. 7. Le plusvalenze. In tema di plusvalenze di cui all'art. 81 (ora 67), comma 1, lett. a) e b) del d.P.R. n. 917 del 1986, per i terreni edificabili e con destinazione agricola, Sez. 6-T, n. 19242/2016, Federico, Rv. 641114, ha ritenuto che la mancata indicazione, nell'atto di vendita dell'immobile, del valore del cespite, 467 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI così come rideterminato a norma dell'art. 7 della l. 28 dicembre 2001, n. 448, non costituisce condizione ostativa alla facoltà del contribuente di assumere come valore iniziale, in luogo del costo o del valore di acquisto, quello alla data del 1° gennaio 2002 individuato sulla base di una perizia giurata, attesa, a tal proposito, l'assenza di limitazioni poste dalla legge e l'irrilevanza di quanto, invece, previsto da atti non normativi, come le circolari amministrative. Se, invece, il contribuente ha scelto di rideterminare il valore del bene attraverso una perizia giurata di stima e versare l'imposta sostitutiva ex art. 7 del d.lgs. n. 448 del 2001, tale opzione – ha osservato Sez. T, n. 13406/2016, Iannello, Rv. 640144 - non può essere revocata neppure in conseguenza di un evento successivo ed imprevedibile, quale il suo decesso, intervenuto prima della cessione del bene, che non priva di causa giuridica l'adempimento dell'obbligazione tributaria ormai effettuato, sicché gli eredi non possono ottenerne il rimborso. Ai fini dell'assoggettamento ad imposizione ex art. 81 (ora 67), comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 917 del 1986, tra i redditi diversi, delle plusvalenze derivanti dalla vendita d'immobili, Sez. T, n. 15584/2016, Locatelli, Rv. 640637, ha ritenuto che un terreno deve considerarsi lottizzato allorquando sia intervenuta, da parte dell'autorità competente, l'autorizzazione del corrispondente piano di lottizzazione, anche se non è ancora stata stipulata, tra il comune ed i proprietari, la relativa convenzione urbanistica e non è stata eseguita alcuna opera di urbanizzazione primaria o secondaria. Infine, Sez. 6-T, n. 11543/2016, Caracciolo, Rv. 640048, ha ritenuto che l'art. 5, comma 3, del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 - che, quale norma d'interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva - esclude che l'Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro. 8. Il reddito d'impresa. Particolarmente numerose sono state le sentenze in tema di reddito d' impresa. Quanto alla determinazione del reddito d'impresa, si è, in particolare, ritenuto che: - il corrispettivo della vendita di un complesso di unità immobiliari, effettuato da una società avente come oggetto principiale l'attività di compravendita di immobili, costituisce, a norma dell'art. 53 (ora art. 85), comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 917 468 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI del 1986, ricavo interamente tassabile, atteso che la tassabilità della sola plusvalenza riguarda il corrispettivo realizzato mediante cessione di beni relativi all'impresa diversi da quelli alla cui produzione o al cui scambio essa è diretta: Sez. T, n. 13747/2016, Locatelli, Rv. 640384; - sono contributi in conto capitale, e, quindi, sopravvenienze attive, quelli erogati per incrementare i mezzi patrimoniali del beneficiario, senza che la loro concessione si correli all'onere di uno specifico investimento in beni strumentali, mentre sono contributi in conto impianti, che confluiscono nel reddito sotto forma di quote di ammortamento deducibile, quelli destinati all'acquisto di beni (materiali o immateriali) strumentali. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha qualificato contributo in conto impianti quello percepito per l'acquisto di un terreno destinato alla costruzione di un fabbricato industriale, ammortizzabile nell'ambito di un progetto di investimento agevolato, ai sensi della l. 19 dicembre 1992, n. 488): Sez. T, n. 13734/2016, Virgilio, Rv. 640542; - i ricavi relativi ai corrispettivi di prestazioni di servizi con cadenza periodica vanno imputati, secondo il criterio della competenza, stabilito dall'art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986, all'esercizio in cui risulta ultimata la parte di prestazione cui essi si riferiscono, senza tener conto della data di fatturazione o di quella della riscossione: Sez. T, n. 11311/2016, Greco, Rv. 639979; - è configurabile una plusvalenza da avviamento commerciale tassabile anche nel caso di cessione a titolo oneroso di azienda (nella specie, una farmacia) a fronte della costituzione di una rendita vitalizia, posto che essa costituisce il corrispettivo di un'alienazione patrimoniale che, pur assicurando un'utilità aleatoria quanto all'ammontare concreto delle erogazioni che verranno eseguite, ha un valore economico accertabile mediante calcoli attuariali. Ne deriva, inoltre, l'imputazione per competenza del corrispettivo assumendo rilievo il momento di perfezionamento del contratto attesa la natura intrinsecamente onerosa dell'atto traslativo: Sez. T, n. 00387/2016, Federico, Rv. 638427. Inoltre, come ritenuto da Sez. T, n. 13093/2016, Greco, Rv. 640148, gli interessi attivi (e passivi) costituiscono entrate (o uscite) di ciascun contribuente e debbono essere specificamente conteggiati in virtù dei principi di trasparenza codificati nell'art. 2423 c.c., senza che assuma rilievo il fatto che i rapporti di credito e debito, fonte degli interessi in questione, intercorrano fra società del medesimo gruppo, per cui, agli effetti del gruppo, si determina una mera partita di giro. 469 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI Quanto, invece, ai costi deducibili, Sez. T, n. 09818/2016, Greco, Rv. 639871, ha osservato che l'onere della prova dell'esistenza e dell'inerenza dei costi incombe al contribuente, il quale, in particolare, con riferimento alle spese per la riparazione e manutenzione di automezzi destinati all'esercizio dell'impresa, ai sensi dell'art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, è tenuto a dimostrare l'inerenza di tali spese a beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito stesso. Le spese sostenute per la manutenzione, riparazione, trasformazione ed ammodernamento di beni materiali strumentali, qualora non siano imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili, ex art. 102, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, nel limite del 5 per cento del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili e l'eventuale eccedenza è deducibile per quote costanti nei cinque esercizi successivi a quello nel quale la spesa è stata sostenuta. (Fattispecie relativa a spese di rifacimento del tetto dell'immobile sede dell'attività di impresa e manutenzione di uno stampo): Sez. T, n. 07885/2016, Locatelli, Rv. 639623. La somma dovuta dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di una controversia, conclusasi con verbale di conciliazione dinanzi al giudice del lavoro, va dedotta dal reddito imponibile dell'anno d'imposta in cui il giudice ha conferito al predetto verbale valore esecutivo, rendendolo così non più modificabile ed attribuendo agli eventuali oneri che ne derivino per una delle parti il carattere della certezza, che è una delle condizioni della deducibilità fiscale: Sez. T, n. 11728/2016, Iannello, Rv. 640040. Il software (programma per l'utilizzo degli apparati elettronici) rientra – ha ritenuto Sez. T, n. 16673/2016, Tricomi, Rv. 640771, - tra le immobilizzazioni immateriali, il cui costo è suscettibile di ammortamento ai sensi dell'art. 68 (ora 103) del d.P.R. n. 917 del 1986, con la precisazione che ove, in base alla specifica previsione contrattuale o legislativa, non vi siano limitazioni all'esercizio del diritto, riconducibile sostanzialmente allo statuto proprietario, si applica il regime di cui comma 1, mentre sono soggette al successivo comma 2 tutte le fattispecie residuali caratterizzate della durata limitata nel tempo dei diritti di utilizzazione attribuiti. 9. I fondi previdenziali integrativi. In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale agli iscritti, in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a 470 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette – come confermato da Sez. T, n. 11941/2016, Federico, Rv. 640081, - ad un differente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, si applica il regime di tassazione separata ex artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del d.P.R. n. 917 del 1986, limitatamente alla "sorte capitale", costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro e, pertanto, corrispondente all'attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento di polizza - e, cioè, del rendimento netto del capitale accantonato - si applica, a prescindere dell'effettivo investimento dei contributi sul mercato finanziario, la ritenuta del 12,50 per cento di cui all'art. 6 della l. 26 settembre 1985, n. 482, sulla differenza tra l'ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 per cento per ogni anno successivo al decimo se il capitale è versato dopo almeno dieci anni dalla conclusione del contratto di assicurazione; b) per gli importi maturati a decorrere dall'1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a) e 17 del d.P.R. n. 917 del 1986. 471 CAP. XXV – L'IRAP CAPITOLO XXV L'IRAP (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. I chiarimenti delle Sezioni Unite. – 2. Il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione. – 3. L'IRAP e le professioni sanitarie. – 4. L'IRAP e il condono fiscale. 1. I chiarimenti delle Sezioni Unite. Nel corso del 2016 le Sezioni Unite sono intervenute più volte in tema di IRAP, sicché appare opportuno, dedicare a tale tributo, oggetto, peraltro, di numerosissime controversie, un capitolo autonomo rispetto a quello sui tributi locali, pur rinviandosi alla parte processuale la trattazione dei relativi aspetti. In particolare, le Sezioni Unite sono tornate a pronunciarsi sul concetto di autonoma organizzazione, stabilendo che tale requisito non ricorre quando il contribuente, responsabile dell'organizzazione, impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile all'esercizio dell'attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente l'impiego di un dipendente con mansioni esecutive (ad esempio, mansioni di segretario, autista, portiere, addetto alle pulizie). Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva escluso l'autonomia organizzativa di uno studio legale dotato soltanto di un segretario e di beni strumentali minimi (Sez. U, n. 09451/2016, Greco, Rv. 639529). A tenore del secondo periodo dell'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, costituisce in ogni caso presupposto d'imposta l'attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato. Per tale ragione, secondo le Sezioni Unite, il requisito dell'autonoma organizzazione non deve essere provato quando si tratta dell'esercizio di professioni in forma societaria, che costituisce ex lege presupposto dell'imposta, senza che occorra accertare in concreto la sussistenza dell'autonoma organizzazione, implicita in tale forma di esercizio dell'attività (Sez. U, n. 07371/2016, Greco, Rv. 638175). La Corte, basandosi sul dato letterale della norma, ha affermato che le associazioni professionali, gli studi associati, le società semplici esercenti attività di lavoro autonomo sono sempre soggetti ad IRAP, indipendentemente dalla struttura organizzata della quale si avvalgono per l'esercizio dell'attività professionale svolta. Nella specie, il principio è stato 472 CAP. XXV – L'IRAP applicato riguardo ad una società semplice esercente attività di amministratore condominiale. L'esercizio dell'attività in forma associata non va, tuttavia, confuso con quello individuale nell'ambito di una società, di cui il professionista è socio o dipendente, che, come precisato da Sez. 6-T, n. 15556, Cirillo, Rv. 640875, non realizza in sé il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione. Le Sezioni Unite hanno, inoltre, affrontato la questione della medicina di gruppo, sostenendo che la relativa attività integra il presupposto impositivo non per la forma associativa del suo esercizio, ma solo per l'eventuale sussistenza di una autonoma organizzazione, atteso che non si tratta di una associazione di professionisti, ma di un organismo promosso dal Servizio Sanitario Nazionale: è, pertanto, insufficiente l'erogazione della quota di spesa del personale di segreteria o infermieristico comune, giacché essa costituisce il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività professionale (Sez. U, n. 07291/2016, Greco, Rv. 639173). 2. Il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione. L'aspetto più controverso dell'IRAP concerne la prova dell'autonoma organizzazione, la cui inesistenza deve essere dimostrata dal contribuente in caso di impugnazione del diniego di rimborso e la cui esistenza deve essere dimostrata dall'Amministrazione in caso di impugnazione della cartella esattoriale (così Sez. T, n. 23999/2016, Mocci, Rv. in corso di massimazione, che perviene a questa conclusione atteso che, in caso di opposizione a cartella, incombe sull'Amministrazione l'onere di provare il corretto esercizio del potere). E' stato chiaramente precisato che l'entità dei compensi percepiti dal contribuente e, cioè, l'ammontare del reddito conseguito, è irrilevante ai fini della ricorrenza del presupposto dell'autonoma organizzazione, richiesto dall'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 (Sez. T, n. 22705/2016, Conti, Rv. 641644) Relativamente agli indici presuntivi dell'autonoma organizzazione, la Suprema Corte ha precisato che: a) il valore assoluto dei compensi e dei costi ed il loro reciproco rapporto percentuale non costituiscono elementi utili per desumere il presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione di un professionista, atteso che, da un lato, i compensi elevati possono essere sintomo del mero valore ponderale specifico dell'attività esercitata e, dall'altro, le spese consistenti possono derivare da costi strettamente afferenti all'aspetto personale (spese 473 CAP. XXV – L'IRAP alberghiere o di rappresentanza, assicurazione per i rischi professionali o il carburante utilizzato per il veicolo strumentale) e, pertanto, rappresentare un mero elemento passivo dell'attività professionale, non funzionale allo sviluppo della produttività e non correlato all'implementazione dell'aspetto organizzativo (Sez. 6-T, n. 23557, Manzon, Rv. in corso di massimazione); b) una spesa consistente per l'acquisto di un macchinario indispensabile all'esercizio dell'attività medesima non è idonea a rivelare l'esistenza dell'autonoma organizzazione laddove il capitale investito non rappresenti un fattore aggiuntivo o moltiplicativo del valore rappresentato dall'attività intellettuale del professionista, ma sia ad essa asservito in modo da non poterne essere neppure distinto (Sez. 6-T, n. 23552, Manzon, Rv. in corso di massimazione). Vanno, inoltre, evidenziate alcune pronunce per la peculiarità delle fattispecie esaminate. A tale riguardo, si segnala Sez. 6-T, n. 12616/2016, Iofrida, Rv. 640021, secondo cui, in tema di IRAP, è soggetto passivo di imposta l'imprenditore familiare, ma non anche i familiari collaboratori, atteso che la collaborazione dei partecipanti integrerebbe quel quid iuris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare, ed è, quindi, espressione sintomatica del relativo presupposto impositivo. Non realizza, invece, il presupposto impositivo l'esercizio dell'attività di sindaco e di componente di organi di amministrazione e controllo di enti di categoria che avvenga in modo individuale e separata rispetto ad ulteriori attività espletate all'interno di una associazione professionale, senza ricorrere ad un'autonoma organizzazione (Sez. 6-T, n. 19327/2016, Vella, Rv. 641235). Parimenti l'esercizio di una attività professionale (nella specie, di commercialista e revisore dei conti) nell'ambito dell'organizzazione costituita da una società in cui il professionista è socio (o dipendente), non realizza il presupposto impositivo costituito dall'autonoma organizzazione (Sez. 6-T, n. 17566/2016, Cirillo, Rv. 640875). 3. L'IRAP e le professioni sanitarie. Interessanti sono gli orientamenti espressi con riferimento alla configurabilità del presupposto di imposta in tema di professioni sanitarie. Come già ricordato nel paragrafo che precede, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della medicina di gruppo (Sez. U, n. 07291/2016, Greco, Rv. 639173). 474 CAP. XXV – L'IRAP Inoltre (primo luogo), la Sez. T, n. 13405/2016, Cricenti, Rv. 640145, ha confermato che la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il SSN, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell'art. 22 dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con d.P.R n. 270 del 2000, rientra nell'ambito del "minimo indispensabile" per l'esercizio dell'attività professionale, e trattandosi di una attività obbligatoria ai fini dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sé, in assenza di personale dipendente, il requisito dell'autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo. Si è, altresì, chiarito che l'attività libero professionale svolta intra moenia dal medico ospedaliero rientra nello schema generale della subordinazione, sicché è illegittima la trattenuta IRAP operata dall'Asl sui relativi onorari, comunque immodificabili unilateralmente perché concordati, restando l'onere dell'imposta a carico esclusivo dell'azienda che, quale sostituto d'imposta, può trasferirlo sui pazienti, adeguando le tariffe su cui i medici non hanno, invece, il potere di incidere (Sez. L, n. 00199/2016, Buffa, Rv. 638244). Tuttavia, ove l'Asl abbia indebitamente effettuato una trattenuta IRAP nei confronti del medico ospedaliero relativamente ai compensi percepiti per l'attività intra moenia, quest'ultimo, essendo estraneo al rapporto tributario intercorrente tra la Asl e Amministrazione finanziaria, non è legittimato a richiedere il rimborso della somma non dovuta (così Sez. T, n. 23333, Iofrida, Rv. in corso di massimazione). Infine, secondo la Sez. 6-T, n. 20888/2016, Iofrida, Rv. 641300, i compensi corrisposti ai colleghi medici, in caso di obbligatoria sostituzione per malattia o ferie, non rilevano ai fini della configurabilità dell'autonoma organizzazione del medico di medicina generale convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale:in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di merito, nel respingere l'istanza di rimborso del contribuente, aveva attribuito esclusivo rilievo all'entità delle spese sostenute, identificandole in modo unitario ed indistinto per tutti gli anni di riferimento. 4. L'IRAP e il condono fiscale. Con la pronuncia Sez. T, n. 14266/2016, La Torre, Rv. 640511, la Corte ha definitivamente chiarito, riprendendo un principio espresso nel 2012, che in tema di condono fiscale, il concordato preventivo biennale introdotto 475 CAP. XXV – L'IRAP dall'art. 33 del d.l. n. 269 del 2003, convertito in l. n. 326 del 2003, concerne essenzialmente le imposte sui redditi con limitati effetti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, mentre da esso esula l'imposta regionale sulle attività produttive, come si desume dal tenore testuale della disposizione, che, tra l'altro, rinvia, per la determinazione del significato dei termini "ricavi" e "compensi", alle disposizioni in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Ne consegue che l'adesione al concordato non comporta effetti preclusivi ai fini del diritto al rimborso dell'imposta. 476 CAP. XXVI - L'IVA CAPITOLO XXVI L'IVA (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. Gli obblighi di registrazione ed il principio di neutralità dell'imposizione armonizzata. 2. Le operazioni imponibili a fini IVA e il diritto alla detrazione. 3. Le esenzioni. 4. Il credito al rimborso. 5. I regimi speciali. 5.1. La liquidazione dell'Iva di gruppo. 5.2. Il regime derogatorio del margine di utile e gli acquisti in sospensione di imposta nelle operazioni intracomunitarie ed extracomunitarie. 6. Le agevolazioni di aliquota. 7. I depositi fiscali e la disciplina doganale. 1. Gli obblighi di registrazione ed il principio di neutralità dell'imposizione armonizzata. Le disposizioni del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 stabiliscono tempi e precise modalità della registrazione delle fatture e costituiscono espressione di un generalizzato obbligo di annotazione che grava sul soggetto passivo di imposta. Si tratta, per le operazioni attive, dei registri delle fatture emesse e/o dei corrispettivi e del registro degli acquisiti. Tale disciplina non trova deroga in altre previsioni di legge, in quanto le modalità e i tempi registrazione delle fatture emesse e degli acquisiti sono funzionalmente collegati alle scansioni temporali prefissate per i versamenti dell'imposta (c.d. "liquidazione periodica"), derivante dal confronto dell'IVA a debito sulle operazioni attive e dell'IVA detraibile. In tal senso, il rispetto degli obblighi di registrazione e dei requisiti sostanziali consente di superare anche le preclusioni derivanti da violazioni di carattere formale. Deve segnalarsi, sul tema, l'importante arresto delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 17757/2016, Cirillo, Rv. 640943) con cui, superando un latente contrasto di giurisprudenza, in applicazione del principio di neutralità dell'imposizione armonizzata sul valore aggiunto, in ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, è stata riconosciuta l'eccedenza di imposta che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, non potendo negarsi il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti 477 CAP. XXVI - L'IVA compiuti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili. Nondimeno, in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, resta ferma la possibilità di iscrizione a ruolo dell'imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del d.P.R. n. 633 del 1972, con procedure automatizzate e a seguito di un controllo formale scevro da profili valutativi e/o estimativi nonché da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell'anagrafe tributaria, fatta salva, nel successivo giudizio di impugnazione della cartella, l'eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione d'imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Sez. U, n. 17758/2016, Cirillo, Rv. 640942; sulla legittimità dell'accertamento induttivo, in ipotesi di omessa dichiarazione di imposta, si veda Sez. 6-T, n. 01020/2016, Caracciolo, Rv. 638480). Il principio comunitario di neutralità fiscale consente di identificare il fatto generatore del tributo con l'espletamento dell'operazione, come affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 08059/2016, Cappabianca, Rv. 639482) con riferimento all'assoggettabilità ad imposta del compenso del professionista, anche se percepito successivamente alla cessazione dell'attività, nel cui ambito la prestazione è stata eseguita, ed alla sua formalizzazione. Sul tema dell'obbligo di provvedere alla annotazione contabile delle fatture ricevute, con la pronuncia Sez. T, n. 03586/2016, Olivieri, Rv. 639032, la Corte ha ribadito la necessità, nell'ambito di operazioni intracomunitarie per beni o servizi resi da parte di soggetti residenti in altri Paesi membri, che il cessionario/committente italiano provveda alla annotazione delle fatture emesse - ai sensi dell'art. 21, n. 1, lett. b) della Sesta direttiva nel testo integrato dall'art. 28-octies, nonché dell'art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 - nei registri IVA degli acquisti e delle vendite, ai fini della compensazione dell'IVA a debito con quella a credito, in attuazione del principio di neutralità fiscale. In tal modo si realizzano le condizioni sostanziali che soddisfano l'esigibilità dell'imposta dovuta e della destinazione dei beni e servizi acquistati o utilizzati ad operazioni imponibili e non si determina la perdita del diritto alla detrazione. La pronuncia consolida l'orientamento innovativo già espresso da Sez. T, n. 07576/2015, Cirillo, Rv. 478 CAP. XXVI - L'IVA 635176, in controtendenza rispetto a precedenti arresti, che, in tema di acquisti intracomunitari, ha riconosciuto il diritto alla detrazione per l'operatore nazionale, pur in assenza di applicazione della procedura formale d'inversione contabile (reverse charge). Il meccanismo del reverse charge, nell'attuazione del principio di neutralità fiscale, come chiarito dalla giurisprudenza comunitaria, accorda il diritto alla detrazione di imposta ove ne siano rispettati i requisiti sostanziali, anche ove taluni obblighi formali siano stati violati, salvo che da ciò consegua l'effetto d'impedire la prova dell'adempimento dei requisiti sostanziali (Sez. T, n. 04612/2016, Tricomi, Rv. 639034). Il superamento degli obblighi procedurali si manifesta anche nell'ampliamento dell'ambito applicativo dell'art. 1 del d.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, nella parte in cui prevede che l'opzione e la revoca dei regimi di determinazione dell'imposta o di regimi contabili si desume da comportamenti concludenti del contribuente o dalle modalità di tenuta delle scritture contabili, in ragione della interpretazione autentica della predetta disposizione fornita dall'art. 4 della legge 21 novembre 2000, n. 342. La norma non prevede, infatti, due fattispecie alternative di comportamenti equipollenti alla dichiarazione espressa di opzione, ma delimita un'unica complessa fattispecie, considerata dal legislatore come indice significativo della scelta del regime da parte del contribuente, applicabile anche ai comportamenti concludenti tenuti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (Sez. T, n. 08114/2016, Bielli, Rv. 639698) Un'ulteriore proiezione del criterio sostanzialistico è sul piano delle sanzioni tributarie, ove la Corte (Sez. T, n. 02605/2016, Marulli, Rv. 638898) ha riconosciuto, confermando un recente orientamento, che il ritardo nella fatturazione integra una violazione sostanziale e non formale dell'art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto arreca pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, ed è, pertanto, punibile anche quando non determina omesso versamento dell'IVA, con conseguente esclusione della possibilità di riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212. E' da segnalare, infine, che Sez. T, n. 19482/2016, Luciotti, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza concernente l'esistenza di un obbligo, ai sensi dell'art. 17 del d.P.R. n. 633 del 1972 (nella versione anteriore al d.lgs. 11 febbraio 2010, n. 18), in capo al soggetto non residente che abbia 479 CAP. XXVI - L'IVA nominato un rappresentante fiscale di avvalersi di quest'ultimo per tutte le operazioni effettuate sul territorio nazionale. 2. Le operazioni imponibili a fini IVA e il diritto alla detrazione. Il criterio generale di individuazione delle operazioni imponibili è quello della possibilità di ricomprendere le stesse nell'ambito della attività di impresa. In tal senso, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 16683/2016, Vella, Rv. 640772, ha qualificato, ai sensi dell'art. 2, comma 2, n. 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, come soggetta ad imposta la gestione di un fabbricato o di una sua porzione, tramite la locazione da parte dell'imprenditore che lo ha realizzato e si prefigga l'obiettivo di venderlo, anche ove tale attività sia di tipo meramente conservativo durante un periodo di stasi sul mercato, in attesa del momento più proficuo per la vendita. La Corte ha anche confermato che la cessione gratuita di aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, conclusa in attuazione di una convenzione stipulata ai sensi della l.r. Lombardia n. 9 del 1999, non è da ritenersi operazioni imponibile, poiché costituisce modalità alternativa all'assolvimento dell'obbligo di pagamento degli oneri conseguenti al rilascio di concessioni edilizie relative a fondi rimasti in proprietà del cedente (Sez. T, n. 11344/2016, Iannello, Rv. 639908). Né, secondo l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite, la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, istituita dall'art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, oggi abrogato, che ha natura tributaria, è da ritenersi soggetta all'IVA, mirando quest'ultima a colpire la capacità contributiva insita nel pagamento del corrispettivo per l'acquisto di beni o servizi e non in quello di un'imposta, sia pure destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il medesimo contribuente (Sez. U, n. 05078/2016, Iacobellis, Rv. 639013). Il commercio di rottami, rientrando il bene nel ciclo produttivo, è soggetto al regime previsto dall'art. 74 del d.P.R. n. 633 del 1972 con assolvimento dell'IVA mediante reverse charge ad aliquota ordinaria, in ciò differenziandosi dalla gestione di rifiuti - intesa come prelievo, cernita e raggruppamento di rottami non destinati ad ulteriore utilizzazione in ciclo produttivo, disciplinata ai sensi del d.P.R. n. 633 del 1972 tabella A, parte terza, punto 127- sexiesdecies, con applicazione dell'aliquota ridotta del 10 per cento (Sez. T, n. 19886/2016, Tricomi, Rv. 641264, in cui si individua il criterio di qualificazione delle attività concernenti i rifiuti o rottami). 480 CAP. XXVI - L'IVA Di contro, soggiace ad IVA l'attività svolta da un comune sulla base di concessione della rete locale del gas, da cui si ritrae una stabile utilità, sotto forma di corrispettivo, quale attività economica ai sensi dell'art. 4 della direttiva n. 77/388/CE, oggi sostituito dall'art. 9 della direttiva n. 112/2006/CE, come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, che comprende ogni operazione di "sfruttamento" del bene, da intendersi come possibilità di trarre da esso in modo stabile un'utilità sotto forma di corrispettivo, non integrando, di contro, presupposto impositivo la "redditività" dell'attività (Sez. T, n. 16734/2016, Marulli, Rv. 641063; nello stesso senso, Sez. T, n. 14263/2016, Vella, Rv. 640539, che ha riconosciuto il diritto alla detrazione ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 all'azienda concessionaria del servizio di somministrazione di gas). Il riconoscimento delle operazioni soggette ad imposta si proietta sulla definizione dei presupposti per le detrazioni a fini IV A. In via generale, come detto, il diritto alla detrazione dell'IVA, in forza del combinato disposto degli artt. 13 e 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, compete solo in relazione ai corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, non rilevando una generica volontà o disponibilità delle parti, non tradottasi in un vincolo giuridico. In applicazione del suddetto principio la Corte ha ritenuto che le somme versate da un consorzio di produttori di latte ai consorziati non possono essere considerate alla stregua di un'integrazione del prezzo del latte acquistato se non sono state corrisposte in adempimento di uno specifico obbligo giuridico, con la conseguenza che, ai fini della deducibilità delle componenti negative del reddito, ai sensi dell'art. 75 (ora 109), comma 4, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è necessario che i costi risultino dal conto dei profitti e delle perdite oppure da "elementi certi e precisi", desumibili da dati giuridico-contabili formali e non meramente fattuali, come una mera manifestazione di intento delle parti (Sez. T, n. 16412/2016, Marulli, Rv. 641054). Con riferimento al requisito della inerenza, inoltre, è stato riconosciuto (Sez. T, n. 07492/2016, Vella, Rv. 639692) il diritto alla detrazione dell'IVA di cui agli artt. 4, comma 2, e 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, connessa all'inerenza dei beni o servizi acquistati o importati all'attività d'impresa, anche nel caso in cui il contribuente (nella specie, una società) abbia, nel corso del medesimo periodo di imposta di compimento delle operazioni passive, dichiarato un volume di affari pari a zero per non aver realizzato alcuna 481 CAP. XXVI - L'IVA operazione imponibile attiva, non potendosi escludere che una società non intenda perseguire lo scopo per cui è stata costituita solo perché costretta ad una stasi da una temporanea crisi finanziaria o a fluttuazioni del mercato (nello stesso senso, per le condizioni di detraibilità sugli acquisti di beni e servizi afferenti corsi di formazione, aggiornamento, riqualificazione e riconversione del personale, effettuati da organismi che percepiscono contributi pubblici, ai sensi dell'art. 10, comma 2-ter, del d.l. 30 dicembre 2015, n. 210, conv. in l. 25 febbraio 2016, n. 21, cfr. Sez. T, n. 18631/2016, Vella, Rv. 640978). La Corte ha ribadito che l'inerenza del bene deve essere intesa come strumentalità dello stesso in relazione agli scopi dell'impresa, circostanza la cui prova incombe sull'interessato e la cui valutazione va effettuata in concreto tenuto conto dell'effettiva natura del bene (Sez. T, n. 05860/2016, Perrino, Rv. 639429). In tal senso si è riconosciuto l'ordinario regime di detrazione delle spese, di cui agli artt. 19 e ss. del d.P.R. n. 633 del 1972, con riferimento ai costi sostenuti per la ristrutturazione di immobili utilizzati per l'attività agrituristica, per i quali la funzione abitativa dell'immobile costituisce mezzo di attuazione della prestazione di servizio concernente l'ospitalità della clientela (Sez. T, n. 04606/2016, Olivieri, Rv. 639131); di contro, ai sensi dell'art. 19- bis, comma 1, lett i), del d.P.R. n. 633 del 1972, ha escluso la possibilità di portare in detrazione l'imposta addebitata a titolo di rivalsa dal venditore, quando l'operazione sia relativa a fabbricati a destinazione abitativa, salvo che per le imprese che hanno ad oggetto esclusivo o principale dell'attività esercitata la costruzione dei predetti fabbricati (Sez. T, n. 06883/2016, Tricomi, Rv. 639518). 3. Le esenzioni. Il diritto all'esenzione dal pagamento dell'IVA è connesso alla natura delle operazioni commerciali poste in essere. In proposito, la Corte ha ribadito il principio generale secondo cui l'art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, che dispone che l'imposta è dovuta per l'intero con riferimento alla somma annotata, pur quando si tratti di operazioni inesistenti, non si applica alle fattispecie in cui le operazioni "simulate" siano anche "esenti", in quanto un'operazione di per sè "non imponibile" non muta certo tale qualità per il solo fatto di essere stata simulata ed in quanto altrimenti si finirebbe per introdurre nel sistema una sostanziale sanzione non prevista dal legislatore (Sez. T, n. 15870/2016, Di Stefano P., Rv. 640646). 482 CAP. XXVI - L'IVA Il principio generale richiamato trova ulteriore espressione nella pronuncia Sez. T, n. 04613/2016, Tricomi, Rv. 639038, relativa alla fattispecie di applicabilità dell'esenzione alla attività di locazione di immobili, attuata nell'ambito dell'attività d'impresa, non esplicitamente inclusa nell'oggetto sociale, ma perdurante nel tempo e svolta senza soluzione di continuità. La S.C. ha ritenuto che, ai fini della possibilità di includere tali operazioni nel calcolo della percentuale detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti (cosiddetto pro rata), per verificare se una determinata operazione attiva rientri o meno nell'attività propria di una società, occorre avere riguardo non già all'attività previamente definita dall'atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall'impresa, atteso che, ai fini dell'imposta, rileva il volume d'affari del contribuente, costituito dall'ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate, e, quindi, l'attività in concreto esercitata. Per le operazioni di esportazione, ai fini dell'esenzione prevista dall'art. 8, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 633 del 1972, è necessario che l'operatore che voglia fruire dell'agevolazione provi la destinazione della merce all'esportazione esclusivamente mediante la produzione della documentazione doganale, ovvero la vidimazione apposta sulla fattura dall'ufficio doganale. Tale prova non è surrogabile da documenti alternativi, mentre, in presenza della suddetta documentazione, l'Amministrazione finanziaria non può disconoscere l'imponibilità dell'operazione ed il diritto alla detrazione (Sez. T, n. 16971/2016, Marulli, Rv. 640956). Di contro, in tema di operazioni all'importazione si è ritenuto che il plafond, alimentato dalle operazioni di cui all'art. 8, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972, può essere fruito, acquistando o importando beni o servizi senza pagamento dell'imposta, solo dagli esportatori abituali e non già dai loro fornitori, che non abbiano tale caratteristica, in quanto sono i primi e non i secondi a maturare le ragioni del credito (Sez. T, n. 05853/2016, Perrino, Rv. 639428). Infine, sul piano della ripartizione dell'onere della prova nelle ipotesi di esenzione, è da segnalare il principio espresso dalla Corte con la sentenza Sez. T, n. 05408/2016, Tricomi, Rv. 639124, che, sulla base della natura speciale del regime di "esonero" agevolato nel campo dell'agricoltura, previsto dall'art. 34, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972, impone al soggetto che intenda avvalersi dell'esenzione di dimostrare la sussistenza dei relativi presupposti di fatto e giuridici. Tale onere probatorio si trasferisce sul cessionario dei prodotti agricoli che, ove intenda applicare il regime 483 CAP. XXVI - L'IVA dell'esonero, è tenuto a provvedere alla regolarizzazione dell'operazione di acquisto senza emissione di fattura, ai sensi dell'art. 6, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 471 del 1997, dovendo in caso contrario applicare il regime IVA ordinario. 4. Il credito al rimborso. L'art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede il diritto del contribuente al rimborso dell'eccedenza detraibile. Tale diritto, ai sensi dell'art. 19 del medesimo d.P.R. n. 633 del 1972, non è precluso dalla mancata dichiarazione del credito IVA, di cui sussistano i presupposti sostanziali, relativa all'anno d'imposta in cui avrebbe dovuto figurare, non potendo le modalità di rimborso dell'eccedenza IVA, pur liberamente determinabili dagli Stati membri dell'Unione europea, ledere il principio di neutralità fiscale (Sez. T, n. 12313/2016, Perrino, Rv. 640082). Nondimeno, quando il contribuente decida, in luogo dell'istanza di rimborso, di utilizzare il credito IVA in compensazione in sede di liquidazione periodica, in assenza dei relativi presupposti la violazione non assume un carattere meramente formale, neppure ove il credito d'imposta risulti dovuto in sede di dichiarazione annuale e liquidazione finale, poiché l'erronea applicazione comporta il mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste e determina il ritardato incasso erariale, con conseguente deficit di cassa, sia pure transitorio, nel periodo infrannuale, suscettibile di trattamento sanzionatorio ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 (Sez. T, n. 16504/2016, Sabato, Rv. 640780). In senso conforme, si richiama la pronuncia Sez. T, n. 16422/2016, Vella, Rv. 640657, che qualifica la condotta di cui all'art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997, consistente nella richiesta di rimborso d'imposta non dovuta o eccedente il dovuto nella dichiarazione trimestrale, come violazione di pericolo, non meramente formale e non ricadente, pertanto, nell'ambito applicativo dell'art. 10, comma 3, della l. n. 212 del 2000, con conseguente irrilevanza della rettifica nella successiva dichiarazione annuale, specialmente ove il ravvedimento del contribuente sia stato originato da una richiesta di chiarimenti dell'Amministrazione finanziaria. L'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 pone un termine di decadenza biennale per la presentazione dell'istanza di rimborso dell'imposta. La decorrenza di tale termine, nell'ipotesi in cui il contribuente abbia erroneamente versato l'imposta non dovuta per carenza del presupposto della territorialità, decorre dal momento in cui è stato effettuato il versamento in quanto l'errore in 484 CAP. XXVI - L'IVA cui il contribuente è incorso legittima l'immediato esercizio del diritto al rimborso, non ostandovi preclusione alcuna (Sez. T, n. 13980/2016, Perrino, Rv. 640178). In merito, la Corte ha ribadito la sussistenza del diritto al rimborso anche oltre il suddetto termine di decadenza (Sez. 6 - T, n. 01426/2016, Conti, Rv. 638626) nel solo caso in cui il richiedente prestatore di un servizio abbia a sua volta effettivamente rimborsato l'imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo – nella specie, relativa a fatture per prestazioni di servizi nei confronti di una società con sede in Shanghai - in ragione del principio di effettività del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia, sentenza 15 dicembre 2011, in C-427/10. Il diritto al rimborso dell'eccedenza di imposta è soggetto al termine di prescrizione decennale. Tali rimborsi sono eseguiti, su richiesta del contribuente, entro tre mesi dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione annuale, sicché da tale momento decorre il suddetto termine di prescrizione, attesa la sua autonomia sia da una specifica istanza di rimborso, necessaria ai soli fini di un procedimento di esecuzione, sia dai poteri di liquidazione dell'Amministrazione finanziaria e dall'eventuale credito risultante da un accertamento definitivo (Sez. T, n. 07223/2016, Perrino, Rv. 639239). 5. I regimi speciali. 5.1. La liquidazione dell'Iva di gruppo ed il ribaltamento di costi e ricavi per le società consortili. L'art. 73, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede un più favorevole regime di liquidazione dell'"IVA di gruppo", consentendo la possibilità di optare per la compensazione del credito di imposta di una società con gli importi dovuti a debito, per la medesima imposta, da altra società appartenente allo stesso gruppo. Sul tema, le Sezioni Unite, con sentenza Sez. U, n. 01915/2016, Cappabianca, Rv. 638253, hanno affermato che tale regime agevolativo si applica anche se la società controllante sia una società di persone, senza che rilevi, in senso contrario, quanto indicato dal d.m. n. 11065 del 1979 del Ministero delle Finanze, gerarchicamente subordinato alla legge, né, tantomeno, la successiva circolare dello stesso Ministero n. 16/360711, dovendosi ritenere una diversa interpretazione lesiva del principio di parità di trattamento rispetto a soggetti che operano nel medesimo mercato. Quanto alle formalità per beneficiare della speciale modalità di compensazione infragruppo dell'obbligazione tributaria, è 485 CAP. XXVI - L'IVA necessario che la controllante presenti, unitamente al prospetto di liquidazione, la propria dichiarazione e quelle delle controllate, di cui fa propri i contenuti tramite la sottoscrizione del proprio legale rappresentante. Ne deriva che l'attività di controllo e accertamento è legittimamente esercitata, senza la necessità di pregiudiziali rettifiche alle controllate, nei confronti della sola controllante e, cioè, del soggetto fiscale sul quale ricadono gli obblighi della dichiarazione ed a favore del quale matura il diritto ad ottenere il rimborso o la compensazione dell'eccedenza detraibile (Sez. T, n. 10207/2016, Tricomi, Rv. 639989). Deve, inoltre, essere segnalata la pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12190/2016, Iacobellis, Rv. 639970) in tema di "ribaltamento" integrale o parziale di costi e ricavi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. Le Sezioni Unite hanno chiarito che la società consortile può svolgere una distinta attività commerciale con scopo di lucro ed è questione di merito accertare i rapporti tra la società stessa e i consorziati nell'assegnazione dei lavori o servizi, al fine di stabilire la necessità del suddetto "ribaltamento" di costi e ricavi a fini di imposta. In caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato alla società consortile, il consorziato ha l'onere di provare - nel rispetto dei principi di certezza, effettività, inerenza e competenza - che la differenza stessa non integri suoi ricavi occulti ovvero che essa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo. 5.2. Il regime derogatorio del margine di utile e gli acquisti in sospensione di imposta nelle operazioni intracomunitarie ed extracomunitarie. L'art. 36 del d. l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella legge 22 marzo 1995, n. 85, prevede un regime speciale derogatorio alla disciplina in materia di IVA per gli acquisiti intracomunitari di beni, finalizzato ad evitare una doppia imposizione sugli stessi. Sul tema è da segnalare l'arresto espresso da Sez. 6-T, n. 11086/2016, Conti, Rv. 639993, secondo cui, per la natura speciale del regime, derogatorio dell'ordinaria disciplina fiscale degli acquisti intracomunitari, il contribuente è onerato a provare la sussistenza dei relativi presupposti di fatto, tra i quali l'indicazione sulla fattura del cedente della dicitura regime del margine – con riferimento, nella specie, ad oggetti d'arte oppure da collezione o di antiquariato o beni d'occasione – che non può ritenersi un mero elemento 486 CAP. XXVI - L'IVA formale, risolvendosi la sua omissione nella mancata prova del requisito d'ordine soggettivo. In tema di regime del margine di utile, giova segnalare che con ordinanza interlocutoria dell'11 dicembre 2015, la Sez. T della Corte ha ritenuto di rimettere alle Sezioni Unite la questione, di particolare importanza – allo stato non ancora decisa - relativa alla portata ed entità degli oneri di controllo del cessionario di autoveicoli usati, provenienti da uno Stato estero comunitario, al fine della regolare e lecita applicazione del regime del margine. Nel provvedimento si richiede alle Sezioni Unite di chiarire "se il giudice italiano, nel valutare se sussista o meno il diritto al regime del margine, debba prendere in considerazione la diligenza del contribuente solo in riferimento al suo rapporto con il soggetto da cui ha acquistato il bene, oppure se si debba chiedere al contribuente stesso anche di verificare tutta la filiera di cui il fornitore del bene è solo l'ultimo anello". In tema di cessioni all'esportazione, l'art. 8 lett. c) del d.P.R. n. 633 del 1972 individua tra le operazioni non imponibili, le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano effettuato abitualmente cessioni all'esportazione od operazioni intracomunitarie, consentendo – per limitare l'inconveniente del porre tali operatori in permanente attesa del rimborso dell'eccedenza di imposta - di effettuare acquisiti senza applicazione dell'IV A. In ordine alle formalità richieste per beneficiare del regime agevolativo, che si traduce sul piano fiscale in una sospensione di imposta, la giurisprudenza della Corte ha chiarito che l'omessa indicazione in fattura del codice identificativo del corrispondente comunitario ovvero l'indicazione di un codice identificativo errato non compromette la fruibilità del regime di esenzione previsto per gli scambi tra operatori comunitari, quando la ricorrenza, in capo al destinatario, della qualità di soggetto d'imposta nello Stato d'appartenenza, secondo il principio di tassazione del luogo di destinazione dei beni, non sia contestata (Sez. T, n. 16756/2016, Marulli, Rv. 641065; per la natura meramente formale della indicazione del codice identificativo del cliente, ove la cessione avvenga verso la Repubblica di San Marino, cfr. Sez. T, n. 19536/2016, Scoditti, Rv. 641244). In tal senso, ai fini della non imponibilità di tali cessioni all'esportazione, non può ritenersi sufficiente la sola formale specifica dichiarazione d'intento dell'esportatore, ove questa sia 487 CAP. XXVI - L'IVA ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell'assenza delle condizioni legali per l'applicazione del regime agevolato o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (Sez. T, n. 19896/2016, Tricomi, Rv. 641260). La Corte ha, inoltre, ribadito la non imponibilità delle operazioni di esportazione temporanea ai fini dell'esposizione fieristica e "tentativo di vendita", le quali, anche se seguite dalla successiva cessione dei beni, con il controllo dell'autorità doganale e l'adempimento dei relativi incombenti ex art. 214 del d.P.R. n. 43 del 1973, integrano una ipotesi di cessione all'esportazione di cui all'art. 8, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972, e sono riconducibili come tali al plafond costituito nell'anno precedente, utilizzabile, nell'anno successivo, ai fini dell'acquisto senza applicazione dell'IVA, in quanto l'avvenuta vendita comporta la conservazione della condizione giuridica di bene nazionale e determina la trasformazione dell'esportazione temporanea in esportazione definitiva (Sez. T, n. 05168/2016, Tricomi, Rv. 639434). Sul tema, con riferimento alla ripartizione dell'onere della prova, si segnala l'arresto espresso da Sez. T, n. 15871/2016, Di Stefano, Rv. 640662, che, con riferimento alle condizioni previste dall'art. 50, commi 1 e 2, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. in l. 29 ottobre 1993, n. 427, per le operazioni senza applicazione d'imposta - effettuate nei confronti dei cessionari e dei committenti che abbiano comunicato il numero d'identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza, a condizione che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo al Ministero la conferma della validità attuale del numero d'identificazione attribuito al cessionario – in assenza dei prescritti adempimenti, legittima l'Ufficio finanziario a ritenere lo scambio di carattere nazionale e procedere al recupero dell'IVA, restando onerato il contribuente della prova della sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo. 6. Le agevolazioni di aliquota. Sez. U, n. 18574/2016, Di Iasi, Rv. 641073 hanno dato soluzione al contrasto giurisprudenziale manifestatosi in ordine all'applicabilità della proroga biennale del termine di accertamento prevista dai commi 1 e 1-bis dell'art. 11 legge n. 289 del 2002 per l'applicazione del regime dell'aliquota 488 CAP. XXVI - L'IVA agevolata dell'IVA per l'acquisto della prima casa. In particolare, si è ritenuto che il citato termine, previsto dall'art. 76, comma 1-bis, del d.P.R. n. 131 del 1986, per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta, non può essere prorogato, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della l. n. 289 del 2002, per le violazioni concernenti la fruizione dell'IVA agevolata al 4 per cento. Tale soluzione trova fondamento nella impossibilità di una interpretazione estensiva logico-sistematica dell'art. 11 citato, che fa espresso riferimento solo all'imposta di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni, nonché sull'incremento di valore degli immobili. La natura di disposizione derogatoria dei termini di decadenza, e, dunque, di norma di stretta interpretazione, rende inammissibile un'operazione ermeneutica intesa ad assegnare all'Amministrazione finanziaria un più ampio termine per l'accertamento di un tributo, senza che la diversa disciplina riservata a tributi differenti possa ritenersi irragionevole. La Corte ha, inoltre, ribadito l'esclusione dal regime di speciale di agevolazione stabilito per le agenzie di viaggio dall'art. 74-ter del d.P.R. n. 633 del 1972 delle operazioni poste in essere dall'agenzia esclusivamente in qualità di intermediario, e non in nome proprio, tra il viaggiatore ed il terzo fornitore di servizi, oppure di fornitura di singoli servizi turistici, svincolati dall'organizzazione del viaggio (Sez. T, n. 04776/2016, Perrino, Rv. 639140), nonché per la spezzatura di riso, soggetta al regime di cui all'art. 75, comma 6, della legge n. 413 del 1991 per gli alimenti di cani e gatti, ove sia a ciò destinata, e non a quello della ordinaria categoria merceologica (Sez. T, n. 08815/2016, Marulli, Rv. 639649). 7. I depositi fiscali e la disciplina doganale. La disciplina nazionale delle operazioni relative a scambi con Paesi che si trovino fuori del territorio dell'Unione Europea, come configurata dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, è ispirata al principio della detassazione dei beni "in uscita" dal territorio comunitario, e dell'applicazione dell'IVA italiana a quelli "in entrata". Tuttavia, al fine di conciliare l'esenzione da IVA delle operazioni di cessione di beni destinati al consumo all'estero, e non in territorio nazionale, ai sensi dell'art. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, con il diritto - essenziale nel sistema comunitario dell'IVA - alla detrazione dell'imposta sugli acquisti, il legislatore ha introdotto talune operazioni concretamente non imponibili, sebbene astrattamente assoggettabili ad imposta. 489 CAP. XXVI - L'IVA Giova, però, evidenziare che le operazioni escluse dall'IVA per difetto di territorialità non devono essere confuse con le operazioni non imponibili – tra le quali, le cessioni all'esportazione – soggette al presupposto territoriale e agli obblighi formali di fatturazione, dichiarazione e così via. Sulla base di tale elemento differenziale Sez. T, n. 16459/2016, Tricomi, Rv. 640656, ha riconosciuto la competenza dell'Agenzia delle Entrate all'accertamento ed alla riscossione dell'IVA conseguente all'importazione se, precedendo l'immissione in libera pratica quella in consumo con certo intervallo temporale, l'imposta sia assolta al momento dell'estrazione della merce dal deposito fiscale mediante il meccanismo contabile del reverse charge, escludendo che si tratti di un'obbligazione doganale, secondo la normativa dell'Unione europea e ferma restando la legittimazione attribuita, per economia di procedimento, all'autorità doganale ove l'immissione in libera pratica e quella al consumo coincidano al momento dell'importazione. Nello stesso solco si colloca la sentenza della Corte (Sez. T, n. 19098/2016, Perrino, Rv. 641112) che ha ritenuto l'IVA conseguente all'importazione, seppur segnata da specificità procedimentali e sanzionatorie rispetto a quella intracomunitaria, tributo interno non assimilabile ai dazi sebbene con essi condivida il fatto di trarre origine dall'importazione nell'Unione e dall'introduzione nel circuito economico degli Stati membri, sicché può essere assolta mediante il meccanismo contabile del reverse charge, che non configura di per sé un congegno elusivo o frodatorio, ma un utile modo di assolvimento dell'IVA all'importazione, senza che assuma rilievo il ricorso anche al regime speciale del deposito infragiornaliero. In tema di dazi doganali è da segnalare il consolidamento della giurisprudenza della Corte (Sez. T, n. 13770/2016, Tricomi, Rv. 640616, in tema di dazio antidumping) in ordine alla piena valenza probatoria sul piano amministrativo e giudiziario degli accertamenti compiuti dagli organi comunitari, anche se a posteriori, idonei ad essere posti a fondamento dell'avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni del regime agevolativo. Con la medesima pronuncia, si è delimitato l'ambito applicativo dello stato soggettivo di buona fede dell'importatore, richiesto dall'art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 (Codice doganale comunitario) 490 CAP. XXVI - L'IVA ai fini dell'esenzione della contabilizzazione a posteriori dei dazi. L'esenzione può essere riconosciuta solo se l'errore dell'autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicché quando l'errore dell'Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell'esportatore - in particolare sull'origine della merce - tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo. 491 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA CAPITOLO XXVII L'IMPOSTA DI REGISTRO E DI SUCCESSIONE (di Marzia Minutillo Turtur e Andrea Nocera)* SOMMARIO. 1. L'imposta di registro. – 2. Il rimborso d'imposta. 3. Le agevolazioni prima casa: l'intervento delle Sezioni Unite. – 4. I requisiti e presupposti per usufruire del beneficio. – 5. Il trasferimento di residenza e la forza maggiore. – 6. L'abitazione di lusso: parametri e modalità di accertamento. – 7. Il credito d'imposta in caso di più rivendite. – 8. La decadenza dal beneficio. – 9. Il termine per la liquidazione della maggiore imposta. – 10. Il trust e l'imposta di successione. 1. - Le sue caratteristiche e le conseguenze per gli atti sottoposti alla relativa disciplina. La Corte ha affrontato anche nel 2016 il problema della corretta portata della disciplina in materia d'imposta di registro nell'applicarla secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, tenendo conto della natura e degli effetti del singolo atto da registrare, con rilievo preminente alla causa reale del negozio ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti. In considerazione della condotta del contribuente che ha usufruito di agevolazioni tributarie, Sez. T, n. 18676/2016, Botta, Rv. 641121, ha confermato l'orientamento secondo il quale i benefici fiscali previsti dall'art. 5 della l. 22 aprile 1982 n. 168, consistenti nella misura fissa delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in favore dell'acquirente dell'immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato ed effettivamente attivato dal medesimo soggetto, possono essere conservati a condizione che il contribuente realizzi la finalità dichiarata nell'atto di acquisto entro il termine triennale di decadenza ex art. 76 del d.P.R. n. 131 del 1986, che inizia a decorrere dal momento in cui l'intento del contribuente sia rimasto ineseguito, ossia dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell'atto, restando irrilevante che l'eventuale revoca del beneficio sia intervenuta pochi giorni prima, in mancanza di prova, da parte del contribuente, circa la possibile attuazione in concreto del piano di recupero nel limitato spazio temporale tra la notifica dell'atto di revoca ed il decorso del triennio. Sez. T, n. 18006/2016, Solaini, Rv. 641128 si riporta ad un orientamento constante, secondo la quale la sentenza ex art. 2932 c.c., che abbia disposto il trasferimento di un immobile in favore del * Paragrafi redatti da Marzia Minutillo Turtur, salvo il paragrafo 10 redatto da Andrea Nocera 492 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA promissario acquirente, subordinatamente al pagamento del corrispettivo pattuito, è soggetta ad imposta proporzionale e non in misura fissa, anche se ancora soggetta ad impugnazione, trovando applicazione l'art. 27 del d.P.R. n. 131 del 1986, alla stregua del quale non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva gli atti i cui effetti dipendano, in virtù di condizione meramente potestativa, dalla mera volontà dell'acquirente, nella specie dall'iniziativa unilaterale del promittente acquirente. Quanto alla determinazione della base imponibile Sez. T, n. 21830/2016, Esposito, Rv. in corso di massimazione, ha chiarito come non possa essere utilizzata allo scopo la disciplina relativa alla determinazione dell'ICI, attesa la profonda diversità tra le due imposte ed in particolare l'occasionalità della imposta di registro rispetto alla periodicità, e dunque ripetitività, dell'ICI che va determinata di anno in anno al primo giorno del periodo di imposta. La Corte ha inoltre affrontato una serie di casi concreti, in questo modo orientando il contribuente in ordine all'individuazione del valore imponibile e delle caratteristiche dell'imposta di registro. In particolare vanno ricordate: Sez. T, n. 13298/2016, Meloni, Rv. 640343, che ha chiarito che il valore imponibile dei crediti ceduti è costituito esclusivamente, ai sensi dell'art. 46 del d.P.R. 26 ottobre 1973, n. 634, dal valore nominale del credito ceduto, criterio che non concorre con quello del corrispettivo pattuito per la cessione; Sez. 6-T, n. 11692/2016, Iofrida, Rv. 640041, secondo la quale in virtù dei criteri interpretativi di cui all'art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 è configurabile una transazione e non una ricognizione di debito quando risulti una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato nell'accordo, sicché il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni, ovvero se esse si siano limitate ad apportare modifiche alle obbligazioni preesistenti senza elidere il collegamento con il precedente contratto; Sez. T, n. 18454/2016, Meloni, Rv. 640974, che ha chiarito che in caso di decreto ingiuntivo nei confronti del fideiussore, l'imposta di registro si applica, ai sensi dell'art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 131 del 1986, nei limiti del valore del credito il cui pagamento sia stato ingiunto e non al valore complessivo del rapporto garantito; Sez. 6-T, n. 13485/2016, Federico, Rv. 640168, che in relazione alla disciplina introdotta con l'art. 6 della l. 7 marzo 1986 n. 60 quanto alla riunione dell'usufrutto alla nuda proprietà, ha evidenziato che la nuova normativa introdotta con l'art. 6 della l. n. 493 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA 60 del 1986 ha natura di jus superveniens a carattere innovativo, sicché va applicata nel giudizio di cassazione, anche d'ufficio, quando sia entrata in vigore successivamente alla proposizione del ricorso ed il giudizio sia ancora pendente; Sez. T, n. 16490/2016, Stalla, Rv. 640778, che quanto a un contratto di licenza su brevetti ha affermato che poiché tale contratto trasferisce il godimento economico dello stesso per un determinato periodo di tempo, non può essere considerato un contratto relativo a prestazioni di lavoro autonomo, ma bensì un "atto diverso avente per oggetto prestazioni patrimoniali" da considerare ai sensi dell'art. 9 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986; Sez. T, n. 12759/2016, Schirò, Rv.640163, che ha analizzato in tema d'imposta di registro la posizione del notaio rogante, chiarendo che nella sua veste di mero responsabile d'imposta estraneo al rapporto tributario ed obbligato in solido con i contraenti quale fideiussore ex lege, al solo fine di facilitare l'adempimento in virtù di una relazione che non è paritetica, ma secondaria e dipendente, non è legittimato alla richiesta di rimborso, ove si assuma l'indebito pagamento, in quanto i contribuenti effettivi sono solo le parti sostanziali dell'atto; Sez. T, n. 10203/2016, Zoso, Rv. 639772, che sempre in tema di agevolazioni tributarie con particolare riferimento agli investimenti in aree svantaggiate ha chiarito che il beneficio dell'assoggettamento all'imposta di registro nella misura dell'1 per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, previsto dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis, per i trasferimenti d'immobili situati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati, si applica a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga, entro cinque anni dall'acquisto, ad opera dello stesso acquirente, sicché il beneficio non spetta ove le opere di urbanizzazione, previste dalla convenzione con il comune, siano già state completate dall'alienante, trattandosi di una disposizione di stretta interpretazione, in quanto ispirata alla ratio di diminuire per l'acquirente il primo costo di edificazione; Sez. T, n. 09583/2016, Zoso, Rv. 639987, in materia di cessione di azienda, secondo la quale ai sensi dell'art. 51, comma 4, del d.P.R. n. 131 del 1986, la cui corretta interpretazione va effettuata alla luce dei criteri fissati dal d.P.R. 31 luglio 1996 n. 460 e la cui violazione è censurabile in sede di legittimità, il contribuente, nel dichiarare il valore dell'avviamento, da intendersi come capacità di profitto di un'attività produttiva e, quindi, come idoneità alla copertura dei costi, ivi compresi quelli di natura fiscale, deve effettuare i calcoli sulla base dei redditi al lordo delle imposte; in materia di donazioni 494 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA ed atti di liberalità Sez. T, n. 06100/2016, Bruschetta, Rv. 639238, ha affermato che la donazione tra coniugi è soggetta all'imposta di registro in misura fissa, in virtù del combinato disposto degli artt. 41, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 e 11 della Parte I della Tariffa allegata, anche a prescindere dal rinvio di cui all'art. 55, comma 1, del d.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346, atteso che l'imposta di registro e quella sulle donazioni si basano su presupposti impositivi autonomi e differenti, in quanto la prima colpisce esclusivamente il servizio di registrazione sull'atto e non anche, diversamente da quanto normalmente avviene, il trasferimento di ricchezza a titolo gratuito; nello stesso senso Sez. T, n. 06099/2016, Bruschetta, Rv. 639237, in materia di donazione tra parenti in linea retta; Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797, affronta invece il tema della disciplina dell'imposta di registro in relazione ai provvedimenti giudiziari ed afferma che ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 131 del 1986, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio ed invitata a parteciparvi, e la ragione deve essere individuata nello scopo d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria; in materia di imprenditoria agricola Sez. 6-T, n. 02880/2016, Crucitti, Rv. 638910, ha evidenziato che ai fini dell'applicazione dell'aliquota ridotta dell'8 per cento prevista dall'art. 1-bis della tariffa all. A) al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634, l'acquirente che già possiede la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, deve formulare espressa richiesta nell'atto pubblico e produrre, davanti allo stesso notaio rogante, la documentazione attestante la qualità che vanta, mentre nel caso in cui l'acquirente non possegga, al momento, tale qualifica, dovrà enunciare, nell'atto di acquisto, l'intento di acquistarla e - quindi - nel triennio successivo dovrà produrre la prova, nel modo indicato dalla legge, dell'avvenuto acquisto; Sez. 6-T, n. 01567/2016, Caracciolo, Rv. 638631, sempre in relazione alla perdita di benefici fiscali concessi per l'acquisito di fabbricati in zona dotata di piani urbanistici particolareggiati ha chiarito che il termine, ai fini dell'imposta di registro, per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta dovuta a seguito dell'accertamento dell'assenza dei requisiti legittimanti, resta soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 10, della l. 31 dicembre 2002 n. 289, ed alla proroga di due anni, ai sensi del citato art. 11, applicabile in quanto consente di 495 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA coordinare la durata del termine per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per il mantenimento o la revoca dei benefici fiscali per il suddetto acquisto con le disposizioni in materia di condono, nello stesso senso anche Sez. 6-T, n. 00992/2016, Cosentino, Rv. 638349, in materia di imposta di registro sulle successioni, donazioni e INVIM. Infine, confermando un orientamento risalente quanto alla disciplina conseguente dall'art. 79 d.P.R. 131 del 1986, Sez. 6-T, n. 00746/2016, Cosentino, Rv. 638741, ha precisato che il regime transitorio, che consente al contribuente di usufruire delle disposizioni più favorevoli introdotte dal medesimo decreto presidenziale anche in relazione ad atti stipulati anteriormente alla data della sua entrata in vigore (1 luglio 1986), va interpretato, in ordine al diritto al rimborso delle imposte già pagate, nel senso che, ai fini della tempestività della relativa domanda, occorre che questa sia stata presentata non solo entro la suddetta data, ma anche nel rispetto del termine triennale di decadenza - decorrente dalla data del pagamento - stabilito dal previgente art. 75 del d.P.R. n. 634 del 26 ottobre 1972, la cui inosservanza comporta la definitività e l'irretrattabilità del rapporto, in relazione al quale è stato effettuato il versamento diretto, e quindi la preclusione all'esercizio del diritto al rimborso. 2. Il rimborso d'imposta. In tema d'imposta di registro Sez. 6-T, n. 00746/2016, Cosentino, Rv. 638741, confermando un orientamento assai risalente della Corte ha evidenziato che il regime transitorio dettato dall'art. 79 del d.P.R. 26 aprile 1981 n. 131, che consente al contribuente di usufruire delle disposizioni più favorevoli introdotte dal medesimo decreto presidenziale anche in relazione ad atti stipulati anteriormente alla data della sua entrata in vigore (1 luglio 1986), va interpretato, in ordine al diritto al rimborso delle imposte già pagate, nel senso che, ai fini della tempestività della relativa domanda, occorre che questa sia stata presentata nel rispetto del termine triennale di decadenza - decorrente dalla data del pagamento - stabilito dal previgente art. 75 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634, la cui inosservanza comporta la definitività e l'irretrattabilità del rapporto, in relazione al quale è stato effettuato il versamento diretto, e quindi la preclusione all'esercizio del diritto al rimborso. 3. Le agevolazioni prima casa: l'intervento delle Sezioni Unite. Nella valutazione della concessione del beneficio fiscale "prima casa" la Corte ha affrontato in diverse pronunce l'insieme 496 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA dei presupposti e requisiti legittimanti nelle sue diverse declinazioni. In via preliminare occorre richiamare la pronunzia delle Sez. U, n. 18574/2016, Di Iasi, Rv. 641073, con la quale si è chiarito, in tema di agevolazioni per l'acquisto della prima casa, come il termine dell'art. 76 comma 1-bis, del d.P.R. n. 131 del 1986 per la rettifica e liquidazione della maggiore imposta non può essere prorogato, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, per le violazioni concernenti la fruizione dell'IVA agevolata al 4 per cento, poiché tale articolo si riferisce esclusivamente all'imposta di registro, ipotecaria e catastale sulle successioni e donazioni, nonché sull'incremento del valore degli immobili, e poiché rappresenta ipotesi di deroga a disciplina in materia di termini di decadenza, di stretta interpretazione, ne consegue l'impossibilità di attribuire all'amministrazione finanziaria un termine di decadenza più ampio per l'accertamento di un tributo. 4. I requisiti e presupposti per usufruire del beneficio. Nell'analisi dei requisiti legittimanti per accedere al beneficio "prima casa" Sez. T, n. 02278/2016, Meloni, Rv. 638911, ha chiarito che ai sensi dell'art. 1 della l. 24 marzo 1993 n. 75 il requisito della non possidenza di altro fabbricato idoneo ad abitazione deve essere riscontrato in senso soggettivo, in relazione alla non utilità dello stesso per dimensioni e caratteristiche alla scopo abitativo del contribuente e della sua famiglia. Sez. 6-T, n. 14673/2016, Napolitano, Rv. 640515, sullo stesso tema ha evidenziato come il requisito della mancanza di titolarità su tutto il territorio nazionale del diritto di proprietà, usufrutto, uso abitazione e nuda proprietà di un'altra casa acquistata con medesimo beneficio, atteso il senso della previsione di cui all'art. 1 del d.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986 da intendersi come mancanza di disponibilità effettiva di essa, non sussiste ove l'immobile di proprietà del contribuente sia stato assegnato al coniuge separato, in sede di separazione o divorzio, in quanto affidatario di prole minorenne. Quanto al requisito della residenza nel comune nel quale è ubicato l'immobile Sez. T, n. 14510/2016, La Torre, Rv. 640513, afferma l'irrilevanza di un successivo trasferimento di residenza, ove previamente il contribuente abbia trasferito la residenza nei diciotto mesi dall'acquisto nel comune in cui si trova il bene che ha usufruito dell'agevolazione, poiché tale successivo cambio di residenza non è previsto tra le cause di revoca dell'agevolazione e non pregiudica in alcun modo le ragioni del fisco a meno che non si provi la sussistenza nel caso concreto di un abuso del diritto. 497 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA Il concetto di residenza è stato puntualizzato da Sez. T, n. 13335/2016, Zoso, Rv. 640345, nel senso che debba essere riferito alla famiglia nel suo insieme, sicché non rileva la diversa residenza di uno dei due coniugi in regime di comunione legale, essendo i coniugi tenuti non ad una medesima residenza anagrafica, ma alla coabitazione, purché effettivamente emerga la destinazione dell'immobile che ha usufruito del beneficio a residenza principale della famiglia. Sempre quanto ai requisiti legittimanti Sez. T, n. 13416/2016, Stalla, Rv. 640273, ha precisato come il requisito dello svolgimento della propria attività lavorativa nel comune ove l'immobile è ubicato non deve essere inteso in senso rigido ed assoluto, non essendo richiesto dalla normativa di riferimento che l'attività lavorativa sia svolta in tale luogo in modo prevalente. 5. Il trasferimento della residenza e la forza maggiore. Molto ampia e varia l'interpretazione della Corte nella considerazione della forza maggiore quale elemento ostativo al trasferimento della residenza. In particolare Sez. 6-T, n. 00864/2016, Cosentino, Rv. 638367, afferma che la forza maggiore idonea ad impedire la decadenza dell'acquirente che non abbia trasferito la propria residenza nel comune ove è situato l'immobile nel termine di diciotto mesi dall'acquisto può anche riferirsi al mancato compimento di lavori o al mancato rilascio di titoli abilitativi, purché ricorra la non imputabilità al contribuente del comportamento ostativo e la necessità ed imprevedibilità dello stesso. Un'impostazione radicalmente diversa emerge dalla Sez. T, n. 02616/2016, Perrino, Rv. 639233, che afferma come il trasferimento della residenza nel termine previsto costituisca un onere conformativo del potere dell'acquirente, il cui esercizio deve avvenire a pena di decadenza nel termine indicato, sicché ai fini del relativo decorso nessuna rilevanza può essere attribuita ad eventi sopravvenuti, anche non imputabili al contribuente, come il caso del sopravvenuto fallimento della società costruttrice dell'immobile. Nella motivazione la Corte afferma la natura cogente del termine previsto nell'art. 1, nota II bis della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 e – richiamato l'orientamento della Corte che ammette la configurabilità di esimenti dal rispetto di esso (che identifica con la forza maggiore o col factum principis) e la configurazione dell'impegno a trasferire la residenza come un obbligo del contribuente nei confronti del fisco, l'adempimento del quale può risentire di ostacoli, destinati ad acquisire effetto esimente 498 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA se contrassegnati dalla non imputabilità alla parte obbligata e dall'inevitabilità e dall'imprevedibilità – contesta le precedenti impostazioni relative all'incidenza della forza maggiore sull'impegno a trasferire la residenza configurato come obbligo. Secondo tale pronunzia, la ricostruzione che accredita, invece, la rilevanza della forza maggiore sul corso del termine fissato per il trasferimento di residenza non è adeguata alla fattispecie, in quanto il conseguimento dell'agevolazione fiscale, o meglio la conservazione di essa, non scaturisce dall'adempimento di un obbligo del contribuente nei confronti del fisco, in quanto il fisco non è affatto titolare di una corrispondente e correlata situazione di diritto soggettivo. È il contribuente ad essere titolare di una situazione giuridica attiva, che è il potere di produrre, mediante l'attività in questione (cioè il trasferimento di residenza), che assume la configurazione di onere, l'impedimento di un effetto giuridico svantaggioso, ossia il venir meno del presupposto dell'agevolazione. Al cospetto di tale potere, il fisco non può che subirne l'esercizio, né dovrà cooperare, come avviene allorquando si realizzano diritti, quando la controparte si trova in una situazione di dovere. Evidenzia ancora la Corte che quando l'ordinamento, come nel caso in esame, limita nel tempo la possibilità del soggetto di produrre un effetto giuridico a sé favorevole, o d'impedirne uno a sé sfavorevole, mediante l'esercizio di un potere, la mancata produzione dell'effetto scaturente dal mancato compimento dell'atto entro il termine fissato si presenta come estinzione del potere, ossia come decadenza. La decadenza ha dimensione oggettiva: il potere, avendo l'atto come forma di esercizio, non può che esercitarsi in un momento puntuale di tempo. Un'impostazione e un'interpretazione del tutto diversa da quelle in precedenza adottate dalla Corte, un distacco dall'orientamento consolidato che configura l'impegno al trasferimento della residenza come obbligo, per affermare al contrario la ricorrenza di un onere e dunque di un potere del contribuente da esercitare a pena di decadenza nel termine previsto, con la conseguenza che, superato il momento indicato dal legislatore per l'esercizio del potere, questo non può più prevalere sui contrapposti interessi, pubblici o privati per evitare che la possibilità di modificazione giuridica sia illimitata nel tempo al fine di garantire la certezza nel trattamento delle situazioni. Richiama quindi la Corte la previsione di cui all'art. 2694 c.c. ed afferma come in relazione alla disciplina introdotta in materia nessuna rilevanza possa essere attribuita sul decorso del termine agli impedimenti che siano sopravvenuti. Giustifica la Corte tale conclusione richiamando 499 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA la finalità della disciplina agevolativa e la necessità che, in attuazione di scopi antielusivi, il beneficio fiscale debba essere ancorato ad un dato specifico, certificativo della situazione di fatto enunciata nell'atto di acquisto, mentre è da escludersi la finalità sanzionatoria quanto alla condotta dell'acquirente dell'immobile in relazione al venir meno del regime agevolativo, ricorrendo invece una sopravvenuta mancanza di causa del beneficio invocato. In definitiva non è configurabile alcuna esimente dal rispetto del termine perentorio di diciotto mesi fissato, a pena di decadenza, dal legislatore per il trasferimento della residenza, ai fini della conservazione dell'agevolazione fiscale fruita al momento della tassazione del contratto di compravendita della prima casa, con conseguente irrilevanza dell'impedimento di fatto rappresentato dal contribuente. Contrasta in modo diretto l'interpretazione della sentenza n. 02616/2016 la Sez. T, n. 08351/2016, Stalla, Rv. 639764, secondo la quale in tema di benefici fiscali per l'acquisto della "prima casa", la causa di forza maggiore, idonea ad impedire la decadenza dell'acquirente che non abbia trasferito la propria residenza nel comune ove è situato l'immobile entro diciotto mesi dall'acquisto, pur potendo riferirsi alla inutilizzabilità dello stesso per sopravvenuti lavori di manutenzione straordinaria deliberati dal condominio successivamente alla data di acquisto, deve tuttavia essere caratterizzata dai requisiti della non imputabilità al contribuente, della necessità e della imprevedibilità, spettando al giudice valutare in concreto, a fronte della ricorrenza dell'obbligo del contribuente al trasferimento di residenza al fine dell'ottenimento del beneficio fiscale, l'eventuale sussistenza di cause esimenti della responsabilità per inadempimento quale la forza maggiore. Richiama la Corte il principio consolidato, secondo il quale in materia di agevolazioni per la prima casa il trasferimento della residenza nel comune di ubicazione dell'immobile costituisce un vero e proprio obbligo di facere del contribuente a fronte dell'ottenimento del beneficio fiscale da parte dell'ordinamento, sicché, come avviene appunto nell'ambito obbligatorio, anche nella materia in esame deve, fatta ovviamente salva la valutazione della fattispecie concreta, attribuirsi generale rilevanza alle cause esimenti della responsabilità per inadempimento, quali appunto la forza maggiore, da individuare, secondo la nozione comune, in un evento che si caratterizza per la sua imprevedibilità, inevitabilità e cogente in modo da sovrastare precludendone obiettivamente la realizzazione, la volontà dell'acquirente al trasferimento della 500 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA residenza. Analizzando la diversa impostazione della Sez. T, n. 02616/2016, la Corte rileva che analoga conclusione varrebbe comunque pur a fronte della qualificazione del comportamento del contribuente come onere, e non come obbligo di prestazione. Posto che anche in tal caso la forza maggiore, pur non incidendo su un vero e proprio adempimento, si porrebbe comunque quale evento impeditivo – non imputabile – dell'attuazione della volontà dell'onerato; e, con ciò, dell'integrazione della situazione fattuale alla quale l'ordinamento ricollega l'agevolazione. Occorre dunque, al fine di una corretta considerazione dei presupposti di legge, dare ingresso alla valutazione in concreto della fattispecie (possibilità che, ad esempio, l'esecuzione dei lavori di manutenzione straordinaria dell'immobile acquistato come prima casa integrasse in effetti una causa di forza maggiore legittimante il permanere dei benefici fiscali). Conclude infine evidenziando come la ricorrenza di un caso di forza maggiore non può poi portare alla possibilità per il contribuente di acquisire comunque la residenza in altro immobile nel comune in cui si è acquistata la prima casa in applicazione di un'interpretazione razionale e sistematica delle agevolazioni in questione, il che induce a correlare la causa di forza maggiore all'impossibilità obiettiva di trasferire la residenza, non in qualsiasi altro immobile sito nel comune di destinazione, bensì proprio nel medesimo immobile acquistato con il beneficio; venendo quest'ultimo accordato sul presupposto che l'acquirente si impegni ad andare ad abitare, come prima casa, nell'immobile in questione e non in qualsivoglia altro purché sito nello stesso comune", allineandosi dunque a quanto già evidenziato dalla Sez. T, n. 00864/2016. Prendendo atto del contrasto tra le diverse impostazioni citate ed affermando un principio diverso rispetto a quello appena citato in materia di trasferimento della residenza la Sez. T, n. 13148/2016, Di Iasi, Rv. 640159, afferma che in tema di benefici l'agevolazione può essere mantenuta in relazione ad eventi sopravvenuti, imprevedibili e non imputabili al contribuente, precisando tuttavia come non si possa ritenere causa di forza maggiore la mancata ultimazione dei lavori di ristrutturazione, considerato che elemento costitutivo della fattispecie è il trasferimento della residenza nel comune e non nella prima casa intesa come specifico immobile destinatario della agevolazione. Un'impostazione dunque radicalmente diversa da quella precedente. Nello stesso senso e in modo conforme si esprime Sez. T, n. 13346/2016, Bruschetta, Rv. 640342, escludendo la ricorrenza di 501 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA forza maggiore nel caso in cui il conduttore non abbia rilasciato tempestivamente l'immobile, richiamando ancora una volta la possibilità di trasferimento della residenza nel comune ove è ubicato l'immobile, a prescindere dall'effettiva utilizzabilità della prima casa. Sempre in tema di residenza Sez. T, n. 13343/2016, Bruschetta, Rv. 640169, afferma come in caso di alienazione prima del decorso dei cinque anni con acquisto di nuovo immobile entro l'anno successivo, si imponga il trasferimento proprio nell'immobile oggetto di nuovo acquisto e non nel comune come nel caso del primo acquisto, al fine di evitare operazioni meramente speculative. 6. L'abitazione di lusso: parametri e modalità di accertamento. La Corte ha in diverse pronunzie precisato ed evidenziato i criteri interpretativi e i riferimenti normativi necessari a definire le abitazioni che possono materialmente usufruire dell'agevolazione prima casa, secondo la disciplina anteriore alle recenti modifiche legislative di cui al d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che ha ancorato il beneficio fiscale alla classificazione catastale e non alla qualificazione di abitazione non di lusso. In particolare Sez. 6-T, n. 07457/2016, Conti, Rv. 639691, ha evidenziato che per stabilire se un'abitazione sia di lusso assume particolare rilevanza la destinazione che gli acquirenti attribuiscono al bene e dunque nel caso di acquisto pro indiviso non è possibile considerare l'ampiezza e la metratura del bene divisa per piani al fine di ottenere l'agevolazione prima casa, come se si trattasse di due diverse alienazioni considerato che ricorre una contitolarità del bene e che tale dato è formalmente insuperabile. Sez. T, n. 10191/2016, Napolitano, Rv. 639846, evidenzia quale parametro normativo per individuare il carattere di lusso di un'abitazione il d. m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969 n. 1072, con conseguente irrilevanza del requisito dell'abitabilità dell'immobile, non richiamato dall'art. 6 del predetto decreto, ma bensì della concreta utilizzabilità degli ambienti. In tal senso è stato ritenuto superficie utile un seminterrato direttamente collegato all'appartamento principale, che non si caratterizzava come mera cantina. Nello stesso senso Sez. 6-T, n. 11556/2016, Iofrida, Rv. 640049, richiamando la marcata potenzialità abitativa della superficie a prescindere dalla conformità degli ambienti a regolamenti edilizi comunali, con irrilevanza del mero dato catastale, e chiarendo come l'onere della prova in senso contrario ricada in capo al contribuente. Ancora Sez. T, n. 18480/2016, Meloni, Rv. 640972, ha ritenuto che vani pur qualificati come soffitta e cantina, ma con accesso diretto 502 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA dall'interno dell'abitazione e ad essa indissolubilmente legati debbano essere computati nella superficie utile complessiva. Sez. 6- T, n. 12853/2016, Cigna, Rv. 640076, ha inoltre chiarito come l'abitazione debba essere considerata non di lusso, al fine di usufruire della agevolazione, al momento dell'acquisto e non nella fase di costruzione. Infine, un dato chiarificatore da richiamare è quello contenuto in Sez. T, n. 13145/2016, Bruschetta, Rv. 640155, che ha affermato che in tema di revoca dell'agevolazione prima casa, per verificare appunto le caratteristiche di lusso o meno dell'immobile destinatario dell'agevolazione, è legittimo l'accertamento mediante accesso all'abitazione di un privato effettuato ai sensi dell'art 53-bis del d.P.R. 131 del 1986, nella chiara intenzione del legislatore di estendere tale potere, già previsto dall'art. 52, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 anche nei confronti di non è imprenditore o soggetto IVA. 7. Il credito d'imposta in caso di più rivendite. Sez. T, n. 18213/2016, Ariolli, Rv. 18213, ha precisato che in tema di agevolazione prima casa il contribuente può godere del credito di imposta, vantato in forza del primo acquisto, fino a concorrenza dell'intera somma, qualora rivenda ed acquisti più volte un bene immobile nel rispetto delle condizioni previste, con conseguente legittimità della compensazione del credito d'imposta del contribuente a seguito di un secondo acquisto con quanto dovuto all'erario in relazione ad un terzo acquisto, effettuato dopo la rivendita del secondo. 8. La decadenza dal beneficio. Diverse le pronunzie relative alle situazioni che concretamente possono determinare la decadenza dal beneficio conseguente all'aver usufruito dell'agevolazione prima casa. Sez. T, n. 04351/2016, Tricomi, Rv. 639130, evidenzia come la realizzazione di un'opera abusiva in assenza di titolo autorizzativo o in contrasto con lo stesso sulla base di un titolo successivamente annullato, in epoca successiva alla stipula dell'atto di acquisto, non comporta decadenza, poiché la relativa disciplina, da ritenersi di stretta interpretazione, non trova applicazione nel caso in cui l'abuso edilizio, concreto nella specie una veranda, sia successivo alla data di registrazione dell'atto. Un tema delicato è affrontato dalla Sez. T, n. 05156/2016, Cirillo, Rv. 639234, con la quale si è affermato che l'attribuzione al 503 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA coniuge della casa coniugale, in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza, ma una semplice modalità di utilizzazione, correlata al giudizio di separazione o divorzio, svincolata dalla corresponsione di qualsiasi corrispettivo e quindi priva di intento speculativo. Nello stesso senso Sez. T n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, precisa che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare in adempimento di condizioni di separazione non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici perché diretto a sistemare globalmente i rapporti tra i coniugi nella prospettiva di una stabile definizione della crisi familiare, ed è quindi un atto relativo a tali procedimenti, che ricade nell'esenzione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987 n. 74, salva la contestazione da parte dell'Amministrazione della finalità elusiva, con onere a suo carico. Un caso particolare è quello analizzato da Sez. T, n. 18211/2016, Ariolli, Rv. 641052, che chiarisce come il contribuente che nel quinquennio abbia rivenduto l'immobile non incorre in decadenza nel caso in cui abbia acquistato entro l'anno non solo un immobile da adibire ad abitazione principale, ma anche se realizzi, eseguendo almeno il rustico, comprensivo delle mura perimetrali e della copertura completa, su un terreno di sua proprietà, acquistato prima o dopo l'alienazione infraquinquennale, con richiamo al principio dell'accessione e all'assenza di distinzione nell'ambito della disciplina di riferimento ad acquisti a titolo originario e derivativo. L'art. 1, nota II bis della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 non distingue, difatti, tra acquisti a titolo originario e derivativo. Sez. 6-T, n. 03446/2016, Conti, Rv. 638798, in coerenza con orientamento recente della Corte, ha confermato che in materia d'imposta di registro, alle ipotesi di decadenza dalle agevolazioni tributarie per fatti sopravvenuti non si applicano gli artt. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634 e 19 del d.P.R. n. 131 del 1986, che obbligano i contraenti o i loro aventi causa a denunciare all'ufficio, entro venti giorni, il verificarsi di eventi che danno luogo ad ulteriore liquidazione d'imposta e non già a perdita di benefici, sicché non è sanzionabile l'omessa denuncia della mancata utilizzazione edificatoria, nel quinquennio, dell'area comperata, sita in un piano urbanistico particolareggiato. 504 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA 9. Il termine per la liquidazione della maggiore imposta. Sez. T, n. 13545/2016, Caracciolo, Rv. 640535 ha confermato un recente orientamento, in materia di perdita dell'agevolazione prima casa a causa dell'omesso trasferimento della residenza nel comune in cui è sito l'immobile, ritenendo che il termine per la liquidazione della maggiore imposta sia soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 1, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, solo a condizione che sicché il termine ultimo per l'assolvimento dell'onere, incombente sul contribuente, di trasferire la propria residenza sia scaduto anteriormente al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della legge 24 dicembre 2003 n. 350, non potendosi intendere prorogato un termine che non è ancora cominciato a decorrere. Sempre in relazione alla perdita delle agevolazioni prima casa, Sez. T, n. 13342/2016, Bruschetta, Rv. 640153, ha, al contrario, stabilito che il termine per la rettifica dell'imposta di registro al fine della nuova liquidazione ed applicazione delle relative sanzioni è sempre soggetto alla sospensione prevista dall'art. 11, comma 1, della l. n. 289 del 2002, sicché è prorogato di due anni, restando privo di rilievo la circostanza che il termine per la presentazione dell'istanza di definizione in via breve scada in data anteriore a quello fissato per il trasferimento della residenza, atteso che, ai fini dell'astratta definibilità del rapporto d'imposta è essenziale unicamente l'intervenuta o omessa registrazione entro il 30 settembre 2003, mentre è ininfluente la non ancora maturata perdita del beneficio fiscale. Sez. T, n. 13141/2016, Bruschetta, Rv. 640157, ha precisato come la revoca dei benefici prima casa, a causa della mancanza dei presupposti di legge, indicati mendacemente dal contribuente, determina l'applicazione di un'imposta di registro complementare dovuta per un fatto imputabile ad una delle parti contraenti, e resta, in forza dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. n. 26 aprile 1986 n. 131, esclusivamente a carico di quest'ultimo, senza che in capo al venditore operi la solidarietà dell'obbligazione tributaria di cui al precedente art. 57, comma 1. 10. Il trust e l'imposta di successione. In relazione alla disciplina del trust, la Corte ha ripreso e sviluppato l'orientamento, espresso da Sez. T, n. 25478/2015, Terrusi, Rv. 638198, secondo cui la costituzione di un vincolo di destinazione dei beni a titolo gratuito, espressione di liberalità, è operazione non espressiva di capacità contributiva, attesa la transitorietà del trasferimento di 505 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA ricchezza, con conseguente esclusione dell'assoggettamento alle imposte indirette per assenza del presupposto di imposta. Tale presupposto, infatti, si manifesta solo con l'attribuzione definitiva dei beni dal trustee al beneficiario. In particolare, la Corte (Sez. T, n. 21614/2016, Bruschetta, Rv. 641558) si è occupata del caso relativo all'istituzione di un "trust" cd. "autodichiarato", con conferimento di immobili e partecipazioni sociali per una durata predeterminata o fino alla morte del disponente, i cui beneficiari siano i discendenti di quest'ultimo. Nel riconoscere che il tipo di trust autodichiarato costituisce una forma di donazione indiretta, nel senso che per suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti non direttamente e bensì a mezzo del trustee in esecuzione di un diverso programma negoziale, la Corte ha ritenuto che tale operazione è soggetta all'imposta in misura fissa, in quanto la "segregazione", quale effetto naturale del vincolo di destinazione, non comporta alcun reale trasferimento o arricchimento, che si realizzeranno solo a favore dei beneficiari, successivamente tenuti al pagamento dell'imposta in misura proporzionale. Infatti, come previsto dagli artt. 2 e 11 della Convenzione de L'Aja del 1 luglio 1985, recepita con legge 16 ottobre 1989 n. 364, la costituzione del trust, come in tutti i casi di vincoli di destinazione, produce soltanto efficacia "segregante" i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è proprietario bensì amministratore e sia perché i detti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta. Per le donazioni indirette effettuate in data antecedente alla soppressione del d. lgs. n. 346 del 1990 (fino al 25 ottobre 2001) la disciplina applicabile è quello di cui all'art. 56 bis, comma 1 e 2, del d.lgs. n. 346 del 1990, introdotto dalla legge 21.11.2000 n. 342, senza che produca interferenza alcuna la successiva novella di cui a d.l. 3.10.20016 n. 262, conv. con l. 24.11.2006 n. 286. La Corte, in particolare, ha ritenuto che nell'individuazione del regime d'imposta applicabile alle donazioni indirette deve tenersi conto del momento della 'esecuzione della donazione, senza che rilevi quello successivo dell'accertamento o della liquidazione del tributo (Sez. T, n. 13133/2016, Stalla, Rv. 640161). In tema di esenzioni o di agevolazioni tributarie richiamata nella giurisprudenza della Corte si richiama la differenza di disciplina tra l'imposta sulle successioni e quella delle imposte ipotecaria e catastale. Nella specie, si è escluso la comunicabilità alle 506 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA imposte ipotecaria e catastale della prevista esenzione dei beni culturali dall'imposta sulle successioni, di cui agli artt. 12 e 13 del d.lgs. n. 346 del 1990, sul presupposto che diverso è il fondamento dei tributi in questione e le ragioni dell'esenzione: mentre, infatti, gli artt. 2 e 10 del d.lgs. n. 347 del 1990 individuano la base imponibile dell'imposta ipotecaria e catastale mediante rinvio alla disciplina dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni, il comma 2 dell'art. 2 assoggetta comunque a tassazione il trasferimento ("inter vivos" o "mortis causa") dei beni, rinviando, in caso di esenzione da una delle imposte parametro, al valore virtuale che i beni verrebbero ad assumere rispetto a quest'ultima, indipendentemente dall'esenzione o dalla sua determinazione in maniera fissa (Sez. T, n. 02098/2016, Botta, Rv. 638738). Sempre in tema di agevolazioni, deve segnalarsi che la Corte ha riconosciuto l'applicabilità dell'aliquota del 4%, ai sensi dell'articolo 69 della legge 21.11.2000 n. 342, al caso in cui il chiamato all'eredità sia un minorenne, rilevando che il termine per la presentazione della dichiarazione di successione - che nel caso di specie, veniva a scadere successivamente al 31 dicembre 2000 - decorre dalla scadenza del termine ultimo per la redazione dell'inventario e, quindi, decorso un anno dal compimento della maggiore età, senza che abbia rilievo alcuno la circostanza che il minorenne, all'apertura della successione, si trovi o meno nel possesso dei beni ereditari (Sez. T, n. 24931/2016, Zoso, in corso di massimazione). Il principio affermato trova fondamento nella lettura coordinata dell'art. 31, comma 2, lett. d), del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (nel testo vigente ratione temporis) e degli artt. 484, 485 e 489 cod. civ. Quanto all'oggetto dell'imposta di successione, la Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui che per la determinazione globale del valore dell'asse ereditario, non si può far più luogo al coacervo tra "relictum" e "donatum", per effetto della eliminazione dell'aliquota progressiva alla cui applicazione tale cumulo era destinato, precisando che, anche prima della formale abrogazione dell'art. 7 del d. lgs. n. 346/1990 da parte dell'articolo 2, comma 50, della legge n. 286 del 2006, il disposto dell'articolo 8, comma 4, del medesimo d. lgs. n. 346 del 1990, doveva ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità applicativa con la indicata modificazione del regime impositivo di riferimento dettato dall'art. 7 (Sez. T, n. 24940/2016, Stalla, in corso di massimazione). 507 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI CAPITOLO XXVIII I TRIBUTI LOCALI (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. La TARSU e gli enti comunali. - 1.1. Le esenzioni. - 1.2. La TARI – 2. L'ICI e l'obbligo di denuncia – 2.1. Le esenzioni. - 2.2. L'ICI e le aree demaniali. - 2.3. ICI e strumenti urbanistici. - 2.4. ICI e piattaforme petrolifere. 1. La TARSU e gli enti comunali. In tema di TARSU, come è noto, l'imposta è dovuta, ai sensi dell'art. 62, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, per la disponibilità dell'area produttrice di rifiuti e, quindi, unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad eccezione di quelle pertinenziali o accessorie ad abitazione. Così l'utilizzo di una tariffa convenzionale stabilita dal regolamento comunale, quale base di calcolo della tassa dovuta dall'esercente il commercio ambulante nel mercato settimanale per l'uso discontinuo di un posto fisso, riferita al numero dei giorni in cui è consentita la presenza settimanale stessa, rispetta le prescrizioni dell'art. 77 del d.lgs. n. 507 del 1993, che non impone si debba tenere conto, per il criterio della omogenea potenzialità dei rifiuti e ai fini di calcolo, dei giorni di presenza effettiva, posto che il principio generale che governa la TARSU è costituito dal rapporto con la disponibilità dell'area produttiva di rifiuti per il periodo consentito dall'occupazione o dalla detenzione temporanea, anche in ragione dei costi fissi derivanti dalla relativa messa a disposizione (Sez. T, n. 02078/2016, Meloni, Rv. 639042). I comuni hanno la facoltà eccezionale, non suscettibile di applicazioni estensive, di procedere direttamente alla liquidazione della tassa ed alla conseguente iscrizione a ruolo sulla base dei ruoli dell'anno precedente, purchè in forza di dati ed elementi già acquisiti e non soggetti a modificazione o variazione, sicchè, qualora sia mutato il possessore dell'immobile, è necessaria l'emissione di un nuovo avviso di accertamento non essendo a questi imputabile la dichiarazione fatta dal precedente possessore (Sez. T, n. 19120/2016, Ragonesi, Rv. 641102). Con riferimento alla determinazione delle tariffe, per l'applicazione dell'imposta, effettuate dall'ente, la Sez. T, n. 18054/2016, Meloni, Rv. 640961, ha stabilito che le deroghe indicate nel comma secondo dell'art. 62 cit., e le riduzioni delle tariffe stabilite dal successivo art. 66 non operano in via automatica 508 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti (nella specie, la S.C. ha riconosciuto non dovuta la TARSU, ex art. 62, comma 2, cit., in relazione ad un'area di manovra e parcheggio per mezzi pesanti in quanto produttrice di rifiuti speciali non assimilati). L'imposta viene determinata differentemente a seconda che si tratti di civili abitazioni ed esercizi alberghieri, i quali sono assoggettati ad una tariffa notevolmente superiorie a quella applicabile alle prime. Secondo la Corte, la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza, senza che assuma rilievo il carattere stagionale dell'attività, il quale può eventualmente dare luogo all'applicazione di speciali riduzioni di imposta, rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore; i rapporti tra le tariffe, indicati dall'art. 69, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, tra gli elementi di riscontro della legittimità della delibera, non vanno d'altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica (Sez. T, n. 16175/2016, Schirò, Rv. 640649). 1.1. Esenzioni. Il contribuente è tenuto a provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare dell'esenzione prevista dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993, per quelle aree detenute ed occupate aventi specifiche caratteristiche strutturali e di destinazione, atteso che il principio, secondo il quale è l'Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell'obbligazione tributaria, non può operare con riferimento al diritto ad ottenere una riduzione della superficie tassabile, costituendo l'esenzione, anche parziale, un'eccezione alla regola generale del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale (in applicazione di tale principio, Sez. 6-T, n. 17622/2016, Cirillo, Rv. 640781, ha cassato con rinvio la decisione di merito con cui era stato escluso l'assoggettamento al tributo in considerazion della mera destinazione dell'immobile ad autorimessa, in assenza del concreto accertamento dell'improduttività dei rifiuti). Per il principio sopra espresso, nel caso di esercizi alberghieri dotati di licenza annuale, essendo il presupposto deltributo costituito dalla occupazione o conduzione di locali a qualsiasi uso adibiti, ai fini della esenzione dalla tassa non è sufficiente la sola denuncia di chiusura invernale ma occorre allegare e provare la concreta 509 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI inutilizzabilità della struttura (Sez. T, n. 22756/2016, Chindemi, Rv. 641545). Pertanto, anche a seguito delle modifiche di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 221, in impianti d'incenerimento (c.d. "ecotassa"), tutto ciò che è conferito in discarisca si presume rifiuto sottoposto al tributo previsto dall'art. 3, commi 24 e 53 della l. n. 549 del 1995, sicchè grava sulla parte che invoca una diversa natura dei materiali conferiti (nella specie, la frazione organica stabilizzata – FOS – e i sovvalli) al fine di ottenere l'esenzione o l'imposizione agevolata – quest'ultima prevista, "per gli scarti ed i sovvalli di impianto di selezione automatica, riciclaggio e compostaggio, nonché per i fanghi anche palabili", nella misura pari al 20 per cento dell'ammontare fissato in via ordinaria – l'onere di provare la effettiva natura degli stessi (Sez. T, n. 13120/2016, Botta, Rv. 640150). Se il Comune, attivata la raccolta differenziata, abbia deliberato, in forza dell'art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, l'assimilazione degli imballaggi secondari ai rifiuti urbani, il contribuente, che abbia provveduto all'avviamento e al recupero degli stessi, dimostrando l'effettività e la correttezza delle relative operazioni attraverso valida documentazione comprovante il loro conferimento a soggetti autorizzati, ha diritto, ai sensi dell'art. 21, comma 7, del d.lgs. cit., all'esonero dalla privativa comunale, che si rapporta non già alla diminuzione della superficie tassabile, prevista dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993 per la produzione di rifiuti speciali non assimilabili o non assimilati, ma ad una riduzione tariffaria in concreto, in base a criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero (Sez. T, n. 06359/2016, Chindemi, Rv. 639567). Infatti, i rifiuti degli imballaggi terziari, nonché quelli da imballaggi secondari (nel regime applicabile ratione temporis fino all'abrogazione del d.lgs. n. 22 del 1997 per effetto dell'art. 264 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), non possono essere assimilati dai comuni ai rifiuti solidi urbani ove non sia attivata la raccolta differenziata, ma ad essi si applica la disciplina stabilita per i rifiuti speciali dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993, il quale rapporta la tassa alle superfici dei locali occupati o detenuti, stabilendo l'esclusione della sola parte della superficie in cui, per struttura e destinazione, si formino esclusivamente rifiuti speciali (Sez. T, n. 04793/2016, Rv. 639127). 510 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI 1.2. La TARI. A decorrere dal 1° gennaio 2014, la TARI ha sostituito i preesistenti tributi dovuti ai comuni dai cittadini, enti ed imprese, quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (noti in precedenza con gli acronimi di TARSU e, successivamente di TIA e TARES), conservandone, peraltro, la medesima natura tributaria, quale entrata pubblica costituente "tassa di scopo", che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale, con ripartizione dell'onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio, senza alcun rapporto sinallagmatico tra le prestazioni da cui scaturisce l'onere ed il beneficio che il singolo riceve. La Corte, Sez. T, n. 10787/2016, Bruschetta, Rv. 639990, ha precisato che la tarrifa di igiene ambientale (TIA) rappresenta una mera variante della TARSU, sicchè è applicabile ai soli rifiuti urbani e grava sul contribuente l'onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione, desumibile dal regime delineato dall'art. 49 d.lgs. n. 22 del 1997, in caso di produzione di rifiuti assimilati e smaltiti in proprio. 2. L'ICI e l'obbligo di denuncia. In tema di ICI, gli interventi della Corte nel 2016 hanno riguardato vari aspetti dell'istituto, sia con riferimento alla determinazione della base imponibile, sia in relazione all'applicazione dell'imposta in fattispecie peculiari. L'ICI è un tributo locale che ha come presupposto impositivo la proprietà di fabbricati e terreni agricoli ed edificabili. Relativamente al soggetto passivo, Sez. T, n. 25152/2016, Botta, Rv. in corso di massimazione, ha chiarito che le società di cartolarizzazione, essendo mere società veicolo, incaricate soltanto degli adempimenti necessari alla proficua vendita degli immobili, non sono soggette all'imposta, che continua a gravare sul'ente proprietario e gestore. Il contribuente è obbligato a denunciare il posesso dei beni, ovvero dichiarare le variazioni degli immobili già dichiarati qualora incidenti sulla determinazione dell'imposta. Il comune può sostituire il sistema della "dichiarazione denuncia" con quello della comunicazione per ragioni di semplificazione. Infatti, l'art. 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 attribuisce ai comuni il potere di determinare alcuni aspetti dell'imposta, tra cui la previsione del termine di decadenza per l'esercizio del potere di accertamento. A tale riguardo, la Corte ha ritenuto legittima e non in contrasto con lo Statuto del contribuente la delibera municipale 511 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI recante la fissazione di un termine più lungo di quello fissato dall'art. 11 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,, il quale non operi retroattivamente e sia giustificata dalla semplificazione collegata alla sostituzione del sistema della "dichiarazione denuncia" con quello della comunicazione (Sez. T, n. 14908/2016, Stalla, Rv. 640826). Con riferimento all'obbligo di denuncia, l'art. 37, comma 53, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. nella l. 4 agosto 2006, n. 248, ha fatto salvo l'obbligo di denunciare le variazioni soggettive ed oggettive incidenti sulla determinazione dell'imposta degli immobili già dichiarati e comportanti riduzioni d'imposta, ex art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 504 del 1992, entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno cui le variazioni si sono avverate. Secondo la Corte l'obbligo non cessa allo scadere di tale termine, ma permane sino al momento in cui la dichiarazione non sia presentata, determinando per ciascun anno d'imposta un'autonoma violazione, punibile ai sensi dell'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992 (Sez. T, n. 19877/2016, De Masi, Rv. 641254). Tali variazioni non sono conoscibili per via officiosa dal comune, sicchè, in questi casi, l'ente impositore è esonerato dall'onere di accertamento degli eventi che giovino al contribuente, al quale, in assenza della denuncia, non surrogabile da eventuali forme di pubblicità, non può essere riconosciuto alcun beneficio (Sez. 6- T, n. 17562/2016, Napolitano, Rv. 640990). Non vi è dubbio che in caso di omessa denuncia da parte del contribuente, resta possibile per l'ente impositore acquisire conoscenza della sussistenza del presupposto impositivo riguardo all'individuazione del soggetto passivo d'imposta solo attraverso la pubblicità immobiliare (Sez. 6-T, n. 19145/2016, Napolitano, Rv. 641106). L'omessa denuncia di un immobile, secondo la Corte, deve essere sanzionata per tutte le annualità per cui si protrae in quanto, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, a ciascuno degli anni solari corrisponde un'autonoma obbligazione che rimane inadempiuta non solo per il versamento dell'imposta ma anche per l'adempimento dichiarativo, fermo restando che, trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in periodi d'imposta diversi, si applica la sanzione base aumentata dalla metà al triplo, secondo l'istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997 (Sez. T, n. 18230/2016, Solaini, Rv. 641050). Con riferimento alla motivazione dell'atto di accertamento, la Corte ha chiarito che lo stesso non può limitarsi a contenere indicazioni generiche sul valore dei beni, ancorchè il Comune possa 512 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI legittimamente scegliere la stima diretta che trova concreta attuazione nel confronto tra prezzi unitari di beni analoghi o assimilabili desunti dagli atti di compravendita, essendo necessario che sia specificato a quale presupposto la modifica del valore dell'immobile deve essere associata, dovendo recare l'individuazione di tali fabbricati, del loro prezzo unitario, anche con riferimento a beni analoghi. (Sez. T, n. 25709/2016, Chindemi, in corso di massimazione). 2.1. Le esenzioni. La Corte è intervenuta a disciplinare l'ambito applicativo delle esenzioni in tema di imposta comunale sugli immobili, stabilendo che ai fini del trattamento esonerativo rileva l'oggettiva classificazione catastale dell'immobile, per cui l'immobile iscritto come "rurale", con attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10) non è soggetto all'imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1-bis, del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14, e dall'art. 2, comma 1, lett.a) del d.lgs. n. 504 del 1992, mentre, qualora, lo stesso sia iscritto in una diversa categoria catastale, è onere del contribuente, che pretenda l'esenzione, impugnare l'atto di classamento, fermo restando, invece, che se il fabbricato non risulti iscritto in catasto e il contribuente agisca per ottenere il rimborso dell'imposta, l'accertamento della ruralità può essere immediatamente compiuto dal giudice, ma incombe al contribuente dimostrare la sussistenza dei requisiti ex art. 9 del d.l. n. 557 del 1993 (Sez. T, n. 07930/2016, Zoso, Rv. 639626). Il trattamento agevolato di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992, per i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli a titolo principale, spetta solo a quanti traggono dal lavoro agricolo la loro prevalente fonte di reddito e non va, quindi, riconosciuto al contribuente che, pur lavorando il fondo come coltivatore diretto, sia proprietario di numerosi immobili condotti in locazione, il cui reddito complessivo sia superiore a quello derivante dal fondo (Sez. T, n. 13391/2016, Meloni, Rv. 640152). In sostanza, il trattamento agevolato, previsto dall'art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992 per i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli a titolo principale spetta esclusivamente a coloro che nell'anno di imposta siano effettivamente iscritti negli elenchi dei coltivatori diretti ( Sez. T, n. 16485/2016, Bruschetta, Rv. 640776). La ricorrenza dei requisiti della qualifica è desumibile dall'iscrizione negli appositi elenchi presso l'I.N.P.S. e dalla conduzione diretta dei terreni, che, invece, 513 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI deve essere provata in via autonoma dal contribuente (Sez. T, n. 19130/2016, Zoso, Rv. 641103). Molte le decisioni riguardanti l'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 504 del 1992, con riferimento alla quale si è tenuto a precisare che trattasi di una norma agevolatrice, di stretta interpretazione, sicchè non può essere applicata ad una società di capitali, ancorchè costituita tra enti pubblici per lo smaltimento di rifiuti, non ricadendo tale soggetto nell'elencazione tassativa ivi prevista (Sez. T, n. 08869/2016, Chindemi, Rv. 639651). L'esenzione dall'imposta, prevista dall' art. 7, comma 1, lett. i) cit. spetta anche ove il bene non sia stato utilizzato, purchè ciò sia avvenuto per una causa che non abbia comportato la cessazione della sua strumentalità rispetto all'esercizio delle attività protette, non potendo rilevare come elemento ostativo ai fini del riconoscimento del beneficio un concetto quantitativo di utilizzo del tutto estraneo alla previsione normativa (Sez. T, n. 20515/2016, Botta, Rv. 641286). Le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lett.a) ed i) del d.gls. n. 504 del 1992 non si applicano agli immobili di proprietà del Fondo edifici di culto, locati a terzi, in quanto, ai fini in esame, non ha alcuna rilevanza la natura giuridica dell'ente e la sua qualità di soggetto passivo di imposizione astrattamente possibile destinatario dell'una o dell'altra esenzione ma il fatto che, in concreto, l'utilizzo degli immobili de quibus non risponda alle condizioni previste dalla legge per l'operatività delle esenzioni medesime, risultando, di conseguenza, irrilevante anche che, i proventi della locazione siano poi destinati alle attività istituzionali dell'ente (Sez. 6-T, n. 13542/2016, Caracciolo, Rv. 640346). Lo svolgimento esclusivo nell'immobile (nella specie, di proprietà di ente ecclesiastico) di attività di assistenza o di altre attività equiparate, senza le modalità di una attività commerciale, costituisce il requisito oggettivo necessario ai fini dell'esenzione dall'imposta, che va accertato in concreto, con criteri di rigorosità, seguendo le indicazioni della circolare ministeriale n. 2/DF del 2009 e, dunque, verificando determinate caratteristiche della "clientela" ospitata, della durata dell'apertura della struttura e soprattutto, dell'importo delle rette, che deve essere significativamente ridotto rispetto ai "prezzi di mercato", onde evitare un'alterazione del regime di libera concorrenza e la trasformazione del beneficio in aiuto di Stato (Sez. T, n. 13970/2016, Botta, Rv. 640244). L'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504 del 1992 spetta soltanto se l'immobile viene impiegato direttamente 514 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI dall'ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, sicchè l'utilizzatore, in virtù di concessione o locazione, da parte di un soggetto diverso da quello a cui spetta l'esenzione preclude l'agevolazione, restandone esclusa, in radice, la destinazione allo svolgimento dei compiti istituzionali (Sez. T, n. 10483/2016, Zoso, Rv. 639985), rilevando in tale ipotesi l'utilizzo a fini di lucro da parte del proprietario, a prescindere dall'attività posta in essere al suo interno dal conduttore e dalle modalità di reimpiego dei canoni riscossi (Sez. T, n. 08870/2016, Chindemi, Rv. 639648).L'indirizzo interpretativo è applicabile anche in caso di comodato, in quanto il regime agevolativo spetta soltanto se l'immobile viene impiegato direttamente dall'ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, sicchè l'utilizzazione, in virtù di un contratto di comodato, da parte di un soggetto diverso (nella specie, un'associazione sportiva) da quello a cui spetta l'esenzione, anche se senza scopo di lucro e con destinazione di pubblico interesse, esclude l'agevolazione, essendo necessario che il bene, oltre ad essere utilizzato, sia anche posseduto dall'ente commerciale che ne fruisce, in ragione di un diritto di proprietà o di altro diritto reale (Sez. T, n. 14912/2016, Solaini, Rv. 640827). Per gli immobili di interesse storico ed artistico appartenenti ad enti pubblici è previsto un sistema di tutela reale, ai fini delle esenzioni, in quanto vige la presunzione di interesse storico artistico di tali beni, ex art. 12, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, senza necessità di un preesistente formale provvedimento amministrativo, atteso che pur richiedendo l'effettiva sussistenza dell'interesse culturale del bene una verifica a cura del Ministero competente, il provvedimento positivo così adottato ha carattere ricognitivo, in funzione dell'assolvimento di esigenze di certezza dei rapporti giuridici, in ispecie di quelli tributari (Sez. T, n. 19878/2016, De Masi, Rv. 641259). In caso di errato classamento, gli immobili erroneamente classificati in una categoria non conforme alla destinazione d'uso, non possono essere esentati da imponibilità ove l'errore sia stato determinato da un omissione del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare l'effettivo utilizzo del cespite, non essendo onere dell'ente impositore richiedere all'ufficio competente le modifiche della rendita preesistente nell'ipotesi di negligenza del soggetto per legge onerato (Sez. T, n. 01704/2016, Botta, Rv. 638765). In tema di esenzione dal pagamento dell'imposta l'indirizzo prevalente esclude l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali ad 515 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI un fabbricato, ove ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all'art. 817 c.c., restando irrilevante il regime di edificabilità attribuito dallo strumento urbanistico all'area pertinenziale nella ricorrenza di un effettivo asservimento della stessa all'immobile principale (Sez. 6-T, n. 01390/2016, Conti, Rv. 638623). L'esenzione si basa su un criterio oggettivo e fattuale, ossia sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra, e quello soggettivo, consistente nella volontà di dar vita ad un vincolo di accessorietà durevole, senza che rilevi l'intervenuta graffatura catastale, che ha esclusivo rilievo formale, sicchè, anche in tale ipotesi, permane a carico del contribuente l'onere di provare la ricorrenza in concreto dei predetti presupposti (Sez. T, n. 18470/2016, Sabato, Rv. 640976). Molto interessante la pronuncia della Sez. 6-T, n. 19041/2016, Crucitti, Rv. 641107, in tema di applicabilità dell'imposta con riferimento ad immobili sottoposti a procedura espropriativa. La Corte ha affermato che l'occupazione temporanea d'urgenza di un terreno da parte della P.A. non priva il proprietario del possesso del bene fino a quando non intervenga il decreto di esproprio (o comunque ablazione) del fondo, sicchè egli resta soggetto passivo dell'imposta, ancorchè l'immobile sia detenuto dall'occupante. 2.2. L'ICI e le aree demaniali. La Corte è intervenuta per definire l'ambito di applicabilità della disciplina con riferimento a costruzioni realizzate su aree demaniali. Se il concessionario di un bene demaniale ottenga anche il riconoscimento della facoltà di edificare e mantenere sul bene una costruzione più o meno stabile, consistente in opere edilizie o assimilate, si configura una vera e propria proprietà superficiaria, sia pure avente carattere temporaneo e soggetta a peculiare regolamentazione quanto alla sua costituzione ed alla sua estinzione, con la conseguenza che è tenuto al pagamento dell'imposta (Sez. 6-T, n. 00263/2016, Cicala, Rv. 638821). In particolare, nel caso di assegnazione di un'area demaniale per la costruzione di un opificio industriale, per stabilire se il provvedimento amministrativo, qualificabile come concessione ad aedificandum, sia costitutivo di un diritto reale di superficie, con conseguente imponibilità, ovvero di un diritto meramente personale, assume rilievo decisivo la destinazione dell'opera costruita dal concessionario al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del concedente, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in 516 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI proprietà del concessionario, ha sicuramente la natura reale del diritto di superficie, con conseguente applicabilità dell'imposta (Sez. T, n. 12798/2016, Chindemi, Rv. 640162). 2.3. ICI e strumenti urbanistici. La pronuncia Sez. 6-T, n. 12377/2016, Caracciolo, Rv. 640026, ha affrontato la questione del rapporto tra l'ICI e l'adozione di strumenti urbanistici, stabilendo che, a seguito dell'entrata in vigore degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l. n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella l. n. 248 del 2006, che hanno fornito l'interpretazione autentica dell'art. 2, comma 1, lett.b), del d.lgs. n. 504 del 1992, l'edificabilità di un'area, ai fini della determinazione della base imponibile da affettuare in base al valore venale e non a quello catastale, deve essere desunta dalla qualificazione attribuitale nel piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione dello stesso da parte della Regione e dall'adozione di strumenti urbanistici attuativi, salva, però, la necessità di valutare la maggiore o minore attualità delle potenzialità edificatorie dell'immobile, nonché la possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione attuativi in ragione delle concrete condizioni esistenti al momento dell'imposizione. 2.4. ICI e piattaforme petrolifere. Merita menzione la pronuncia Sez. T, n. 03618/2016, Chindemi, Rv. 639035, secodo cui sono sottoposte all'imposta e classificabili nella cat. D/7, attesa la loro riconducibilità al concetto d'immobile ai fini civili e fiscali, suscettibilità di accatastamento e idoneità a produrre reddito proprio, le piattaforme petrolifere, la cui base imponibile, in mancanza di rendita catastale, è costituita, secondo i criteri stabiliti nell'art. 7, comma 3, penultimo periodo, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in l. 8 agosto 1992, n. 359, dall'ammontare, al lordo delle quote di ammortamento, che risulta dalle scritture contabili. 517 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE CAPITOLO XXIX LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. Il credito d'imposta ex art. 8 della l. n. 388 del 2000. – 2. Le associazioni non lucrative. – 3. L'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000. – 4. Le fondazioni bancarie. – 5. La piccola proprietà contadina. – 6. I beni culturali. – 7. L'art. 19 della l. 6 marzo 1987, n. 74. – 8. Gli enti ospedalieri. – 9. Le zone terremotate. - 10. Recupero degli aiuti di Stato incompatibili con il diritto comunitario: la determinazione degli interessi dovuti. 1. Il credito d'imposta ex art. 8 della l. n. 388 del 2000. Il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. 23 dicembre 2000, n. 388 è riconosciuto per l'intero costo dell'investimento solo se, in applicazione del criterio del rapporto d'inerenza previsto dagli art. 75 (ora 109) e 121-bis (ora 164) del d.P.R. n. 917 del 1986, il contribuente provi l'esclusiva strumentalità del bene acquistato (nella specie, un autoveicolo) all'esercizio dell'impresa, a prescindere dall'esistenza di mere indicazioni formali di qualità (nella specie, risultanti dal libretto di circolazione a fronte del suo uso per trasporto promiscuo di cose e persone): Sez. T, n. 01691/2016, Virgilio, Rv. 638736. Il principio è stato ribadito da Sez. T, n. 20143/2016, De Masi, Rv. 641248, per cui, in tema di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. n. 388 del 2000 è riconosciuto solo se il contribuente dimostra l'esclusiva strumentalità del bene acquistato all'esercizio dell'impresa. La fruizione del credito di imposta, secondo il regime originario di ammissione previsto dall'art. 8 della l. n. 388 del 2000, richiede che l'acquisto della proprietà dei nuovi beni sia anteriore all'8 luglio 2002, senza che possa, quindi, rilevare – come chiarito da Sez. T, n. 20144/2016, De Masi, Rv. 641185 - né la stipula di un contratto preliminare né il versamento di una caparra, aventi effetti meramente obbligatori tra le parti. Il beneficio del credito d'imposta in esame è stato, in particolare, riconosciuto da Sez. T, n. 18072/2016, Schirò, Rv. 640964, per l'acquisto di targhe ed insegne, da considerare beni strumentali, inerenti e fiscalmente ammortizzabili, atteso che le spese di pubblicità perseguono lo scopo d'incrementare la produttività aziendale e possono determinare utilità che si propagano nei successivi esercizi. 518 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE Il credito d'imposta previsto dall'art. 8 della l. n. 388 del 2000 spetta anche per gli investimenti consistenti in spese incrementative di beni non di proprietà dell'impresa - che li utilizza in virtù di un contratto di locazione o di comodato - purché le opere abbiano una loro individualità ed autonoma funzionalità, al termine del periodo di locazione o di comodato possano essere rimosse dall'utilizzatore ed avere un impiego a prescindere dal bene a cui accedono e siano iscritte in bilancio tra le "immobilizzazioni materiali"; viceversa, qualora si tratti di opere non separabili dal bene altrui (come, nell'ipotesi dell'ampliamento di un fabbricato insistente su area di proprietà di terzi), devono essere iscritte tra le "immobilizzazioni immateriali" e – secondo Sez. T, n. 15572/2016, Locatelli, Rv. 640636 - non possono beneficiare dell'agevolazione, trattandosi di costi e non di beni. Il beneficio del credito d'imposta ex art. 8, comma 2, della l. n. 388 del 2000 sorge solo con l'inizio dei lavori di costruzione del fabbricato strumentale all'esercizio dell'impresa, non essendo, invece, sufficiente – secondo Sez. T, n. 20142/2016, De Masi, Rv. 641247 - il mero acquisto dell'area edificabile destinata ad ospitarlo, in quanto, dovendo i beni oggetto dell'agevolazione entrare in funzione entro il secondo periodo d'imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione, il costo dell'area ove deve essere realizzato il fabbricato strumentale è legato alla sorte di quest'ultimo. Ai sensi dell'art. 8, comma 7, della l. n. 388 del 2000, il contribuente che non ponga in funzione i beni entro il secondo periodo di imposta successivo a quello della loro acquisizione, o ultimazione, o dismetta i beni acquisiti entro il quinto periodo d'imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni stessi è tenuto a rideterminare il credito di imposta ed a versare l'imposta indebitamente portata in compensazione entro il termine per il versamento a saldo dell'imposta sui redditi dovuta per il periodo in cui si verificano tali ipotesi, dal quale decorre il termine per l'esercizio del potere di accertamento dell'Ufficio relativamente all'inadempimento dell'obbligazione tributaria di versamento dell'imposta indebitamente portata in compensazione (così. Sez. T, n. 15192/2016, Zoso, Rv. 640642). La norma antielusiva di cui all'art. 8, comma 7, della legge n. 388 del 2000, secondo la quale il recupero del credito è possibile se, entro il quinto periodo di imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione, i beni sono dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa ovvero destinati 519 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE a strutture produttive diverse da quelle che hanno diritto all'agevolazione, non si applica – secondo Sez. T, n. 15193/2016, Zoso, Rv. 640993, - in caso di trasferimento del bene in un luogo diverso da quello originariamente indicato dal contribuente, ma pur sempre nell'ambito della stessa struttura produttiva (intesa in senso economico funzionale), attesa la finalità perseguita di evitare l'immissione temporanea dei beni nell'impresa al solo fine di fruire dell'agevolazione, per cui la dislocazione dei beni nei cantieri edili, ove viene esercitata l'attività di impresa, non determina il venir meno del beneficio, salvo il caso in cui il cantiere assurga ad autonoma struttura produttiva dotata di autonomia gestionale. La predetta norma trova, invece, applicazione - secondo Sez. T, n. 13422/2016, Stalla, Rv. 640143, - nell'ipotesi di noleggio, da equiparare alla cessione a terzi, atteso che pure in tale evenienza viene meno la ratio del beneficio, che comporta la necessità che i beni vengano utilizzati dall'acquirente, ammesso al regime di favore, all'interno della sua struttura produttiva, operante in area svantaggiata. L'azione di recupero del credito di imposta, concesso ai sensi dell'art. 8 della l. n. 388 del 2000, è sottoposta ad un termine di decadenza, che non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il potere di accertamento dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre il dies a quo va individuato nel momento dell'effettivo utilizzo del credito: Sez. T, n. 15186/2016, Botta, Rv. 640824. Sul piano procedurale, particolarmente interessante è Sez. T, n. 18450/2016, Luciotti, Rv. 641058, per la quale l'omissione della prescritta comunicazione dell'avvio del procedimento volto ad addivenire alla revoca del credito d'imposta di cui alla l. 27 dicembre 1997, n. 449 per incrementi occupazionali determina l'invalidità del provvedimento adottato, per violazione del principio generale di cui all'art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, qualora, senza quella irregolarità e sulla base delle allegazioni del contribuente, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la legittimità dell'avviso di recupero, nonostante l'omessa attivazione del contradditorio preventivo, in ragione dell'ineludibile emissione dell'atto di revoca, anche a seguito di preventiva informativa). 2. Le associazioni non lucrative. Secondo Sez. T, n. 16449/2016, Cirillo, Rv. 640774, l'esenzione d'imposta prevista dall'art. 111 (ora 148) del d.P.R. n. 917 del 1986 in favore delle 520 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE associazioni non lucrative dipende non dall'elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma dall'effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell'affiliazione alle federazioni sportive ed al Coni. 3. L'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000. Il beneficio dell'assoggettamento all'imposta di registro nella misura dell'1 per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, previsto dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, vigente ratione temporis, per i trasferimenti d'immobili situati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati, si applica a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga, entro cinque anni dall'acquisto, ad opera dello stesso acquirente. Ne consegue che, come ritenuto da Sez. T, n. 10203/2016, Zoso, Rv. 639772, il beneficio non spetta ove le opere di urbanizzazione, previste dalla convenzione con il Comune, siano già state completate dall'alienante, trattandosi di una disposizione di stretta interpretazione, in quanto ispirata alla ratio di diminuire per l'acquirente il primo costo di edificazione. Il beneficio in esame è volto sia ad agevolare lo sviluppo equilibrato del territorio sia a favorire direttamente, per i favorevoli riflessi economici anche collettivi, l'attività edificatoria di aree e lotti inutilizzati. Ne consegue che, ai fini dell'agevolazione tributaria prevista dall'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, il concetto di "utilizzazione edificatoria" consiste – ha chiarito Sez. T, n. 13423/2016, Stalla, Rv. 640164 - nella trasformazione dell'immobile per effetto della realizzazione di una nuova costruzione, ed include anche l'ipotesi in cui sul terreno acquistato, e successivamente edificato, insista un manufatto ancora privo dei requisiti civilistici minimi per essere considerato edificio esistente, sebbene al grezzo o rustico (nella specie, privo di solaio, soffitta, copertura, muri perimetrali). I presupposti dell'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000 (vigente ratione temporis), quale beneficio accordato in dipendenza dell'adozione di un facere del contribuente, costituito dall'edificazione nel quinquennio, devono essere tutti univocamente indicati nell'atto di trasferimento, al fine sia di predeterminare con certezza il regime fiscale dell'atto, con l'individuazione degli elementi costitutivi del rapporto tributario, sia, al contempo, di porre l'amministrazione in 521 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE condizione di verificare l'effettiva sussistenza: Sez. T, n. 14891/2016, Stalla, Rv. 640664. Infine, secondo Sez. T, n. 14892/2016, Stalla, Rv. 640639, il beneficio di cui all'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, si applica anche qualora l'edificazione, che costituisce un obbligo di facere del contribuente, non sia realizzata nei termini di legge purché tale esito derivi non da un comportamento direttamente o indirettamente ascrivibile all'acquirente, tempestivamente attivatosi, ma per una causa esterna, imprevedibile ed inevitabile, tale da configurare la forza maggiore (nella specie, la sospensione, da parte dell'autorità amministrativa, della pratica per la concessione edilizia, in attesa della definizione di un contenzioso con altri soggetti). Sez. 6-T, n. 27080/2016, Solaini, in corso di massimazione, ha ritenuto che, nel caso in cui la perdita del beneficio fiscale non deve essere comunicata, ex art. 19 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, con atto registrato, il termine di decadenza per l'ufficio dal potere impositivo di recupero delle agevolazioni fiscali, illegittimamente ottenute, per inadempimento dell'art. 33, comma 3, della l. n. 388 del 2000, non è quello quinquennale di cui al primo comma dell'art. 76 del d.P.R. n. 131 cit, proprio degli atti soggetti a registrazione ma non registrati, ma quello triennale di cui al comma 2 del medesimo art. 76, concernente il mancato avveramento della condizione di edificazione per conservare i benefici, che comunque, era stata dichiarata in un atto registrato. 4. Le fondazioni bancarie. Le fondazioni bancarie, quali enti di gestione della quota maggioritaria del capitale delle aziende di credito conferite in apposite società per azioni ai sensi del d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, non possono essere assimilate agli enti ed istituti aventi finalità generali di assistenza, beneficenza, istruzione e cultura, ai quali l'art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 riconosce il beneficio della riduzione a metà dell'aliquota sull'IRPEG. L'esistenza, in capo a tali fondazioni, di una presunzione di esercizio di impresa bancaria comporta, infatti - ha ritenuto Sez. T, n. 07882/2016, Locatelli, Rv. 639701, - che esse, ove intendano beneficiare dell'agevolazione fiscale prevista dall'art. 6 cit., devono fornire la prova, in applicazione della regola generale prevista dall'art. 2697 c.c., di aver svolto, in via esclusiva o prevalente, un'attività di promozione sociale e culturale senza fini di lucro, in luogo di quella, prevista dal legislatore, di controllo e governo delle partecipazioni bancarie. 522 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE 5. La piccola proprietà contadina. Il contribuente che intenda fruire dei benefici per la piccola proprietà contadina e che all'atto della registrazione si sia limitato a produrre l'attestazione di cui all'art. 4, comma 1, della l. 6 agosto 1954, n. 604, in luogo del certificato previsto dall'art. 3, è tenuto – secondo Sez. 6-T, n. 15489/2016, Conti, Rv. 640624 - ai sensi dell'art. 4, comma 2, a presentare il certificato dell'ispettorato agrario attestante il possesso dei requisiti prescritti entro il termine, stabilito a pena di decadenza, di tre anni dalla registrazione dell'atto. Sez. 6-T, n. 01565/2016, Caracciolo, Rv. 638625, ha ritenuto che non incorre in alcuna decadenza, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, il coltivatore diretto che prosegua la coltivazione del fondo in veste di socio di nuova società di persone esercente attività agricola, restando indifferente che la coltivazione avvenga nella diretta detenzione di persona fisica o mediata dal socio, qualunque sia la compagine sociale, sicché non si applicano i limiti previsti dall'art. 11 del d.lgs. n. 228 del 2001. 6. I beni culturali. L'esenzione dei beni culturali dall'imposta sulle successioni, prevista dagli artt. 12 e 13 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, non si comunica, secondo Sez. T, n. 02098/2016, Botta, Rv. 638738, anche alle imposte ipotecaria e catastale, essendo diversi il fondamento dei tributi in questione e le ragioni dell'esenzione, atteso che mentre gli artt. 2 e 10 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 individuano la base imponibile dell'imposta ipotecaria e catastale mediante rinvio alla disciplina dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni, il comma 2 dell'art. 2 assoggetta comunque a tassazione il trasferimento (inter vivos o mortis causa) dei beni, rinviando, in caso di esenzione da una delle imposte parametro, al valore virtuale che i beni verrebbero ad assumere rispetto a quest'ultima, indipendentemente dall'esenzione o dalla sua determinazione in maniera fissa. 7. L'art. 19 della l. 6 marzo 1987, n. 74. In tema di benefici fiscali, l'agevolazione di cui all'art. 19 della l. 6 marzo 1987, n. 74, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154), spetta – secondo Sez. T, n. 02111/2016, Napolitano, Rv. 639235 - per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di "negoziazione globale" attribuito alla liquidazione del rapporto 523 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell'ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. nella l. 10 novembre 2014, n. 162), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la spettanza del beneficio rispetto al trasferimento, concordato tra i coniugi, di una porzione di immobile, che, in costanza di matrimonio, era stato dai medesimi acquistato pro quota in regime di separazione dei beni). Tale conclusione è stata affermata anche da Sez. T, n. 13340/2016, Zoso, Rv. 640344, per la quale l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa familiare, in adempimento di una condizione della separazione consensuale, non costituisce atto dispositivo rilevante ai fini della decadenza dai benefici "prima casa", atteso che, pur non essendo essenziale per addivenire alla separazione o al divorzio, è diretto a sistemare globalmente i rapporti fra coniugi, nella prospettiva di una definizione tendenzialmente stabile della crisi, ed è, quindi, un atto relativo a tali procedimenti, che può fruire dell'esenzione di cui all'art. 19 della l. n. 74 del 1987, facendo, tuttavia, salva la contestazione da parte della Amministrazione, onerata della relativa prova, della finalità elusiva. 8. Gli enti ospedalieri. Sez. T, n. 01687/2016, Virgilio, Rv. 638735, ha ritenuto che l'agevolazione della riduzione alla metà dell'IRPEG sancita, per gli "enti ospedalieri", dall'art. 6, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 601 del 1973, espressamente inserita tra quelle di carattere soggettivo, è inapplicabile, pure in via di interpretazione estensiva, alle aziende sanitarie locali costituitesi per effetto del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, non potendo esse, alla stregua del quadro normativo succedutosi nel tempo, equipararsi ai primi, perché assegnatarie, oltre che dell'assistenza ospedaliera, di attività e funzioni nuove e diverse da quelle già di questi ultimi, i quali, peraltro, hanno mantenuto una loro autonomia, o perché costituiti in "aziende ospedaliere" oppure quali "presidi ospedalieri" nell'ambito delle predette a.s.l. 9. Le zone terremotate. L'art. 9, comma 17, della l. 27 dicembre 2002, n. 289 non è applicabile in materia d'IVA atteso che, nel prevedere a beneficio delle persone colpite dal terremoto che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa una riduzione del 90 per cento di tale imposta, normalmente dovuta per 524 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE gli anni 1990, 1991 e 1992, con riconoscimento del diritto al rimborso, in tale proporzione, delle somme già corrisposte, non soddisfa il principio di neutralità fiscale e non consente di garantire la riscossione integrale dell'IVA dovuta nel territorio italiano, sicché si pone in contrasto con l'ordinamento comunitario, come chiarito dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, 15 Luglio 2015, C- 82/14 (Sez. T, n. 18205/2016, Luciotti, Rv. 641051). 10. Recupero degli aiuti di Stato incompatibili con il diritto comunitario: la determinazione degli interessi dovuti. La Corte di giustizia della UE - chiamata a pronunciarsi sulla questione «se l'art. 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE, e gli articoli 9, 11 e 13 del regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento predetto, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una legislazione nazionale che, in relazione ad un'azione di recupero di un aiuto di Stato conseguente ad una decisione della Commissione notificata in data 7 giugno 2002, stabilisca che gli interessi sono determinati in base alle disposizioni del capo V del citato Regolamento n. 794/2004 (cioè, in particolare, agli articoli 9 e 11), e, quindi, con applicazione del tasso di interesse in base al regime degli interessi composti» - con sentenza del 3 settembre 2015, causa C- 89/14, ha dichiarato che «l'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE, nonché gli articoli 11 e 13 del regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento n. 659/1999, non ostano a una normativa nazionale, come l'articolo 24, comma 4, del decreto legge del 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e imprese e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, convertito, con modificazioni, nella legge del 28 gennaio 2009, n. 2, che preveda, tramite un rinvio al regolamento n. 794/2004, l'applicazione di interessi composti al recupero di un aiuto di Stato, sebbene la decisione che ha dichiarato detto aiuto incompatibile con il mercato comune e ne ha disposto il recupero sia stata adottata e notificata allo Stato membro interessato anteriormente all'entrata in vigore di detto regolamento». In conseguenza di tale decisione, Sez. T, n. 23796/2016, Locatelli, in corso di massimazione, ha ritenuto che: 1) il diritto comunitario non pone ostacoli giuridici alla applicazione, da parte degli Stati membri, di interessi composti anche con riguardo al recupero degli aiuti di stato disposti in attuazione di decisioni della Commissione europea notificate in data 525 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE anteriore all'entrata in vigore del Regolamento n. 794/2004; in particolare è conforme al diritto comunitario la norma nazionale di cui all'art. 1, comma 3, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, conv. in l. 6 aprile 2007, n. 46, secondo cui gli interessi dovuti sugli aiuti di Stato dichiarati illegali sono determinati in base al capo V del Regolamento n. 794/20004, che prevede il regime dell'interesse composto; quanto alla data di decorrenza degli interessi il citato art. 1, comma 3, richiama l'art. 24, comma 3, della l. 25 gennaio 2006, n. 29, il quale stabilisce che sono dovuti gli interessi (composti) maturati a partire dalla data in cui le imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro recupero effettivo; 2) la facoltà dello Stato membro di applicazione degli interessi composti deve essere esclusa nella sola ipotesi di "situazioni acquisite", ricorrente nei casi in cui, prima dell'entrata in vigore della norma che prevede l'applicazione degli interessi composti, l'aiuto di stato illegittimo sia stato già stato interamente recuperato ovvero sia già stato emesso l'atto di recupero con applicazione dei soli interessi semplici. Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 23949/2016, Virgilio, in corso di massimazione, la quale, in particolare, ha ritenuto che: a) per le decisioni di recupero notificate in data anteriore all'entrata in vigore del regolamento (CE) n. 794/2004, spetta soltanto agli Stati membri la scelta circa il metodo di calcolo degli interessi (se su base semplice o composta); b) l'unico limite all'esercizio di tale facoltà è costituito dal rispetto dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento; c) questi ostano all'applicazione di un regolamento alle situazioni «acquisite» prima della sua entrata in vigore, ma non agli effetti futuri di situazioni sorte sotto la vigenza della disciplina anteriore; d) per situazioni «acquisite» devono intendersi, quanto alla materia de qua, sia quelle in senso stretto esaurite, cioè i casi in cui l'aiuto illegittimo sia stato già definitivamente recuperato alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, sia quelle nelle quali, alla stessa data, sia già stato emesso l'avviso di accertamento, idoneo ad ingenerare il legittimo affidamento del contribuente nell'applicazione della normativa previgente. In definitiva, gli avvisi di accertamento emessi sulla base della scelta, operata dal legislatore italiano con l'art. 24, comma 4, del d.l. 526 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. 28 gennaio 2009, n. 2) — e già con l'art. 1, comma 3, del d.l. n. 10 del 2007 (convertito dalla legge n. 46 del 2007) -, di applicare, per il recupero degli aiuti in esame, il metodo di calcolo degli interessi su base composta, «maturati dalla data in cui le imposte non versate sono state messe a disposizione dei beneficiari fino alla data del loro recupero effettivo» (secondo la disciplina dettata dal richiamato art. 24 della legge n. 29 del 2006), devono ritenersi, sotto tale profilo, legittimi. 527 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE CAPITOLO XXX LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. Profili sostanziali. – 2. Profili procedurali. – 3. Profili processuali – 4. Notifica e contenuto della cartella esattoriale. – 5. Definitività della cartella e prescrizione. – 6. Il rimborso delle imposte. – 6.1. – Termine di decadenza e prescrizione. – 6.2. Contestazione del credito. – 6.3. Ritardato adempimento dell'Amministrazione finanziaria. 1. Profili sostanziali. La cartella esattoriale non è un atto esecutivo ma preannuncia l'esercizio dell'azione esecutiva ed è, pertanto, parificabile al precetto, sicché – secondo Sez. 6-T, n. 15966/2016, Caracciolo, Rv. 640644 - è inapplicabile l'art. 2304 c.c. che disciplina il beneficium excussionis relativamente alla sola fase esecutiva. La notifica alla società di persone della cartella di pagamento concernente il debito sociale, che è debito anche dei soci, interrompe, ai sensi dell'art. 1310 c.c., la prescrizione nei confronti di questi ultimi, purché sia avvenuta entro il termine decennale di prescrizione di cui all'art. 2935 c.c., che decorre da quando il pregresso atto impositivo sia divenuto definitivo: Sez. T, n. 16712/2016, Marulli, Rv. 641071. 2. Profili procedurali. Sez. T, n. 13759/2016, Luciotti, Rv. 640341, ha ribadito il principio per cui, in materia di riscossione, ai sensi degli artt. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l'invio al contribuente della comunicazione di irregolarità, al fine di evitare la reiterazione di errori e di consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, è dovuto solo ove dai controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione ovvero un'imposta o una maggiore imposta e, comunque, la sua omissione determina una mera irregolarità e non preclude, una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della sanzione, mentre tale adempimento non è prescritto in caso di omessi o tardivi versamenti, ipotesi in cui, peraltro, non spetta la riduzione delle sanzioni amministrative ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462. La cartella emessa ex art. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 non ha natura impositiva poiché deriva da una mera liquidazione dei tributi 528 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE già esposti dal contribuente e, con riferimento alle sanzioni, da un riscontro meramente formale dell'omissione. Ne consegue che, nel caso in cui dai dati esposti dal contribuente emerga un tardivo versamento delle ritenute operate, incombe sullo stesso l'onere di dimostrare l'erroneità della dichiarazione, mediante prova della data effettiva e della tempestività dei pagamenti delle retribuzioni e delle contestuali ritenute: Sez. T, n. 00548/2016, Iannello, Rv. 638334. La cartella di pagamento emessa all'esito di un procedimento di controllo cd. formale o automatizzato, a cui l'Amministrazione finanziaria ha potuto procedere attingendo i dati necessari direttamente dalla dichiarazione, può essere motivata con il mero richiamo a tale atto, atteso che il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa, anche qualora si richiedano somme maggiori di quelle risultanti dalla dichiarazione: Sez. T, n. 15564/2016, Iannello, Rv. 640655. In caso di liquidazione in esito a controllo di dichiarazioni secondo procedure automatizzate, occorre l'instaurazione del contraddittorio prima dell'iscrizione a ruolo soltanto quando emergano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, come ha ritenuto Sez. 6-T, n. 15740/2016, Conti, Rv. 640654. L'ingiunzione fiscale, anche dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, ha conservato funzione accertativa in quanto atto complesso volto a portare a conoscenza del debitore la pretesa fiscale ed a formare il titolo, autonomamente impugnabile, per la successiva esecuzione forzata, sicché – secondo Sez. T, n. 18490/2016, Zoso, Rv. 640975 - non deve essere preceduta dalla previa formazione del ruolo perché non è atto della riscossione. Quanto, infine, al pagamento rateale ex art. 3-bis del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, nel testo in vigore ratione temporis, l'inidoneità della polizza fideiussoria tempestivamente depositata non legittima l'iscrizione a ruolo dell'intero importo ove l'ufficio, comunicando l'accoglimento della relativa istanza, abbia ingenerato nel contribuente la legittima aspettativa di poterla sostituire: Sez. 6-T, n. 14078/2016, Caracciolo, Rv. 640383. 3. Profili processuali. La domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d'ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 26 quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in l. 4 agosto 2006, n. 248, non può essere respinta dal giudice ordinario a ragione della devoluzione al giudice tributario della pretesa a cautela della quale 529 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE l'ipoteca è stata iscritta, poiché – ha ritenuto Sez. U, n. 11379/2016, De Stefano, Rv. 639974 - tale pretesa è solo il presupposto di legittimità della condotta del concessionario e riguarda una questione pregiudiziale conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta la domanda principale risarcitoria. 4. Notifica e contenuto della cartella esattoriale. La cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1° giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che l'art. 36, comma 4 ter, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito nella l. 28 febbraio 2008, n. 31, ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008, né è annullabile, essendo la disposizione di cui all'art. 7 della l. n. 212 del 2000 priva di sanzione e, trovando applicazione l'art. 21 octies della l. n. 241 del 1990, che esclude tale esito ove il provvedimento, adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, per la natura vincolata dello stesso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato: Sez. 6-T, n. 00332/2016, Caracciolo, Rv. 638705. La notifica della cartella di pagamento può essere eseguita, ai sensi dell'art. 26, comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, e trovano, in tal caso, applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della l. 20 novembre 1982, n. 890. In applicazione dell'anzidetto principio, Sez. 6-T, n. 12083/2016, Conti, Rv. 640025, ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito ha ritenuto invalida la notifica della cartella sull'erroneo presupposto che, essendo stata ricevuta dal portiere, occorresse, a norma dell'art. 139 c.p.c., l'invio di una seconda raccomandata. La nullità della notifica della cartella esattoriale, atto avente duplice natura di comunicazione dell'estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e all'atto di precetto nel rito ordinario, è suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo ai sensi degli artt. 156 e 160 c.p.c., atteso l'espresso richiamo, operato dall'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, alle norme sulle notificazioni del codice di rito: Sez. T, n. 00384/2016, Locatelli, Rv. 638250. 530 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE 5. Definitività della cartella esattoriale e prescrizione. Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv in corso di massimazione, ha stabilito che la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non produce anche l'effetto della c.d. "conversione" del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c.", affermando espressamente che tale principio si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione coattiva, ivi compresi quelli relativi a crediti tributari, con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo. 6. Il rimborso delle imposte. 6.1. Termine di decadenza e prescrizione. Il termine di decadenza per la presentazione dell'istanza di rimborso delle imposte sui redditi in caso di versamenti diretti, previsto dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 (il quale concerne tutte le ipotesi di contestazione riguardanti i detti versamenti), decorre, nella ipotesi di effettuazione di versamenti in acconto, dal versamento del saldo solo nel caso in cui il relativo diritto derivi da un'eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto all'ammontare del tributo che risulti al momento del saldo complessivamente dovuto, oppure rispetto ad una successiva determinazione in via definitiva dell'an e del quantum dell'obbligazione fiscale, mentre - ha sostenuto Sez. 6-T, n. 14868/2016, Crucitti, Rv. 640667 - non può che decorrere dal giorno dei singoli versamenti in acconto nel caso in cui questi, già all'atto della loro effettuazione, risultino parzialmente o totalmente non dovuti, poiché in questa ipotesi l'interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sussistono sin da tale momento. La domanda d'esenzione dal tributo, ove ritualmente e tempestivamente avanzata, costituisce esercizio del diritto del contribuente al riconoscimento dell'inesistenza totale o parziale dell'obbligazione tributaria, fondato sulla norma d'esenzione, ed implica la richiesta di restituzione, totale o parziale, di quanto cautelativamente versato, sicché vale come istanza di rimborso sia delle somme già versate, sia di quelle eventualmente versate dopo la sua proposizione, in corso di giudizio, anche a seguito di una 531 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE sentenza favorevole, ma non ancora definitiva, non venendo meno l'esigenza cautelativa di non incorrere in sanzioni. Ne consegue – ha ritenuto Sez. 6-T, n. 14610/2016, Iofrida, Rv. 640510 - che, qualora si formi il giudicato su entrambi i diritti, all'esenzione e al rimborso del tributo oggetto della relativa domanda, cautelativamente versato, il contribuente non è soggetto all'onere di formulare istanza nel termine dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, ma può far valere il giudicato nell'ordinario termine di prescrizione decennale. Va, inoltre, ricordato che, in materia d'IVA la Sez. T, n. 16792/2016, Marulli, Rv. 640955, ha affermato che, in caso di richiesta di rimborso dell'eccedenza dell'imposta detraibile, a seguito della presentazione della dichiarazione annuale, il differimento del termine di decadenza ai sensi dell'art. 57, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 si applica anche alle dichiarazioni presentate in epoca antecedente al 1° gennaio 1998, se non sia decorso il termine di accertamento. Ancora, in applicazione del principio di effettività del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia, la Sez. 6-T, n. 01426/2016, Conti, ha chiarito che l'Amministrazione finanziaria è tenuta al rimborso dell'imposta anche dopo che sia decorso il termine di decadenza previsto dall'art. 21, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, esclusivamente nell'ipotesi in cui il richiedente prestatore di un servizio abbia a sua volta effettivamente rimborsato l'imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo, con ciò confermando l'orientamento della Corte in tal senso emerso in precedenza (Sez. 5, n. 3627/2015). Quanto al diritto al rimborso per imposte pagate relativamente a zone sismiche in epoca 1990 – 1992, Sez. 6-T, n. 15252/2016, Conti, Rv. 640825, ha confermato un recente orientamento secondo il quale l'art. 1, comma 665, della l. 23 dicembre 2014 n. 190, costituisce norma di interpretazione autentica, sicché i soggetti colpiti dal sisma del 13 e 16 dicembre 1990, che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa, i quali hanno versato imposte per il triennio 1990-1992 per un importo superiore al 10 per cento, previsto dall'art. 9, comma 17, della l. 27 dicembre 2002 n. 289, hanno diritto al rimborso di quanto indebitamente versato, a condizione che abbiano presentato l'istanza di rimborso entro il termine di due anni decorrente dalla data di entrata in vigore della l. 28 febbraio 2008 n. 31. Infine, relativamente ai tributi locali, la Sez. T, n. 13959/2016, Schirò, Rv. 640367, ha affrontato il caso particolare della tassa sui marmi istituita dall'articolo unico della l. 15 luglio 1911 n. 749 in favore del 532 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE comune di Carrara, evidenziandone l'incompatibilità con l'art. 23 del Trattato CEE, come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza C-72/03, ma sottolineando che il contribuente ha diritto al rimborso di quanto pagato successivamente al 16 luglio 1992, purché abbia presentato la relativa istanza entro il termine di decadenza biennale di cui all'art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, applicabile in assenza di specifica disposizione con decorrenza dalla data del pagamento e non da quella dell'accertato contrasto con il diritto comunitario, poiché è da ritenere prevalente l'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, cogente in particolare in materia di entrate tributarie. 6.2. Contestazione del credito. In tema di rimborso delle imposte, l'Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum: Sez. U, n. 05069/2016, Di Blasi, Rv. 639014. Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 12557/2016, Meloni, Rv. 640075, per la quale, in tema di rimborso d'imposta, non è previsto - né dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, né da altre disposizioni - l'onere dell'Amministrazione finanziaria di svolgere attività di rettifica della dichiarazione in cui è stato esposto il credito, sicché, anche in assenza di accertamenti nei termini di legge, non si consolida l'asserito diritto del contribuente. Quanto all'IVA, Sez. T, n. 12313/2016, Perrino, Rv. 640082, ha confermato il principio per cui la mancata dichiarazione del credito, di cui sussistano i presupposti sostanziali, relativa all'anno d'imposta in cui avrebbe dovuto figurare non ne preclude la rimborsabilità, non potendo le modalità di rimborso dell'eccedenza IVA, pur liberamente determinabili dagli Stati membri dell'Unione europea, ledere il principio di neutralità fiscale. 6.3. Ritardato adempimento dell'Amministrazione finanziaria. In caso di ritardato adempimento dell'obbligo di rimborso, Sez. T, n. 16797/2016, Iannello, Rv. 641069, ha affermato che la mora dell'Amministrazione finanziaria, da cui può decorrere, ove ne ricorrano i presupposti, il diritto del contribuente al maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., si realizza, ex art. 533 CAP. XXX - LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO DELLE IMPOSTE 1219, comma 1, c.c., in conseguenza, da un lato, della richiesta di rimborso presentata nella dichiarazione e, dall'altro, della scadenza del termine di novanta giorni concesso all'Amministrazione per procedere alla liquidazione, non essendo condizione imprescindibile la sua liquidità, sicché è irrilevante che il credito sia o possa essere contestato.Il danno da svalutazione monetaria non è, peraltro, in re ipsa ma deve essere provato dal creditore, quantomeno deducendo e dimostrando che il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato di durata annuale è stato superiore, nelle more, agli interessi legali: prova da valutarsi con particolare rigore relativamente in considerazione della specificità della disciplina dell'obbligazione tributaria: Sez. T, n. 11943/2016, Locatelli, Rv. 640142. In particolare, Sez. 6-T, n. 07803/2016, Cigna, Rv. 639627, ha sostenuto che il creditore non può limitarsi ad allegare la sua qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, ma deve, alla stregua dei principi generali dell'art. 2697 c.c., fornire indicazioni in ordine al danno subito per l'indisponibilità del denaro, a cagione dell'inadempimento, ed offrirne prova rigorosa. Qualora la richiesta di rimborso (nella specie, in materia d'IVA) sia stata legittimamente sospesa con provvedimento di fermo amministrativo, poi venuto meno ma comunque ritenuto legittimo, il ritardo nel rimborso non è imputabile all'amministrazione, sicché – come ritenuto da Sez. T, n. 08540/2016, Cricenti, Rv. 639762 - non decorrono gli interessi di mora, che riprendono, una volta venuto meno il fermo, dalla nuova istanza di rimborso. In tema d'imposta di registro, ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio ed invitata a parteciparvi, attesa la necessità d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria: Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797. 534 CAP. XXXI - IL CONDONO CAPITOLO XXXI IL CONDONO (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. La "lite pendente". – 2. Gli effetti. – 3. I profili procedurali e processuali. – 4. Condono della società ed effetti nei confronti dei soci. 1. La "lite pendente". Ai fini della qualificazione dell'atto come impositivo, e della conseguente inclusione della relativa controversia nell'ambito applicativo dell'art. 16 della l. 27 dicembre 2002, n. 289, rileva la sua effettiva funzione a prescindere dalla sua qualificazione formale. Ne consegue, secondo Sez. T, n. 13136/2016, Stalla, Rv. 640137, che, con specifico riferimento agli avvisi di liquidazione dell'imposta di registro, non può escludersene la natura di atto impositivo quando essi siano destinati ad esprimere, per la prima volta, nei confronti del contribuente una pretesa fiscale maggiore di quella applicata, potendosi considerare sufficiente, a tal fine, che la contestazione del contribuente sia idonea ad integrare una controversia effettiva, e non apparente, sui presupposti e sui contenuti dell'obbligazione tributaria. Rientrano nel concetto di lite pendente, con possibilità di definizione agevolata ai sensi dell'art. 16, comma 3, della l. n. 289 del 2002, le controversie relative a cartella esattoriale emessa ex art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non preceduta da precedente atto di accertamento, la quale, come tale, è impugnabile non solo per vizi propri, ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale viene comunicata al contribuente: Sez. 6-T, n. 01295/2016, Conti, Rv. 638632. Il presupposto della lite pendente sussiste, salve le ipotesi di abuso del processo, anche in presenza di un'iniziativa giudiziaria del contribuente non dichiarata inammissibile con sentenza definitiva e potenzialmente idonea a consentire il sindacato sul provvedimento impositivo, indipendentemente dal preventivo riscontro della ritualità e fondatezza del ricorso. In applicazione dell'anzidetto principio, Sez. 6-T, n. 12619/2016, Iofrida, Rv. 640024, ha ritenuto suscettibile di definizione agevolata, ai sensi dell'art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 15 luglio 2011, n. 111, la controversia relativa 535 CAP. XXXI - IL CONDONO all'impugnazione di un estratto di ruolo nella quale il contribuente aveva eccepito la decadenza dell'amministrazione per omessa notifica della cartella nei termini di legge. Lo stesso principio è stato affermato da Sez. T, n. 18445/2016, Virgilio, Rv. 641057, per cui il presupposto della lite pendente sussiste in presenza di un'iniziativa giudiziaria del contribuente non dichiarata già inammissibile con sentenza definitiva, che sia potenzialmente idonea a consentire il sindacato sul provvedimento impositivo, salve le ipotesi di abuso del processo, caratterizzate dall'intento di sfruttare in modo fittizio e strumentale il mezzo processuale, al solo scopo di conseguire i vantaggi della sopravvenuta o preannunciata normativa di condono. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'abuso essendo stato il ricorso introduttivo notificato nei termini, antecedentemente alla l. n. 289 del 2002, ancorché dichiarato inammissibile, perché non depositato, con provvedimento reclamato). Secondo Sez. T, n. 18469/2016, Sabato, Rv. 640977, costituisce lite pendente, suscettibile di definizione, ai sensi dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, la controversia avente ad oggetto l'impugnazione di un avviso di liquidazione d'imposta di successione, INVIM ed oneri accessori, allorché venga contestata non la mera quantificazione dell'imposta dovuta, ma l'applicazione di una rendita catastale non corretta e l'erroneo calcolo degli interessi, sicché l'atto non può essere definito meramente liquidativo, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che le ragioni prospettate dal contribuente siano, o no, fondate. L'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011, nel consentire la definizione delle liti fiscali di valore non superiore a 20.000 euro in cui è parte l'Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 1° maggio 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio, ha riguardo alle sole controversie eventualmente definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, ma non anche a quelle definite dalla Corte di cassazione, atteso che la pendenza del termine per la revocazione non impedisce, a norma dell'art. 391-bis c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto, senza che rilevi il disposto di cui all'art. 324 c.p.c., il cui riferimento alla sentenza soggetta a revocazione ai sensi dell'art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c. riguarda esclusivamente quella pronunciata dal giudice di merito: Sez. T, n. 13306/2016, Zoso, Rv. 640146. 536 CAP. XXXI - IL CONDONO 2. Gli effetti. Il condono di cui all'art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide i debiti del contribuente verso l'erario, comportando la preclusione nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati di ogni accertamento tributario. Ne consegue – secondo Sez. T, n. 03112/2016, Bruschetta, Rv. 639041, - l'illegittimità di ogni attività accertatrice, ivi compresa quella di recupero del credito d'imposta, ai sensi dell'art. 9 comma 10, della l. n. 289 del 2002. Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 16186/2016, Ragonesi, Rv. 640770, per la quale il credito d'imposta, conseguente all'agevolazione ex art. 8 della l. 23 dicembre 2000, n. 388, può essere oggetto di definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002, sicché, ove sia stato effettivamente indicato nella richiesta di condono, il cui importo sia stato versato, ne è precluso all'Amministrazione finanziaria il recupero in virtù dello stesso art. 9, comma 10, lett. a). Al contrario, secondo Sez. T, n. 16157/2016, Sabato, Rv. 640769, il condono ex art. 9 della l. n. 289 del 2002 elide in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l'erario, ma non opera sui suoi crediti, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio ai sensi dell'art. 9, comma 10, lett. a), della l. n. 289 del 2002, dovendosi interpretare la previsione del comma 9 della norma citata - secondo cui «la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate» - nel senso che tale definizione non sottrae all'Amministrazione il potere di contestare il credito esposto dal contribuente e, quindi, di emettere avvisi di recupero delle agevolazioni da esso indicate (nella specie, credito d'imposta per aree svantaggiate). Alla luce di tale contrasto, Sez. T, n. 25092/2016, Stalla, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente l'interpretazione dell'art. 9, commi 9 e 10, della l. n. 289 del 2002 e più precisamente la permanenza o la perdita, in capo all'Amministrazione finanziaria, del potere di contestare e recuperare i crediti del contribuente derivanti dalle agevolazioni, ove sia definito il rapporto tributario tramite condono e conseguentemente precluso, in virtù di tale disposizione, ogni accertamento tributario. L'art. 9 della l. n. 289 del 2002, tuttavia, non preclude all'Amministrazione finanziaria il recupero delle somme risparmiate illegittimamente dal contribuente in violazione del diritto comunitario (nella specie, in virtù di un'esenzione fiscale dichiarata incompatibile con il mercato comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia), potendo 537 CAP. XXXI - IL CONDONO esplicare effetto impeditivo limitatamente alle pretese fiscali dell'erario, ma non a quelle comunitarie: Sez. T, n. 09532/2016, Cricenti, Rv. 639770. La definizione automatica ex art. 9, comma 9, della l. n. 289 del 2002 non incide, invece, sulla liquidazione ex art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e su quanto ad essa collegato a titolo d'interessi e sanzioni per ritardato pagamento, per i quali – secondo Sez. T, n. 11334/2016, Iannello, Rv. 639981, - il contribuente deve avvalersi della procedura di cui al successivo art. 9-bis della medesima legge. Quanto agli effetti del mancato adempimento degli obblighi assunti con il condono, Sez. T, n. 00379/2016, Olivieri, Rv. 638820, ha distinto: il condono tributario "premiale" previsto dagli artt. 7, 8, 9, 15, 16 della l. n. 289 del 2002, consente al contribuente di chiedere un accertamento straordinario, da effettuarsi cioè secondo regole diverse da quelle ordinarie, l'art. 9-bis della stessa legge concede invece un condono tributario "clemenziale" che, basandosi sul presupposto di un illecito tributario, elimina o riduce le sanzioni o concede modalità di favore per il loro pagamento, ma non prevede alcuna forma di accertamento tributario straordinario e non comporta alcuna incertezza in ordine al quantum dovuto dal contribuente. Ne consegue che, in quest'ultima ipotesi, non può ritenersi applicabile il principio in base al quale, nell'ipotesi in cui il contribuente si avvalga della facoltà prevista dall'art. 16, comma 2, della legge citata, di versare ratealmente l'importo dovuto, soltanto l'omesso versamento della prima rata comporta l'inefficacia dell'istanza di condono, mentre quello delle rate successive determina l'iscrizione a ruolo dell'importo dovuto con addebito di una sanzione amministrativa proporzionale alle somme non versate e il pagamento degli interessi legali. 3. I profili procedurali e processuali. Sez. T, n. 16964/2016, Tricomi, Rv. 640764, ha sostenuto che, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata dall'art. 10 della l. n. 289 del 2002, opera in assenza di deroghe contenute nella legge sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi di tali disposizioni, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, atteso che il meccanismo di proroga è finalizzato a tutelare il preminente interesse dell'Amministrazione finanziaria all'accertamento e alla riscossione delle imposte. 538 CAP. XXXI - IL CONDONO Ai fini del perfezionamento del condono fiscale ex artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002, costituisce – secondo Sez. T, n. 17821/2016, Virgilio, Rv. 640987 - adempimento imprescindibile la presentazione in via telematica direttamente, ovvero avvalendosi degli intermediari abilitati, di una formale dichiarazione integrativa nei termini previsti dalla legge, non essendo sufficiente il solo pagamento dei maggiori importi dovuti all'Amministrazione finanziaria, pur se tempestivamente versati, poiché la presentazione di detta dichiarazione è finalizzata a consentire all'Erario di determinare correttamente la base imponibile e di stabilire se le somme corrisposte dal contribuente siano state esattamente calcolate. Quanto al diniego, qualora il contribuente abbia presentato richiesta di definizione amministrativa ex art. 9-bis della l. n. 289 del 2002, la mancata notificazione del provvedimento motivato di rigetto dell'istanza di condono non comporta alcuna decadenza a carico dell'Amministrazione finanziaria, né si traduce in una violazione del diritto di difesa del contribuente, poiché questi, a norma dell'art. 19, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, può proporre tutte le censure deducibili avverso il provvedimento presupposto, a lui non notificato, in sede di impugnazione della cartella esattoriale emessa per il recupero dell'imposta, equivalendo la notifica di questo atto a manifestazione implicita, da parte dell'Ufficio, del convincimento di ritenere consolidata la pretesa tributaria e, conseguentemente, della volontà di negare l'ammissione al condono: Sez. T, n. 15881/2016, Scoditti, Rv. 640626. Nello stesso senso ha giudicato Sez. T, n. 14878/2016, Virgilio, Rv. 640665, per cui, in tema di condono fiscale, salvo che non sia espressamente previsto (come, ad esempio, nell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, in tema di definizione delle liti pendenti), l'Ufficio non è tenuto ad adottare un provvedimento esplicito di diniego qualora ritenga l'istanza invalida ma può procedere, in forza dell'atto impositivo, all'iscrizione a ruolo e alla notifica della relativa cartella di pagamento, da intendersi come implicito diniego di ammissione al beneficio, senza che ciò pregiudichi il diritto di difesa del contribuente il quale, nel giudizio di impugnazione della cartella, può sempre far valere tutte le ragioni per le quali ritenga di avere diritto di accedere al condono. Il diniego di definizione di una lite fiscale, a norma dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, è, invece, come detto, esplicito. In tal caso, secondo Sez. 6-T, n. 14325/2016, Cigna, Rv. 640564, il contribuente, per impugnare il provvedimento 539 CAP. XXXI - IL CONDONO dell'Amministrazione di diniego dell'istanza di definizione di una lite fiscale, è tenuto, a pena di inammissibilità, anche ad impugnare la sentenza che ha deciso sulla lite fiscale medesima, in quanto il testo dell'art. 16, comma 8, della l. n. 289 del 2002 pone un indissolubile e necessario legame, anche temporale («entro sessanta giorni dalla notifica»), fra l'impugnazione del diniego e quella della sentenza. Peraltro, sempre con riferimento alla chiusura delle liti fiscali pendenti prevista dall'art. 16 della l. n. 289 del 2002, Sez. T, n. 00581/2016, Iofrida, Rv. 638733, ha ritenuto che il termine fissato all'ufficio dal comma 8 del medesimo art. 16 per la notifica all'interessato, con le modalità di cui all'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, del diniego di definizione della lite fiscale sospesa non può considerarsi perentorio, perché il legislatore non considera la sua eventuale scadenza idonea per ritenere la regolarità della domanda e, di conseguenza, l'avvenuta produzione degli effetti sia sostanziali che processuali della stessa sulla lite pendente. Quanto al profilo processuale, Sez. U, n. 01518/2016, Cirillo, Rv. 638457, ha ritenuto che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere a seguito di sanatoria fiscale, ai sensi dell'art. 15 della l. n. 289 del 2002, intervenuta nelle more del giudizio di primo grado può essere fatta valere per la prima volta anche in grado di appello, dovendosi ritenere che la deduzione degli effetti del condono, per il rilievo pubblicistico dell'originario rapporto sostanziale e processuale col fisco, integri una eccezione in senso improprio, non soggetta alle preclusioni di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto tale rilevabile d'ufficio dal giudice, ove risulti dagli atti di causa anche a seguito di nuova produzione ex art. 58 del d.lgs. n. 546 cit. 4. Condono della società ed effetti nei confronti dei soci. La definizione della lite pendente, ai sensi dell'art. 16 della l. n. 289 del 2002, da parte di una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, trattandosi – ha affermato Sez. 6-T, n. 14858/2016, Crucitti, Rv. 640666, - di beneficio lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascun contribuente, sicché non comporta alcuna preclusione all'esercizio del potere dovere di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta ad adeguare il reddito da partecipazione dei soci, che abbiano scelto di non avvalersi di tale istituto, a quello - ricalcolato in base al condono - della società. D'altra parte - ha aggiunto Sez. T, n. 14490/2016, Iannello, Rv. 640545, - una volta divenuto incontestabile il reddito della 540 CAP. XXXI - IL CONDONO società di persone a seguito della definizione agevolata di cui all'art. 9-bis del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, conv. in l. 28 maggio 1997, n. 140, che costituisce, ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, titolo per l'accertamento nei confronti dei soci, nell'eventuale giudizio d'impugnazione promosso da questi ultimi avverso l'avviso di rettifica del reddito da partecipazione non è configurabile un litisconsorzio necessario con la società e gli altri soci, atteso che si controverte esclusivamente degli effetti della definizione agevolata da parte della società su ciascuno dei soci, per cui ognuno di essi può opporre soltanto ragioni specifiche di carattere personale. 541 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA CAPITOLO XXXII LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. Questione rimessa alla Corte di Giustizia. 2. Principi generali. 3. Applicazione della sanzione. 1. Questione rimessa alla Corte di Giustizia. In tema di sanzioni amministrative tributarie va segnalato che la Corte, con ordinanza interlocutoria della Sez. T, n. 20675/2016, Chindemi, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della questione interpretativa dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, chiedendo di precisare se tale disposizione, alla luce dell'art. 4 del protocollo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto per cui il medesimo soggetto abbia già riportato condanna penale irrevocabile. Nel provvedimento si esamina la compatibilità del sistema del cd. "doppio binario" nell'ipotesi in cui ad una condanna penale in via definitiva (nella specie, applicazione concordata della pena) per la condotta illecita di manipolazione del mercato prevista dall'art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF ) si aggiunga un provvedimento sanzionatorio ai sensi dell'art. 187-ter TUF in relazione alla medesima condotta manipolativa. La Corte sottopone alla Corte di Giustizia le perplessità rilevate dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 102 del 2016, con cui è stata dichiarata l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del citato art. 187-ter, circa il rapporto tra il concetto di ne bis in idem desumibile dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e quello espresso nell'ambito degli illeciti di market abuse come desumibile dal sistema UE (Regolamento 16 aprile 2014 n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e direttiva 16 aprile 2014 n. 2014/57/UE relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato) e dei limiti in cui quest'ultima figura sia applicabile nel sistema interno dello Stato. 2. Principi generali. Le sanzioni tributarie amministrative sono regolate da un sistema organico di principi generali - paralleli a quelli del sistema penale - sulla personalità dell'illecito, sull'elemento 542 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA soggettivo e l'errore, sul principio di specialità, del favor rei e della irretroattività della norma meno favorevole ecc. Sul principio di personalità dell'illecito si richiama la pronuncia Sez. 6-T, n. 11832/2016, Conti, Rv. 640018, che ha ribadito il principio secondo cui il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione dei redditi alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché resta esclusa la sua responsabilità solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento. In applicazione del principio del favor rei, la Corte (Sez. 6-T, n. 13235/2016, Conti, Rv. 640156), in tema di agevolazioni per la prima casa, ha riconosciuto la possibilità di applicare l'art. 33 del d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che ha allineato la disciplina in materia d'IVA a quella prevista per l'imposta di registro, agli atti negoziali anteriori alla data della sua entrata in vigore e, cioè, al 1° gennaio 2014, ai soli fini sanzionatori - non potendo trovare, di contro, applicazione, quanto alla debenza del tributo - posto che, proprio in ragione della più favorevole disposizione sopravvenuta, la condotta che prima integrava una violazione fiscale non costituisce più il presupposto per l'irrogazione della sanzione. Sul piano della irretroattività della norma meno favorevole si segnalano due pronunce della Corte intervenute sul tema delle operazioni commerciali con imprese aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi Black list). Con un primo arresto (Sez. T, n. 11933/2016, Virgilio, Rv. 640084) la Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui, all'esito delle modifiche retroattive introdotte dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della legge 27 dicembre 2006, n. 2966 e prima di quelle di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, applicabili a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015, la violazione dell'obbligo di separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi delle spese e degli altri componenti negativi non ne condiziona la deducibilità ed espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa ex art. 8, comma 3-bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all'entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1, a ciò non ostando la presentazione della dichiarazione integrativa di cui all'art. 2, comma 8, del d.P.R. 543 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA 22 luglio 1998, n. 322, ove operata dal contribuente dopo l'avvio dei controlli. La natura meramente formale dell'obbligo di dichiarazione autonoma dei compensi corrisposti a fornitori operanti in Stati a fiscalità privilegiata, al contempo, preclude ogni possibilità di regolarizzazione, in quanto, ove fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni stabilite dal legislatore per inosservanza della correlativa prescrizione, con conseguente non sanabilità, con dichiarazione integrativa, della mancata separata indicazione dei costi successivamente all'accesso della Guardia di Finanza (Sez. T, n. 10989/2016, La Torre, Rv. 639986). Il principio della necessaria natura sostanziale e non formale della violazione della norma tributaria, quale presupposto per l'applicazione della sanzione è ribadito dalla Corte con la sentenza Sez. T, n. 02605/2016, Marulli, Rv. 638898, con riferimento al ritardo nella fatturazione e violazione dell'art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972) la cui natura sostanziale deriva dal fatto che tale condotta arreca pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, ed è, pertanto, punibile anche quando non determina omesso versamento dell'IVA, con conseguente esclusione dell'esimente di cui all'art. 10 dello Statuto del contribuente. Con riferimento all'elemento soggettivo ed alla rilevanza dell'error iuris in tema di sanzioni amministrative per violazioni fiscali, la Corte, oltre a riconoscere la possibilità per il giudice tributario di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni, anche in sede di legittimità, per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito applicativo della stessa (Sez. 6- T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536), ha evidenziato che un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione finanziaria con circolari ministeriali, cui il contribuente si sia conformato è idonea ad escludere soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2, della l. n. 212 del 2000. Il principio è stato affermato con riguardo ad alcune risoluzioni e circolari ministeriali che avevano ingenerato l'erronea convinzione che l'INAIL fosse esente dalla tassa di concessione governativa per l'impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di telecomunicazioni di cui all'art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. n. 641 del 1972, circolari 544 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA cui la Corte non ha riconosciuto la natura di fonte di diritti ed obblighi. 3. Applicazione della sanzione. In tema di disciplina della continuazione e dei limiti al cumulo delle sanzioni si segnalano due pronunce della Corte. Con la sentenza Sez. T, n. 16165/2016, Meloni, Rv. 640651, si è evidenziata la differente natura delle sanzioni amministrative tributarie rispetto alle indennità di mora e gli interessi per mancato pagamento, ribadendosi la piena compatibilità di queste ultime con la disciplina generale del d.lgs. n. 471 del 1997, destinata a valere per tutti i tributi, integrata dalle disposizioni normative speciali di imposta (con riferimento alle accise, il d.lgs. n. 504 del 1995), non realizzandosi un cumulo di sanzioni, in ragione della loro diversità funzionale, afflittiva (con riferimento alla sanzione amministrativa) e reintegrativa del patrimonio leso (con riguardo all'indennità di mora ed agli interessi). Nella fattispecie esaminata si è ritenuto che, in caso di omesso pagamento dell'imposta di consumo sul gas, trovano applicazione sia l'art. 13 del d.lgs. n. 471 cit., che prevede il pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa, sia l'art. 3, n. 4, del d.lgs. n. 504 cit., nel testo vigente ratione temporis, che prevede un'indennità di mora e gli interessi per il ritardato pagamento. Con la sentenza Sez. T, n. 18230/2016, Solaini, Rv. 641050, in tema di sanzioni per omessa denuncia dell'immobile a fini ICI, si è affermato che le relative sanzioni sono applicabili per tutte le annualità per cui si protrae la condotta in quanto, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, a ciascuno degli anni solari corrisponde un'autonoma obbligazione che rimane inadempiuta non solo per il versamento dell'imposta ma anche per l'adempimento dichiarativo, fermo restando che, trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in periodi d'imposta diversi, si applica la sanzione base aumentata dalla metà al triplo, secondo l'istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997. Con riferimento al principio della necessaria contestazione della sanzione irrogata, quale limite per l'applicazione della sanzione ed elemento formale di accesso alla difesa del contribuente, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 18682/2016, Marulli, Rv. 641122, ha ritenuto ammissibile la definizione agevolata, con conseguente estinzione dell'illecito, ai sensi dell'art. 16, comma 3 del d.lgs. n. 472 del 1997, a fronte della irrogazione di sanzioni con atto di 545 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA contestazione di cui al medesimo art. 16 per il superamento del limite massimo dei crediti d'imposta compensabili, comportamento da ritenersi equivalente al mancato o ritardato versamento di parte del tributo alle scadenze previste, non potendo trovare applicazione le preclusioni collegate a diverse modalità procedurali. Infine, in tema di ravvedimento operoso di cui all'art. 13, comma 1, lett. a), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, oltre alla pronuncia (Sez. T, n. 16422/2016, Vella, Rv. 640657) che ha escluso l'efficacia del ravvedimento del contribuente originato dalla richiesta di chiarimenti dell'Amministrazione, la Corte (Sez. T, n. 06108/2016, Federico, Rv. 639432) in via generale ha osservato che il suddetto istituto, implicando il riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei presupposti di applicabilità della sanzione, rappresenta una scelta del contribuente per il pagamento della sanzione in misura ridotta, sicché non può essere invocato per ottenere il rimborso di quanto corrisposto, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997 o ai sensi dell'art. 10 della l. n. 212 del 2000, poiché tali disposizioni si applicano esclusivamente nel caso di sanzioni imposte dalla Amministrazione. 546 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE CAPITOLO XXXIII LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE. (di Paolo Porreca) SOMMARIO: 1. Regolamento preventivo di giurisdizione . – 2. Questioni processuali. – 3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. – 4. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. – 5. Perimetro della giurisdizione contabile. – 6. Ambito della giurisdizione tributaria. – 7. Giurisdizione e diritto internazionale. 1. Regolamento preventivo di giurisdizione. Prendendo le mosse dai profili processuali emergenti dal lavoro di approfondimento delle Sezioni Unite sul tema della giurisdizione, viene innanzi tutto in rilievo il regolemento preventivo, istituto che vive propriamente della giurisprudenza di legittimità. Con Sez. U, n. 13569/2016, D'Ascola, Rv. 640221, la Corte ha avuto occasione di reiterare il proprio orientamento che vede nel regolamento in parola un istituto di natura straordinaria ed eccezionale, desumendone che non può essere esteso a ipotesi non previste dall'art. 41, c.p.c., che, per quanto in quel caso rilevava, fa riferimento alle questioni di giurisdizione nei confornti dello straniero, in ragione del combinato disposto con l'art. 37, comma 2, c.p.c., abbrogato dall'art. 73 della legge 31 maggio 1995 n. 218, ma oggetto di un rinvio considerato recettizio dalla giurisprudenza di legittimità. Posto che l'abrogazione dell'art. 4 c.p.c., ad opera del medesimo art. 73 citato, ha fatto venire meno ogni riferimento allo "straniero", il collegio ha quindi statuito che è legittimato a proporlo ciascuna delle parti processuali solo se, però, il convenuto sia domiciliato o residente all'estero – unico criteriore discretivo residuato – e contesti o comunque non accetti la giurisdizione italiana, restando inammissibile sollevare per questa via una questione di difetto di giurisdizione quando i convenuti nella causa di merito siano soggetti residenti o domiciliati in Italia. La pronuncia riveste un significativo rilievo generale perché da un lato ha sottolineato che la lettura dello strumento processuale quale aggiuntivo, rispetto alle ordinarie facoltà delle parti, è da 547 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE correlare alla valutazione legislativa di possibili effetti d'inefficienza sistemica di un ampliamento degli strumenti processuali; e dall'altro ha rimarcato come in materia processuale va confermata, quando possibile, l'interpretazione consolidata nel tempo, da superare solo per apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo. E l'eco della cultura di common law prosegue, nell'ordinanza, quando esclude la violazione del principio dell'estoppel in relazione al fatto che l'eccipiente l'inammissibilità del regolamento si era difeso opponendo la State immunity per aver agito quale diretto rappresentante di uno Stato sovrano, atteso che, in mancanza della condizione legittimante l'accesso allo strumento, ogni questione di giurisdizione dev'essere scrutinata dal giudice di merito e può essere oggetto d'impugnazione ordinaria, senza alcun vulnus al diritto all'equo processo. Il secondo arresto a valenza sistematica, sul punto, è individuabile in Sez. U, n. 15539/2016, Ragonesi, Rv. 640796, in cui si è avuto modo di precisare – anche qui in linea con la nomofilachia registrabile – il momento preclusivo della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione. Linea di demarcazione che deve individuarsi in quella in cui l'attività processuale delle parti in primo grado si esaurisce e inizia il momento decisorio della causa, sicché, ove sia prevista l'udienza di discussione di quest'ultima, esso coincide con la sua chiusura, mentre, in assenza della stessa, occorre fare riferimento allo scadere dei termini per lo scambio degli scritti conclusionali. 2. Questioni processuali. Con un arresto di grande rilievo, Sez. U, n. 00029/2016, Blasutto, Rv. 637937, ha avuto modo di riesaminare il dibattuto rapporto di pregiudizialità tra la questione di giurisdizione e quella di competenza. L'ordinanza di rimessione aveva prospettato come condivisibile l'opinione risalente, un tempo maggioritaria, che la competenza rivesta carattere prioritario per assicurare l'accertamento della spettanza della giurisdizione in capo al giudice in astratto competente per materia, valore e territorio a conoscere della controversia, sulla base della prospettazione della domanda. In ciò vedendo un riflesso del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Nella specie, le Sezioni Unite hanno osservato che la garanzia costituzionale versata nell'art. 25 della Carta attiene, però, in primo luogo alla stessa giurisdizione, in linea con le principali convenzioni internazionali dove, peraltro, l'uso del termine competenza, quale inclusivo in primis del 548 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE radicamento giurisdizionale, discende dall'intuitiva considerazione che l'ordinamento nazionale potrebbe declinare sistemi monistici o, come in Italia, pluralistici, dell'organizzazione della giustizia. Si è osservato che diversamente dalle differenti discipline dei singoli ordinamenti processuali di ciascuna giurisdizione, tipiche della competenza, è la stessa Costituzione ad attribuire a ciascuna di queste ultime il proprio perimetro, dando valenza fondante alla priorità logica della prima sulla seconda. Del resto, la previa decisione della competenza potrebbe altrimenti essere data inutilmente, ledendo la ragionevole durata dei processi: sicché, si legge in motivazione, qualora una sentenza di primo grado recante l'espressa affermazione della giurisdizione del giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, può e deve rilevarne d'ufficio il difetto da parte di quel giudice, proprio in forza dei descritti e concorrenti principi di pregiudizialità, economia processuale, e ragionevole durata, saldati all'attribuzione costituzionalmente riservata all'organo nomofilattico di tutte le predette questioni. Dal che deriva il persistente obbligo di verifica primaria e officiosa della giurisdizione. Il collegio ha quindi concluso che, in questo quadro, la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza può essere derogata – o meglio assorbita – solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, a monte, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del giusto processo, oppure, a valle, in quelli dati dalla formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione. Altra precisazione correlata è giunta da Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, in cui si trova specificato, pure qui ribadendo risalenti principi di legittimità, che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prim'ancora della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti. Al riguardo, peraltro, è opportuno ricordare anche Sez. L, n. 14321/2016, Blasutto, Rv. 640433, secondo cui quando il giudice di merito dichiari il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria e la statuizione sul punto non formi oggetto di specifica 549 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE impugnazione, la pronuncia sulla giurisdizione deve ritenersi coperta da giudicato, ma quando il ricorso per cassazione investa profili relativi alla regolarità dell'instaurazione del rapporto processuale, quale la ritualità dell'opposizione a decreto ingiuntivo, dal rilievo dell'esistenza del giudicato sulla giurisdizione non può discendere l'inammissibilità del ricorso, poiché l'eventuale accoglimento delle censure comporterebbe, per l'effetto espansivo previsto dall'art. 336, comma 1, c.p.c., la caducazione anche della statuizione in punto di giurisdizione. Da questa lettura risulta che anche le censure relative, ad esempio, alle inammissibilità, quale quella dell'opposizione a decreto ingiuntivo, devono essere esaminate con priorità, per il loro carattere pregiudiziale rispetto alla questione di giurisdizione. Le dinamiche processuali inerenti alla giurisprudenza sulla giurisdizione, impongono poi di dare conto di Sez. U, n. 21260/2016, Giusti, Rv. 641347, secondo cui l'attore che abbia incardinato la causa dinanzi a un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione. La decisione deve essere menzionata poiché rivede un opposto orientamento maggioritario. Alla base della previa tesi vi era l'idea che in capo all'istante vi fosse l'interesse a impugnare per chiedere una diminuzione della propria soccombenza, in quanto la decisione negativa in punto di giurisdizione, rispetto alla pronuncia negativa di merito, comporta un vantaggio giuridicamente rilevante che si concreta nella possibilità di proporre nuovamente la domanda dinanzi a un giudice appartenente ad un diverso plesso giurisdizionale. Il Collegio, invece, rileva che rispetto al capo relativo alla giurisdizione quell'attore va considerato vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso che a quel giudice si è rivolto. In questi termini, l'arresto svaluta il peso specifico del riparto giurisdizionale e apprezza, al contrario, quello alla speditezza processuale, latamente riprendendo la dottrina dell'estoppel prima richiamata. 3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. Il lavoro ermeneutico della Corte in punto di limiti esterni della giurisdizione, specie amministrativa, si è arricchito di pregnanti precisazioni volte a restringere appropriatamente il relativo sindacato. 550 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE È stata in particolare riaffermata con Sez. U, n. 24740/2016, Didone, in corso di massimazione, la giurisprudenza secondo cui, con riguardo all'interpretazione, da parte del Consiglio di Stato, di norme di un regolamento comunale, non è configurabile un eccesso di potere giurisdizionale, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera della potestà amministrativa del Comune, venendo in gioco un atto di normazione secondaria, sicché gli errori interpretativi delle sue disposizioni investono la legittimità dell'esercizio del potere nel caso concreto, non altro. Sez. U, n. 11380/2016, De Stefano, Rv. 639942, ha poi avuto modo di evidenziare che l'eccesso di potere giurisdizionale si configura quando il giudice amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, riservato alla pubblica amministrazione, compia una diretta valutazione dell'opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione, così esercitando un'inammissibile giurisdizione di merito. Il focus per la configurabilità dell'eccesso di potere giurisdizionale, che rende ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost., è individuato nello sconfinamento sul merito, in quanto la decisione finale dei giudici amministrativi d'appello, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprime una volontà dell'organo giudicante che va oltre, in una parola, alla contiguità che la cultura giuridica classica ha sempre rimarcato sussistere, al riguardo, tra giudicare e amministrare. Questo difficile confine è allora fatto emergere muovendo dalle descritte premesse che rendono meglio comprensibile come, diversamente, l'interpretazione della legge non può costituire, in quanto tale, un'attività riservata all'autorità amministrativa, rappresentando invece il proprium della funzione giurisdizionale, sicché non può integrare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, fatti salvi i casi di radicale stravolgimento delle norme o dell'applicazione di una norma creata ad hoc dal giudice speciale. Medesimo abbrivio ricostruttivo è quello individuabile in Sez. U, n. 03915/2016, Giusti, Rv. 638599. Il caso era quello di una decisione del Consiglio di Stato che, giudicando sull'esclusione degli ingegneri dalla direzione dei lavori dei lavori su immobili di pregio storico e artistico riservata agli architetti, ex art. 52 del r.d. 25 ottobre 1925 n. 2537, aveva negato la sussistenza di profili 551 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE discriminatori implicati dalla direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, n. 85/384/CEE. Normativa, quest'ultima, che impone di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, laddove tuttavia tale titolo risulti abilitante – in base alla normativa di quello Stato membro – all'esercizio di attività nel settore dell'architettura. È stato così messo in luce come il controllo della Corte di cassazione sul rispetto del limite esterno della giurisdizione non può includere la verifica, in iure, di conformità della decisione al diritto dell'Unione europea, fatta salva – anche qui – l'ipotesi estrema in cui la decisione contrasti con quelle della Corte di giustizia in modo da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale: profilo che non poteva ricorrere nella fattispecie, atteso che le decisione gravata non conteneva un aprioristico diniego di giurisdizione, oltre ad essere assunta alla luce di esaminate pronunce della Corte di giustizia. Analogamente, Sez. U, n. 14042/2016, Cirillo, Rv. 640438, ha concluso che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, omesso nella specie dal Consiglio di Stato, non può essere disposto, sulla medesima questione, dalle Sezioni Unite della Corte innanzi alle quali sia stata impugnata la corrispondente decisione, spettando ad esse solo di vagliare il rispetto, da parte del primo, dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, senza che, su tale attribuzione di controllo, siano evidenziabili norme dell'Unione Europea su cui possano ipotizzarsi quesiti interpretativi. In asse con tale impostazione si collocano Sez. U, n. 07292/2016, Frasca, Rv. 639171 e Sez. U, n. 01520/2016, Cirillo, Rv. 638238. La prima chiarisce che la violazione dei limiti della cognizione incidentale ex art. 8 c.p.a., non può configurare un eccesso di potere giurisdizionale, ma solo un error in procedendo commesso, in tesi, dal giudice amministrativo all'interno della sua giurisdizione; la seconda puntualizza che nel ricorso per cassazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato pronunciata su impugnazione per revocazione può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, in quanto ogni diversa censura sulla decisione di merito non avrebbe ad oggetto una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione amministrativa, unico sindacato possibile sulle decisioni espresse da quella. In questa cornice mette conto di citare anche Sez. U, n. 24742/2016, Didone, in corso di massimazione, che ha dovuto confermare come il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di 552 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE Stato con cui si deduca l'omesso rinvio, da parte della sezione semplice, all'Adunanza plenaria in contrasto con la quale la prima si pronunci, integri un error in procedendo estraneo al sindacato delle Sezioni Unite. Diversamente, come puntualizzano Sez. U, n. 25625/2016, Bronzini, in corso di massimazione, quando il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza a una sentenza definitiva del giudice ordinario, abbia effettuato un sindacato integrativo individuando in tal modo un differente contenuto precettivo del giudicato, con pronuncia sostanzialmente autoesecutiva, ciò si traduce, logicamente, in eccesso di potere giurisdizionale, integrando un'esorbitanza dai limiti esterni. Decisione, questa, a sua volta coerente al generale orientamento riaffermato da Sez. U, n. 26274/2016, Didone, in corso di massimazione, per cui, nel caso di ottemperanza a decisioni del giudice amministrativo, il sindacato della Corte di cassazione è inammissibile se oggetto del ricorso sia il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni alla giurisdizione), mentre lo è se in discussione sia la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al relativo giudizio (limiti esterni). 4. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il perimetro di reciproco confine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa registra ogni anno una densa casistica. Un primo filone è quello dell'attività negoziale della p.a. in cui l'insorgere della giurisdizione ordinaria dal momento della stipula del contratto incontra numerose sfaccettature. Ad esempio Sez. U, n. 15204 /2016, Ambrosio, Rv. 640609, ha esaminato il disposto dell'art. 16, comma 4, r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, che attribuisce al verbale di aggiudicazione definitiva, formato a seguito di incanto pubblico o licitazione privata, efficacia equivalente a quella del contratto. La decisione ha escluso il carattere imperativo della norma, ragion per cui l'amministrazione può discrezionalmente prevedere, nel bando di gara o nel suddetto verbale, di rinviare a un momento successivo l'instaurazione del vincolo negoziale. Di qui una rilevante quanto logica ricaduta sul riparto tematico di giurisdizione: quando un bando di una gara pubblica per la ricerca – come nella specie – di un complesso immobiliare ne preveda, altresì, l'acquisto attraverso una locazione finanziaria erogata da soggetto da individuarsi con un'ulteriore e apposita gara pubblica, l'aggiudicazione in favore del fornitore dell'immobile non può produrre gli effetti della conclusione di un 553 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE accordo negoziale, sicché le controversie afferenti la procedura di selezione del concedente della locazione finanziaria non possono che coerentemente restare alla cognizione del giudice amministrativo perchè relative ad una fase antecedente all'esaurimento della procedura amministrativa. In una prospettiva coerente si collocano le conclusioni di Sez. U, n. 15816/2016, Amendola, Rv. 640689, pronunciata in tema di dismissione di immobili del patrimonio disponibile (comunale) avvenuta, all'esito infruttuoso dell'asta pubblica, con le modalità della trattativa privata. Si è affermato che la facoltà dell'ente di recedere in ogni momento dalle operazioni di vendita, riconosciuta nell'offerta irrevocabile di acquisto del bene poi accettata, non è predicabile in termini di determinazione autoritativa, a fronte della quale l'aggiudicatario sia titolare di un mero interesse legittimo, perchè l'ambito dello ius poenitendi così pattiziamente circoscritto riguarda la fase già esecutiva del rapporto. Se ne è tratta la conseguenza che, spettando al giudice ordinario la giurisdizione sui comportamenti delle parti in tale fase, allo stesso va attribuita la controversia riguardante l'accertamento della sussistenza, o meno, di un diritto di prelazione sul cespite in favore del suo detentore. Egualmente allineata è la giurisprudenza in tema di riparto giurisdizionale nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, a mente della quale sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Chiave di lettura che ha trovato conferma in Sez. 1, n. 17201/2016, Sambito, Rv. 640903, che ne ha fatto conseguire la spettanza al giudice ordinario della controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio, giacché la disciplina locale recata in relazione al subentro nell'assegnazione (nel caso, l'art. 12 della l.r. Lazio 6 agosto 1999 n. 12), non riservava all'Amministrazione alcuna discrezionalità al riguardo, configurando, pertanto, un diritto soggettivo. Le decisioni da ultimo richiamate si iscrivono in un macrosettore, qual è quello dell'urbanistica ed edilizia, 554 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE inevitabilmente esemplare sulle questioni di giurisdizione. In argomento, assumono un pregnante rilievo le precisazioni di Sez. U, n. 19914/2016, Bernabai, Rv. 641218: osserva la Corte che la convenzione urbanistica volta a disciplinare, con il concorso del privato proprietario dell'area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, deve assimilarsi ad un accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo, sicché le controversie che ne riguardano la formazione, la conclusione e l'esecuzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che non viene meno neppure in ipotesi di successivo atto di transazione emendativo della convenzione originaria, intercorso tra comune e parte privata, stante la stretta correlazione reciproca, oggettiva e soggettiva, tra questi esistente. Più tradizionale, se si vuole, è il terreno arato da Sez. U, n. 02052/2016, Frasca, Rv. 638281, che spiegano come la domanda di risarcimento del danno del proprietario di un'area contigua a quella in cui è realizzata l'opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell'alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria quando, nella prospettazione dell'attore, fonte del danno non siano né l'an né il quomodo dell'opera progettata, ma le sue concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda, al contrario, su un comportamento della p.a., o del suo concessionario, che non sia semplicemente occasionato dall'esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le sue caratteristiche in relazione all'oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire. Può essere peraltro utile accostare, sul punto, la ribadita conclusione di Sez. U, n. 25044/2016, Manna, in corso di massimazione, secondo cui sull'occupazione usurpativa (nella specie, per sconfinamento nell'allargamento di una sede stradale da parte dell'ANAS, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità), la giurisdizione è ordinaria perché, vertendosi in materia urbanistico- espropriativa, il comportamento della p.a. è rimesso al sindacato del giudice amministrativo solo in presenza di un oggettivo collegamento con un esercizio del potere riconoscibile in termini di pubblica potestà. Così come è interessante menzionare altresì Sez. U, n. 25516/2016, Cirillo, in corso di massimazione, che ha sottolineato come rientri nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia per pretesi danni causati da condotte allegate quali 555 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE distorsive della concorrenza poste in essere da soggetti elargitori di aiuti di Stato (nel caso, il Comune di Milano e la società sua controllata per la gestione degli scali aeroportuali locali). Ciò in quanto una tale causa non attiene ad atti o a provvedimenti di erogazione di aiuti, né concerne il recupero delle somme già erogate per illeciti aiuti di Stato, uniche ipotesi a essere coperte da giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quale introdotta dalla legge 24 dicembre 2012 n. 234, all'art. 49, comma 2. La motivazione torna a sottolineare che la lettura costituzionalmente orientata del tessuto normativo esclude ogni ipotesi ricostruttiva della giurisdizione anche esclusiva del giudice amministrativo che inerisca a fattispecie svincolate dall'esercizio del potere amministrativo, non importando, pertanto, alcun intreccio tra diritti privati, da una parte, e interessi e poteri pubblici dall'altra. I classici criteri discretivi fondati, per così dire, sulla qualità del collegamento tra il fatto e l'esercizio del potere pubblico, tendono storicamente a tornare in varie declinazioni anche motivazionali. Altro esempio sovrapponibile è quello di Sez. U, n. 00692/2016, Ragonesi, Rv. 637869, secondo cui le domande proposte dal concessionario del diritto di superficie su area p.e.e.p. nei confronti del Comune inadempiente per la risoluzione della concessione-contratto e il risarcimento dei danni, appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, restando al giudice ordinario le domande proposte dal concessionario medesimo nei confronti dei titolari di rapporti privatistici collegati alla concessione e tuttavia estranei all'attività amministrativa in senso proprio (nella specie, con il direttore dei lavori e la banca finanziatrice dell'opera). Assumono eguali cadenze argomentative Sez. U, n. 03057/2016, Di Iasi, Rv. 638402, che affrontavano una domanda per l'accertamento della persistenza del diritto a un contributo pubblico stanziato per il finanziamento di un programma d'investimento relativo alla realizzazione di un immobile per destinazione commerciale. La fattispecie risulta esemplare poiché il giudice ordinario aveva declinato la giurisdizione rilevando che il finanziamento era stato accordato nell'ambito di un "patto territoriale" che costituiva una forma di programmazione negoziata – oramai tipica nella prassi amministrativa – sicché residuava un margine di discrezionalità della P.A. in merito all'attribuzione del contributo già riconosciuto. Il tribunale amministrativo, dal canto suo, aveva promosso regolamento d'ufficio osservando che il 556 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE discrimine tra le giurisdizioni doveva fondarsi, per un verso, sulla fase procedimentale in cui si inserisce l'atto che ha originato la controversia, al fine di verificare se attenga a quella del riconoscimento del contributo o a quella del controllo sulle modalità di utilizzazione dello stesso da parte del soggetto fruitore, e, per altro verso, sul grado di discrezionalità che impronta il potere volta a volta esercitato, con la conseguenza che, nel caso, poiché l'atto che aveva dato origine alla controversia atteneva alla fase esecutiva del rapporto di finanziamento e alla rigida applicazione delle specifiche condizioni di legge giustificatrici della revoca, sussistevano le condizioni per l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario. La Corte ha confermato la necessità di distinguere la fase procedimentale di valutazione della domanda di concessione, nella quale la legge – salvi i casi in cui riconosca direttamente il contributo o la sovvenzione – attribuisce alla P.A. il potere di riconoscere il beneficio, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati, con apprezzamento discrezionale, da quella successiva alla concessione del contributo, in cui il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase di esecuzione del rapporto di sovvenzione ed all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione. Nella motivazione si ricorda che la giurisprudenza ha chiarito come la descritta regola possa soffrire deroghe, ad esempio nei casi in cui la mancata erogazione consegua all'esercizio di poteri di carattere autoritativo, espressione di autotutela della pubblica amministrazione, sia per vizi di legittimità, sia per contrasto, originario o sopravvenuto, con l'interesse pubblico. Tuttavia rimane in ogni caso attribuita alla cognizione del giudice ordinario ogni fattispecie che prenda le mosse dall'accertato inadempimento alle condizioni imposte in sede di erogazione del contributo, una volta che il finanziamento risulti riconosciuto direttamente dalla legge e all'amministrazione sia demandato solo il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti, senza poter procedere ad apprezzamenti discrezionali di sorta, nonché ogni fattispecie che riguardi la revoca della già concessa agevolazione per ragioni non attinenti a vizi dell'atto amministrativo, bensì comportamenti posti in essere dallo stesso beneficiario nella fase attuativa dell'intervento agevolato. In buona sostanza, nella controversia che verta sulla legittimità della revoca di un finanziamento pubblico a un soggetto privato, determinata dall'inadempimento, imputabile al beneficiario, delle prescrizioni indicate nell'atto concessorio, la giurisdizione del 557 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE giudice ordinario deve essere ravvisata tutte le volte che la contestazione faccia esclusivamente richiamo alle inadempienze del percettore senza in alcun modo coinvolgere il legittimo esercizio dell'apprezzamento discrezionale. Si tratta anche qui di ratio decidendi affatto dissimili a quelle spese da Sez. U, n. 15284/2016, De Chiara, Rv. 640700, in una controversia avente ad oggetto la restituzione di un suolo, ovvero il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del medesimo, occupato d'urgenza, per l'esecuzione di un intervento di edilizia residenziale pubblica, in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, ancorchè illegittima, nel caso perché priva dei termini iniziale e finale dei lavori e delle procedure di esproprio. Le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, stante il collegamento della realizzazione dell'opera fonte di danno con la dichiarazione di pubblica utilità, senza che potesse rilevare la qualità del vizio da cui sia affetta quest'ultima. E del resto, come hanno ribadito Sez. U, n. 08057/2016, Vivaldi, Rv. 639395, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, l'azione risarcitoria per lesione dell'affidamento riposto sulla legittimità dell'atto amministrativo poi annullato in autotutela rientra nella cognizione del giudice amministrativo e non può essere proposta al giudice ordinario, poiché l'azione amministrativa illegittima – composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi – non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso come tale privo d'incidenza sulla giurisdizione. La sistematica sopra variamente delineata non esclude possibili complementarità le cui sinergie evitano vuoti di tutela. In questo senso è interessante la pronuncia di Sez. U, n. 07949/2016, Vivaldi, Rv. 639283, secondo cui l'azione di restituzione della somma pagata in esecuzione di un lodo arbitrale dichiarato nullo, con sentenza confermata in sede di legittimità, per sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non rientra in quest'ultima giurisdizione, ma può essere esercitata davanti al giudice ordinario in modo autonomo. In questo caso, infatti, dev'essere assicurata l'effettività della tutela del solvens, a prescindere dalle vicende del giudizio di rinvio solo eventuale. D'altra parte, come ha chiarito la Corte, quando il giudizio di rinvio sia estinto o non più proponibile, viene meno la competenza funzionale del giudice del rinvio e l'azione restitutoria va proposta secondo le regole ordinarie e al giudice in base ad esse competente. 558 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE L'autonomia dell'azione di restituzione nel ragionamento motivazionale è stata infine correlata al principio, consolidato, per cui il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una statuizione provvisoriamente esecutiva, poi riformata, nasce, ai sensi dell'art. 336 c.p.c., dal solo fatto della riforma, potendo essere fatta valere immediatamente, anche attraverso il procedimento monitorio. Naturalmente non è detto che l'interesse fatto valere ricada nel perimetro di una giurisdizione. Ad esempio, come hanno avuto modo di specificare, in tema di danni da emotrasfusione, Sez. U, n. 02050/2016, Frasca, Rv. 638221, il rifiuto opposto dall'amministrazione all'istanza di transazione del danneggiato (prevista dagli artt. 33 della legge 9 novembre 2007 n. 222, 2, commi 362 e 362, della legge 24 dicembre 2007 n. 244, e 27 bis del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito dalla legge 24 giugno 2014 n. 114) non incide sul diritto soggettivo al risarcimento, ma sull'interesse all'osservanza della normativa secondaria concernente la procedura transattiva, sicché l'impugnazione del diniego non rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ma in quella del giudice amministrativo, cui poi spetta decidere, nel merito, se l'atto negativo leda un vero e proprio interesse legittimo o, come pure possibile, un interesse semplice e dunque non giustiziabile. In un certo senso al capo opposto rispetto a quest'eventuale carenza di giustiziabilità da vagliare nel merito, sta il difetto assoluto di giurisdizione sull'impugnazione degli atti dell'amministrazione affidati ai meccanismi della responsabilità politica. È il caso di Sez. U, n. 04190/2016, Petitti, Rv. 638595, relativa ai provvedimenti con i quali il presidente dell'Assemblea regionale siciliana scioglie e ricostituisce una commissione legislativa permanente, trattandosi dell'esercizio della potestà di autorganizzazione dell'organo legislativo regionale. Fattispecie che può essere affiancata incidentalmente con altra, in qualche modo speculare, che lascia emergere come le scelte di merito dell'amministrazione possano al contrario ricadere nella giurisdizione ordinaria quando l'azione sia nella cornice propria del diritto privato. In questa latitudine Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090, iscrivono la controversia concernente l'impugnazione della deliberazione della giunta comunale recante la nomina del rappresentante del comune nel consiglio di amministrazione di una società per azioni, anche se interamente partecipata da enti locali, stante la natura di diritto soggettivo della posizione oggetto di contestazione oltre, logicamente, l'assenza di una specifica 559 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE attribuzione al giudice amministrativo, per tale fattispecie, di una giurisdizione su diritti. Per completezza, quanto invece al difetto di sindacabilità giurisdizionale su alcuni atti dell'articolazione pubblica, sia da parte del giudice ordinario che di quello amministrativo, va dato infine conto di un duplice arresto, quello di Sez. U, n. 24102/2016, Perrino, in corso di massimazione, e Sez. U, n. 24624/2016, D'Ascola, in corso di massimazione. Nel primo caso, a fronte della domanda di cassazione delle ordinanze con cui l'Ufficio centrale per il referendum aveva ammesso alcune richieste referendarie ex art. 138 Cost., poi oggetto del d.P.R. d'indizione, la Corte, rilevando che non si trattava di atto giurisdizionale, ha negato la giustiziabilità sollecitata, tanto più costituendo, l'Ufficio in parola, un'articolazione interna della medesima Corte. Nella seconda fattispecie, la domanda mirava all'annullamento degli atti contenenti le richieste del medesimo referendum, presentati all'Ufficio centrale, e dello stesso d.P.R. d'indizione. Qui la Corte, ricollegandosi alla pronuncia appena precedente, ha osservato che se non è sindacabile, per via della sua natura, l'atto al quale risale la violazione denunciata, ancor meno potrà esserlo il decreto presidenziale che lo recepisce. Il contenuto di quest'ultimo provvedimento, infatti, è la risultante di una sequenza di atti che va dalla comunicazione al Governo dell'approvazione ex art. 138, commi 1 e 3, Cost., alla richiesta di referendum, agli adempimenti delle camere nell'ipotesi di richiesta proveniente da membri di una di esse, al deposito degli atti presso la Corte di cassazione, fino all'indizione su deliberazione del Consiglio dei Ministri. In una parola, ha ragionato il Collegio, si è di fronte a una sequenza procedimentalizzata, e vincolata, indispensabile per l'ultimazione del processo di revisione costituzionale, in cui l'opera dei poteri dello Stato è connessa e indipendente sicché sfugge alla qualificazione di attività amministrativa, soggetta al controllo giurisdizionale, e lascia margini esclusivamente per l'impugnazione per conflitto di attribuzione, confermato dall'assegnazione della natura definitiva all'ordinanza resa dall'Ufficio per il referendum, contenuta nell'art. 32 della legge 25 maggio 1970 n. 352. 5. Perimetro della giurisdizione contabile. La casistica appena esaminata offre latamente il destro per l'analisi di quella in tema di giurisdizione della Corte dei conti, nell'ambito della quale si lasciano innanzi tutto apprezzare Sez. U, n. 10319/2016, Scarano, Rv. 639675. L'arresto precisa che la nozione di atto politico va 560 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE intesa in senso decisamente restrittivo. L'area dell'immunità giurisdizionale risulta pertanto esclusa quando l'atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell'esercizio di ampia discrezionalità amministrativa ma non esplicativa, tipicamente, di funzioni legislative. La tematica era quella della cartolarizzazione degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici disciplinata dal decreto-legge 25 settembre 2001 n. 351, convertito dalla legge 23 novembre 2001 n. 410. La fattispecie concreta era data da una delibera di giunta regionale che, in un'operazione appunto di cartolarizzazione, non prevedeva una soglia minima di prezzo. La Corte ha confermato la decisione del giudice contabile che, nell'affermare la propria giurisdizione, aveva correttamente ritenuto l'inconfigurabilità della delibera in parola quale atto politico, stante l'insussistenza di alcuna libertà nell'individuazione degli interessi e dei fini pubblici che caratterizza gli atti politici. Si è più sopra visto che, talvolta, il rapporto tra le differenti giurisdizioni si pone in termini di complementarità più che di confine, a rafforzamento delle tutele che l'ordinamento appresta. In tema di giurisdizione contabile, ipotesi tipica è quella dell'art. 1, comma 174, della legge 23 dicembre 2005 n. 266, in cui è stabilito che al fine di realizzare una più efficace tutela dei crediti erariali, la previsione dell'articolo 26 del regolamento di procedura di cui al regio decreto 13 agosto 1933 n. 1038, secondo cui nei procedimenti contenziosi davanti alla Corte dei conti si osservano le norme del codice di rito civile in quanto applicabili, si interpreta nel senso che il procuratore regionale dispone di tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo III, capo V, del codice civile. Sez. U, n. 14792/2016, Frasca, Rv. 640440, hanno puntualizzato che la spettanza al pubblico ministero contabile dell'esercizio dell'azione revocatoria innanzi al relativo giudice, non esclude la sussistenza della legittimazione dell'amministrazione danneggiata, come per qualsiasi altro creditore, ad esperire l'omologa azione davanti al giudice ordinario, ancorchè sulla base della stessa situazione creditoria legittimante l'azione di quel p.m., e i problemi di coordinamento nascenti da tale fenomeno di colegittimazione all'esercizio di quell'azione a due soggetti diversi e davanti a distinte giurisdizioni vanno esaminati e risolti, da ciascuna delle giurisdizioni eventualmente investite, nell'ambito dei poteri interni ad ognuna di esse, non riguardando una questione di individuazione della giurisdizione stessa. 561 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE Altri profili di novità assoluta innervano Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, in corso di massimazione, che hanno affrontato il tema della giurisdizione riguardo alle controversie risarcitorie contro amministratori e dipendenti di una centrale di committenza regionale (nella specie, della regione Piemonte), ex art. 1, comma 455, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, avente forma societaria, per i danni arrecati da loro condotte al patrimonio sociale. La Corte ha ricordato la propria giurisprudenza con cui, nelle azioni di responsabilità per danni cagionati da organi o dipendenti di società partecipate dallo Stato o altri enti pubblici, si è affermato che il danno al patrimonio sociale, considerata la natura di ente privato della società e l'autonomia giuridica e patrimoniale di essa rispetto al socio pubblico, comporta la sussistenza della giurisdizione ordinaria. Ciò in quanto manca un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, e anche un danno diretto a quest'ultimo. Diversamente, sussiste l'attribuzione al giudice contabile quando l'azione di responsabilità miri a un risarcimento del pregiudizio arrecato, come nel caso del danno all'immagine, direttamente al socio pubblico, non, cioè, quale riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale conseguente al danno incidente sulla società. Come ad eguale conclusione si giunge quando l'azione si fondi sul comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare o abbia male esercitato i diritti di socio. A questo importante quadro generale si sono affiancate quelle che possono essere considerate eccezioni. La prima, derivante dalla peculiarità di società soggette a un regime pubblicistico che le qualifica più della formale veste societaria: tipicamente, i casi di RAI s.p.a., ENAV s.p.a e ANAS s.p.a. La seconda per le società c.d. in house perché, in qualche modo analogamente, sono costituite da enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, con attività prevalente a favore dei partecipanti e soprattutto assoggettate a forme di controllo analogo a quello degli enti pubblici sui loro uffici. Nella fattispecie sottesa all'arresto ora richiamato, le Sezioni unite hanno ritenuto che la centrale di committenza costituita in forma societaria registrava univoci indici per ritenere di essere in presenza di un soggetto solo formalmente societario ma, per origine e modalità di costituzione avvenute ex lege, per struttura organizzativa e operativa, emergente dalla legge regionale che ne aveva disposto la costituzione e dal modo in cui le sue prescrizioni risultavano trasfuse nello statuto, doveva indurre alla qualificazione quale sostanziale ente pubblico regionale. In altri 562 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE termini, un caso rientrante nella prima tipologia delle sopra menzionate eccezioni. La giurisprudenza nomofilattica concernente la giurisdizione contabile, per il resto, ha trovato la sua più significativa casistica in tema di contributi comunitari e previdenza. Sez. U, n. 01515/2016, Virgilio, Rv. 638249, hanno esplicitato che configura un'ipotesi di danno erariale e rientra pertanto nella giurisdizione della Corte dei conti ex art. 103, comma 2, Cost., l'erogazione di contributi comunitari avvenuta sulla base di dichiarazioni non veritiere in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge (nella specie si trattava dei sostegni, previsti per il settore della zootecnica, conseguenti alle indicazioni di un proprietario di allevamento). Diversamente, Sez. U, n. 15541/2016, Napoletano, Rv. 640696, hanno invece escluso da tale giurisdizione la controversia inerente a una pensione consortile disciplinata dalla contrattazione collettiva per dipendenti di consorzi di bonifica. Il Collegio ha osservato che se è vero quella costituisce una forma equivalente di previdenza, non è però obbligatoria nonostante l'efficacia erga omnes attribuita per d.P.R. al contratto collettivo di settore. Né possiede altre connotazioni per essere considerata sostitutiva o integrativa. Con la conseguenza che, non essendo configurabile un trattamento pensionistico a carico dello Stato, la controversie appartiene alla giurisdizione ordinaria. 6. Ambito della giurisdizione tributaria. L'ermeneutica di legittimità in materia di giurisdizione tributaria trova le pronunce più rilevanti nella messa a fuoco dei rapporti con l'area riservata al giudice ordinario. Sez. U, n. 06451/2016, Di Iasi, Rv. 639112, hanno escluso riflessi tributari nella domanda dell'appaltatore avverso il committente per rivalsa dell'imposta sul valore aggiunto correlata al corrispettivo dell'appalto. Pretesa che rimane prettamente privatistica ancorché sorga questione circa la corrispondenza tra le somme versate a titolo d'imposta e quelle dovute in relazione alle aliquote in concreto applicabili. Ciò perché la statuizione su questo aspetto non può coinvolgere in alcun modo il rapporto tra il contribuente e l'amministrazione finanziaria, risolvendosi in un tipico accertamento incidentale nel contesto del rapporto obbligatorio di diritto privato che vede aggiungere l'obbligazione ex lege all'ammontare della prestazione in denaro pattuita. 563 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE Analogamente Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638222, hanno osservato come soggetto passivo di un'imposta come quella di consumo per il gas metano è il fornitore, che trasla l'onere all'utente in virtù di un fenomeno propriamente economico, sicché la domanda di ripetizione proposta dal consumatore verso il fornitore per quanto indebitamente pagato a causa della mancata applicazione dell'aliquota ridotta per usi industriali, non è un'azione tributaria di rimborso, devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, ma un'azione privatistica, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario. E sempre al giudice ordinario spetta giudicare sulla lite tra privati, o anche tra privati e amministrazione, avente per oggetto l'esistenza ed estensione del diritto dominicale, nella quale le risultanze indiziarie catastali possono comunque essere utilizzate con circoscritta valenza probatoria. È logico, d'altro canto, e lo precisano sul punto Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, che qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, seppure al fine di adeguarle all'esito di azioni come la rivendica o l'accertamento di confini, la giurisdizione torna ad essere sul punto quella tributaria in ragione della diretta incidenza degli atti catastali sui correlati tributi. In termini più generali, infine, Sez. U, n. 25977/2016, Perrino, in corso di massimazione, hanno precisato che l'adempimento dell'obbligo tributario da parte del terzo non sposta la giurisdizione sulla domanda di rimborso, non essendo ravvisabile un indebito di diritto comune. Infatti, l'estinzione dell'obbligazione ex art. 1180, c.c., non attribuisce automaticamente al terzo un titolo per agire direttamente nei confronti del debitore, non essendo ravvisabile un'ipotesi di surrogazione, neppure legale ex artt. 1203, n. 5, e 2036, comma 3, c.c., posta la consapevolezza di adempiere un debito proprio. Il che conferma la giurisdizione tributaria, sussistendo contestazione sull'esistenza del debito da rimborso, sulle modalità e procedure per ottenerlo. Sul versante dei rapporti con la giurisdizione amministrativa, d'altro canto, non può omettersi di rammentare l'importante precisazione di Sez. U, n. 25515/2016, Cirillo, in corso di massimazione, che ha stabilito la sussistenza della giurisdizione tributaria sulla c.d. ecotassa, ossia sul tributo, previsto dall'art. 3, commi 24 e seguenti, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, dovuto alle regioni per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, a carico del gestore dell'impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento. La questione era 564 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE giunta dal un conflitto negativo sollevato dal giudice amministrativo, ed è stata decisa escludendo si tratti di un'erogazione per prestazione complessa o a titolo di utenza. 7. Giurisdizione e diritto internazionale. In materia di diritto internazionale privato la giurisprudenza della Corte di cassazione ha registrato significativi arresti innanzi tutto in tema di competenza. In ottica processuale Sez. U, n.19473/2016, Travaglino, Rv. 641093, hanno ribadito, in linea con altri precedenti e soprattutto con la Corte di giustizia comunitaria, l'esegesi dell'art. 24 del regolamento CE del Consiglio n. 44/2001, del 22 dicembre 2000, ora riprodotto dall'art. 26 del Regolamento U.E. del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1215/2012, del 12 dicembre 2012, che l'ha sostituito dal 10 gennaio 2015. Ha trovato così conferma l'interpretazione nel senso che il giudice adito deve dichiararsi competente qualora il convenuto si costituisca in giudizio e non sollevi un'esplicita eccezione di difetto di competenza giurisdizionale, poiché tale costituzione configura una fattispecie di proroga tacita della giurisdizione. La ricostruzione, come spiegato in motivazione, risponde all'esigenza posta a fondamento della regolamentazione uniforme dello spazio giudiziario interstatuale civile, onde evitare l'insorgere e il protrarsi di situazioni di incertezza in ordine alla legittima predicabilità della competenza giurisdizionale del giudice adito, e risulta in sintonia con il principio dispositivo del processo, lasciando alla parte la scelta di contestare tempestivamente la legittimità della scelta del foro operata dalla controparte. Fattispecie singolare ma dall'importante vocazione e risvolto generale è quella approfondita da Sez. U, n. 17675/2016, Chiarini, Rv. 640688, dettata in tema di trasporto internazionale. Si trova statuito che la clausola, contenuta nella polizza di carico predisposta dal vettore sulla base di modelli tipo usati dagli operatori commerciali e recepiti dai contraenti per disciplinare il loro rapporto, che espressamente stabilisca la competenza giurisdizionale esclusiva di un giudice straniero e l'applicazione della sua legge nazionale, è valida, ai sensi degli artt. 17, lett. c), della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, e 23 del Regolamento CE del Consiglio n. 44/2001, posto che l'autonomia privata legittimamente delocalizza il rapporto – come si esprime il Collegio – dalla disciplina degli specifici ordinamenti statuali a favore di standard normativi internazionalmente accettati. 565 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE In ambiente fallimentarista, vanno ricordate Sez. U, n. 03059/2016, Didone, Rv. 638401. È stata l'occasione per riaffermare l'orientamento finalistico alla luce del quale l'istanza di fallimento presentata nei confronti di una società di capitali, già costituita in Italia, che abbia trasferito la sede legale all'estero dopo il manifestarsi della crisi d'impresa, rientra nella giurisdizione del giudice italiano solo se il trasferimento di sede non sia stato seguìto dal trasferimento effettivo dell'attività imprenditoriale, in modo da risolversi in un atto meramente formale. Da ultimo si segnala Sez. U, n. 15812/2016, Amendola, Rv. 640605, che ha ripreso l'importante tema dell'immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii. È stata data continuità alla travagliata conclusione per cui si tratta di una prerogativa e non di un diritto, riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali la cui operatività è però preclusa, nel nostro ordinamento, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 238 del 2014, per i crimini compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto tali lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali. Ha trovato quindi un'ulteriore conferma nomofilattica un dato da considerare acquisito che rappresenta, come noto, la prima applicazione, in Italia, della cd. dottrina dei controlimiti. 566 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE PARTE NONA IL PROCESSO CAPITOLO XXXIV IL PROCESSO IN GENERALE (di Francesca Miglio ed Andrea Penta)* SOMMARIO: 1. Il giudice. - 1.1. Competenza per materia. - 1.1.1. Competenza della sezione specializzata in materia di impresa. - 1.1.2. Competenza della sezione specializata agraria. - 1.2. Competenza per territorio. - 1.2.1. Foro del consumatore. - 1.2.2. Azione di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall. - 1.2.3. Competenza territoriale sulla querela di falso proposta in appello. - 1.2.4. Competenza per territorio derogabile ed accordo endoprocessuale. - 1.2.5. Competenza per territorio inderogabile. - 1.3. Questione di giurisdizione e questione di competenza. Pregiudizialità. - 1.4. Regolamento di competenza. - 1.5. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. - 1.5.1. Domanda ed eccezione riconvenzionale. - 1.5.2. Continenza. - 1.5.3. Connessione. - 1.6. Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente. - 1.7. Astensione e ricusazione. - 2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. - 3. Le parti e i difensori. - 3.1. Le parti. Rappresentanza e capacità processuale. - 3.2. Sostituzione processuale - 3.3. I difensori. - 4. Le spese processuali. - 4.1. Responsabilità aggravata. - 5. Principio della domanda e rilevabilità di ufficio delle cause di nullità. - 6. Interesse ad agire. - 7. Legittimazione ad agire. - 8. Il principio del contraddittorio. - 9. Pluralità di parti. - 9.1. Litisconsorzio necessario. - 9.2. Litisconsorzio facoltativo. - 9.3. Intervento volontario. - 9.4. Intervento per ordine del giudice. - 9.5. Successione di parti. - 10. I principi generali. L'art. 112 c.p.c. - 10.1. La regola del tantum devolutum quantum appelatum. - 10.2. L'omessa pronuncia. - 11. Il principio di non contestazione. - 12. La valutazione delle prove. - 13. Le forme degli atti e dei provvedimenti. - 13.1. Il contenuto della sentenza. - 13.2. La decisione a seguito di trattazione orale. - 14. La pubblicazione e comunicazione della sentenza. - 15. Le comunicazioni. - 16. Le notificazioni. - 16.1. Le varie fattispecie di notificazione. - 16.2. Le notificazioni presso il domiciliatario. - 17. La nullità delle notificazioni. - 18. I termini processuali. - 19. La nullità degli atti. - 20. Rilevabilità e sanatoria della nullità. - 21. I vizi di costituzione del giudice. - 22. L'estensione della nullità. 1. Il giudice. La Suprema Corte è tornata ad affermare o a ribadire importanti principi in ordine agli istituti che disciplinano l'individuazione del giudice competente e ne garantiscono la imparzialità. 1.1. Competenza per materia. 1) Francesca Miglio ha redatto i paragrafi da 1 a 9.5; Andrea Penta quelli da 10 a 22. 567 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 1.1.1. Competenza della sezione specializzata in materia di impresa. Secondo Sez. 6-1, n. 13956/2016, Scaldaferri, Rv. 640356, va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società, riguardante le somme da quest'ultima dovute in relazione all'attività esercitata, deponendo in tal senso, oltre alla ratio dell'art. 3, comma 2, lett. a), del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, in quanto volto a concentrare tutta la materia societaria innanzi al giudice specializzato, anche la sua formulazione letterale, la quale, facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario, si presta a comprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l'attività gestoria svolta dagli amministratori nell'espletamento del rapporto organico ed i diritti ad essi spettanti in forza del rapporto contrattuale che intercorre con la società. 1.1.2. Competenza della sezione specializzata agraria. Ha affermato Sez. 6-3, n. 07093/2016, De Stefano, Rv. 639541, che, quando a fronte di domanda di accertamento negativo sull'esistenza di un valido contratto agrario, perché posto in essere da un comproprietario dei beni affittati senza il consenso dei restanti comproprietari, il convenuto spieghi domanda riconvenzionale di accertamento di un valido rapporto agrario nei confronti del comproprietario non attore, con ampliamento del thema decidendum anche nei confronti degli originari attori, la competenza per materia sull'accertamento positivo o negativo del rapporto agrario, di carattere trilaterale, impone, salvo che la domanda riconvenzionale risulti prima facie infondata, la rimessione dell'intera controversia alla sezione specializzata agraria, inerendo entrambe le pretese all'accertamento della natura dell'unico rapporto, con conseguente nesso pregiudicante per incompatibilità. Sez. 6-1, n. 25535/2016, Genovese, in corso di massimazione, ha poi affermato che la competenza della sezione specializzata va affermata anche nei casi di proposizione di domanda di accertamento di una ipotesi di concorrenza sleale nella quale la lesione dei diritti riservati sotto forma di know how, ossia di informazioni aziendali e di processi ed esperienze tecnico - industriali e commerciali, sia, in tutto o in parte, direttamente o 568 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE indirettamente, elemento costitutivo o relativo all'accertamento della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale. 1.2. Competenza per territorio. 1.2.1. Foro del consumatore. Sez. 6-1, n. 14090/2016, Rv. 640363, ha ritenuto che la disciplina del foro del consumatore non sia applicabile alle controversie relative ai finanziamenti di importo complessivo superiore ad euro settantacinquemila o garantiti da ipoteca su beni immobili. 1.2.2. Azione di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall. Sull'argomento è intervenuta Sez. 1, n. 17197/2016, Ferro, Rv. 641043, secondo la quale l'azione di responsabiltà esercitata dal curatore a sensi dell'art. 146, comma 2, l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2932-2933 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, con la conseguenza che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie, siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale, ai sensi dell'art. 20 c.p.c. la competenza territoriale si determina, facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda. 1.2.3. Competenza territoriale sulla querela di falso proposta in appello. Ha ritenuto Sez. 6-2, n. 13032/2016, Lombardo, Rv. 640180, che la competenza territoriale sulla querela di falso proposta nel giudizio di appello appartiene al foro generale della persona, mancando una specifica disposizione normativa sulla forza attrattiva della causa di merito. 1.2.4. Competenza per territorio derogabile ed accordo endoprocessuale. Ha affermato Sez. 6-3, n. 22869/2016, Rubino, in corso di massimazione, che per ritenere sussistente un accordo endoprocessuale sulla competenza territoriale disponibile, atto a radicare la competenza del giudice concordemente indicato, è necessaria una manifestazione espressa delle parti interpretabile inequivocamente quale scelta concorde e consapevole di proseguire il giudizio dinanzi un diverso ufficio giudiziario individuato di comune accordo, non essendo sufficiente, a questo scopo, che le stesse abbiano fornito una o più indicazioni materialmente e fortuitamente coincidenti nell'eccepire la incompetenza del giudice adito e nell'indicare il giudice ritenuto competente. 569 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Peraltro, l'art. 38, comma 2, c.p.c. può trovare applicazione solo in tema di competenza per territorio derogabile, mentre, ove sia sollevata un'eccezione di incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile, l'ordinanza che l'accoglie (e che potrebbe anche essere pronunciata d'ufficio) ha natura decisoria, indipendentemente dal fatto che la controparte vi abbia aderito, sicché il giudice erroneamente adito è tenuto a statuire anche sulle spese del procedimento.(In termini, Sez. 6-1, n. 11764/2016, Cristiano, Rv. 639916). 1.2.5. Competenza per territorio inderogabile. Secondo Sez. 6-3, n. 12371/2016, Cirillo, Rv. 640298, tra le controversie attribuite dagli artt. 21 e 447 bis c.p.c., alla competenza territoriale inderogabile del giudice in cui si trova l'immobile sono comprese le controversie in materia di affitto di azienda, dovendo il giudice competente individuarsi con riferimento al luogo in cui è posta l'azienda del cui affitto si discute, non rilevando, pertanto, la sede legale della società conduttrice. 1.3. Questione di giurisdizione e questione di competenza. Pregiudizialità. Sul tema in oggetto, Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637937, ha affermato che la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza - fondata sulle previsioni costituzionali riguardanti il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale precostituito per legge, i principi del giusto processo, l'attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed il suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati - può essere derogata solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del giusto processo, oppure della formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione. La medesima pronuncia, Rv. 637938, ha peraltro precisato che qualora una sentenza di primo grado, recante l'espressa affermazione della giurisdizione dell'adito giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l'art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d'ufficio il difetto da parte di quel giudice ai sensi dell'art. 37 c.p.c., attesi i concorrenti principi di pregiudizialità della 570 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale, di ragionevole durata del processo e l'attribuzione costituzionalmente riservata alla Suprema Corte di tutte le predette questioni, nonché il rilievo che la sua statuizione sulla sola questione di competenza risulterebbe inutiliter data se l'impugnazione riguardante la questione di giurisdizione ne sancisse la carenza per quel giudice. 1.4. Regolamento di competenza. Sugli effetti della violazione del principio del principio del contraddittorio prima della pronuncia sulla competenza, si è pronunciata Sez. 6-1, n. 14245/2016, Scaldaferri, Rv. 640499, affermando che l' emissione della decisione senza previa instaurazione del contraddittorio può assumere rilevanza non quale violazione in sé considerata, ma solo ove la parte ricorrente evidenzi e dimostri che detta violazione abbia avuto l' effetto di impedirle di apportare al giudice elementi utili al fine di statuire sulla propria competenza, tali da condurre a diversa decisione. Peraltro, in sede di regolamento di competenza, Sez. 6-3, n. 03387/2016, Frasca, Rv. 639361, ha chiarito che la nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito non può, di per sé, incidere sulla legittimità della impugnata pronuncia, giustificandone la sua caducazione, dovendo invece la Corte disporre, nell'ordinanza regolatrice, ai sensi dell'art. 49, comma 2, c.p.c., la remissione in termini della parte irritualmente rimasta contumace per lo svolgimento delle difese davanti al giudice di merito, qualora quella parte ne faccia richiesta costituendosi davanti a quel giudice. Quanto al controllo di legittimità sull'ordinanza di sospensione del processo, Sez. 6-1, n. 10880/2016, Ragonesi, Rv. 639854, ha affermato che, nell'ipotesi di sospensione del processo ordinata in applicazione di specifiche disposizioni normative, diverse dall'art. 295 c.p.c., qual è il caso di cui all'art. 16 del Regolamento CE n. 1/2003 del 16 dicembre 2002, allorché penda giudizio in materia di concorrenza innanzi alla Commissione Europea ovvero innanzi agli organi giudiziari europei avverso una decisione della Commissione nella detta materia, il controllo di legittimità in sede di regolamento necessario di competenza (ammissibile in forza del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost., 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. e 6 della CEDU) va limitato alla verifica che la sospensione sia stata disposta in conformità dello schema legale di riferimento e senza che la norma che la giustifica sia stata abusivamente invocata, 571 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE essendo rilevante, ai fini della sospensione ed alla stregua di un criterio di assoluta prudenza, anche la semplice possibilità di decisioni contrastanti. In ordine ai provvedimenti impugnabili, Sez. 6-1, n. 02259/2016, Rv. 638578, Genovese, ha statuito che è ammissibile il regolamento di competenza, ad istanza di parte o d'ufficio, proposto avverso provvedimenti che non abbiano carattere definitivo e decisorio, quali devono ritenersi quelli emessi in sede di volontaria giurisdizione, aventi ad oggetto i diritti di cui all'art. 317 bis c.c., anche ove pronuncino solo sulla competenza. attesa la necessità di garantire ai titolari dei diritti che ne chiedono il riconoscimento una risposta pronta e sicura del giudice di legittimità circa l'applicazione delle regole e dei criteri sulla competenza. In materia di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 1, n. 01372/2016, Nazzicone, Rv. 638491 osserva che la sentenza con cui il giudice dichiara l'incompetenza territoriale non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull'opposizione, ma contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicché quella che trasmigra innanzi al giudice ad quem deve considerarsi non più, propriamente, una causa di opposizione a decreto ingiuntivo (che più non esiste), bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. Tale pronuncia, peraltro, decidendo solo in ordine alla competenza ed alle spese, deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c., anche se emessa in grado di appello. Sviluppa il tema della decisione implicita sulla competenza Sez. 6-3, n. 18535/2016, Frasca, in corso di massimazione, secondo la quale, nel regime della decisione sulla questione di competenza introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, qualora, in presenza di eccezione di incompetenza, il giudice inviti le parti a precisare le conclusioni, sia a norma del primo comma dell'art. 187, sia a norma del secondo e del terzo comma del citato articolo, e quindi, trattenuta in decisione la causa, la rimetta con ordinanza sul ruolo istruttorio ammettendo le prove richieste dalle parti sul merito e disponendo la prosecuzione del giudizio, tale ordinanza, sia che si pronunci affermativamente sulla competenza, sia che rimanga silente sulle questioni di competenza , integra in ogni caso - a norma del primo comma dell'art. 279 c.p.c.- una decisione affermativa sulla competenza (nel secondo per implicazione), che è immediatamente impugnabile con il 572 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE regolamento di competenza ai sensi del'art. 42 c.p.c. Ne consegue che se detta ordinanza non venga impugnata con il regolamento necessario nel termine di legge, la questione di competenza risulta non più discutibile e, pertanto, il giudice non ne è più investito, con la conseguenza che, se egli torni successivamente ad esaminare la questione e declini la competenza, la relativa ordinanza è perciò solo illegittima. 1.5. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. 1.5.1. Domanda ed eccezione riconvenzionale. Sez. 2, n. 04133/2016, Criscuolo, Rv. 639413, ribadendo il principio secondo il quale la compensazione può assumere il carattere di eccezione riconvenzionale, qualora la deduzione del controcredito abbia il solo scopo di paralizzare l'avversa pretesa, ovvero quello di domanda riconvenzionale, allorché miri ad ottenere una pronuncia di condanna nei confronti dell'altra parte, ha precisato che, nel primo caso, la stessa, anche se implica un ampliamento del thema decidendum, è proponibile in appello ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (nella formulazione antecedente alla legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile ratione temporis). Nella stessa materia, Sez. 3, n. 21472/2016, Tatangelo, in corso di massimazione, ha precisato che nell'ipotesi in cui la domanda riconvenzionale risulti inammissibile per motivi processuali, ciò nonostante la medesima difesa deve essere presa in considerazione come eccezione, non sussistendo limiti al possibile ampliamento del tema della controversia da parte del convenuto a mezzo di eccezioni, purchè vengano allegati a loro fondamento fatti o rapporti giuridici prospettati come idonei a determinare la estinzione o la modificazione dei diritti fatti valere dall'attore. 1.5.2. Continenza. Nella materia in esame, Sez. 6-3, n. 10584/2016, Scrima, Rv. 640121, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 39, comma 2, c.p.c., il giudice che ravvisi la continenza tra una causa propostagli ed altra precedentemente instaurata dinanzi a un giudice diverso, deve verificare la competenza (per materia, territorio, derogabile e inderogabile, e valore) di quest'ultimo in relazione non soltanto alla causa da rimettergli ma anche a quella presso di lui già pendente, con indagine estesa a tutti i criteri di competenza; ne consegue che il giudice diverso, ove la causa venga davanti a lui riassunta, non potrà contestare il rapporto di continenza - facoltà concessa, invece, alla parte - ma potrà solo, ai sensi degli artt. 44 e 573 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 45 c.p.c., chiedere d'ufficio il regolamento di competenza ove ritenga la propria incompetenza per materia o per territorio inderogabile. 1.5.3. Connessione. Sez. 6-1, n. 00654/2016, Scaldaferri, Rv. 638258, ha ritenuto che il rapporto esistente tra due giudizi, pendenti tra le stesse parti innanzi a differenti uffici giudiziari, in cui la speculare contrapposizione di domande non ne esaurisca l'oggetto, aggiungendosi ulteriori pretese che, pur se strettamente collegate alle prime, abbiano un titolo diverso, non è qualificabile in termini di litispendenza, né di continenza, rientrando, invece, nella più ampia nozione di connessione oggettiva di cui all'art. 40, comma 1, c.p.c. In particolare, qualora il rapporto di connessione riguardi la causa di lavoro e la causa ordinaria introdotta dal socio di società cooperativa, l'impugnativa del licenziamento, accompagnata dalla domanda di accertamento della inesistenza o invalidità del rapporto associativo configurano un'ipotesi di connessione di cause, una con riflessi sul rapporto societario, l'altra su quello lavorativo, che determina la competenza del giudice del lavoro in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15798/2016, Mancino, Rv. 640686). 1.6. Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente. Il principio della translatio iudicii è stato applicato da Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641081, nel caso di appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o per grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. Le Sezioni Unite hanno ritenuto l'ammissibilità, in tal caso, dell'impugnazione, in quanto idonea ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente secondo il meccanismo dell'art. 50 c.p.c. 1.7. Astensione e ricusazione. Secondo Sez. 3, n. 14655/2016, Ambrosio, Rv. 640587, il collegio che giudichi del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza pronunciata dal giudice di rinvio può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, senza che sussista alcun obbligo di astensione a loro carico ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto tale partecipazione non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice, e ciò a prescindere dalla natura del vizio che ha determinato la pronuncia di 574 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE annullamento, che può consistere indifferentemente in un error in procedendo o in un error in iudicando, atteso che, anche in quest'ultima ipotesi, il sindacato è esclusivamente di legalità, riguardando l'interpretazione della norma ovvero la verifica del suo ambito di applicazione, al fine della sussunzione della fattispecie concreta, come delineata dal giudice di merito, in quella astratta. Al contrario, Sez. 1, n. 02399/2016, Didone, Rv. 638471 precisa che, nel giudizio di opposizione previsto dagli artt. 18 e 19 l. fall. (nel testo previgente, applicabile ratione temporis), la sentenza emessa in primo grado dallo stesso collegio che ha dichiarato il fallimento non è affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice, ma, avendo quel procedimento il carattere e la funzione sostanziale di un giudizio d'impugnazione di secondo grado, integra un'ipotesi di astensione obbligatoria di cui all'art. 51, n. 4, c.p.c., che la parte ha l'onere di far valere mediante tempestiva e rituale istanza di ricusazione ex art. 52 c.p.c., senza che, in mancanza, possa invocare, in sede di gravame, come motivo di nullità della decisione, la violazione, da parte del giudice, dell'obbligo di astenersi, neppure se deduca la tardiva conoscenza, oltre i termini ex art. 190 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis, della composizione del collegio che l'ha pronunciata, atteso che le parti, alla stregua dell'art. 113 disp. att. c.p.c., sono in grado di avere contezza, prima della camera di consiglio, dei magistrati destinati a comporre il collegio e, quindi, di proporre rituale istanza di ricusazione. 2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638390, ha ribadito che la consulenza tecnica d'ufficio è funzionale alla sola risoluzione di questioni di fatto che presuppongano cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicchè i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica dei fatti e la conformità al diritto di comportamenti, né, ove una tale inammissibile valutazione sia stata comunque effettuata (nella specie, quella relativa alla qualificazione della attività confacente alle attitudini dell'assicurato, di cui all'art. 1 della legge n. 222 del 1984, come attività usurante o stressante , o meno), di essa si deve tenere conto, a meno che non venga vagliata criticamente e sottoposta al dibattito processuale delle parti. 3. Le parti e i difensori. 3.1. Le parti. Rappresentanza e capacità processuale. Sez. U, n. 04248/2016, D'Ascola, Rv. 638746, ha affermato che il 575 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE difetto di rappresentanza processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi dell'art. 372 c.p.c.; tuttavia, qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l'onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l'avversario è chiamato a contraddire. Secondo Sez. 2, n. 01721/2016, D'Ascola, Rv. 638532, la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed ex ante, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Questo principio è stato enunciato in fattispecie in cui, in assenza della nomina di un curatore speciale, l'attività processuale concretamente svolta da una madre in favore del figlio minore (il quale, raggiunta la maggiore età, aveva proposto ricorso per cassazione, insieme alla madre, con il medesimo difensore che li aveva assistiti nei precedenti gradi del giudizio) è stata ritenuta non in conflitto di interessi. 3.2. Sostituzione processuale. Interessanti applicazioni del principio di cui all'art. 81 c.p.c. si riscontrano nella materia societaria. In particolare, secondo Sez. 1, n. 10936/2016, Bernabai, Rv. 639796, nella società a responsabilità limitata, il singolo socio è legittimato, giusta l'art. 2476, comma 3, c.c., ad esercitare, come sostituto processuale, l'azione di responsabilità spettante alla società, nei cui confronti, pertanto, deve essere integrato il contraddittorio, quale litisconsorte necessaria. Diversamente, Sez. 2, n. 17691/2016, Falabella, Rv. 641008, osserva che nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante può far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l'azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest'ultimo per gravi inadempienze, l'impugnativa del rendiconto o la revoca per giusta causa dell'amministratore, mentre non è legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, non 576 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società. 3.3. I difensori. Le decisioni di maggior rilievo hanno ad oggetto in modo particolare il mandato alle liti. Secondo Sez. 5, n. 16758 /2016, Marulli, Rv. 641066, nel processo tributario la procura alle liti deve essere apposta sull'originale del ricorso, mentre non è necessario che figuri anche sulla copia notificata alla controparte, nella quale è sufficiente che compaia un'annotazione attestante la sua presenza sull'originale. Nello stesso ambito, secondo Sez. L, n. 03487/2016, Manna A., Rv. 638964, è valida la procura speciale alle liti rilasciata per una serie di controversie purché caratterizzate da unitarietà di materia o collegate tra loro da specifiche e oggettive ragioni di connessione. Sez. L, n. 13482 /2016, Doronzo, Rv. 640234, ha ritenuto che, in caso di mandante residente all'estero, la prova contraria, idonea a superare la presunzione di rilascio della procura ad litem in Italia, può essere desunta da vari elementi (quali l'assenza di ogni indicazione del luogo e della data di rilascio della procura, la pacifica stabile residenza della parte in un paese non della Comunità europea o la mancata dimostrazione di un suo ingresso in Italia), nonché dal comportamento processuale della parte e, in particolare, dalla mancata risposta all'interrogatorio formale deferito dalla controparte sulla circostanza del luogo in cui la procura venne sottoscritta, cui il giudice, secondo la sua prudente valutazione, può riconnettere valore di ammissione dei fatti dedotti. In materia di procura generale alle liti rilasciata da organo di persona giuridica, Sez. 1, n. 01373/2016, Campanile, Rv. 638325, ha precisato che tale procura è valida anche dopo la cessazione o la sostituzione nella carica del suddetto organo, essendo un atto dell'ente e non dell'organo. Sui poteri del difensore, Sez. U, n. 04909/2016, Scarano, Rv. 639107, ha affermato che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi (nella specie, "con ogni facoltà") è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria. 577 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 4. Le spese processuali. Numerose sono state, nel 2016, le pronunce della Corte in materia di spese processuali. In particolare, Sez. U, n. 01839/2016, Iacobellis, Rv. 638268, è intervenuta in tema di compensazione tra le parti, affermado che l'ampio dibattito in dottrina circa la ricorribilità per cassazione delle sentenze del giudice amministrativo su diritti, invocata al fine di assicurare l'uniforme interpretazione ed applicazione della legge alla luce dell'ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, costituisce giusto motivo di compensazione nonostante la soccombenza del ricorrente che abbia impugnato una sentenza del Consiglio di Stato per motivi non concernenti la giurisdizione. Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 3438/2016, Tatangelo, Rv. 638889, ha statuito che nel regolare le spese di lite in caso di reciproca soccombenza, il giudice di merito deve effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria, ma fondata sul principio di causalità, che si specifica nell'imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all'altra per aver resistito a pretese fondate, ovvero per aver avanzato pretese infondate, e nell'operare una ideale compensazione tra esse, sempre che non sussistano particolari motivi, da esplicitare in motivazione, per una integrale compensazione o comunque una modifica del carico delle spese in base alle circostanze di cui è possibile tenere conto ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c., nel testo temporalmente vigente. Sempre con riferimento alla motivazione della compensazione, secondo Sez. 6-5, n. 14411/2016, Iofrida, Rv. 640558, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis, le "gravi ed eccezionali ragioni", da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica (nella specie, la particolarità della fattispecie) inidonea a consentire il necessario controllo. Sui rapporti tra regolamentazione delle spese processuali e abuso del processo si è espressa, poi, Sez. 6-2, n. 2587/2016, Scalisi, Rv. 638828, secondo la quale, in tema di equa riparazione, configura abuso del processo la condotta di coloro che, avendo agito unitariamente nel processo presupposto, in tal modo dimostrando la carenza di interesse a diversificare le rispettive posizioni, propongano contemporaneamente, con identico patrocinio legale, distinti ricorsi per ottenere l'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, così da instaurare cause inevitabilmente destinate alla riunione in quanto connesse per oggetto e titolo. In applicazione di tale principio, è 578 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE stata confermata la sentenza di merito che, a seguito della riunione di distinti ricorsi presentati dal medesimo difensore, per conto di soggetti aventi la stessa posizione nel processo a quo, ha ritenuto il giudizio come unitario ab origine, liquidando le spese di lite con un importo unico. Quanto alle cause con pluralità convenuti, secondo Sez. 6-2, n. 14118/2016, Falaschi, Rv. 640185, il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, si determina con riguardo a quanto dovuto dalla singola parte convenuta, che altrimenti sarebbe esposta per il compenso stabilito con riferimento all'importo dovuto da tutti i soggetti convenuti nello stesso giudizio per scelta del creditore. Ancora, per Sez. 3, n. 06976/2016, Rossetti, Rv. 639448, la condanna in solido di più parti soccombenti alla rifusione delle spese di lite, ai sensi dell'art. 97 c.p.c., non è consentita quando i vari soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, a nulla rilevando che tutti avessero un interesse comune all'accoglimento delle rispettive domande. In contrasto con tale pronuncia, si è però espressa Sez. 3, n. 20916/2016, Barreca, in corso di massimazione, secondo la quale la condanna solidale al pagamento delle spese processuali nei confronti di più parti soccombenti può essere pronunciata non solo quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ma anche nel caso in cui sussista una mera comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute. La pronuncia in esame ha precisato che la condanna in solido, in tal caso, è consentita anche quando i soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, essendo rimessa alla definizione dei rapporti interni ed alla eventuale azione di regresso tra condebitori la determinazione della parte di ciascuno. 4.1. Responsabilità aggravata. Tra le pronunce in tale materia, si segnala Sez. 5, n. 18057/2016, Meloni, Rv. 641110, secondo cui va condannata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso. 579 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Quanto ai presupposti per l'applicabilità dell'art. 96 c.p.c., Sez. L, n. 07726/2016, Amendola, Rv. 639485, ha precisato che la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati. Sez. 1, n. 17078/2016, Di Virgilio, Rv. 640913, ha ritenuto sussistente una fattispecie di responsbailità aggravata nella proposizione di un ricorso per dichiarazione di fallimento, al fine di ottenere il più rapidamente possibile il soddisfacimento di un credito. Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, ha ritenuto che, ai fini della condanna ex art. 385, comma 4, c.p.c., (applicabile ratione temporis), ovvero ex art. 96, comma 3, c.p.c., l'infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità, in quanto contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, costituisce indizio di colpa grave così valutabile in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illeicità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali. Secondo Sez. 6-3, n. 01115/2016, Vivaldi, Rv. 638508, la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, non esercitabile in via di azione autonoma. In ordine alla natura della domanda ex art. 96 c.p.c., poi, Sez. 1, n. 01266/2016, Valitutti, Rv. 638319, ha ritenuto che l'istanza 580 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE risarcitoria rivolta al giudice della causa del merito, investito dell'esclusiva competenza a liquidare il corrispondente danno, è improponibile ove si invochi la mera emissione di una pronuncia di condanna generica, altrimenti eludendosi, di fatto, quella competenza. 5. Principio della domanda e rilevabilità di ufficio delle cause di nullità. Sez. 1, n. 08795/2016, Bernabai, Rv. 639560, ha affermato che il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d'ufficio (o, comunque, a seguito di allegazione di parte successiva all'editio actionis), ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario. In particolare, tale principio è applicabile nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, in quanto, per la naturale forza espansiva riconnessa al principio generale, va riconosciuto al giudice il potere di rilevare d'ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un'espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo, trattandosi di potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo. 6. Interesse ad agire. Sez. 2, n. 05551/2016, Matera, Rv. 639341, ha ritenuto ammissibile, con riguardo alle azioni di risarcimento del danno, sia in materia contrattuale che extracontrattuale, la domanda dell'attore rivolta unicamente ad una condanna generica, senza che sia necessario il consenso - espresso o tacito - del convenuto, costituendo essa espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall'ordinamento ed essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante dell'attore. Con riferimento a specifiche fattispecie, degna di rilievo è Sez. L, n. 16626/2016, Amendola, Rv. 640848, secondo la quale il lavoratore non è titolare di un interesse ad agire in prevenzione rispetto a provvedimenti organizzativi datoriali solo potenzialmente lesivi della sua posizione giuridica, in quanto il datore di lavoro, nell'esplicazione della libera iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., non è vincolato nei confronti della generalità dei 581 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE dipendenti, né dagli obblighi generali di correttezza e buona fede derivano obbligazioni autonome nei suoi confronti. E' stato, al contrario, ritenuto sussistente l'interesse ad agire in caso di dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso del tempo, atteso che l'atto di recessso esplica i propri effetti sul rapporto intercorso tra le parti, ma non elide il diritto all'accertamento dell'invalidità del termine apposto al primo contratto di lavoro, permanendo l'interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale scaturiscono (Sez. L, n. 01534/2016, Lorito, Rv. 638345). 7. Legittimazione ad agire. In tema di legitimatio ad causam, Sez. U, n. 02951/2016, Curzio, Rv. 638372, esaminando le differenze tra legittimazione ad agire (intesa come diritto di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole) e concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, ha ribadito che le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti. La questione rimessa alle Sezioni Unite riguardava, in particolare, il contrasto interpretativo emerso nella giurisprudenza delle sezioni civili in materia di contestazione della effettiva titolarità del rapporto controverso. Sul punto si erano infatti affermati un orientamento minoritario secondo il quale tale contestazione avrebbe dovuto qualificarsi come mera difesa ed un orientamento maggioritario, secondo il quale, al contrario, la contestazione della concreta titolarità del diritto sostanziale avrebbe configurato un' eccezione in senso tecnico, non rilevabile di ufficio (a differenza dell'eccezione di carenza di legittimazione ad agire) ma affidata alla disponibilità delle parti e da introdursi, dunque, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte. A composizione del contrasto, le Sezioni Unite hanno affermato che la titolarità della posizione soggettiva, attiva e passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all'attore allegarla e 582 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE provarla (Rv. 638371) e che la carenza di tale titolarità è rilevabile d'ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa (Rv. 638373). Orientamento difforme dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, è stato espresso da Sez. L, n. 17092/2016, Lorito, Rv. 640784, secondo la quale l'effettiva titolarità attiva e passiva del rapporto controverso rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite, sicché il suo difetto non può essere rilevato d'ufficio dal giudice, ma dev'essere sollevato nei tempi e modi previsti e, quindi, non per la prima volta in sede di legittimità. 8. Il principio del contraddittorio. In tale materia si segnala Sez. 3, n. 03432/2016, De Stefano, Rv. 638918, secondo la quale non sussiste un obbligo per il giudice di sollecitare, ex art. 183, comma 4, c.p.c., la previa instaurazione del contraddittorio quando la questione rilevata d'ufficio sia di mero diritto, e, quindi, di natura processuale, né tale obbligo assume rilievo se la parte non prospetti la specifica lesione del diritto di difesa che ne avrebbe patito, quantomeno allegando, quale verosimile sviluppo del processo svoltosi nel rigoroso rispetto della norma, l'insussistenza delle circostanze di fatto poste a base della decisione, potendosi vantare un diritto al rispetto delle regole del processo solo se, in dipendenza della loro violazione, ne derivi un concreto pregiudizio. Nello stesso ambito, secondo Sez. L, n. 10353/2016, Manna, Rv. 639999, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, rafforzato dall'aggiunta del secondo comma all'art. 101 c.p.c. ad opera della l. n. 69 del 2009, si estende solo alle questioni di fatto, che richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti, o alle eccezioni rilevabili d'ufficio, e non anche ad una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito. 9. Pluralità di parti. 9.1. Litisconsorzio necessario. Ha affermato Sez. 3, n. 12295/2016, Rubino, Rv. 640380, che, nel caso di litisconsorzio necessario, l'integrazione del contraddittorio, anche se avvenuta dopo la dichiarazione della nullità della sentenza di primo grado e rimessione al primo giudice perché provveda a norma dell'art. 102, comma 2, c.p.c., ha effetti di ordine sia processuale che sostanziale, nel senso che sana l'atto introduttivo viziato da nullità, per la mancata chiamata in giudizio di tutte le parti necessarie, ma è altresì idonea ad interrompere prescrizioni e ad impedire decadenze di tipo 583 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE sostanziale nei confronti anche delle parti necessarie originariamente pretermesse. Fattispecie di litisconsorzio necessario è stata evidenziata da Sez. 2, n. 08468/2016, Scarpa, Rv. 639705, secondo la quale, qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale. Secondo Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, nell'opposizione a cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali proposta ai sensi dell'art. 615 c.p.c., sussiste la legittimazione passiva necessaria del concessionario allorché si deduca un vizio di notifica degli atti (nella specie, l'omessa tempestiva notifica della cartella determinante la prescrizione del credito) che, in caso di accoglimento dell'opposizione, potrebbe incidere sul rapporto con l'ente impositore, titolare della potestà sanzionatoria sottesa al conseguente inserimento nei ruoli trasmessi. Alcune pronunce di rilievo riguardano il litisconsorzio processuale. In particolare, Sez. 2, n. 02859/2016, Lombardo, Rv. 639108, ha affermato che in tema di condominio, l'impugnativa di una delibera assembleare proposta da una pluralità di condomini determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione, sicché, ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre, ex art. 331 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, quali parti di una causa inscindibile. Secondo Sez. 6-2, n. 08486/2016, Scalisi, Rv. 639571, nell'ipotesi in cui un convenuto chiami in causa un terzo per ottenere la declaratoria della sua esclusiva responsabilità e la propria liberazione dalla pretesa dell'attore, la causa è unica ed inscindibile, potendo la responsabilità dell'uno comportare l'esclusione di quella dell'altro, ovvero, nel caso di coesistenza di diverse, autonome 584 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE responsabilità, ponendosi l'una come limite dell'altra, sicché si determina una situazione di litisconsorzio processuale che, pur ove non sia configurabile anche un litisconsorzio di carattere sostanziale, dà luogo alla formazione di un rapporto che, nel giudizio di gravame, soggiace alla disciplina propria delle cause inscindibili. Sez. 1, 09131/2016, Cristiano, Rv. 639690, ha ritenuto che la chiamata del terzo iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. determini una situazione di litisconsorzio necessario processuale, non rimuovibile per effetto di un diverso apprezzamento del giudice dell'impugnazione, salva l'estromissione del chiamato con la sentenza di merito, sicchè quando il terzo, dopo aver partecipato al giudizio di primo grado a seguito di tale chiamata, non abbia preso parte a quello di appello, si configura una violazione dell'art. 331 c.p.c., rilevabile anche d'ufficio nel giudizio di legittimità. Del litisconsorzio "unitario o quasi necessario" si è occupata Sez. L, n. 00986/2016, Mammone, Rv. 638865, che lo ha ritenuto configurabile nel caso di proposizione, sulla base di unico fatto generatore dell'illecito, di domanda giudiziale nei confronti di due distinti convenuti, ritenendo applicabile in tal caso la regola, propria delle cause inscindibili, dell'unitarietà del termine per proporre impugnazione. Ha invece escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario con il nudo proprietario Sez. 2, n. 06293/2016, Matera, Rv. 639415, secondo la quale l'usufruttuario, così come l'usuario, è legittimato, in forza del rinvio ex art. 1026 c.c., all'esercizio in nome proprio delle azioni petitorie e possessorie volte a difendere ed a realizzare il proprio uso e godimento della cosa rispetto alle ingerenze di terzi. Infine, ribadendo un orientamento risalente nel tempo, Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi non impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c. 9.2. Litisconsorzio facoltativo. In tema di litisconsorzio facoltativo si segnalano due pronunce di rilievo. Secondo Sez. T, n. 07940/2016, Zoso, Rv. 639441, nel processo tributario, non prevedendo il decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, alcuna disposizione in ordine al cumulo dei ricorsi e rinviando l'art. 1, comma 2, al codice di procedura civile per quanto non disposto e 585 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE nei limiti della compatibilità, deve ritenersi applicabile l'art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo, per cui è ammissibile la proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa. Sez. 2, n. 06738/2016, Falaschi, Rv. 639638, ha ritenuto che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, l'obbligatorietà dell'azione di regresso prevista dall'art. 195, comma 9, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, nei confronti del responsabile, comporta che alla persona fisica autrice della violazione, anche se non ingiunta del pagamento, deve essere riconosciuta un'autonoma legittimazione ad opponendum, che le consenta tanto di proporre separatamente opposizione quanto di spiegare intervento adesivo autonomo nel giudizio di opposizione instaurato dalla società, configurandosi in quest'ultimo caso un litisconsorzio facoltativo, e potendosi nel primo caso evitare un contrasto di giudicati mediante l'applicazione delle ordinarie regole in tema di connessione e riunione di procedimenti. 9.3. Intervento volontario. Ha ritenuto Sez. 2 , n. 02237/2016, Matera, Rv. 638825, che gli enti esponenziali di interessi collettivi sono legittimati ad intervenire in giudizio, a condizione di essere portatori di un determinato interesse collettivo di gruppo, di essere iscritti in un apposito elenco abilitante e di tutelare un interesse ulteriore e differenziato rispetto a quello dei singoli associati, sicché va esclusa tale legittimazione in capo ad un'associazione non riconosciuta, che persegua una generica finalità di repressione degli abusi e rispetto della legalità. Nella stessa materia, Sez. U, n. 23304/2016, Didone, Rv. 641657, ha affermato che sotto la vigenza della legge 30 luglio 1998, n. 281 e prima della entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, le associazioni che si propongono statutariamente la tutela dei diritti dei consumatori non inserite nell'elenco di quelle legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi di cui agli artt. 3 e 5 della citata legge, non sono legittimate ad intervenire ad adiuvandum nei giudizi risarcitori proposti individualmente dai singoli consumatori, atteso che un siffatto intervento è consentito solo ove l'interveniente sia titolare di un rapporto giuridico connesso con quello dedotto in lite da una delle parti o da esso dipendente, e non di mero fatto, e che, anteriormente alla introduzione dell'art. 140 bis 586 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE del codice del consumo, gli interessi "diffusi", quali quelli dei consumatori, sono "adespoti" e possono essere tutelati in sede giudiziale solo se il legislatore attribuisca ad una associazione la qualità di ente esponenziale degli interessi stessi, così che essi possano assurgere al rango di "collettivi". 9.4. Intervento per ordine del giudice. Sez. L, n. 02522/2016, Balestrieri, Rv. 638936, ha ribadito il principio secondo il quale, in tema di controversie di lavoro, la disposizione del comma 9 dell'art. 420 c.p.c. non implica un automatico obbligo di adozione dei provvedimenti conseguenti all'istanza di chiamata in causa, in quanto il giudice conserva, secondo i principi generali, il potere di valutare la comunanza della causa e le ragioni d'intervento del terzo, sicché è configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado a norma dell'art. 383 c.p.c., solo in caso di omesso esame dell'istanza stessa ovvero di omesso rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario. 9.5. Successione di parti. Sez. L, n. 01757/2016, Berrino, Rv. 638717, ha riaffermato il principio secondo cui nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l'istituto dell'interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, nè consente agli eredi di tale parte l'ingresso nel processo. Quanto al successore a titolo particolare nel diritto controverso, Sez. 1, n. 05759/2016, Scaldaferri, Rv. 639273, ha ribadito il principio secondo il quale quest'ultimo può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa riguardante la disciplina di quella autonoma fase processuale che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie ovvero le parti che hanno partecipato al giudizio di merito. Come chiarito da Sez. 1, n. 11638/2016, Acierno, Rv. 639906, qualora il dante causa non sia costituito, il successore a titolo particolare ex art. 111 c.p.c. può, al contrario, intervenire nel giudizio di legittimità, per esercitare il potere di azione che gli deriva dall'acquistata titolarità del diritto 587 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE controverso, in quanto, diversamente opinando si determinerebbe una ingiustificata lesione del suo diritto di difesa. 10. I principi generali. L'art. 112 c.p.c. Nutrita e significativa è stata, nell'ultimo anno, la produzione giurisprudenziale della Corte in tema di principi generali che governano il processo civile. Va premesso che secondo Sez. 2, n. 01545/2016, Orilia L., Rv. 638646, l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, la cui statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione, sicché, in tal caso, il dedotto errore non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico dell'accertamento in concreto della volontà della parte. Inoltre, Sez. 6-1, n. 00118/2016, Genovese, Rv. 638481 chiarisce che il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame (sul punto, cfr. infra, sub par. 10.2) ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. Ciò debitamente premesso, Sez. L, n. 02209/2016, Esposito, Rv. 638607, chiarisce che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato dall'art. 112 c.p.c., non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti o in applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante, purché restino immutati il petitum e la causa petendi e la statuizione trovi corrispondenza nei fatti di causa e si basi su elementi di fatto ritualmente acquisiti in giudizio ed oggetto di contraddittorio. In quest'ottica, Sez. 3, n. 08639/2016, Rubino, Rv. 639739, ravvisa una violazione del principio in esame ove il giudice, accogliendo l'appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, 588 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l'atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di quanto previsto dall'art. 474 c.p.c., nonché dall'art. 389 c.p.c. per le domande conseguenti alla cassazione, come condanna implicita. Il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio, sicché, osserva Sez. 1, n. 4120/2016, Valitutti, Rv. 638813, non è configurabile un vizio di infrapetizione per l'omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. . Quando l'attore abbia quantificato la pretesa risarcitoria in un importo determinato, così limitando l'ammontare del quantum richiesto, Sez. L, n. 13876/2016, Amendola, Rv. 640457 rileva che il giudice che condanni il convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla quantificazione operata dall'istante incorre in ultrapetizione. Strettamente connesso con la questione che precede è il frequente caso in cui le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo siano accompagnate dalla formula "somma maggiore o minore ritenuta dovuta" o altra equivalente la quale, alla stregua di quanto statuito da Sez. 3, n. 12724/2016, Sestini, Rv. 640262, non costituisce una clausola meramente di stile, quando vi sia una ragionevole incertezza sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all'esito dell'istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l'atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perché l'omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell'espressione utilizzata. E' opportuno ricordare che le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa: sicché Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639022, ha ritenuto che il giudice del gravame non può rilevare officiosamente la nullità di un contratto quadro di investimento finanziario per 589 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE difetto di forma scritta, non risultando la circostanza determinativa della nullità ex actis. Si inserisce nella tendenza ad allargare il novero delle eccezioni in senso lato Sez. 6-3, n. 08903/2016, Rossetti, Rv. 639709, secondo la quale l 'intervenuta cessazione della materia del contendere non forma oggetto di un'eccezione in senso stretto, sicché essa può rilevarsi anche d'ufficio, purché emerga dalle risultanze processuali ritualmente acquisite. 10.1. La regola del tantum devolutum quantum appellatum. Quanto al giudizio di appello, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., lo stesso, pur limitato all'esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicché -rileva Sez. 1, n. 01377/2016, Valitutti, Rv. 638411 - non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall'appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio. In sede di legittimità, l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l'ammissibilità del motivo, sicché, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del tantum devolutum quantum appelatum, Sez. L, n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032 ritiene necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità ed autosufficienza del ricorso per cassazione, che in esso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate. 10.2. L'omessa pronuncia. Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all'art. 360, comma 1, n. 4, dello stesso codice, si configura,stando a quanto deciso da Sez. 6-1, n. 13716/2016, Scaldaferri, Rv. 640358) esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie, per 590 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione. Parimenti, il mancato esame, da parte del giudice, di una questione puramente processuale (si pensi al difetto di legittimazione iure hereditario) non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, potendo configurare, al più, un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall'art. 112 c.p.c. se, ed in quanto - come chiarito da Sez. 6-2, n. 00321/2016, Manna, Rv. 638383 - si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte. 11. Il principio di non contestazione. L'onere di contestazione - la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova - sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti: in applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 14652/2016, Sestini, Rv. 640518, ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al trafugamento di denaro da una cassaforte, aveva escluso che la linea difensiva assunta dal depositario, sostanziatasi nella negazione della propria responsabilità senza contestare l'entità delle somme asportate, potesse assumere valenza probatoria in ordine all'ammontare delle refurtiva, trattandosi di un dato estraneo alla sua sfera di conoscibilità diretta. Detto onere riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria, la cui valutazione in relazione ai fatti contestati è, come chiarito da Sez. 3, n. 12748/2016, Tatangelo, Rv. 640254, riservata al giudice e concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte. Da ciò Sez. 6- L, n. 06606/2016, Arienzo, Rv. 639300 fa discendere la considerazione per cui, rispetto ai documenti prodotti, vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all'art. 214 c.p.c., o di proporre - ove occorra - querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice. Il principio di non contestazione opera, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell'attore: pertanto Sez. 3, n. 08647/2016, Pellecchia, Rv. 639713, ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, preso atto che - in un giudizio risarcitorio da sinistro stradale - il mancato uso del casco protettivo da parte del danneggiato era stato eccepito da parte convenuta sin dalle sue prime difese, ha ritenuto accertata la circostanza, in difetto di 591 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE contestazione; ai fini della conseguente relevatio dell'avversario dall'onere probatorio, peraltro, detto principio postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all'onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l'altra parte è tenuta a prendere posizione: sicché, ad esempio, Sez. 3, n. 03023/2016, Rubino, Rv. 639077 ha ritenuto che la mancata allegazione del preciso luogo di verificazione un sinistro stradale, dal quale l'attore sostiene di aver riportato danni, esoneri il convenuto, che abbia genericamente negato il reale accadimento di tale evento, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa. 12. La valutazione delle prove. Tre sono le pronunce significative sul tema della valutazione delle prove che meritano di essere segnalate. Anzitutto Sez. 1, n. 05089/2016, Nappi, Rv. 639057, la quale ha affermato che la definizione di "notorietà" desumibile dall'art. 115, comma 2, c.p.c. si impone come criterio legale di giustificazione del giudizio di fatto, in quanto è destinata ad individuare le premesse di fatto che possono assumersi per vere anche in mancanza di prova. Ne consegue che, nel giudizio di cassazione, il riconoscimento o il disconoscimento di un fatto come notorio può essere censurato solo per vizio di motivazione dipendente dall'erronea determinazione dei criteri di notorietà, mentre sfugge al sindacato di legittimità l'erroneo giudizio sulla notorietà che non sia desumibile dalla motivazione, non dipendendo dall'utilizzazione di criteri impropri (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la valutazione del giudice di merito che, in un giudizio risarcitorio intentato da un risparmiatore nei confronti di un intermediario finanziario, aveva ragionevolmente desunto la prova del danno dal sopravvenuto fallimento della Cirio nell'anno successivo all'acquisto dei valori mobiliari e dal conseguente notorio azzeramento di questi ultimi). Quindi, Sez. 2, n. 00107/2016, Abete, Rv. 638450, che ha ribadito che le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale ove assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, mentre quelle raccolte ai fini dell'eventuale adozione del decreto inaudita altera parte, ex art. 669 sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo 592 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE utilizzabili anche ai fini della decisione quali indizi liberamente valutabili. La terza decisione, assunta da Sez. 3, n. 11892/2016, Frasca, Rv. 640192, ha chiarito che, in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. 13. Le forme degli atti e dei provvedimenti. Con riferimento agli atti di parte, Sez. 3, n. 00767/2016, Ambrosio, Rv. 638379, ha chiarito che la violazione della previsione contenuta nell'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, lett. a), del decreto legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, secondo la quale "il difensore indica il proprio codice fiscale", non è causa di nullità del ricorso, non essendo, tale conseguenza, espressamente comminata dalla legge, e non potendo ritenersi che siffatta omissione integri la mancanza di uno dei requisiti formali indispensabili all'atto per il raggiungimento dello scopo cui è preposto. Quanto al ricorso per cassazione, Sez. 2, n. 21297/2016, Cosentino, Rv. 641554, nell'analizzare un ricorso composto da ben 251 pagine, di cui 41 dedicate alla esposizione dei fatti, dopo aver ribadito che il requisito della sommaria esposizione dei fatti della causa non può ritenersi soddisfatto dalla trascrizione degli atti del giudizio di merito, ha affermato, quanto ai motivi di gravame, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva (nel caso di specie, per essere stati redatti con modalità espositive che si risolvevano, a propria volta, nell'affastellamento di un profluvio di atti dei pregressi gradi di quel giudizio e di altri giudizi) espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione. In particolare, detta violazione rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all'esame della Corte, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione 593 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE delle prescrizioni, assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell'articolo 366 c.p.c. In relazione ai provvedimenti, avuto riguardo alla speciale normativa sulla lingua nei procedimenti giurisdizionali nella Regione Trentino Alto Adige, Sez. 2, n. 17686/2016, Cosentino, Rv. 641009, ha statuito che il mancato uso della lingua prescritta nella stesura della sentenza nella parte in cui sono riportate le conclusioni di una delle parti non implica la nullità dell'atto, ma integra una mera irregolarità formale, salvo che tale omissione leda il diritto di difesa, incidendo in concreto sull'attività del giudice per averne comportato un'omissione di pronuncia sulle domande o sulle eccezioni della parte, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati dalla parte medesima. 13.1. Il contenuto della sentenza. Quanto all'aspetto formale, Sez. 2, n. 14222/2016, Lombardo, Rv. 640265 evidenzia che il provvedimento che abbia natura di sentenza e sia impropriamente denominato "ordinanza" è affetto da errore materiale, ma non è nullo quale sentenza, attesi i principi di prevalenza della sostanza sulla forma e tassatività delle nullità. Quanto al profilo contenutistico, invece, Sez. L, n. 17640/2016, Negri Della Torre, Rv. 640819 ha chiarito che la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai "precedenti conformi" contenuto nell'art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell'ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte che intenda impugnarla ha l'onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l'operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione. Del pari, Sez. 1, n. 14786/2016, Ferro, Rv. 640759, osserva che a sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per relationem, ove il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai 594 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame; (cfr. anche, quale precedente sull'argomento, Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, relativamente ad un caso in cui la motivazione di una sentenza si era limitata a riprodurre il contenuto di un atto di parte, senza niente aggiungervi, evidenziando che al giudice non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive; più di recente, dello stesso avviso è Sez. 6-2, n. 22562/2016, Picaroni, Rv. 641641, in un caso di rinvio operato dal Tribunale al contenuto dell'atto di appello). Nello stesso solco Sez. 2, n. 18754/2016, Cosentino, Rv. 641281, ha escluso la nullità di una sentenza di primo grado per essere la stessa motivata per relationem all'ordinanza di rigetto della istanza di sospensione dell'impugnata delibera condominiale, peraltro risultante dal verbale di causa, essendo in siffatta evenienza le ragioni della decisione attribuibili all'organo giudicante e risultando le stesse in modo chiaro, univoco ed esaustivo. Sez. 3, n. 04683/2016, Rubino, Rv. 639290, rileva che la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano, sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti, che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi, dovendo, invece, il "documento motivazione" essere univocamente apprezzabile da tutti i suoi fruitori per garantire che la sua analisi non esuli dal suo campo destinato, che è quello della validità delle argomentazioni giuridiche, in esso contenute, e non quello dell'interpretazione del dato testuale. Peraltro, Sez. 2, n. 01079/2016, Criscuolo, Rv. 638669, evidenzia come la portata di una pronuncia giurisdizionale vada individuata tenendo conto non soltanto delle statuizioni finali contenute nella parte dispositiva, ma anche delle enunciazioni riportate nella motivazione, la quale, nelle decisioni di accertamento e di condanna, incide sul momento precettivo della pronuncia tanto 595 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE da considerarsi integrativa del dispositivo stesso, supplendo, eventualmente, alle lacune di questo in quanto rivelatrice dell'effettiva volontà del giudice. 13.2. La decisione a seguito di trattazione orale. La sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere - osserva Sez. 3, n. 05689/2016, Sestini, Rv. 639292 - la sua conversione in valida sentenza ordinaria, per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione. Ne consegue che il termine lungo per l'impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell'impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto. 14. La pubblicazione e comunicazione della sentenza. Si è occupata del tema Sez. U, n. 18569/2016, Di Iasi, Rv. 641078) la quale, osservato preliminarmente che deposito e pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati e chiarito che tale momento coincide con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione, fa discendere da tale considerazione la conclusione per cui, qualoradetti momenti risultino impropriamente scissi, mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare - attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione - quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo. Come è noto, la pronuncia ha fatto seguito a Corte cost., 22 gennaio 2015, n. 3 (la quale, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata, al fine di individuare il dies a quo del termine per l'impugnazione, aveva 596 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE statuito che la conoscibilità della sentenza, in presenza di una seconda data, dovesse ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest'ultima) ed a Sez. U, n. 13794/2012, Chiarini, Rv. 623301 (la quale aveva affermato che, ove sulla sentenza fossero state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contenga soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorressero già dalla prima). In tema di redazione della sentenza in formato elettronico, Sez. 6-L, n. 17278/2016, Marotta, Rv. 641016 precisa che, dal momento della sua trasmissione per via telematica mediante PEC, il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l'ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 c.p.c.: è, pertanto, del tutto irrilevante la successiva trasmissione, sempre a mezzo PEC e a causa di un problema tecnico relativo al precedente invio, di altra sentenza relativa alla medesima controversia. Ai fini della verifica della tempestività del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 327, comma 1, c.p.c., per Sez. 3, n. 12986/2016, Frasca, Rv. 640405, rileva esclusivamente l'attestazione di deposito apposta in calce alla sentenza, espressa in modo completo e sottoscritta dal cancelliere a norma dell'art. 133, comma 2, c.p.c., non avendo invece alcun valore, in quanto non idonea ad integrare un'attestazione di cancelleria, la diversa data risultante dalla mera apposizione, a margine della prima pagina della stessa sentenza, di un timbro cronologico privo di indicazione della sua provenienza e non corredato da alcuna sottoscrizione, tale situazione non essendo, pertanto, riconducibile a quella dell'esistenza di due distinte attestazioni, entrambe però riferibili al cancelliere, l'una di deposito e l'altra di pubblicazione, recanti date successive. 15. Le comunicazioni. Nel procedimento di cassazione, ai sensi degli artt. 136 e 366 c.p.c., in virtù di un'interpretazione orientata all'effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo, il cancelliere può eseguire la comunicazione dei provvedimenti tramite deposito in cancelleria (sempre che il difensore non abbia eletto domicilio in Roma) solo se non è andata a buon fine la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, né quella via fax: il principio è stato enunciato da Sez. U, n. 597 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 11383/2016, Giusti, Rv. 639971, con riferimento ad una fattispecie anteriore alla disciplina sulle comunicazioni telematiche obbligatorie ex art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, divenuta operativa riguardo al procedimento di cassazione dal 15 febbraio 2016 per effetto di d.m. 19 gennaio 2016. Sempre in tema di giudizio per cassazione, Sez. 6-2, n. 07080/2016, Parziale, Rv. 639490, rileva che l'indicazione, da parte del difensore, di un numero di fax per la ricezione anche di avvisi di cancelleria comporta la necessità, per il destinatario, di tener attivata costantemente l'apparecchiatura in forma automatica ovvero di presidiare (o far presidiare), quantomeno nelle ore antimeridiane, il luogo in cui essa è installata sì da consentirne l'eventuale attivazione manuale, dovendosi ritenere, in difetto, che il duplice tentativo di invio del fax, effettuato dalla cancelleria in giorni diversi ed in ore antimeridiane, esaurisca le attività che possono ragionevolmente essere richieste all'Ufficio, con conseguente regolarità della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza. 16. Le notificazioni. In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, Sez. U, n. 14594/2016, Curzio, Rv. 640441, afferma che questi, appreso dell'esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall'art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa. 16.1. Le varie fattispecie di notificazione. In caso di notificazioni non a mani proprie, Sez. 2, n. 02968/2016, Orilia, Rv. 638692 osserva che, presupposto di validità della notificazione ex art. 139 c.p.c. non è già il preventivo tentativo di notifica a mani proprie, rispetto al quale integra soltanto una modalità alternativa, ma, in quanto eseguita ove il destinatario ha, nel comune di residenza, la casa di abitazione o l'ufficio od esercita l'industria o il commercio, che l'atto sia consegnato a persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, mentre, se sia eseguita in luoghi diversi, è irrilevante il rapporto tra il consegnatario e la persona cui l'atto è destinato e la notificazione deve considerarsi comunque nulla. In tema di notificazione di atti processuali civili nei confronti di collaboratore di giustizia ex lege 15 marzo 1991, n. 82, Sez. 3, n. 598 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 08646/2016, De Stefano, Rv. 639714) include, tra le "persone addette alla casa", a mani delle quali può essere legittimamente consegnato l'atto ai sensi dell'art. 139 c.p.c., anche gli appartenenti alle forze dell'ordine preposti alla protezione del collaboratore. Alla stregua di quanto deciso da Sez. 1, n. 07732/2016, Scaldaferri, Rv. 639307, in presenza di cause inscindibili, la circostanza che il termine di venti giorni per la conclusione del procedimento notificatorio, ai sensi dell'art. 143 c.p.c., tempestivamente attivato dal notificante, venga a scadere, nei confronti del notificando, oltre il termine assegnato dall'ordinanza di integrazione del contraddittorio, non preclude al giudice, che accerti la nullità della notificazione per mancanza delle ricerche dovute e preventive, di fissare un nuovo termine per la rinnovazione a norma dell'art. 291, comma 1, c.p.c., venendo così esclusa ogni decadenza, in considerazione del fatto che un'attività notificatoria, sebbene invalida, è stata comunque compiuta, nel termine originariamente fissato. Sez. 1, n. 10170/2016, Di Virgilio, Rv. 639660, , ha, infine, ribadito che, ai fini della determinazione del luogo di residenza o dimora del destinatario della notificazione, rileva esclusivamente il luogo ove questi dimora di fatto in modo abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo e potendo essere superate, in quanto tali, da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, affidata all'apprezzamento del giudice di merito (in applicazione di tale principio la S.C., , confermando la decisione impugnata, ha ritenuto valida la notifica eseguita presso il luogo della precedente residenza anagrafica, atteso che il trasferimento del destinatario, legale rappresentante della società, non era stato iscritto nel registro delle imprese e che in un atto formale, successivo a detto trasferimento, lo stesso aveva indicato quale proprio luogo di residenza quello dove era stata compiuta la notifica). Interessante è Sez. 2, n. 27352/2016, Parziale, in corso di massimazione, alla cui stregua la notifica ai condominii degli edifici, in quanto semplici "enti di gestione" non dotati di soggettività giuridica, va effettuata all'amministratore secondo le regole stabilite per le persone fisiche, con la conseguenza che, oltre che ovunque "in mani proprie", l'atto può essere consegnato ai soggetti abilitati a riceverlo invece del destinatario, soltanto nei luoghi in cui ciò è consentito dagli artt. 139 ss. c.p.c.: luoghi tra i quali può bensì essere compreso, in quanto "ufficio" dell'amministratore, anche lo stabile condominiale, ma soltanto nell'ipotesi in cui esistano locali, come può essere la portineria, 599 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE specificamente destinati e concretamente utilizzati per l'organizzazione e lo svolgimento della gestione delle cose e dei servizi comuni. 16.2. Le notificazioni presso il domiciliatario. Nel 2016 significative sono le pronunce della Suprema Corte in tema di notificazione degli atti a chi abbia eletto domicilio. Sez. 2, n. 16311/2016, Manna, Rv. 640833, ha affermato che, in caso di elezione di domicilio di più parti presso il medesimo difensore nel giudizio di primo grado, è ritualmente eseguita la notifica dell'appello presso tale domiciliatario anche nei confronti delle parti già da questi rappresentate ma che non abbiano proposto impugnazione, salvo che sia sopravvenuta un'incompatibilità del domiciliatario rispetto alla posizione delle parti non appellanti, idonea a determinare una violazione del diritto di difesa. Per Sez. 2, n. 08222/2016, Lombardo, Rv. 639514, la morte del procuratore domiciliatario produce l'inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la necessità che la notificazione dell'impugnazione sia eseguita, a norma dell'art. 330, comma 3, c.p.c., alla parte personalmente a pena di inesistenza, a meno che l'elezione di domicilio sia fatta presso lo studio di un professionista la cui autonoma organizzazione gli sopravviva, dovendosi in questo caso considerare tale studio alla stregua di un ufficio. Tuttavia, se nella dichiarazione lo studio sia indicato come quello di una persona determinata, professionista o meno, la dichiarazione stessa diviene inefficace a seguito della morte del domiciliatario, in quanto in tal caso si è voluto attribuire rilievo all'elemento personale e non a quello oggettivo dell'organizzazione, fermo restando che, ove quest'ultima continui ad operare dopo la morte del procuratore, la notificazione eseguita presso lo studio deve ritenersi nulla e non inesistente. Peraltro, qualora la parte abbia nominato due difensori, con poteri anche disgiunti, Sez. 3, n. 06781/2016, Rubino, Rv. 639339 precisa che la notifica degli atti non può più avvenire, secondo il disposto dell'art. 141, comma 4, c.p.c., presso lo studio del procuratore domiciliatario defunto, mentre è valida, invece, l'ulteriore notifica compiuta al procuratore rimasto in vita, ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, qualora detto difensore, non appartenente al foro del luogo ove ha sede l'autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza, non abbia eletto domicilio nel territorio di 600 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE detto Comune, con la conseguenza che dalla data di tale notifica decorre il termine breve per proporre impugnazione. Infine, la notifica della sentenza presso il procuratore domiciliatario, effettuata in luogo diverso da quello indicato in sede di elezione di domicilio a seguito del trasferimento dello studio professionale, è idonea a far decorrere il termine breve d'impugnazione previsto dall'art. 326 c.p.c., posto che la variazione di indirizzo non incide sulla relazione dello studio con la parte interessata e con il procuratore costituito, sicché resta soddisfatta l'esigenza di assicurare che la sentenza sia portata a conoscenza della parte per il tramite del suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a valutare, nei termini prescritti, l'opportunità dell'impugnazione: così si è espressa Sez. L, n. 02220/2016, Di Paolantonio, Rv. 638657, in una fattispecie in cui la notifica era stata effettuata presso una sede dello studio diversa da quella indicata in atti, nei giorni immediatamente successivi al trasferimento ad una sede ulteriore, certificato dal Consiglio dell'Ordine. 17. La nullità delle notificazioni. Dal punto di vista cronologico, Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, sottolinea che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prima della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti. Quanto al luogo in cui la notificazione viene eseguita, Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640604 risolvendo il contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità afferma che lo stesso non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell'ambito della nullità dell'atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.. In particolare, nella medesima occasione la Corte (Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603) rileva che l'inesistenza della notificazione (nella specie, del ricorso per cassazione) è ormai configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli 601 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell'attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l'atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa. Già in precedenza, tuttavia, Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761) aveva similmente affermato che la notifica del ricorso per cassazione al difensore costituito della parte appellata, privo della qualità di domiciliatario della medesima nel giudizio di appello, fosse nulla e non inesistente, poiché il professionista presso il quale la notifica è eseguita è pur sempre un difensore del destinatario, sicché la nullità è sanata ove quest'ultimo si costituisca in giudizio. D'altra parte, Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639285 osserva che l'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità, se la consegna telematica (nella specie, in "estensione.doc", anziché "formato.pdf") ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell'atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale. Nella notifica a mezzo posta, Sez. 2, n. 15905/2016, Cosentino, Rv. 640571 rileva che, ove il plico indichi come destinatario il domiciliatario e non il domiciliato, si ha, invece, mera irregolarità e non nullità, giacché il plico deve comunque pervenire nelle mani del domiciliatario, che dall'esame del contenuto individua quale sia il destinatario della notifica, tra le persone presso di lui domiciliate. E' altresì opportuno evidenziare che la nullità della notificazione del ricorso per cassazione, non rilevata in sede di legittimità, non è soggetta al principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione di cui all'art. 161 c.p.c. e, per l'effetto, non è deducibile in sede di giudizio di rinvio conseguente a sentenza rescindente, potendo, per converso, ove mai non rilevata 602 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE per errore meramente percettivo nel controllo degli atti del processo, risultare oggetto di ricorso per revocazione ex art. 395 c.p.c., come chiarito da Sez. 6-3, n. 10028/2016, Rubino, Rv. 639834. Da ultimo, Sez. 2, n. 07416/2016, Criscuolo M., Rv. 639475, indugiando sul significato del crocesegno, che non costituisce valida manifestazione di volontà della persona che riceve l'atto, né consente di individuarne l'identità, richiede, per la validità della notifica, che il notificante riporti le generalità del soggetto al quale l'atto è stato consegnato, attestandone l'impossibilità di apporre la sottoscrizione. 18. I termini processuali. Sul piano del diritto intertemporale, si è chiarito che la proroga dei termini processuali che scadono nella giornata di sabato, ex art. 155, comma 5, c.p.c., è applicabile non solo ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006, ma anche a quelli già pendenti a tale data, in forza dell'art. 58, comma 3, della l. n. 69 del 2009, che, tuttavia, non essendo una norma d'interpretazione autentica, dispone solo per l'avvenire, e, quindi, opera limitatamente ai termini in scadenza dopo la sua entrata in vigore, il 4 luglio 2009, e non a quelli che, a tale data, risultino già scaduti. In applicazione di tale principio, Sez. 6-1, n. 00310/2016, Genovese, Rv. 638269, ha rigettato l'appello con il quale era stata dichiarata improcedibile un'opposizione a decreto ingiuntivo instaurata prima del 1° marzo 2006 per tardiva costituzione dell'opponente, scadendo il relativo termine in un giorno di sabato antecedente al 4 luglio 2009 e non operando, pertanto, la proroga al lunedì successivo. Molto attesa era la pronuncia dell'organo supremo di nomofilachia sul tema della costituzione in appello mediante cd. velina. Sul punto, Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829)a risoluzione di un contrasto, ha affermato che la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione, in luogo dell'originale, non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di 603 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184 bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello. Pochi mesi prima Sez. 1, n. 04525/2016, Giancola, Rv. 638904) era pervenuta ad analoghe conclusioni, sostenendo che la costituzione in giudizio dell'appellante, avvenuta mediante deposito in cancelleria, oltre che della nota d'iscrizione a ruolo, del proprio fascicolo contenente, tuttavia, copia dell'atto di appello notificato alla controparte, non arreca alcuna lesione sostanziale ai diritti della parte appellata ed, in difetto di una specifica previsione d'improcedibilità del gravame, costituisce mera irregolarità, sanata dal successivo deposito dell'originale medesimo. Quanto agli adempimenti ed agli oneri in corso di causa, il termine di tre giorni per la comunicazione, da parte del cancelliere, delle ordinanze pronunciate fuori udienza non è perentorio, difettando, come osservato da Sez. 2, n. 10607/2016, Orilia, Rv. 639890, un'espressa previsione di legge in tal senso). Inoltre, quando il giudice abbia pronunziato l'ordine di integrazione del contraddittorio in causa inscindibile e la parte onerata non vi abbia provveduto, ovvero vi abbia ottemperato solo parzialmente, evocando in giudizio soltanto alcuni dei litisconsorti pretermessi, Sez. 3, n. 06982/2016, Rossetti, Rv. 639540)non ritiene potersi assegnare un nuovo termine per il completamento dell'integrazione, che equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, vietata espressamente dall'art. 153 c.p.c., salvo che l'istanza di assegnazione di un nuovo termine, tempestivamente presentata prima della scadenza di quello già concesso, si fondi sull'esistenza, idoneamente comprovata, di un fatto non imputabile alla parte onerata o, comunque, risulti che la stessa ignori incolpevolmente la residenza dei soggetti nei cui confronti il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato. 19. La nullità degli atti. In ordine agli atti introduttivi del giudizio, nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, introdotta dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639888 precisa che il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi 604 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché, ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento dello scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti. Sempre Sez. 2, n. 05319/2016, D'Ascola, Rv. 639352, chiarisce che, in virtù del generale principio del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156, comma 3, c.p.c., l'atto di riassunzione, volto alla prosecuzione di un procedimento già invalidamente instaurato, può dar vita ad un nuovo e rituale rapporto processuale, ove presenti i necessari requisiti che lo rendano oggettivamente idoneo al perseguimento di tale scopo. In ordine ai provvedimenti definitori, merita di essere segnalata Sez. 2, n. 04947/2016, Criscuolo, Rv. 639357, a mente della quale, in mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile una nullità della sentenza nell'ipotesi di mera difficoltà di comprensione e lettura del testo stilato in forma autografa dall'estensore, atteso che la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità indispensabili per il raggiungimento dello scopo della stessa. Parimenti, per Sez. 6-1, n. 23461/2016, Scaldaferri, in corso di massimazione, la presenza di un segno grafico non corrispondente al nominativo del giudice riportato in epigrafe non determina la nullità della sentenza, in quanto la sottoscrizione apposta dal giudice estensore svolge le necessarie funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, vieppiù se supportato da elementi, come l'indicazione del relatore nella intestazione della decisione, che permettono la identificazione tra segno grafico ed indicazione nominativa. Dello stesso avviso è Sez. 3, n. 20192/2016, Travaglino, in corso di massimazione, in un caso di sottoscrizione del giudice con segno grafico illeggibile. Sez. 6-3, n. 18149/2016, Barreca, in corso di massimazione, ha ribadito che la mancata assegnazione dei termini, in esito all'udienza di precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica ai sensi dell'art. 190 c.p.c., costituisce motivo di nullità della conseguente sentenza, impedendo ai difensori delle parti di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio. 605 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Sez. 3, n. 24636/2016, Vivaldi, in corso di massimazione, nell'aderire all'orientamento prevalente favorevole al principio di lesività in astratto delle nullità, ha sostenuto che è nulla la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza del termini ex art. 190 c.p.c., risultando per ciò solo impedito ai difensori l'esercizio nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte. Con riferimento al ricorso per cassazione, infine, significativi sono due interventi della Suprema Corte a Sezioni Unite. In una fattispecie di ricorso avverso la decisione emessa in sede disciplinare dal Consiglio Nazionale Forense, Sez. U, n. 19675/2016, Frasca, Rv. 641091, ha affermato che il deposito di una copia incompleta, benché autentica, della sentenza impugnata non è causa di improcedibilità del ricorso stesso se, per il principio dell'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo, sancito dall'art. 156, comma 3, c.p.c., esso sia tempestivo e l'impugnazione possa essere scrutinata sulla base della pur incompleta copia prodotta, perchè l'oggetto cui la prima si riferisce è interamente desumibile dalla parte di sentenza risultante da tale copia. Sempre in un'ottica di sanatoria, inoltre, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641080, ha statuito, a componimento di un contrasto, che la mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione, il cui originale risulti tempestivamente depositato, di una o più pagine non comporta l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica sanabile, con efficacia ex tunc, mediante nuova notifica di una copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell'intimato, salva la possibile concessione a quest'ultimo di un termine per integrare le sue difese. 20. Rilevabilità e sanatoria della nullità. Avuto riguardo alla fase di instaurazione del giudizio, Sez. L, n. 05579/2016, Esposito, Rv. 639047, ha esaminato il caso di avvocato sostituito in udienza da praticante non abilitato alla causa, in quanto di valore superiore ai limiti di cui all'art. 7 della l. n. 479 del 1999, chiarendo che l'invalidità che ne deriva resta sanata se non sia fatta rilevare entro la prima istanza o difesa successiva, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c., trattandosi di nullità relativa che non incide sulla regolare costituzione in giudizio della parte. 606 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Si occupa, invece, della fase istruttoria, avuto riguardo ai rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio, Sez. 1, n. 15418/2016, Nazzicone, Rv. 641028, la quale osserva che, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., detti rilievi costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che possono essere svolte nella comparsa conclusionale sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un'effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa, spettando al giudice sindacare la lealtà e correttezza di una siffatta condotta della parte alla stregua della serietà dei motivi che l'abbiano determinata. Al contempo, Sez. 3, n. 07110/2016, Scrima, Rv. 639525, ribadisce che le nullità concernenti l'ammissione e l'espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico, bensì nell'esclusivo interesse delle parti, sicché non sono rilevabili d'ufficio dal giudice, ma, ai sensi dell'art. 157, comma 2 c.p.c., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi (o alla conoscenza delle nullità stesse), nozione che include anche la richiesta di un provvedimento ordinatorio di mero rinvio e la formulazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado, dovendosene escludere, in difetto, la possibilità di farle valere in sede di impugnazione. In relazione alla sentenza, il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della stessa, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio: in applicazione di tale principio, pertanto, Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, ha cassato la sentenza di appello che, ritenuta viziata da ultrapetizione la sentenza di primo grado, per avere accolto una domanda di risoluzione contrattuale proposta da soggetto ritenuto non legittimato, era tuttavia incorsa nel medesimo vizio, avendo rilevato d'ufficio tale difetto, dal lato attivo, della titolarità del rapporto sostanziale dedotto in giudizio). 21. I vizi di costituzione del giudice. Sez. L, n. 18126/2016, Balestrieri, Rv. 641085, chiarisce che il principio di immutabilità del giudice trova applicazione con riferimento all'inizio 607 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE della discussione, sicché, anche nel rito del lavoro, la diversità di composizione, tra il collegio che ha assistito alla stessa e quello che ha deciso, determina la nullità assoluta e insanabile della pronuncia. Viceversa, Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638589, rileva che l'omessa indicazione, nell'epigrafe di una sentenza collegiale, del nome del terzo giudice componente il collegio, oltre al relatore/estensore ed al presidente, non è causa di nullità della sentenza medesima, essendo tale nominativo evincibile dal decreto che il presidente redige trimestralmente, ex art. 113 disp. att. c.p.c., indicando le date delle camere di consiglio e la composizione dei relativi collegi. Parimenti, per Sez. 1, n. 02318/2016, Ferro, Rv. 638565, l'indicazione, nell'intestazione del decreto pronunciato dal tribunale del nome di un giudice diverso da quelli componenti il collegio dinanzi al quale il procedimento è stato discusso e che lo ha trattenuto in decisione, va ascritta ad un mero errore materiale, come tale non comportante la nullità del provvedimento, ma suscettibile di correzione ai sensi dell'art. 287 c.p.c., atteso che l'intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, si esaurisce nella riproduzione dei dati del verbale di udienza e, in difetto di elementi contrari, debbono ritenersi coincidenti i magistrati indicati nel verbale come componenti del collegio giudicante con quelli che, in concreto, hanno partecipato alla deliberazione del decreto stesso. Sez. 2, n. 24951/2016, Manna F., in corso di massimazione, ha, sul punto, operato un distinguo: mentre in grado di appello, in base alla disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c., il collegio che delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici dinanzi ai quali è stata compiuta l'ultima attività processuale (cioè la discussione o la precisazione delle conclusioni), conseguendone la nullità della sentenza nel caso di mutamento della composizione del collegio medesimo, in materia di provvedimenti collegiali del giudice civile, la sentenza nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, sia pur non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell'udienza collegiale di discussione, deve presumersi affetta da errore materiale ed è, pertanto, emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c. In una fattispecie in cui, dopo il trasferimento di un giudice, era stato "congelato" il relativo ruolo, Sez. 1, n. 20247/2016, Campanile, in corso di massimazione, ha affermato che la mancata comunicazione in ordine all'assegnazione del procedimento ad altro giudice, che aveva tenuto l'udienza, già fissata per la precisazione 608 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE delle conclusioni, ponendo la causa in decisione ai sensi dell'art. 281-sexies cod. proc. civ., previa discussione orale, determina la nullità di tutti gli atti successivi del processo e della sentenza che lo conclude. 22. L'estensione della nullità. Sez. 2, n. 15463/2016, Lombardo, Rv. 640598, osserva che la nullità del provvedimento reso sull'istanza di sequestro in difetto di ius postulandi non si estende alla sentenza che definisce il giudizio di merito, essendo quest'ultimo indipendente ai sensi dell'art. 159, comma 1, c.p.c.. Da ultimo, infine, Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640526, ha ribadito che l'opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) si risolve in una contestazione relativa a singoli atti che la legge considera indipendenti, alla quale, pertanto, è estranea la regola della propagazione delle nullità processuali indicata dall'art. 159 c.p.c., operando tale principio anche per le cd. nullità insanabili - quali quelle attinenti al difetto dello ius postulandi ovvero della rappresentanza o della capacità di agire -, che debbono essere fatte valere nel termine di decadenza per l'opposizione, atteso che la finalità del processo esecutivo di giungere ad una sollecita chiusura della fase espropriativa non tollera che esso possa trovarsi in una situazione di perenne incertezza. 609 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO CAPITOLO XXXV IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO (di Eduardo Campese) SOMMARIO: 1. L'introduzione della causa in generale. – 1.1. Gli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti. – 1.2. Chiamata in causa ed intervento del terzo. – 2. La fase di trattazione in generale. – 2.1. La precisazione o modificazione delle domande – 2.2. Altre attività del giudice e delle parti. – 3. Le vicende anormali del processo – 3.1. Sospensione del processo. – 3.2. Interruzione del processo. – 3.3. Estinzione del processo. – 4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento. – 5. La correzione di errori materiali. 1. L'introduzione della causa in generale. La fase di introduzione della causa consiste in una serie di atti qualificati, nel loro complesso, dallo scopo di instaurare il processo, e realizza il primo contatto giuridico tra i suoi soggetti (o, se si preferisce, dà vita al cosiddetto rapporto giuridico processuale) attraverso la proposizione della domanda: ed è proprio su quest'ultima, tipico atto nel quale si concreta l'iniziativa del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale, che si impernia tale fase. 1.1. Gli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti. Nel corso del 2016, non sono mancate interessanti pronunce della Suprema Corte riguardanti il contenuto degli atti introduttivi del giudizio e la costituzione delle parti, anche sotto il profilo dei loro, rispettivi vizi. Particolare rilievo va immediatamente attribuito a Sez. U, n. 02951/2016, Curzio, Rv. 638371, 638372 e 638373, che, muovendo dall'assunto che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all'attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto, ha conseguentemente affermato, che le contestazioni, ad opera di quest'ultimo, della titolarità del rapporto controverso dedotto dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti. Proprio in ragione della natura giuridica attribuita ad una siffatta contestazione, quindi, 610 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO non può che conseguirne che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa. Sez. 1, n. 05249/2016, Di Marzio, Rv. 639022, peraltro, ha ribadito che le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa, e, in modo sostanzialmente analogo, Sez. 3, n. 12392/2016, Vincenti, Rv. 640319, resa in fattispecie di danni cagionati da animali, ha statuito che la ricorrenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio, sicché, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio. Meritevole di menzione, inoltre, appare anche Sez. 3, n. 11805/2016, Graziosi, Rv. 640195, la quale, facendo implicitamente proprio il consolidato orientamento secondo cui la qualificazione della domanda, alla stregua dei fatti allegati, spetta al giudice, ha evidenziato che quando la parte agisce prospettando condotte astrattamente compatibili con la fattispecie prevista dall'art. 2051 c.c., la loro riconduzione, operata dal giudice di primo grado, all'art. 2043 c.c., non vincola il giudice d'appello nel potere di riqualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata. Giova, infine, ricordare che Sez. 6-2, n. 13886/2016, Manna, Rv. 640327, ha stabilito che il documento contenente l'informativa sulla mediazione, ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, pur dovendo essere sottoscritto dall'assistito ed allegato all'atto introduttivo del giudizio, non è equipollente alla procura ad litem, dalla quale si distingue per oggetto e funzione, restando estraneo al conferimento dello ius postulandi, mentre Sez. 2, n. 08108/2016, Criscuolo, Rv. 639478, pronunciata in tema di giudizio davanti al giudice di pace, ha ritenuto che debba essere concesso un rinvio all'attore, ove lo richieda, per poter replicare alla domanda riconvenzionale del convenuto. Passando ai vizi degli atti introduttivi, Sez. 3, n. 00767/2016, Ambrosio, Rv. 638379, ha sancito che la violazione della previsione contenuta nell'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, lett. a), del decreto legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, secondo la quale «il difensore indica il proprio codice fiscale», non è causa di nullità del ricorso, non essendo, tale conseguenza, espressamente comminata dalla legge, e non potendo ritenersi che siffatta omissione integri la mancanza di uno dei requisiti formali 611 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO indispensabili all'atto per il raggiungimento dello scopo cui è preposto, laddove Sez. 2, n. 05319/2016, D'Ascola, Rv. 639352, ha sottolineato che, in virtù del generale principio del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156, comma 3, c.p.c., l'atto di riassunzione, volto alla prosecuzione di un procedimento già invalidamente instaurato, può dar vita ad un nuovo e rituale rapporto processuale, ove presenti i necessari requisiti che lo rendano oggettivamente idoneo al perseguimento di tale scopo. Sez. 1, n. 15414/2016, Di Virgilio, Rv. 640945, invece, ha chiarito che, dedotta la nullità della citazione come motivo d'appello, gli effetti della sua rilevazione da parte del giudice sono regolati in conformità all'art. 294 c.p.c., equivalendo la proposizione dell'appello a costituzione tardiva nel processo, sicché il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell'attività di primo grado da parte del giudice di appello, può essere ammesso a compiere le attività colpite dalle preclusioni verificatesi in prime cure, se dimostri che la nullità della citazione gli abbia impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame. Tale situazione, come si è ivi ulteriormente specificato, può verificarsi solo nel caso di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adìto in primo grado, mentre, in ogni altra ipotesi, occorre la dimostrazione, affatto residuale, che le circostanze della vicenda concreta abbiano determinato anche la mancata conoscenza della pendenza del processo. Ed è interessante sottolineare che, nella specie, è stata confermata la sentenza della corte d'appello che, dopo aver dichiarato la nullità della citazione in primo grado, degli atti collegati e della sentenza, aveva escluso la rimessione della causa al tribunale, disponendo la rinnovazione degli atti nulli anche senza richiesta dei ricorrenti rimasti contumaci sia in primo che in secondo grado, fissando udienza di trattazione, previa concessione del termine ex art. 183 c.p.c. anche ai contumaci e così realizzando a loro favore un iter processuale più favorevole rispetto a quanto spettantegli. Con riguardo, da ultimo, ai vizi della costituzione delle parti, va certamente segnalata Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639888, intervenuta sulla questione, nuova nella giurisprudenza di legittimità ma controversa nelle interpretazioni e nelle soluzioni offerte dai giudici di merito, se, nei procedimenti iniziati dinanzi ai tribunali a decorrere dal 30 giugno 2014, sia ammissibile – nella disciplina dell'art. 16 bis del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, inserito dall'art. l, comma 19, numero 2), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nel testo anteriore al decreto legge 27 giugno 2015, n. 83, 612 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132 (che, con l'art. 19, comma 1, lettera a, numero l, vi ha aggiunto il comma 1 bis) – il deposito con modalità telematiche dell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo. Si trattava, in altri termini, di stabilire se fosse possibile depositare telematicamente atti diversi rispetto a quelli per i quali l'art. 16 bis impone di utilizzare quel canale comunicativo: se, cioè, ferma l'obbligatorietà del processo civile telematico per i soli atti endoprocessuali, il deposito per via telematica dell'atto introduttivo del giudizio (a) rientrasse, pur in difetto di apposita autorizzazione ex art. 35 del decreto ministeriale 21 febbraio 2011, n. 44, tra le facoltà del difensore che intendesse in tal modo costituirsi in giudizio, oppure (b) fosse inammissibile. Tale questione – oramai di rilevanza esclusivamente intertemporale, giacché, a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2015, che ha inserito il comma 1 bis nell'art. 16 bis del d.l. n. 179 del 2012, «è sempre ammesso il deposito telematico di ogni atto diverso da quelli previsti dal comma 1» dello stesso art. 16 bis: sicché, a partire da tale data, per l'atto introduttivo del giudizio o per il primo atto difensivo, il regime della modalità di deposito è telematico o cartaceo a scelta della parte e, in caso di deposito telematico, questo è l'unico a perfezionarsi – è stata risolta dalla Corte mediante l'affermazione, ex art. 363, comma 3, c.p.c., del principio per cui, nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16 bis del d.l. n. 179 del 2012, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della l. n. 228 del 2012, introdotta dal d.l. n. 83 del 2015, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata (PEC) del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti. E sostanzialmente avvalendosi dei principi sanciti dalla pronuncia testè riportata, Sez. L, n. 22479/2016, Ghinoy, Rv. 641629, ha positivamente risolto la questione se, in un procedimento iniziato in data anteriore al 30 giugno 2014 e davanti ad ufficio non abilitato a ricevere gli atti in via telematica, in assenza del decreto dirigenziale previsto dall'articolo 35, comma 1, del d.m. 613 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO n. 44 del 2011, il difensore che abbia tentato il deposito con modalità telematiche ed abbia superato tutti i controlli automatici senza che venga rilevata alcuna anomalia, in caso di rifiuto di accettazione con la quarta PEC possa essere rimesso in termini per effettuare il deposito cartaceo. Sembra opportuno, altresì, menzionare, in questa sede, riguardando pur sempre un vizio di originaria costituzione della parti, Sez. U, n. 04248/2016, D'Ascola, Rv. 638746, che ha ritenuto che il difetto di rappresentanza processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi dell'art. 372 c.p.c.; tuttavia, qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l'onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l'avversario è chiamato a contraddire. 1.2. Chiamata in causa ed intervento del terzo. In tema di chiamata in causa del terzo su istanza di parte, giova ricordare che, Sez. U, n. 04909/2016, Scarano, Rv. 639107, ha precisato che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi (nella specie, "con ogni facoltà") è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria. Sez. 2, n. 08411/2016, Cosentino, Rv. 639737, poi, ha ribadito che il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto opera solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione ad un unico rapporto, mentre non opera in caso di chiamata in garanzia impropria, attesa l'autonomia dei rapporti. Tuttavia, anche in caso di rapporto oggettivamente unico, la presunzione su cui si fonda il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al terzo chiamato (ossia che l'attore voglia la condanna del chiamato, pur avendo agito nei confronti del solo convenuto) non può operare se 614 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO l'attore escluda espressamente che la propria domanda sia stata proposta nei confronti del terzo chiamato. Circa l'intervento volontario, invece, va immediatamente segnalata Sez. U, n. 23304/2016, Didone, Rv. 641657, che risolvendo la questione di massima di particolare importanza concernente l'ammissibilità, o meno, dell'intervento ad adiuvandum delle associazioni che si propongono la tutela dei diritti dei consumatori nei giudizi risarcitori promossi individualmente da quest'ultimi (ancorché le azioni siano state proposte, ai sensi dell'art. 33 c.p.c., davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una delle parti per essere decise nello stesso processo), hanno ritenuto, in fattispecie regolata dalla l. n. 281 del 1998, che se, giusta l'art. 3 di quest'ultima, le associazioni iscritte possono agire per la tutela collettiva degli stessi diritti (dichiarati fondamentali) riconosciuti ai consumatori, a maggior ragione possono intervenire nel giudizio promosso dal singolo consumatore. Va pure rimarcata, in ambito analogo, Sez. 2, n. 02237/2016, Matera, Rv. 638825, secondo la quale gli enti esponenziali di interessi collettivi sono legittimati ad intervenire in giudizio, a condizione di essere portatori di un determinato interesse collettivo di gruppo, di essere iscritti in un apposito elenco abilitante e di tutelare un interesse "ulteriore" e "differenziato" rispetto a quello dei singoli associati, sicché va esclusa tale legittimazione in capo ad un'associazione non riconosciuta che persegua una generica finalità di repressione degli abusi e rispetto della legalità. È utile, infine, rammentare, in materia di chiamata in causa iussu iudicis, Sez. 3, n. 06837/2016, Pellecchia, Rv. 639606, che ha statuito che ove il giudice ordini l'intervento di un terzo a seguito delle difese svolte dal convenuto, il quale, contestando la propria legittimazione passiva, indichi quello come responsabile della pretesa fatta valere in giudizio, ricorre un'ipotesi non di litisconsorzio necessario, ex art. 102 c.p.c., ma di chiamata in causa iussu iudicis, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., rispondente ad esigenze di economia processuale (comunanza di causa), discrezionalmente valutate sotto il profilo dell'opportunità. Ove, peraltro, la notifica al terzo sia nulla – ha proseguito la menzionata sentenza –, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, restando sanata detta nullità soltanto dall'ordine giudiziale di rinnovazione o dalla spontanea reiterazione, ad opera della parte interessata, della notificazione della citazione al terzo, senza che possa, invece, assumere rilievo sanante l'eventuale notifica al terzo stesso del ricorso per riassunzione a seguito di interruzione del processo 615 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO pendente tra le parti originarie, in quanto atto mancante degli elementi essenziali della domanda estesa nei confronti di quello. 2. La fase di trattazione in generale. La fase di trattazione – che, con quella di istruzione probatoria (altrimenti detta istruttoria in senso stretto), soltanto eventuale, consistente nell'acquisizione dei mezzi di prova che il giudice abbia ritenuto ammissibili e rilevanti ai fini della decisione, e quella della rimessione (o riserva) totale della causa in decisione, che funge da ponte per il passaggio alla terza fase del processo, ossia a quella di decisione, compone la cd. fase istruttoria in senso ampio – ha la particolare funzione della prima presa di conoscenza delle domande con l'impostazione dei relativi problemi, ivi compresi quelli concernenti l'eventuale necessità di precisazioni o ampliamento, nonché di ulteriori atti per acquisire prove o altri elementi di giudizio. Essa si pone, quindi, come una sorta di impostazione o di programmazione del giudizio in tutti i suoi aspetti di diritto, sia processuale che sostanziale, e di fatto, con la conseguente determinazione di un iter logico nel quale si inserirà, poi, – se ed in quanto verrà ritenuta necessaria – l'eventuale attività di acquisizione delle prove (istruzione in senso stretto). Rinviandosi, allora, per quanto riguarda la fase istruttoria in senso stretto, al capitolo XXXVI di questa rassegna, si esamineranno, nei paragrafi successivi, le principali pronunce rese, nel corso di quest'anno, dalla Suprema Corte con riguardo alle tematiche delle altre due fasi prima descritte. 2.1. La precisazione o modificazione delle domande. Deve immediatamente segnalarsi Sez. 1, n. 01368/2016, Valitutti, Rv. 638434, che, evidentemente ponendosi nella scia di Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, ha affermato, in una fattispecie disciplinata dal cd. rito societario, che il riferimento alla possibilità di modificare, nella memoria di replica ex art. 6, comma 2, lett. a), del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, (applicabile ratione temporis), la domanda originariamente formulata va inteso nel senso che la modifica può riguardarne anche uno o entrambi gli elementi oggettivi (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della deduzione, nella memoria predetta, di un 616 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO profilo di nullità contrattuale (nella specie, per l'omessa indicazione della facoltà di recesso del risparmiatore ai sensi dell'art. 30, comma 7, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) diverso da quello invocato in citazione, tanto più che il giudice, innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale, deve rilevare d'ufficio l'esistenza di altra causa di quest'ultima, anche se di protezione. La medesima sentenza ha altresì aggiunto che il richiamo operato dall'art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, applicabile ratione temporis, agli artt. 341 e ss. c.p.c., impone di ritenere che, anche nel rito societario, la domanda non formulata in primo grado nei termini ivi previsti va dichiarata inammissibile se proposta in appello, atteso l'inderogabile divieto di domande nuove di cui all'art. 345 del codice di rito, e, per tale ragione, ha confermato, sul punto, la decisione impugnata, secondo cui la delimitazione, in primo grado, del thema decidendum della domanda risarcitoria al solo profilo concernente l'invalidità del contratto di negoziazione dei titoli aveva definitivamente precluso la possibilità di chiedere, in sede di gravame, anche il danno derivante dal preteso comportamento negligente della banca. Sez. 1, n. 03806/2016, Sambito, Rv. 638877, ha, poi, chiarito che l'art. 183 c.p.c., nel testo, applicabile ratione temporis, di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, mentre, al comma 4, consente all'attore, entro la prima udienza di trattazione, di proporre le eccezioni e le domande che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni formulate dal convenuto, permette alle parti, nel termine di cui al successivo comma 5, solo la precisazione e la modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte, ma non la proposizione di ulteriori e diverse eccezioni e domande. Tale preclusione, peraltro, in quanto volta a tutelare anche l'interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice, indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al riguardo. In applicazione dell'anzidetto principio, è stata, quindi, confermata la sentenza impugnata che, a fronte dell'originaria domanda di risoluzione di un contratto di appalto avanzata in citazione, aveva ritenuto tardiva, pur in assenza della corrispondente eccezione, la successiva richiesta di accertamento di intervenuto scioglimento del contratto, per recesso della committente, e le pretese ad esso collegate, contenuta nella memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. Sez. 1, n. 09333/2016, Terrusi, Rv. 639621, dal canto suo, ha, invece, opportunamente precisato che la questione relativa alla 617 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all'individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, per cui non può esservi mutamento della domanda ove si sia in presenza di un ipotetico concorso di norme, anche solo convenzionali, a presidio dell'unico diritto azionato, presupponendo il cambiamento della domanda la mutazione del corrispondente diritto, non già della sua qualificazione giuridica. Ne consegue che se l'attore invoca, a fondamento della propria pretesa, un presidio normativo ulteriore rispetto a quello originariamente richiamato, fermi i fatti che ne costituiscono il fondamento, ciò non determina alcuna mutatio libelli, restando invariato il diritto soggettivo del quale è richiesta la tutela. In proposito, è interessante ricordare che, nella specie, è stata confermata la sentenza impugnata, che aveva condannato la parte poi ricorrente al pagamento del corrispettivo delle spese sostenute per il riscaldamento di alcuni locali occupati dall'Aeronautica militare all'interno dell'aeroporto di Ciampino, gestito dalla Aeroporti di Roma s.p.a., sulla base di una clausola convenzionale diversa da quella originariamente richiamata dalla menzionata società. Sempre con riguardo al tema della precisazione/modifica- zione della domanda originaria, va infine segnalata, in ragione della peculiarità della fattispecie affrontata, Sez. 2, n. 00698/2016, Criscuolo, Rv. 638366, secondo cui, proposta domanda di annullamento di un testamento olografo per incapacità naturale del testatore, costituisce domanda nuova la richiesta, formulata in sede di memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo vigente anteriormente all'1 marzo 2006), di annullamento del medesimo testamento per altro motivo (nella specie, difetto di data), essendo fondate le due azioni, pur nella identità di petitum, su fatti costitutivi diversi, né potendo il giudice rilevare ex officio l'annullabilità dell'atto di ultima volontà per tale diversa ragione, mancando una norma che espressamente gli riconosca tale potere. 2.2. Altre attività del giudice e delle parti. Molteplici accadimenti possono ulteriormente caratterizzare la fase di trattazione del giudizio, sicché non sembra rivelarsi superflua una succinta panoramica delle corrispondenti pronunce di legittimità rese nel corso del 2016. Merita di essere segnalata Sez. 1, n. 10715/2016, Didone, Rv. 639794, la quale ha evidenziato che lo sciopero dei magistrati o degli avvocati determina un impedimento allo svolgimento dell'udienza, la quale, pertanto, pur quando non sia stata verbalizzata la presenza 618 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO o meno delle parti, deve essere differita, quale rinvio d'ufficio, sicché all'udienza successive la parte comparsa non può invocare la cancellazione della causa dal ruolo che presuppone, invece, la diserzione di un'udienza regolarmente tenuta. Parimenti degna di nota è Sez. 3, n. 04767/2016, Tatangelo, Rv. 639347, secondo cui, in forza del combinato disposto degli artt. 187, comma 1, c.p.c. e 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il favor legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall'art. 189 c.p.c.. Sez. 1, n. 02984/2016, Di Virgilio, Rv. 638556, ha ribadito che la sentenza che decida su di una questione di puro diritto, rilevata d'ufficio, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l'apertura della discussione (cd. terza via), non è nulla in quanto, da tale omissione può solo derivare un vizio di error in iudicando, ovvero di error in iudicando de iure procedendi, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato; qualora, invece, si tratti di questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione sostenendo che la violazione del dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini, sicché, ove si tratti di sentenza di primo grado appellabile, può proporsi specifico motivo di appello solo al fine di rimuovere alcune preclusioni (specie in materia di contro-eccezione o di prove non indispensabili), senza necessità di ottenere la rimessione in primo grado, salva la prova, in casi ben specifici e determinati, che sia stato realmente ed irrimediabilmente vulnerato lo stesso valore del contraddittorio (in senso sostanzialmente conforme, benchè meno analitica, si veda anche la successiva Sez. 3, n. 03432/2016, De Stefano, Rv. 638918). Meritevole di menzione è, altresì, Sez. 2, n. 11157/2016, Giusti, Rv. 639978, a tenore della quale l'abbandono, in sede di precisazione delle conclusioni, di alcune domande ha esclusivamente un effetto processuale, impedendo al giudice di 619 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO decidere su esse, ma non pregiudica il diritto sostanziale né il diritto d'azione, sicché la parte, salvo che non vi abbia esplicitamente rinunciato, può successivamente riproporle in un separato giudizio. Infine, può essere utile ricordare che, come sancito da Sez. 2, n. 10607/2016, Orilia, Rv. 639890, il termine di tre giorni per la comunicazione, da parte del cancelliere, delle ordinanze pronunciate fuori udienza non è perentorio, mancando un'espressa previsione di legge in tal senso. 3. Le vicende anormali del processo. Per evidenti ragioni di sistematicità, si ritiene opportuno raggruppare nel presente paragrafo, suddividendolo in corrispondenti sottoparagrafi, le più interessanti pronunce rese dalla Suprema Corte, nell'anno in rassegna, con riguardo ad alcune delle vicende comunemente definite come "anormali" del processo, in particolare la sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo. 3.1. Sospensione del processo. Tra le decisioni in tema di sospensione necessaria del processo, ex art. 295 c.p.c., si segnalano, innanzitutto, Sez. 1, n. 04120/2016, Valitutti, Rv. 638813, secondo cui l'omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento, di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c., non determina vizio di infrapetizione, atteso che il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio; e Sez. 6-1, n. 13823/2016, Scaldaferri, Rv. 604357, recante l'opportuna precisazione che quando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposta soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché, ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento è illegittimo e deve essere, dunque, annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi del menzionato art. 337, comma 2. Degne di nota, anche per le peculiarità delle sottostanti vicende processuali, risultano: a) Sez. 6-1, n. 10880/2016, Ragonesi, Rv. 639854, secondo cui, nell'ipotesi di sospensione del processo ordinata in applicazione di specifiche disposizioni normative, 620 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO diverse dall'art. 295 c.p.c., qual è il caso di cui all'art. 16 del Regolamento CE 4 gennaio 2003, n. 1, allorché penda giudizio in materia di concorrenza innanzi alla Commissione europea ovvero innanzi agli organi giudiziari europei avverso una decisione della Commissione nella detta materia, il controllo di legittimità in sede di regolamento necessario di competenza, ammissibile in forza del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost., 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE e 6 della CEDU, va limitato alla verifica che la sospensione sia stata disposta in conformità dello schema legale di riferimento e senza che la norma che la giustifica sia stata abusivamente invocata, essendo rilevante, ai fini della sospensione ed alla stregua di un criterio di assoluta prudenza, anche la semplice possibilità di decisioni contrastanti; b) Sez. 6-2, n. 06510/2016, Giusti, Rv. 639706, a tenore della quale non sussiste rapporto di pregiudizialità tra il processo penale avente ad oggetto i reati di falso e truffa ed il processo civile volto ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c., atteso che, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l'effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale; c) Sez. 6-1, n. 04183/2016, De Chiara, Rv. 638863, la quale ha ritenuto che tra due giudizi riguardanti, rispettivamente, lo scioglimento di una comunione immobiliare e l'usucapione di uno degli immobili da dividere, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che va intesa in senso non meramente logico, ma tecnico giuridico, in quanto determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell'altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo si riflette necessariamente, condizionandola, su quella del secondo; d) Sez. 6- 2, n. 00783/2016, Giusti, Rv. 638378, secondo cui, ai sensi dell'art. 819 ter, comma 2, c.p.c., nei rapporti tra arbitrato e processo non trova applicazione l'art. 295 c.p.c., sicché il giudice ordinario non può sospendere il giudizio in ragione della pregiudizialità della causa pendente dinanzi agli arbitri. Infine, Sez. 3, n. 05955/2016, Cirillo, Rv. 639367, ha chiarito che la riassunzione di un processo sospeso (nella specie a seguito del terremoto che ha colpito la città di L'Aquila il 6 aprile 2009), è tempestiva quando il corrispondente ricorso sia stato depositato in cancelleria nel termine perentorio previsto dall'art. 297, comma 1, c.p.c, per cui la mancata successiva notifica del detto ricorso, 621 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, non determina l'estinzione del giudizio, dovendo invece il giudice fissare un nuovo termine per la notifica a norma dell'art. 291 c.p.c.. 3.2. Interruzione del processo. Tra le numerose statuizioni di legittimità che, nel corso del 2016, hanno riguardato le vicende interruttive del giudizio, merita di essere immediatamente ricordata Sez. 1, n. 17199/2016, Ferro, Rv. 641042, che ha ribadito che le norme che disciplinano l'interruzione del processo sono preordinate alla tutela della parte colpita dal relativo evento, la quale è l'unica legittimata a dolersi dell'irrituale continuazione del processo nonostante il verificarsi della causa interruttiva, sicché la mancata interruzione del processo non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, né essere eccepita dall'altra parte come motivo di nullità (in senso analogo, si veda anche Sez. 1, n. 15031/2016, Valitutti, Rv. 640714). Degna di nota, attesa la peculiarità della fattispecie processuale sottostante, è anche Sez. 1, n. 01376/2016, Valitutti, Rv. 638413, che, in tema di fusione, ha statuito che l'art. 2504 bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano, tuttavia, dalla successione mortis causa perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, né alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole, neppure applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 e ss. c.p.c.. Sez. 3, n. 06838/2016, Pellecchia, Rv. 639335, poi, nell'affermare che il principio secondo cui la morte dell'unico difensore della parte costituita in giudizio determina l'automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, con conseguente nullità degli atti successivi, presuppone il concreto pregiudizio arrecato al diritto di 622 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO difesa, ha, nella specie, rilevato l'esistenza di tale pregiudizio nel fatto che, rimessa dall'istruttore la causa sul ruolo e disposto un supplemento di consulenza tecnica d'ufficio, era diritto della parte avere nuove ed aggiornate difese, precluse dall'intervenuto decesso del difensore. Meritevole di menzione appare, altresì, Sez. 3, n. 02174/2016, Vincenti, Rv. 638947, che ha ribadito che la riassunzione del processo si perfeziona nel momento del tempestivo deposito del ricorso in cancelleria con la richiesta di fissazione dell'udienza, senza che rilevi l'eventuale inesatta identificazione della controparte nell'atto di riassunzione, il quale opera in termini oggettivi ed è valido, per raggiungimento dello scopo ai sensi dell'art. 156 c.p.c., quando contenga gli elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende proseguire. Ne consegue che non incide sulla tempestività della riassunzione, ai sensi dell'art. 305 c.p.c., la successiva notifica del ricorso e dell'unito decreto, idonea invece al ripristino del contraddittorio nel rispetto delle regole proprie della vocatio in ius, sicché, ove essa sia viziata o inesistente, o comunque non correttamente compiuta per erronea o incerta individuazione del soggetto che deve costituirsi, il giudice è tenuto ad ordinarne la rinnovazione, con fissazione di nuovo termine, ma non può dichiarare l'estinzione del processo. 3.3. Estinzione del processo. Tra le decisioni della Suprema Corte che, nel corso del 2016, hanno riguardato le vicende estintive del giudizio, può essere qui sufficiente ricordare Sez. 6-1, n. 11173/2016, Genovese, Rv. 639845, secondo cui il provvedimento di estinzione del processo, conseguente ad una dichiarazione di interruzione del giudizio erroneamente dichiarata, per difetto di uno dei presupposti di legge, dal difensore della parte, è nullo poiché l'errore, ove sia chiaramente riconoscibile, non può ridondare a danno della parte medesima, né è riscontrabile un principio di ragionevole affidamento, atteso che la controparte ed il giudice, per il principio di effettività, debbono, rispettivamente, eccepire e rilevare l'inefficacia della dichiarazione dell'evento interruttivo; e Sez. 1, n. 01950/2016, Dogliotti, Rv. 638417, secondo la quale, avvenuta la translatio iudicii, davanti al giudice competente, con citazione in riassunzione notificata nel termine perentorio assegnato dal giudice dichiaratosi incompetente, la mancata iscrizione della causa a ruolo non determina l'estinzione del processo ex art. 307, comma 3, c.p.c., atteso che il giudizio, venendosi a trovare in una situazione di quiescenza ai sensi dei commi 1 e 2 della medesima 623 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO disposizione, può essere nuovamente riassunto davanti al giudice già adito con la precedente riassunzione. 4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento. Giova premettere che la fase di decisione è tuttora oggetto di autonoma disciplina esclusivamente nelle cause riservate al collegio e contempla l'udienza di discussione soltanto nelle ipotesi in cui questa sia stata richiesta; mentre, nelle cause attribuite al giudice unico, la suddetta fase rimane, in pratica, assorbita nella rimessione (o riserva) in decisione, riemergendo in un'apposita udienza (davanti al giudice unico) nelle sole ipotesi di richiesta di discussione, salva la diversa eventualità della discussione prevista dall'art. 281-sexies c.p.c. ove il giudice monocratico scelga la trattazione orale. Peraltro, come ricordato da Sez. 2, n. 00464/2016, Matera, Rv. 638213, l'adozione, innanzi al tribunale in composizione monocratica, del modello a trattazione scritta, in luogo di quella mista richiesta dalla parte, non è causa di nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio o di difesa, attesa l'equipollenza tra i detti modelli decisionali, salvo che la parte dimostri una lesione concreta del diritto di difesa mediante l'indicazione degli aspetti che la discussione orale le avrebbe consentito di evidenziare ed approfondire, ad integrazione dei precedenti atti difensivi. Fermo quanto precede, vanno immediatamente segnalate due pronunce delle Sezioni Unite il cui comune denominatore può ravvisarsi nell'aver esplorato il tema dell'ordine della decisione delle questioni. Si tratta, in particolare: a) di Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637936-637937, la quale, dopo aver sancito che ogni giudice, anche qualora dubiti della sua competenza, deve sempre verificare innanzitutto, anche di ufficio, la sussistenza della propria giurisdizione, ha chiarito che la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza – fondata sulle previsioni costituzionali riguardanti il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale precostituito per legge, i principi del giusto processo, l'attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed il suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati – può essere derogata solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del "giusto processo", oppure della formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione; b) della 624 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO successiva Sez. U, n. 02201/2016, Didone, Rv. 638226, in cui si è ulteriormente precisato che la questione relativa alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio riguarda la valida costituzione del rapporto processuale, sicché deve essere esaminata prima della questione di giurisdizione, la quale presuppone pur sempre l'instaurazione di un valido contraddittorio tra le parti. Certamente meritevole di menzione appare, poi, Sez. U, n. 18569/2016, Di Iasi, Rv. 641078, che, nuovamente intervenendo sull'ancora non sopita questione della doppia data (di deposito e pubblicazione) della sentenza, ha sancito che il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione. Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare – attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo (in senso sostanzialmente conforme, vedasi anche Sez. 3, n. 12986/2016, Frasca, Rv. 640405, secondo cui non ha alcun valore, ai suddetti fini, in quanto inidonea ad integrare un'attestazione di cancelleria, la data risultante dalla mera apposizione, a margine della prima pagina della sentenza, di un timbro cronologico privo di indicazione della sua provenienza e non corredato da alcuna sottoscrizione, tale situazione non essendo, invero, riconducibile a quella dell'esistenza di due distinte attestazioni, entrambe però riferibili al cancelliere, l'una di deposito e l'altra di pubblicazione, recanti date successive). Ha, invece, contribuito a meglio delimitare i contorni e l'efficacia della pronuncia di cessazione della materia del contendere Sez. 3, n. 11813/2016, Vincenti, Rv. 640240, la quale ha chiarito che una siffatta declaratoria postula che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano al giudice conformi conclusioni 625 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO in tal senso. Per tale ragione, ha escluso, nella specie, che la dichiarazione giudiziale di acquisto del bene locato, per usucapione, in favore della conduttrice determinasse l'estinzione del giudizio per la risoluzione del contratto di locazione medesimo (e di risarcimento danni), trattandosi, in assenza di conformi conclusioni delle parti, di evenienza in sé non in grado di elidere ogni contrasto tra le stesse. In tema di vizi della decisione, poi, non possono obliterarsi alcune statuizioni riguardanti le sentenze redatte in forma autografa. In particolare, secondo Sez. 2, n. 04947/2016, Criscuolo, Rv. 639357, in mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile nullità della sentenza nell'ipotesi di mera difficoltà di comprensione e lettura del testo stilato in forma autografa dall'estensore, atteso che la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità indispensabili per il raggiungimento dello scopo della stessa, laddove, a parere di Sez. 3, n. 04683/2016, Rubino, Rv. 639290, la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano, sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi, dovendo, invece, il "documento motivazione" essere univocamente apprezzabile da tutti i suoi fruitori per garantire che la sua analisi non esuli dal suo campo destinato, che è quello della validità delle argomentazioni giuridiche, in esso contenute, e non quello dell'interpretazione del dato testuale. Riguardano i vizi della decisione anche Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638589, per la quale è l'omessa indicazione, nell'epigrafe di una sentenza collegiale, del nome del terzo giudice componente il collegio, oltre al relatore/estensore ed al presidente, non è causa di nullità della sentenza medesima, essendo tale nominativo evincibile dal decreto che il presidente redige trimestralmente, ex art. 113 disp. att. c.p.c., indicando le date delle camere di consiglio e la composizione dei relativi collegi; Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, secondo cui il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della sentenza, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio; Sez. 3, n. 05689/2016, Sestini, Rv. 639292, che ha statuito che la sentenza pronunciata a 626 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere la sua conversione in valida sentenza ordinaria per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione. Ne consegue che il termine lungo per l'impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell'impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto; e Sez. 6-3, 18149/2016, Barreca, in corso di massimazione, secondo cui, la mancata assegnazione dei termini, in esito all'udienza di precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica ex art. 190 c.p.c., costituisce motivo di nullità della conseguente sentenza, impedendo ai difensori delle parti di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio. Di sicuro interesse, attesa l'attualità del tema del processo telematico, è Sez. 6-L, n. 17278/2016, Marotta, Rv. 641016, a tenore della quale, in tema di redazione della sentenza in formato elettronico, dal momento della sua trasmissione per via telematica mediante PEC, il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l'ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 c.p.c.. Ne consegue che è del tutto irrilevante la successiva trasmissione, sempre a mezzo PEC ed a causa di un problema tecnico relativo al precedente invio, di altra sentenza relativa alla medesima controversia. Da ultimo, considerato il peculiare scopo della presente rassegna, va menzionata anche Sez. 1, n. 06283/2016, Genovese, Rv. 639270, la quale ha opportunamente precisato che, nel caso di pronuncia di sentenza non definitiva da parte del giudice di merito, ai sensi dell'art. 279, commi 2 e 4, c.p.c., e di prosecuzione del giudizio per l'ulteriore istruzione della controversia, lo stesso giudice non resta da questa vincolato se, in ordine alla prima pronuncia, l'altra parte eccepisca l'esistenza di un giudicato esterno, formatosi per un primo giudizio, ad esso sostanzialmente identico, la cui pronuncia sia passata in giudicato nelle more della seconda controversia. 627 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO 5. La correzione di errori materiali. Con riguardo al tema della correzione di errori materiali, vanno certamente ricordate, attese le peculiari vicende cui si riferiscono: a) Sez. 1, n. 02819/2016, Nazzicone, Rv. 638573, che ha giudicato ammissibile, alla stregua dell'interpretazione estensiva degli artt. 287 e ss. c.p.c., l'utilizzazione del procedimento di correzione degli errori materiali qualora il giudice del gravame, riformando la sentenza appellata, ometta, pur esistendo in atti tutti gli elementi a ciò necessari, di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in esecuzione di quest'ultima, atteso che una siffatta condanna è sottratta a qualunque forma di valutazione giudiziale, sicché sono configurabili i presupposti di fatto che giustificano la correzione e la relativa declaratoria necessariamente "accede" al decisum complessivo della controversia, senza assumere una propria autonomia formale, collegandosi l'omissione ad una mera disattenzione. L'ordinanza di correzione, inoltre, in quanto priva di contenuto decisorio, non è impugnabile, neppure con il ricorso ex art. 111, comma7, Cost., tale rimanendo, invece, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta; b) Sez. 1, n. 02815/2016, Nazzicone, Rv. 638522, che ha ritenuto esperibile il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., non solo per ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l'ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente evincibile dal testo del provvedimento e, come tale, rilevabile ictu oculi, ma anche in funzione integrativa, in ragione della necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, ovvero una statuizione obbligatoria di carattere accessorio, anche se a contenuto discrezionale. Non può, tuttavia, farsi ricorso a tale procedimento quando il giudice, nel redigere la sentenza e in conseguenza di un mero errore di sostituzione del file informatico, ad un'epigrafe pertinente abbia fatto seguire uno "svolgimento del processo", dei "motivi della decisione" ed un dispositivo afferenti ad una diversa controversia: in tal caso, infatti, l'estensione della correzione integra il deposito di una decisione affatto distinta, la quale verrebbe interamente sostituita a quella corretta; c) Sez. 6-2, n. 15650/2016, Giusti, Rv. 640597, secondo cui la procedura di correzione di errore materiale è esperibile per rimediare all'omessa liquidazione delle spese processuali nel dispositivo della sentenza, qualora l'omissione non evidenzi un contrasto tra motivazione e dispositivo, ma solo una dimenticanza dell'estensore. 628 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO 629 CAP. XXXVI - LE PROVE CAPITOLO XXXVI LE PROVE (di Rosaria Giordano) SOMMARIO: 1. Principio di non contestazione. – 2. Onere della prova. – 2.1. Controversie in materia di obbligazioni. – 2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. – 2.3. Controversie in materia di lavoro. – 2.4. Ulteriori declinazioni del principio dell'onere della prova. – 2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. - 3. Documenti. – 3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. – 3.2. Querela di falso. – 4. Confessione. – 5. Testimonianza. – 5.1. Limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della prova per testi – 5.2. Profili processuali – 6. Giuramento – 7. Presunzioni. - 8. Prove raccolte in un altro processo. 1. Principio di non contestazione. L'art. 115 c.p.c. è stato novellato, come noto, dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nel senso che i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti dal giudice a fondamento della decisione senza che occorra dimostrarli. Sulla questione, in generale, Sez. 3, n. 12517/2016, Cirillo, Rv. 640279, ha ribadito che la non contestazione del convenuto costituisce un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale, ritenendolo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. Peraltro, come ulteriormente chiarito da Sez. 3, n. 08647/2016, Pellecchia, Rv. 639713, il principio di non contestazione opera, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell'attore. Sez. 3, n. 15772/2016, Barreca, Rv. 641157, ha evidenziato, poi, che, ai fini della decisione, il contenuto della contestazione della parte convenuta va desunto dalla comparsa di risposta ovvero dai successivi scritti difensivi, non essendo alla stessa precluso, allorché contesti la sussistenza dei fatti principali posti a fondamento della pretesa dell'attore, dedurne comunque l'infondatezza in via subordinata, senza che ciò implichi il loro riconoscimento. Ulteriori precisazioni sono state svolte in ordine all'ambito applicativo del principio di non contestazione. In particolare, Sez. L, n. 17966/2016, Manna, Rv. 641176, ha chiarito che esso non si applica alle mere difese, mentre Sez. 3, n. 12748/2016, Tatangelo, Rv. 640254, ha evidenziato che l'onere di 630 CAP. XXXVI - LE PROVE contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice. Per converso, Sez. 1, n. 13436/2016, Nazzicone, Rv. 640400, ha affermato che il principio di non contestazione opera anche con riguardo a fatti riferiti a diritti indisponibili. 2. Onere della prova. L'art. 2697 c.c., in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi. Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio della mancata prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui non si sia pervenuti, anche in via presuntiva, alla dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di provare la sussistenza dello stesso. La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima nella giurisprudenza di legittimità in diversi ambiti. 2.1. Controversie in materia di obbligazioni. Si segnala, in primo luogo, Sez. L, n. 17713/2016, Esposito, Rv. 640821, la quale ha ribadito che, in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato dal creditore (ovvero dallo stesso debitore, essendone il creditore esentato e non essendo la promessa titolata), spetta a chi si afferma comunque creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988 c.c., che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotetica ragione di debito, ulteriore rispetto a quella di cui abbia dimostrato l'insussistenza. Sempre in tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, Sez. 1, n. 26334/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ha precisato che, sebbene il cessionario del credito non possa avvalersi della presunzione correlata alla scrittura ricognitiva di debito in sé e per sé considerata, può riferirsi, nell'ipotesi di dichiarazione titolata, 631 CAP. XXXVI - LE PROVE al fatto o rapporto giuridico dai quali trae origine il diritto fatto valere ed in ordine al quale il riconoscimento viene ad assumere valore di prova. Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 06217/2016, Di Marzio, Rv. 639263, ha chiarito che, nel caso in cui il debitore eccepisca l'estinzione del debito per effetto dell'emissione di un assegno bancario negoziato in favore del creditore prenditore in una data significativamente anteriore a quella in cui il credito fatto valere in giudizio sia divenuto esigibile, la diversità di data, facendo venire meno la verosimiglianza del collegamento tra il credito azionato e il titolo di credito, implica che resti a carico del debitore l'onere di dimostrare la causale dell'emissione dell'assegno e, conseguentemente, che il rilascio del titolo di credito fosse volto ad estinguere in via anticipata il debito oggetto del processo. Sez. 1, n. 25597/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha poi ribadito il principio, conforme all'insegnamento risalente della Corte, per il quale, in tema di condizione potestativa semplice, poiché l'acquisto del diritto dipende da un evento futuro ed incerto rimesso alla condotta volontaria di una delle parti e, pertanto, la stessa è elemento costitutivo della fattispecie negoziale attributiva del diritto, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è colui il quale intende affermare che l'evento condizionante si è avverato a dover fornire in giudizio la prova di tale fatto. In materia contrattuale, Sez. 2, n. 23893/2016, Manna, in corso di massimazione, ha affermato che nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, come nelle altre ipotesi di lavoro autonomo, l'onerosità è elemento normale, anche se non essenziale, sicché, per esigere il pagamento, il professionista deve provare il conferimento dell'incarico e l'adempimento dello stesso, e non anche la pattuizione di un corrispettivo, mentre è onere del committente dimostrare l'eventuale accordo sulla gratuità della prestazione. 2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. Principi significativi sono stati affermati dalla Corte anche in ordine al riparto dell'onere della prova in materia di responsabilità extracontrattuale. In particolare, Sez. 3, n. 13919/2016, Rubino, Rv. 640523, ha evidenziato, in tema di responsabilità medica, che la struttura ospedaliera che esegua un intervento chirurgico d'urgenza non può invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c., il quale implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui 632 CAP. XXXVI - LE PROVE programmazione rientra nei compiti di ogni struttura sanitaria e, con riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, sicché grava sulla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti. Sotto altro profilo, è stato evidenziato da Sez. 3, n. 03173/2016, Rossetti, Rv. 639075, che poiché in tema di assicurazione per responsabilità civile, il massimale non è elemento essenziale del contratto di assicurazione, che può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione, e neppure costituisce fatto generatore del credito assicurato, configurandosi piuttosto come elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore, grava su quest'ultimo l'onere di provare l'esistenza e la misura del massimale, dovendosi altrimenti accogliere la domanda di garanzia proposta dall'assicurato a prescindere da qualsiasi limite di massimale. Sez. 6–3, n. 25898/2016, Rubino, in corso di massimazione, ha precisato che, in materia di occupazione "sine titulo", il danno subito dal proprietario non è in "re ipsa" se non in senso meramente "descrittivo", sicché l'attore è tenuto ad allegare ed a provare, anche mediante l'ausilio di presunzioni, il fatto base dal quale discende il pregiudizio ovvero il fatto che, ove avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile, l'avrebbe effettivamente impiegato per una finalità produttiva (di godimento diretto o di locazione a terzi). Su un piano generale, Sez. 2, n. 23759/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha ricostruito i rapporti, con le relative conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio, tra eccezione di compensazione ed eccezione di inadempimento. In particolare, si è evidenziato che l'eccezione di compensazione e l'eccezione di inadempimento differiscono per presupposti e funzione, i quali implicano una diversa distribuzione dell'onere probatorio: l'eccezione di compensazione, infatti, si fonda su un fatto estintivo dell'obbligazione , sicché grava sulla parte che la invoca l'onere della prova del proprio controcredito; l'eccezione di inadempimento, invece, si basa sull'allegazione di un fatto impeditivo dell'altrui pretesa avanzata, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore potrà limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento, gravando sul creditore l'onere di dimostrare l'esatto adempimento. 633 CAP. XXXVI - LE PROVE 2.3. Controversie in materia di lavoro. Sez. L, n. 02209/2016, Esposito, Rv. 638608, ha ribadito che, ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un infortunio sul luogo di lavoro, incombe sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedirlo e, tra queste, di aver vigilato circa l'effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente, non potendo essere ragione di esonero totale da responsabilità l'eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell'evento. Più in particolare, Sez. L, n. 00034/2016, Tria, Rv. 638243, ha statuito che, nell'ipotesi di lavoratori addetti all'esazione del pedaggio stradale esposti al rischio di rapina, l'osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l'adozione delle correlative misure di sicurezza cd. "innominate", sicché incombe sullo stesso, ai fini della prova liberatoria correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle suindicate misure, l'onere di far risultare l'adozione di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe. Quanto al licenziamento per giusta causa, dovuto alla perdurante assenza dal servizio del lavoratore presso una nuova sede di destinazione, Sez. L, n. 14375/2016, Spena, Rv. 640567, ha evidenziato che spetta al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità dell'ordine di trasferimento, quale fondamento della giusta causa, mediante l'allegazione delle sottese esigenze organizzative che lo giustificano ai sensi dell'art. 2103 c.c., mentre il lavoratore può limitarsi ad impugnare il licenziamento, sostenendo l'illegittimità dell'ordine inadempiuto, senza alcun onere iniziale di contestazione di fatti la cui prova ed allegazione ricade sul datore di lavoro. Sempre in tema di licenziamento per giusta causa, Sez. L, n. 24023/2016, Patti, Rv. 641703, ha precisato che l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro (nella specie, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti), è assolto dal datore di lavoro con la specifica 634 CAP. XXXVI - LE PROVE deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti. Con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ha affermato che, poiché in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro ha, ai sensi dell'art. 41 Cost., la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. 15 luglio 1966, n. 604 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività. 2.4. Ulteriori declinazioni del principio dell'onere della prova. In tema di successione testamentaria, Sez. 2, n. 20830/2016, Falabella, Rv. 641511, ha affermato che il legittimario il quale propone l'azione di riduzione ha l'onere di indicare entro quali limiti è stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonchè quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, il legittimario ha pertanto l'onere di allegare e provare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva oltre che proporre, sia pure senza l'uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal "de cuius". In tema di diritti reali, Sez. 2, n. 25342/2016, Falaschi, in corso di massimazione, ha ritenuto che la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione al fine di esigere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c., sicché la parte convenuta per l'eliminazione di vedute poste a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 905 c.c., la quale affermi il diritto a mantenerle, ha l'onere di provare l'avvenuto acquisto, a titolo negoziale od originario, della relativa servitù, a nulla rilevando la mera preesistenza di fatto di tali aperture. 635 CAP. XXXVI - LE PROVE Si segnala, Sez. 1, n. 11578/2016, Nazzicone, Rv. 639884, la quale ha chiarito che, in tema di intermediazione finanziaria, la sottoscrizione, da parte del cliente, della clausola in calce al modulo d'ordine, contenente la segnalazione d'inadeguatezza dell'operazione sulla quale egli è stato avvisato, è idonea a far presumere assolto l'obbligo previsto in capo all'intermediario dall'art. 29, comma 3, del reg. Consob n. 11522 del 1998. La Corte ha precisato che, tuttavia, a fronte della contestazione del cliente, il quale alleghi l'omissione di specifiche informazioni, grava sulla banca l'onere di provare, con qualsiasi mezzo, di averle specificamente rese. Disattendendo l'opposto principio affermato da altro precedente di legittimità, Sez. 1, n. 09989/2016, Sambito, Rv. 639654, ha affermato che la Pubblica Amministrazione, convenuta nel giudizio di opposizione ad ingiunzione ex art. 3 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, per l'accertamento di un credito riconducibile ai rapporti obbligatori di diritto privato, assume la posizione sostanziale di attrice, sicché, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l'opponente deve dimostrare la loro inefficacia ovvero l'esistenza di cause modificative o estintive degli stessi. Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 09389/2016, Barreca, Rv. 639901, ha precisato che, nell'ipotesi di stipulazione del contratto di mutuo fondiario ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 21 gennaio 1976, n. 7, l'onere della prova dell'erogazione della somma data a mutuo è assolto dall'istituto di credito mutuante mediante la produzione in giudizio dell'atto pubblico notarile di erogazione e quietanza, spettando, in tal caso, al debitore che si opponga all'azione esecutiva del creditore dare la prova della restituzione della somma mutuata e degli accessori ovvero di altre cause estintive dell'obbligazione restitutoria. Sez. 2, n. 14538/2016, Cosentino, Rv. 640264, ha chiarito, poi, che, in tema di pubblico impiego, la preesistenza di una cessione stipendiale incompatibile con una nuova cessione, ai sensi dell'art. 39 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, è un fatto impeditivo, la cui prova spetta al debitore ceduto il quale opponga al cessionario la nullità della cessione da quest'ultimo dedotta in giudizio. 2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. La Corte non ha trascurato di ribadire che la regola generale posta dall'art. 2697 c.c. in tema di riparto dell'onere della prova può essere attenuata quando una 636 CAP. XXXVI - LE PROVE rigida applicazione della stessa potrebbe condurre a risultati sostanzialmente iniqui. Si segnala, in particolare, Sez. 6-1, n. 14157/2016, Ragonesi, Rv. 640261, la quale, premesso che requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione "personale e diretta" nel Paese d'origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate, ha sottolineato che il relativo onere probatorio, pur incombendo sull'istante, riceve un'attenuazione in funzione dell'intensità della persecuzione ed è assolto laddove sia dimostrata, anche in via indiziaria, la "credibilità" dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza. In applicazione del principio di vicinanza della prova, essenziale per il rispetto del canone della parità delle armi tra le parti in causa, Sez. 3, n. 06209/2016, Sestini, Rv. 639386, ha chiarito che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, al quale, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. 3. Documenti. La Corte è intervenuta per effettuare non trascurabili precisazioni sia sulle complesse questioni afferenti il disconoscimento e la verificazione della scrittura privata, sia in ordine a talune problematiche concernenti il giudizio di falso. 3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. Il tempestivo disconoscimento, ai sensi dell' art. 214 c.p.c. della scrittura privata, da parte dell'apparente sottoscrittore determina, per la parte la quale abbia prodotto e voglia avvelersi del documento, l'onere di proporre tempestiva istanza di verificazione. Sez. 1, n. 24539/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, ha precisato, quanto all'ambito applicativo della predetta regola generale, che la stessa non opera qualora la scrittura sia stata prodotta in giudizio dall'apparente sottoscrittore il quale è, ove voglia contestare detta circostanza, tenuto a dimostrarla mediante gli ordinari mezzi di prova, senza che, pertanto, il disconoscimento della sottoscrizione da parte dello stesso oneri l'altra parte della proposizione dell'istanza di verificazione. 637 CAP. XXXVI - LE PROVE In tema di disconoscimento della sottoscrizione, Sez. 6-L, n. 09255/2016, Marotta, Rv. 639595, ha evidenziato che la conciliazione in sede sindacale non ha natura di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, sicché il lavoratore può limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione facendo ricadere sulla controparte l'onere di chiederne la verificazione, la cui mancanza determina l'inutilizzabilità dell'atto. Sez. 2, n. 04946/2016, Criscuolo, Rv. 639179, ribadito che il procedimento di verificazione di scrittura privata ex art. 216 c.p.c. dà luogo ad un autonomo giudizio sull'autenticità del documento in sé considerato, che ne costituisce l'oggetto immediato, ha affermato che, in tale giudizio, la richiesta di accertamento dell'autenticità di altro documento, prodotto ma diverso da quello oggetto della originaria istanza di verificazione, costituisce domanda nuova. Sotto altro profilo, Sez. 2, n. 25881/2016, Migliucci, in corso di massimazione, ha chiarito che, laddove vi sia riconoscimento tacito in giudizio della scrittura privata ai sensi dell'art. 215 c.p.c., la formazione del giudicato sull'autenticità del documento ha effetto solo tra le parti in causa, mentre resta ferma la possibilità per un terzo di contestare detta autenticità fornendo la prova di quanto dedotto. 3.2. Querela di falso. La Corte è inoltre intervenuta su diverse questioni inerenti il giudizio di querela di falso. In primo luogo, Sez. 1, n. 11028/2016, Dogliotti, Rv. 639830, ha precisato che la denuncia dell'abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco proveniente da un terzo postula la proposizione della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto absque pactis e la scrittura abbia un'incidenza sostanziale e/o processuale intrinsecamente elevata. Significativi i principi sanciti da Sez. 1, n. 01866/2016, Valitutti, Rv. 638328, la quale ha affermato che la querela di falso proposta in via principale si configura, malgrado la peculiarità del suo oggetto, come un giudizio ordinario di cognizione nel quale trova applicazione l'art. 183, comma 6, c.p.c., senza che a ciò osti l'art. 221 c.p.c., che ha la propria ratio esclusiva nel consentire al giudice di valutare preliminarmente, in omaggio al principio della ragionevole durata del processo, la sussistenza dei presupposti per la proposizione della querela. Sul tema si segnala, inoltre, Sez. 2, n. 23899/2016, Correnti, in corso di massimazione, la quale ha precisato che la querela di falso proposta in appello, sebbene di regola il giudice debba limitarsi ad accertare la sussistenza dei 638 CAP. XXXVI - LE PROVE presupposti necessari per instaurare il relativo giudizio, può essere dichiarata manifestamente infondata, mediante un'interpretazione restrittiva dell'art. 355 c.p.c., in virtù del principio della ragionevole durata del processo. Sez. 2, n. 08705/2016, Scarpa, Rv. 639748, ha chiarito che, in tema di querela di falso, l'art. 225, comma 1, c.p.c., nell'imporre la pronuncia del collegio, non detta una regola di trattazione collegiale del procedimento ma esprime solo una riserva al tribunale in composizione collegiale limitatamente ai poteri decisori e non anche all'emissione di provvedimenti di rilevanza meramente ordinatoria o istruttoria. 4. Confessione. Si segnala Sez. 1, n. 13857/2016, Lamorgese, Rv. 640447, la quale ha evidenziato che, in tema di prova della simulazione di un contratto di trasferimento di quote di partecipazione in una società, il quale non richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem, le limitazioni poste, nei rapporti tra le parti contraenti, dall'art. 1417, comma 2, c.c., riguardano soltanto la prova testimoniale (e, correlativamente, quella per presunzioni) ma non l'interrogatorio formale, non essendo prevista per la confessione, che ha carattere di piena prova legale, una disposizione corrispondente a quella della simulazione ed attraverso il cui espletamento può essere utilmente acquisita sia la prova piena della simulazione, in caso di confessione piena e completa, sia un principio di prova, se le risposte sono tali da rendere verosimile la simulazione, sì da rendere ammissibile la prova testimoniale, a norma dell'art. 2724, comma, 1, n. 1, c.c. Ai fini della revoca della confessione per errore di fatto, è necessario dimostrare, secondo quanto precisato da Sez. 1, n. 09777/2016, De Chiara, Rv. 639665, non solo l'inesistenza del fatto confessato ma anche che, al momento della confessione, il confitente versava in errore, provando le circostanze che lo avevano indotto a ritenere che il fatto confessato fosse vero. 5. Testimonianza. La Corte ha affermato rilevanti principi in tema di prova testimoniale sia in ordine ai limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della stessa sia circa questioni di carattere più squisitamente processuale afferenti le modalità di deduzione di tale mezzo di prova, le valutazioni da compiere ai fini della rilevanza della stessa ed i poteri del giudice. 639 CAP. XXXVI - LE PROVE 5.1. Limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della prova per testi. Sez. 1, n. 05919/2016, Di Marzio, Rv. 639061, ha precisato che il contraente di un contratto per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, privo del possesso della scrittura per averla consegnata all'altro contraente che si rifiuta di restituirla, non può provare l'esistenza del rapporto avvalendosi della prova testimoniale, poiché non si verte in un'ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell'art. 2724, n. 3, c.c., bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del n. 2 del medesimo articolo. In ordine all'impossibilità morale di procurarsi la prova scritta, Sez. 1, n. 13857/2016, Rv. 640448, Lamorgese, ha precisato che la stessa non è configurabile a fronte della mera astratta posizione di preminenza della persona dalla quale la dichiarazione scritta doveva essere pretesa, o di un vincolo affettivo con la persona stessa, ma non è comunque esigibile l'allegazione di circostanze ostative assolute, sicché tale situazione non può essere negata in presenza di circostanze, anche di dettaglio, particolari o speciali, concorrenti a specificare la situazione di oggettivo impedimento psicologico, dovendosi volgere l'operato del giudice, con specifica sensibilità, alla valutazione delle circostanze allegate, sia in relazione al tipo di rapporto dedotto inter partes, sia alla possibile incidenza di eventi o situazioni particolari. Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 11467/2016, Lamorgese, Rv. 639842, ha ribadito che, in tema di simulazione del contratto, il principio di prova scritta che, ai sensi dell'art. 2724, n. 1, c.c. consente eccezionalmente la prova per testi (e, quindi, presuntiva) deve consistere in uno scritto, proveniente dalla persona contro la quale la domanda è diretta, diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono così sovvertire e contenente un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento, sicché lo stesso non può desumersi dal medesimo atto impugnato per simulazione, non ricorrendo alcun riferimento o collegamento logico, in contrasto con il documento, tra il negozio asseritamente simulato e quello sottostante. Circa i limiti soggettivi di ammissibilità della prova testimoniale, si segnala Sez. 3, n. 13212/2016, Travaglino, Rv. 640397, la quale ha chiarito che il promotore finanziario il quale abbia agito quale mandatario senza rappresentanza di un intermediario finanziario, e non abbia mai intrattenuto rapporti con lo stesso, non è incapace a deporre, ex art. 246 c.p.c., nel giudizio intrapreso dall'investitore nei confronti dell'intermediario medesimo, non avendo un interesse attuale e concreto all'esito di 640 CAP. XXXVI - LE PROVE tale giudizio, stante la distinta responsabilità del promotore e del soggetto abilitato per le eventuali violazioni dei propri doveri di comportamento. 5.2. Profili processuali. Sez. 3, n. 11790/2016, Scrima, Rv. 640173, ha evidenziato che nel processo civile disciplinato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha abrogato gli ultimi due commi dell'art. 244 c.p.c., il termine assegnato dal giudice istruttore ai sensi dell'art. 184, comma 1, c.p.c. per deduzioni istruttorie concernenti la prova testimoniale riguarda non solo la formulazione dei capitoli ma anche l'indicazione dei testi, sicché, una volta che il giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate dalle parti, non è più possibile effettuare tale indicazione od integrare la lista testi, in quanto l'unica attività processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse consiste nell'assunzione delle medesime. Quanto alla fase di espletamento della prova testimoniale ammessa, poiché la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c. incontra quale unico limite quello di non introdurre fatti nuovi o circostanze che, pur rilevanti sul piano probatorio, non siano state oggetto di capitoli di prova o siano state dedotte in capitoli non ammessi e l'osservanza di tale limite è desumibile non solo dalla domanda, ma anche dal tenore della risposta, Sez. 3, n. 15793/2016, Barreca, Rv. 641149, ha affermato che è di conseguenza irrilevante l'omessa trascrizione della prima nel verbale d'udienza, atteso che la verbalizzazione della seconda è sufficiente a dare conto della decisione del giudice di ammettere la domanda ed a consentirne il controllo in ordine all'ammissibilità dei fatti che ne sono stati oggetto. Circa la valutazione della deposizione testimoniale, si segnala Sez. L, n. 10347/2016, Manna, Rv. 639780, in ordine alla possibilità di ritenere attendibile la stessa anche limitatamente a determinati contenuti, purché, tra la parte del narrato ritenuta inattendibile ed il resto ritenuto meritevole di credito, non sussista un rapporto di causalità necessaria o l'una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell'altro. Si segnala, per altro verso, Sez. 2, n. 23896/2016, Scarpa, in corso di massimazione, per la quale nell'ipotesi in cui in sede di ricorso per cassazione venga dedotta l'omessa motivazione del giudice d'appello sull'eccezione di nullità della prova testimoniale (nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c.), il ricorrente ha l'onere, anche in virtù dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi 641 CAP. XXXVI - LE PROVE dell'art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo. 6. Giuramento. Sez. 1, n. 05090/2016, Nappi, Rv. 639028, ha ribadito che nel giuramento estimatorio ciò che rileva è l'essenzialità dell'accertamento del valore della cosa in relazione al petitum, onde il giuramento può essere deferito anche per stabilire il valore di una cosa perduta o perita a causa dell'inadempimento di un'obbligazione strumentale alla sua conservazione e, dunque, per determinare il tantundem dovuto a fini risarcitori. 7. Presunzioni. La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e, - soltanto in seguito -, il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario rilevante ai fini della decisione. Sulle prove presuntive si segnala, in termini generali, Sez. 6-5, n. 04241/2016, Caracciolo, Rv. 639433, la quale ha evidenziato che la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, perché mentre il fatto sul quale si fonda la prima dev'essere provato in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell'art. 116 c.p.c. È stato quindi affermato, da parte di Sez. 6–1, n. 00526/2016, Bisogni, Rv. 638257, che, in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato d'insolvenza dell'imprenditore da parte del terzo contraente, che deve essere effettiva e non meramente potenziale, può essere provata dal curatore, su cui incombe il relativo onere, tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, ex artt. 2727 e 2729 c.c., desumibili anche 642 CAP. XXXVI - LE PROVE dall'esistenza di protesti cambiari, in forza del loro carattere di anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d'impresa (sicché l'avvenuta pubblicazione di una pluralità di protesti può assumere rilevanza presuntiva tale da esonerare il curatore dal provare che gli stessi fossero noti al convenuto in revocatoria, su quest'ultimo risultando, in tal caso, traslato l'onere di dimostrare il contrario). Quanto alla prova presuntiva del danno da dequalificazione professionale, Sez. L, n. 17163/2016, Negri Della Torre, Rv. 640897, ha chiarito che non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza. 8. Prove raccolte in un altro processo. La Corte ha enunciato alcuni principi anche circa la valenza probatoria di prove assunte in altri processi. In particolare, Sez. 3, n. 01665/2016, Graziosi, Rv. 638323, ha precisato che il principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, operante al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 651, 651 bis e 654 c.p.p., esclude l'obbligo per il giudice civile di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale, ma non giustifica, da parte di questi, la totale omessa considerazione delle argomentazioni difensive, che si fondino sulle prove assunte nel processo penale o sulla motivazione della sentenza penale attinente alla stessa vicenda oggetto di cognizione nel processo civile. Si segnala, poi, Sez. 1, n. 01948/2016, Mercolino, Rv. 638318, per la quale le risultanze di intercettazioni ambientali legittimamente effettuate in un procedimento penale sono utilizzabili nel giudizio civile riguardante l'incandidabilità ex art. 143, comma 11, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270, comma 1, c.p.p., riferibili esclusivamente ai procedimenti penali diversi da quelli in cui sono state disposte e senza che, peraltro, possa ipotizzarsi alcuna lesione del diritto di difesa della parte nei cui confronti le stesse vengono fatte valere, che può, in quel giudizio, contestare la legittima effettuazione ed il 643 CAP. XXXVI - LE PROVE contenuto, nonchè dedurre e produrre mezzi di prova in senso contrario, ivi esse assumendo il valore di elementi indiziari, come tali liberamente valutabili dal giudice, ai fini del proprio convincimento sui fatti di causa, sulla base delle regole che disciplinano le prove per presunzioni. 644 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI CAPITOLO XXXVII LE IMPUGNAZIONI (di Salvatore Saija) SOMMARIO: 1. Le impugnazioni in generale – 2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa – 3. (segue) In generale. 4. Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa – 5. (segue) In generale. – 6. Revocazione. – 7. Le altre impugnazioni. 1. Le impugnazioni in generale. Nel presente paragrafo, verranno riportate le più significative pronunce del 2016 con valenza generale per tutti i mezzi di impugnazione. Iniziando dalla notificazione dell'impugnazione, Sez. 2, n. 16311/2016, Manna F., Rv. 640833, ha stabilito che nel caso in cui presso il medesimo difensore nel giudizio di primo grado sia stato eletto il domicilio da più parti, la notifica dell'appello presso tale domicilio deve intendersi validamente eseguita anche nei confronti di coloro che non abbiano proposto impugnazione, a meno che, per la sopravvenuta incompatibilità del domiciliata rio rispetto alla posizione delle parti non appellanti, non possa configurarsi una lesione del diritto di difesa. A composizione di contrasto con riferimento alla notifica del ricorso per cassazione, ma con valenza generale quanto alla dicotomia nullità/inesistenza della notifica dell'impugnazione, Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, ha affermato che l'inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi - secondo la citata sentenza - consistono: a) nell'attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, "ex lege", eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l'atto venga restituito 645 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa. Con la stessa pronuncia, Rv. 640604, è stato conseguentemente affermato che il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell'ambito della nullità dell'atto, come tale sanabile, con efficacia "ex tunc", o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c. Non può invece procedersi alla rinnovazione ex art. 291 c.p.c., secondo Sez. 1, n. 07959/2016, Lamorgese, Rv. 639607, ove la notificazione del ricorso per cassazione sia stata effettuata nei confronti di procuratore privo di ogni collegamento o relazione con l'intimato, poichè essa è da considerare inesistente. Ove invece il procuratore destinatario della notificazione sia privo soltanto della qualità di domiciliatario, per Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761, la notifica è solo nulla e non inesistente, sicchè la nullità resta sanata ove il destinatario si costituisca in giudizio. Sempre riguardo al luogo della notificazione ai fini dell'impugnazione, Sez. 6-T, n. 12498/2016, Iofrida, Rv. 640022, ha affermato che la notificazione alla parte presso il procuratore costituito equivale alla notificazione al procuratore stesso ai sensi dell'art. 84 c.p.c., e ciò in quanto l'art. 330 c.p.c. si limita ad identificare il luogo della notificazione, mentre la vocatio in ius ha quale destinatario la parte personalmente. Pertanto, l'impugnazione deve ritenersi validamente notificata alla parte presso lo studio del difensore, senza che occorra una notifica alla parte personalmente. Non può configurarsi, secondo Sez. 3, n. 12290/2016, Olivieri, Rv. 640300, alcun problema di competenza per territorio riguardo alle notificazione eseguita dall'avvocato ai sensi della legge 21 gennaio 1994, n. 53, che non pone alcun limite territoriale alla potestà notificatoria da essa disciplinata. Sez. 1, n. 09993/2016, Di Virgilio, Rv. 639741, ha ribadito che la proposizione del ricorso per cassazione determina la consumazione del potere di impugnazione, sicchè alla parte è preclusa - qualora l'altra parte abbia a sua volta proposto autonomo 646 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI ricorso per cassazione - la proposizione di nuovi motivi aggiunti, né può ripetere le proprie doglianze con un nuovo ricorso incidentale, da considerarsi inammissibile e valevole, nei limiti in cui tende a contrastare l'avversa impugnazione, quale controricorso. Ancora sul tema, Sez. 6-L, n. 02478/2016, Garri, Rv. 638949, ha ribadito che, nel caso di proposizione di due successivi appelli avverso la medesima sentenza, senza che tuttavia l'inammissibilità del primo sia stata ancora dichiarata all'atto della proposizione del secondo, il termine di quest'ultimo è quello breve, decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, giacchè questa non può che presupporre la legale conoscenza della sentenza impugnata. In tema di acquiescenza, Sez. 2, n. 03934/2016, Criscuolo, Rv. 638974, ha ribadito che la forma tacita può sussistere, ai sensi dell'art. 329 c.p.c., solo ove la parte abbia posto in essere atti da cui possa univocamente desumersi il proposito di non contrastare gli effettiu giuridici della pronuncia, trattandosi di atti incompatibili con la volontà di impugnare. Ancora, Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640002, ha affermato che il potere del giudice di individuare l'esatta regola di diritto deve parametrarsi, per l'appello, con le preclusioni che derivano dagli artt. 329 e 346 c.p.c., e per il giudizio di cassazione, dalla natura di mezzo di impugnazione a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi. Relativamente al termine per impugnare, Sez. 6-L, n. 18154/2016, Curzio, Rv. 641086, ha ribadito che nei giudizi concernenti l'invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo, handicap e la disabilità, poiché i funzionari delegati alla difesa processuale dell'INPS hanno tutte le capacità connesse alla qualità di difensore, la notifica della sentenza da loro ricevuta ai sensi dell'art. 170, comma 3, c.p.c., è idonea a far decorrere il termine breve di cui all'art. 325 c.p.c.. Tuttavia, a tal fine, secondo Sez. L, n. 17532/2016, Spena, Rv. 641178, occorre che la sentenza sia notificata direttamente al funzionario incaricato, insufficiente essendo la mera notifica presso l'ufficio provinciale dell'INPS. Sempre in relazione al contenzioso con l'INPS, Sez. 6-L, n. 14054/2016, Marotta, Rv. 640480, ha affermato che ove l'ente sia rappresentato da un avvocato facente parte dell'organo di avvocatura interna, presso la cui sede sia stato eletto domicilio, la notifica della sentenza compiuta senza specifica indicazione del procuratore è inidona a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., dal momento che, trattandosi di organizzazioni complesse, la 647 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI mera identità della domiciliazione non assicura che la sentenza giunga a conoscenza della parte per il tramite del suo procuratore. L'ipotesi della difesa assunta dal funzionario dell'ente, a ciò abilitato da specifica previsione normativa, per Sez. L, n. 17596/2016, Boghetich, Rv. 640885, va tenuta distinta da quella in cui l'Avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 2 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, deleghi per la rappresentanza dell'Amministrazione un funzionario o procuratore: in tal caso, poiché la delega investe la sola rappresentanza in giudizio, e non anche l'attività difensiva, la notifica della sentenza al delegato è radicalmente nulla, dovendo essa effettuarsi presso l'Avvocatura dello Stato, ex art. 11 r.d. n. 1611 del 1933. Sempre riguardo alla tempestività dell'impugnazione, nei procedimenti soggetti al rito camerale, Sez. 6-1, n. 14731/2016, M e r c o l i n o , R v . 6 4 0 7 1 7 , h a a ffe r m a t o c h e i l g r a v a m e è tempestivamente proposto col deposito del ricorso, entro i termini, nella cancelleria del giudice competente, mentre la notifica dello stesso e del decreto di fissazione dell'udienza assolve alla funzione di assicurare l'integrazione del contraddittorio. Di conseguenza, nel caso di mancata notifica entro il termine assegnato (perché invalidamente effettuata o per mancata richiesta di proroga) non si determina alcuna preclusione, occorrendo solo rifissare il termine, a meno che controparte non si sia spontaneamente costituita in giudizio, così sanando il vizio con efficacia "ex tunc". Non è invece idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, per Sez. U, n. 11366/2016, De Chiara, Rv. 639924, la produzione della sentenza in altro giudizio pendente tra le parti, poiché la notificazione della sentenza non ammette equipollenti quale fonte di conoscenza legale. Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 05374/2016, Scaldaferri, Rv. 638900, ha affermato che la comunicazione del testo integrale del decreto che abbia respinto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento (anteriormente all'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114), operata dalla cancelleria della corte d'appello a mezzo posta elettronica certificata (PEC), non è idonea a far decorrere il termine lungo. Riguardo alla tempestività dell'impugnazione, merita di essere segnalata, per la novità della questione, anche Sez. 6-3, n. 27338/2016, Olivieri, in corso di massimazione, che ha affermato che ai fini della determinazione della sospensione dei termini 648 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI processuali nel periodo feriale da assumere a base del computo del termine cd. lungo di impugnazione previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, tanto con riferimento ai giudizi ai quali trova applicazione il previgente termine annuale di decadenza, quanto con riferimento ai giudizi, instaurati in primo grado successivamente alla data del 4.7.2009, ai quali trova applicazione il più breve termine semestrale di decadenza, previsto dall'art. 327, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69, occorre verificare se l'atto di impugnazione sia stato notificato ovvero depositato anteriormente o successivamente alla data del 1° gennaio 2015, di entrata in vigore dell'efficacia dell'art. 16, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 conv. con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, che, sostituendo l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, ha ridotto il periodo di sospensione da 46 giorni a 30 giorni (dal 1° al 31 agosto di ciascun anno), in tal modo modificando la originaria previsione della norma contenuta nel decreto legge che limitava ulteriormente il periodo di sospensione dal 6 al 31 agosto di ciascun anno. Soltanto nel caso in cui la impugnazione risulti proposta successivamente alla data indicata (1.1.2015), ai fini del computo del termine lungo si dovrà tenere conto della riduzione mensile del periodo di sospensione feriale, non avendo il Legislatore previsto alcun altro criterio di disciplina transitoria oltre a quello della data iniziale di efficacia della norma stabilita dall'art. 16, comma 3. Riguardo alla legittimazione ad impugnare, Sez. L, n. 18188/2016, Boghetic, Rv. 641143, ha affermato che, in caso di fusione per incorporazione ai sensi degli artt. 2501 ss. c.c., come modificati dal d.lgs 17 gennaio 2003, n. 6, la società incorporata non si estingue, giacchè coinvolta in una vicenda evolutiva-modificativa della organizzazione societaria preesistente, con la conseguenza che essa sopravvive in tutti i rapporti, anche processuali, e può quindi impugnare i provvedimenti giurisdizionali di cui è destinataria. Ancora, Sez. 1, n. 26196/2016, Ferro, in corso di massimazione, ha ribadito che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dall'art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, 649 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell'ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1° gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore; ne consegue che l'appello successivo al verificarsi della cancellazione deve provenire (o essere indirizzato) dai soci (o nei confronti dei soci) succeduti alla società estinta, a pena di inammissibilità. Quanto invece alla legittimazione passiva, nel caso di conferimento di azienda individuale in società di capitali, Sez. 2, n. 17959/2016, Giusti, Rv. 640888, ha stabilito che, poiché ciò costituisce cessione d'azienda e sul piano processuale configura un'ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ove il conferimento sia avvenuto dopo la pubblicazione della sentenza d'appello, la notifica del ricorso per cassazione ben può essere effettuata presso il conferente, che conserva la legittimazione a riceverla quale sostituto processuale del cessionario, ex art. 111 c.p.c.. Sullo stesso tema, Sez. T, n. 12785/2016, Genovese, Rv. 640140, ha affermato che nel caso di fallimento della parte intervenuto tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell'appello, la notifica del gravame effettuata presso il procuratore domiciliatario del fallito in bonis, anziché al curatore fallimentare, non è inesistente, bensì nulla, con la conseguenza che, in caso di mancata costituzione della curatela, deve disporsene la rinnovazione. Ancora, Sez. 2, n. 25779/2016, Orilia, in corso di massimazione, ha ribadito che poichè la qualità di parte legittimata a proporre il ricorso per cassazione o per resistere ad esso spetta unicamente a chi abbia formalmente assunto la veste di parte nel giudizio di merito conclusosi con la decisione impugnata, va dichiarato inammissibile, per difetto di rituale instaurazione del processo, il ricorso per cassazione proposto contro soggetti diversi da quelli che sono stati parti nel giudizio di merito, ciò che preclude l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti legittimati, non potendosi ordinare la citazione di altri soggetti in una situazione di radicale carenza del rapporto processuale di base. In controversia attinente al danno alla persona, liquidato sulla base delle "tabelle milanesi", Sez. 3, n. 25485/2016, Olivieri, in corso di massimazione, ha affermato che, ove dopo la spedizione a sentenza i valori espressi in dette tabelle siano state soggette a 650 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI revisione, il danneggiato, sebbene non soccombente rispetto alla formulazione della domanda, è legittimato a proporre l'impugnazione tutte le volte in cui la variazione tabellare corrisponda ad una modifica conseguente alla applicazione di "differenti criteri" di liquidazione (come ad es. in caso di individuazione di nuovi o diversi indici sintomatici ritenuti rilevanti per dimensionare l'equivalente del valore perduto, ovvero di espressa previsione nella tabella di specifiche condizioni personali o situazioni di fatto, regolati precedentemente in modo diverso, o ancora in seguito alla emersione di nuovi interessi non patrimoniali inerenti alla persona meritevoli di tutela risarcitoria), ovvero alla "rideterminazione del valore-punto base" in conseguenza di una nuova rilevazione statistica dei dati sull'ammontare dei risarcimenti liquidati dagli uffici giudiziari. In tali casi, infatti, la liquidazione del danno effettuata sulla base di "tabelle" non più attuali, si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo ex art. 1226 c.c., in quanto comporta che una identica lesione del medesimo interesse riferibile alla persona, viene ad essere, intollerabilmente, compensata in modo differente, a seconda della scelta della tabellaoperata dal giudice, con la conseguente violazione del principio di parità di trattamento cui dà luogo una diversa "valutazione-tipo" ed una diversa "tecnica liquidatoria" del medesimo fenomeno, scelta rispetto alla quale rimane del tutto avulsa la applicazione del principio tempus regit actum. Sul complementare profilo dell'interesse ad impugnare, Sez. 6-L, n. 14341/2016, Marotta, Rv. 640437, ha stabilito che ove il giudice di primo grado abbia pronunciato la cessazione della materia del contendere, l'appellante, che contesti la decisione per questioni di merito, ha l'onere di impugnare anzitutto tale decisione per mancanza di presupposti, poiché l'esame di ogni altro motivo di doglianza, in caso contrario, resterebbe precluso per difetto d'interesse. Quanto alla decadenza dall'impugnazione, Sez. 6-3, n. 06187/2016, Barreca, Rv. 639330, ha ribadito che il termine "lungo" ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, si verifica indipendentemente dalla notificazione della sentenza stessa, e quindi anche nel caso in cui il termine breve, ex art. 325 c.p.c., per essere stata effettuata la notificazione, venga a scadere in un momento successivo alla scadenza del termine lungo. Circa l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile, Sez. 3, n. 12872/2016, Sestini, Rv. 640421, ha ribadito che occorre esclusivamente riferirsi alla qualificazione giuridica 651 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI dell'azione effettuata dal giudice nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla sua esattezza, fermo il potere del giudice dell'impugnazione di procedere alla autonoma riqualificazione non solo ai fini del merito, ma anche della stessa ammissibilità del gravame. Ancora, ove la parte utilizzi, quale mezzo di impugnazione, un mezzo inammissibile, essa non può - secondo Sez. 3, n. 10139/2016, Frasca, Rv. 639832 - successivamente dolersene, qualora il giudice non abbia rilevato d'ufficio l'inammissibilità, rigettando il gravame, poiché difetta al riguardo la soccombenza. Quanto agli effetti della riforma o della cassazione della sentenza impugnata, Sez. 3, n. 12387/2016, Amendola A., Rv. 640323, ha affermato che la sentenza d'appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sulla cui provvisoria esecutività la parte soccombente abbia effettuato il pagamento di somme, non può assurgere a titolo esecutivo per la restituzione delle stesse in mancanza di espressa condanna, occorrendo che il solvens attivi un autonomo giudizio ovvero formuli in appello apposita domanda. Il giudice d'appello, conseguentemente, secondo Sez. 3, n. 08639/2016, Rubino, Rv. 639739, ha il dovere di pronunciare sulla relativa domanda, ove proposta, incorrendo in caso contrario nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Sempre sul tema, Sez. 3, n. 00667/2016, Armano, Rv. 638219, ha ribadito che alla Corte di cassazione non spetta il potere di condannare alla restituzione delle somme pagate in corso di giudizio, quand'anche decida nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c., dal momento che ad essa compete di regola il solo giudizio rescindente; ne consegue che la domanda di restituzione dev'essere proposta al giudice di merito che l'ha accolta, ai sensi dell'art. 389 c.p.c. Ancora, Sez. L, n. 11243/2016, Ghinoy, Rv. 639931, ha statuito che, allorchè il giudice d'appello riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere ad una nuova regolamentazione delle spese processuali, tenuto conto dell'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma, la decisione sulle spese può essere modificata solo nel caso in cui il reativo capo sdia stato oggetto di specifica impugnazione. Sull'argomento, deve poi segnalarsi Sez. 6-3, n. 02135/2016, Barreca, Rv. 638921, che ha affermato il principio per cui, oltre alle 652 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI somme pagate in linea capitale in forza del titolo successivamente riformato, il debitore esecutato ha diritto a riottenere quanto esborsato per le spese di esecuzione sostenute dal creditore procedente, a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di questi. Infine, Sez. 1, n. 02819/2016, Nazzicone, Rv. 638573, ha ritenuto l'ammissibilità del procedimento di correzione della sentenza d'appello, ex art. 287 e ss. c.p.c., qualora il giudice del gravame, sussistendone tutti i presupposti, non abbia statuito sulla restituzione delle somme pagate in forza di sentenza provvisoriamente esecutiva e poi riformata. In tema di cause scindibili e inscindibili, Sez. 1, n. 09131/2016, Cristiano, Rv. 639690, in linea con consolidato orientamento, ha confermato che il terzo chiamato iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. diviene litisconsorte necessario processuale, con la conseguenza che, salva l'ipotesi di sua estromissione con la sentenza di merito, la mancata notifica dell'appello nei suoi confronti determina una violazione dell'art. 331 c.p.c., rilevabile anche d'ufficio nel giudizio di legittimità. Analogamente avviene, per Sez. 6-2, n. 08486/2016, Scalisi, Rv. 639571, allorchè il terzo sia stato chiamato su istanza di parte, allo scopo di ottenere la declaratoria di sua esclusiva responsabilità rispetto alla domanda attorea e la propria liberazione. Ancora sul tema, Sez. 3, n. 06982/2016, Rossetti, Rv. 639540, ha affermato che, qualora il giudice abbia ordinato l'integrazione del contraddittorio in causa inscindibile, l'omessa o parziale integrazione non consente la rinnovazione del termine, di natura perentoria, a meno che l'istanza di concessione del termine stesso, da presentarsi prima della sua scadenza, non sia giustificata da un fatto non imputabile all'onerato. L'adempimento dell'ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, peraltro, secondo Sez. 3, n. 00891/2016, Frasca, Rv. 638653, ove la notifica sia stata eseguita a mezzo posta, dev'essere dimostrato mediante la produzione degli avvisi di ricevimento, insufficiente essendo il mero deposito dei singoli atti con le relate di notifica. Di conseguenza, nel caso di mancata produzione dell'avviso di ricevimento, anche nei confronti di un solo destinatario, l'ordine deve ritenersi non ottemperato, con conseguente inammissibilità del ricorso. Nel caso di cause scindibili ex art. 332 c.p.c., Sez. 1, n. 05508/2016, Cristiano, Rv. 639030, ha stabilito che la notifica dell'appello da parte del convenuto soccombente agli altri convenuti 653 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI vittoriosi non ha valenza di vocatio in ius, bensì di mera litis denuntiatio, sicchè questi ultimi non divengono parti del giudizio di gravame, né tantomeno sussistono i presupposti per la condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove essi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza. È stato poi ribadito da Sez. 6-3, n. 24482/2016, Rubino, in corso di massimazione, che la sentenza emessa in un procedimento cumulativo, ove impugnata solo da alcune parti, passa in giudicato nei confronti delle parti non impugnanti, poiché, una volta trascorso il termine di cui all'art. 332 c.p.c., la sua violazione non produce alcun effetto. Relativamente alle impugnazioni incidentali, Sez. 3, n. 12387/2016, Amendola A., Rv. 640322, ha affermato che l'impugnazione tardivamente proposta, da chiunque provenga, dev'essere dichiarata inammissibile ove l'interesse alla sua proposizione non sia scrivibile alla proposizione dell'impugnazione principale. Sez. L, n. 10243/2016, Ghinoy, Rv. 639645, ha ribadito che, poiché l'art. 334 c.p.c. consente l'impugnazione incidentale tardiva nei confronti di qualsasi capo della sentenza da altri impugnata è applicabile alla sola impugnazione incidentale in senso stretto (ossia, quella proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l'impugnazione principale o che sia stata chiamata ad integrare il contraddittorio, a norma dell'art. 331 c.p.c.), il soccombente ha l'onere di impugnare tempestivamente la sentenza, con la conseguenza che, ove la parte proponga un ricorso incidentale adesivo a quello principale, essa è tenuta a rispettare il termine lungo di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis. Ancora, Sez. 3, n. 02516/2016, Tatangelo, Rv. 638617, ha ribadito che - fermo il principio per cui una volta proposta impugnazione contro una sentenza, tutte le altre devono essere proposte in via incidentale, sicchè nel giudizio di cassazione esse devono proporsi in seno al controricorso - tale modalità non può considerarsi essenziale, sicchè ogni impugnazione autonomamente proposta (anche se di tipo adesivo) si converte comunque in impugnazione incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve o lungo) di impugnazione in astratto operativi. Costituisce infine extrapetizione, per Sez. 3, n. 20198/2016, Vincenti, in corso di massimazione, il riconoscimento da parte del 654 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI giudice d'appello del danno morale in assenza di allegazione di specifiche condotte attribuite a controparte e integranti fatti costituenti reato. 2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa. Anche nel corso del 2016, si registrano importanti pronunce circa le novità introdotte all'istituto dell'appello dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134. Com'è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in grado d'appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il profilo in esame, un passo indietro rispetto all'impostazione codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l'appello quale novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione dell'appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che, al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell'arretrato che affligge le corti d'appello, ha riformulato gli artt. 342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012. Anzitutto, deve segnalarsi l'importante pronuncia, resa a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638369, con cui, individuata la ratio della cennata riforma, è stato affermato che l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348 ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., ove si denunci l'omessa pronuncia su un motivo di gravame, attesa la natura complessiva del giudizio "prognostico" che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione. Sempre con la stessa sentenza, Rv. 638368, le Sezioni Unite hanno poi individuato un residuo spazio per il ricorso straordinario, chiarendo che l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348 ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l'inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348 bis, comma 2, e 348 ter, commi 1, primo periodo e 2, primo periodo, c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso. Infine, con ulteriore pronuncia di chiusura, Rv. 638370, le Sezioni Unite hanno affermato che la decisione che 655 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, ancorché adottata con ordinanza richiamante l'art. 348 ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti. In definitiva, l'attesa pronuncia a) ha ricondotto alla fisiologia del "filtro" in appello ogni decisione sul merito (e quindi sulla prognosi circa l'esito infausto del gravame), escludendo il ricorso straordinario per cassazione avverso l'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. che vi attinga, poiché ogni censura deve essere in tal caso mossa nei confronti della sentenza di primo grado; b) ha individuato un residuo spazio per il ricorso straordinario ove si denuncino vizi propri della stessa ordinanza, per violazione di legge processuale, nei limiti della compatibilità con la logica e la struttura del "filtro"; infine, c) ha ritenuto la proponibilità del ricorso ordinario per cassazione nel caso in cui con la stessa ordinanza, per quanto adottata nelle forme di cui all'art. 348 ter c.p.c., si pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali e la stessa abbia quindi natura di sentenza. Costituisce proprio esemplificazione di quanto sub b), e quindi di vizi propri dell'ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., secondo Sez. 6-3, n. 12127/2016, De Stefano, Rv. 640216, il caso in cui essa sia stata emessa prima della data di applicabilità di queste norme, trattandosi appunto di trasgressione della disciplina intertemporale (nella specie, si trattava di appello introdotto nel 2011, e quindi non soggetto alla disciplina del "filtro" ai sensi dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012). Peraltro, Sez. 6-3, n. 25456/2016, Frasca, in corso di massimazione, ha ribadito che qualora risulti ricorribile per cassazione, l'ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello, va impugnata con lo stesso ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado e nei termini prescritti dall'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., sia perché è logicamente prioritario l'esame dell'impugnazione dell'ordinanza rispetto alla sentenza, sia perché, applicando all'ordinanza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in 656 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza. Sempre in tema di "filtro" in appello, Sez. 3, n. 12293/2016, Graziosi, Rv. 640215, ha stabilito che la relativa ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. può essere pronunciata anche prima dell'udienza fissata ai sensi degli artt. 350 o 351, comma 3, c.p.c., sempre che siano state previamente sentite le parti, in quanto ciò non comporta alcuna lesione del diritto di difesa dell'appellante. In relazione al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-3, n. 02594/2016, Frasca, Rv. 639068, ha stabilito che qualora venga pronunciata l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348 bis c.p.c., il ricorso dev'essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della relativa ordinanza, mentre il termine lungo opera soltanto nel caso in cui questa non venga né comunicata, nè notificata. Conseguentemente, il ricorrente per cassazione, al fine di dimostrare la tempestività dell'impugnazione, ove proposta oltre il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza, deve allegare che la stessa non è stata comunicata né notificata, affermando di fruire del cd. termine lungo. Tuttavia, Sez. U, n. 25513/2016, Manna F., in corso di massimazione, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha escluso che il ricorso per cassazione proposto, ex art. 348 ter, comma 3, c.p.c., contro la sentenza di primo grado, debba contenere, a pena di inammissibilità, la specifica indicazione della data di comunicazione o di notificazione, se avvenuta prima, dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, riferendosi l'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., solo agli atti processuali ed ai documenti da cui i motivi di impugnazione traggono il proprio sostegno giuridico quali mezzi diretti all'annullamento del provvedimento impugnato. Con ulteriore statuizione, la stessa pronuncia, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il ricorso per cassazione ex art. 348 ter, comma 3, c.p.c., è improcedibile, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., ove non siano depositate la copia autentica della sentenza di primo grado e dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, con la relativa comunicazione o notificazione, se anteriore, salvo che la Corte officiosamente rilevi, dal trasmesso fascicolo di ufficio, che lo stesso sia stato proposto nei sessanta giorni dalle menzionate comunicazione o notificazione, ovvero, in mancanza di entrambe, entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.. In argomento, deve ancora segnalarsi Sez. 6-3, n. 26936/2016, De Stefano, in corso di massimazione, che ha ribadito 657 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI il principio per cui nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, proponibile ai sensi dell'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., l'atto d'appello, dichiarato inammissibile, e la relativa ordinanza, pronunciata ai sensi dell'art. 348 bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 366, n. 3, c.p.c., è necessario che nel suddetto ricorso per cassazione sia fatta espressa menzione dei motivi di appello e della motivazione dell'ordinanza ex art. 348 bis c.p.c., al fine di evidenziare l'insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame. 3. (segue) In generale. Sul piano generale, va in primo luogo segnalata Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829, che componendo il contrasto giurisprudenziale sulle modalità di costituzione dell'appellante, ha affermato che la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione (cd. velina) in luogo dell'originale non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184 bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello. Sempre sul tema, Sez. 3, n. 02165/2016, Amendola A., Rv. 639119, ha affermato che ove l'appellante non si sia costituito nel termine di cui all'art. 348, comma 1, c.p.c., così determinandosi automaticamente l'improcedibilità dell'appello, non gli è preclusa la proposizione di una seconda impugnazione, purchè tempestiva e prima che venga adottata la statuizione in rito su quella originariamente proposta, dovendo comunque escludersi che possa procedersi ad una mera rinotificazione del primo atto d'appello. Riguardo al procedimento in materia di adozione, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031, ha affermato che ove difetti la prova del perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del 658 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI decreto di fissazione d'udienza, non può per ciò solo pronunciarsi l'arresto del procedimento, occorrendo solo - in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c. - assegnare un nuovo termine perentorio, sempre che la parte appellata non si sia costituita. Sul tema, va ancora segnalata Sez. 3, n. 01662/2016, Scrima, Rv. 638352, ha affermato che il termine di cui all'art. 347 c.p.c. per la costituzione dell'appellante va computato dal perfezionamento dell'atto d'appello nei confronti del destinatario, e non anche dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, valevole ai soli fini della tempestività del gravame. Sez. 3, n. 23713/2016, Pellecchia, in corso di massimazione, ha ribadito che poichè l'art. 347, comma 2, c.p.c. prevede che l'appellante debba inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza impugnata, ma non commina, nel caso contrario, l'improcedibilità, come invece previsto dall'art. 348 c.p.c. per la mancata costituzione nei termini o per la mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza ed a quella successiva all'uopo fissata, ne deriva che la mancanza in atti della sentenza impugnata non preclude al giudice la possibilità di decidere nel merito qualora egli disponga di elementi sufficienti sulla base degli atti. Ove poi la sentenza depositata manchi di alcune pagine, Sez. 2, n. 24437/2016, Scarpa, in corso di massimazione, ha affermato che, ove ciò non determini l'impossibilità di scrutinare l'impugnazione sulla base della pur incompleta copia depositata, il giudice d'appello che ne rilevi l'incompletezza deve assegnare all'appellante un termine per depositare una copia integrale della sentenza impugnata, solo in caso di inottemperanza dovendo dichiarare l'improcedibilità dell'impugnazione, stante il suo carattere sanzionatorio. Circa la proposizione dell'appello da parte del convenuto contumace in primo grado, che assuma la nullità della citazione come motivo di gravame, Sez. 1, n. 15414/2016, Di Virgilio, Rv. 640945, ha ribadito che poiché la proposizione dell'appello equivale a tardiva costituzione nel processo, fermo restando che il giudice deve procedere alla rinnovazione dell'attività compiuta in primo grado, l'appellante può essere ammesso al compimento degli atti preclusi dalle decadenze maturate solo ove deduca e dimostri che la nullità della citazione gli ha impedito di conoscere il processo e quindi di difendersi, il che può verificarsi solo nel caso di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adito in primo grado, occorrendo in ogni altra ipotesi che le circostanze del 659 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI caso concreto depongano per la mancata conoscenza della pendenza del processo. Circa l'appellabilità di provvedimenti resi in primo grado, Sez. 3, n. 14661/2016, Tatangelo, Rv. 640586, in tema di esecuzione forzata, ha affermato che, qualora con unico ricorso siano stati contestualmente proposti motivi afferenti sia all'opposizione all'esecuzione, che agli atti esecutivi, la decisione che abbia affrontato solo questi ultimi, pretermettendo i primi, dev'essere impugnata con l'appello, ove appunto si censuri l'omessa pronuncia. Nello stesso senso, ma con riferimento all'ipotesi in cui il primo giudice abbia deciso entrambi i profili di doglianza, Sez. 3, n. 12730/2016, Ambrosio, Rv. 640277, ha quindi stabilito che poiché la sentenza, formalmente unica, contiene in realtà due distinte decisioni, rese l'una ai sensi dell'art. 615, e l'altra ai sensi dell'art. 617 c.p.c., soggette, rispettivamente, ad appello e a ricorso straordinario per cassazione. Ove la parte abbia formulato riserva d'appello avverso sentenza non definitiva, secondo Sez. L, n. 14193/2016, D'Antonio, Rv. 640431, quando sia sopravvenuta la sentenza definitiva essa non ha l'onere di impugnarle entrambe, potendo limitarsi a farlo solo avverso quest'ultima. Peraltro, la mancata o tardiva esplicitazione della riserva, secondo Sez.1, n. 02188/2016, Cristiano, Rv. 638749, implica soltanto la non percorribilità dell'impugnazione differita della sentenza parziale o non definitiva, ma non ne comporta l'inimpugnabilità immediata, sicchè l'impugnazione potrà essere proposta nel termine ordinario, ex artt. 325 o 327 c.p.c. (secondo che essa sia stata, rispettivamente, notificata o meno). Sempre sul tema, va infine evidenziato che Sez. 1, n. 04979/2016, Nappi, Rv. 639010, ha affermato che poiché l'impugnazione differita della sentenza non definitiva è soggetta al regime previsto per quella definitiva, ne consegue che, per quanto emessa in data antecedente al 1 marzo 2006, la sentenza non definitiva in materia di opposizione all'esecuzione non è soggetta ad appello ove quella definitiva sia stata resa tra la predetta data e il 4 luglio 2009 (in relazione alla formulazione dell'art. 616 c.p.c. nel testo vigente in detto periodo). Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639887, ha infine sancito che il provvedimento dichiarativo dell'improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo ha natuira sostanziale di sentenza, ed è quindi soggetto ad impugnazione mediante appello e non mediante ricorso straordinario per cassazione. 660 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sul piano dell'interesse ad impugnare, Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638247, ha ribadito che l'interesse va desunto dall'utilità giuridica che dall'eventuale accoglimento dell'impugnazione possa derivare a colui che la propone, che non può consistere nella mera correzione della motivazione o di una sua parte. Sul piano della legittimazione ad impugnare, è stato ribadito l'orientamento per cui essa spetta soltanto al soggetto che sia stato parte nel precedente grado di giudizio. Così, secondo Sez. T, n. 16177/2016, Meloni, Rv. 640650, la parte sostanziale del rapporto, che tuttavia sia rimasta estranea al giudizio, non può proporre impugnazione (che nel caso dev'essere dichiarata inammissibile), ma può solo intervenire in appello ex art. 344 c.p.c., o proporre opposizione ex art. 404 c.p.c.. Sussiste invece un generale interesse ad intervenire in appello, e quindi anche a proporre ricorso per cassazione, quale interveniente volontario, secondo Sez. 2, n. 15938/2016, Criscuolo, Rv. 640718, nei giudizi relativi all'accertamento e all'esistenza di usi civici o di demanio comunale e in favore di qualunque cittadino appartenente a quella determinata collettività, poiché l'emananda sentenza fa stato anche nei suoi confronti quale partecipe della comunità titolare degli usi o delle terre demaniali di cui si controverte. Sez. 1, n. 09986/2016, Campanile, Rv. 639855, per il caso in cui la società appellante risulti diversa da quella costituita in primo grado, ha affermato che il giudice del merito non può limitarsi ad un mero riscontro formale, dovendo valutare la sussistenza di elementi, evincibili dall'atto nella sua interezza e dal suo senso complessivo, che rendano riconoscibile l'eventuale errore materiale nella stesura dell'atto introduttivo del gravame, come tale inidoneo ad incidere sulla validità dell'impugnazione. In relazione al termine per impugnare, Sez. T, n. 15181/2016, Bruschetta, Rv. 640643, ha affermato che ove l'appello sia proposto da una parte il cui difensore abbia studio legale in L'Aquila, la regola dettata dall'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo il termine scadente in un giorno festivo, ha valenza generale e si applica anche al termine breve ex art. 434, comma 2, c.p.c., per la proposizione dell'appello nelle controversie soggette al rito del lavoro. Quanto a queste ultime, Sez. L, n. 19176/2016, Di Paolantonio, Rv. 641200, ha stabilito che l'onere di notificare il ricorso e il decreto di fissazione di udienza prende corpo dalla data 661 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI di comunicazione dell'avvenuto deposito di quest'ultimo, adempimento obbligatorio a seguito di Corte cost. n. 15 del 1977. Sull'appello incidentale, deve segnalarsi Sez. 1, n. 04047/2016, Ragonesi, Rv. 638862, che - richiamandosi all'insegnamento affermato sull'analogo istituto del ricorso incidentale per cassazione da Sez. U, n. 07381/2013, Amatucci, Rv. 625558 - ha ritenuto che il gravame proposto dalla parte totalmente vittoriosa in primo grado avverso la statuizione che investa una questione preliminare di merito ha natura "condizionata", a prescindere dalla volontà manifestata al riguardo dall'impugnante, con la conseguenza che il giudice d'appello dovrà procedere al suo esame solo in caso di riscontrata attualità dell'interesse alla decisione, ossia nel caso di accoglimento dell'appello principale. Ancora, Sez. 1, n. 09889/2016, Genovese, Rv. 639809, ha ribadito che la parte la cui domanda o eccezione sia stata respinta in primo grado ha l'onere di proporre appello incidentale onde evitare che sul punto si formi il giudicato, mentre la parte vittoriosa, quanto alle domande o eccezioni non accolte, può limitarsi alla mera riproposizione ex art. 346 c.p.c., al fine di sottrarsi alla presunzione di rinuncia. Riguardo all'onere di specificità dei motivi d'appello, sancito dall'art. 342 c.p.c., Sez. 3, n. 12280/2016, Cirillo F.M., Rv. 640307, in linea con consolidato indirizzo, ha affermato che affinchè un capo di sentenza possa dirsi validamente impugnato non è sufficiente manifestare una volontà in tal senso, occorrendo invece che l'atto d'appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, abbia l'obiettivo di demolirne il fondamento logico-giuridicomma Ancora, Sez. 1, n. 02814/2016, Sambito, Rv. 638551, l'onere di specificità dei motivi può anche essere rispettato mediante la riproposizione degli argomenti già proposti in primo grado e disattesi, purchè ciò determini specificamente il contenuto della critica mossa alla prima decisione e consenta al giudice del gravame di comprendere con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle decisioni adottate dal primo giudice. Sez. 2, n. 02855/2016, Criscuolo, Rv. 638781, ribadita la natura del giudizio d'appello quale revisio prioris istantiae, ha escluso che, nel caso di omessa pronuncia su una domanda (o su un punto di essa) da parte del primo giudice, sia sufficiente la mera riproposizione ex art. 346 c.p.c., occorrendo invece formulare, in proposito, uno specifico motivo d'appello. In tal caso, peraltro, 662 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI secondo Sez. 3, n. 04388/2016, Vincenti, Rv. 639203, è sufficiente che l'appellante si limiti a dedurre la mera omessa pronuncia, così investendo il giudice d'appello del potere di decidere sulla relativa domanda, il che risponde anche ad esigenze di economia processuale; infatti, ove il giudice d'appello pronunciasse l'inammissibilità del gravame per difetto di specificità, non si formerebbe al riguardo alcun giudicato e l'appellante potrebbe riproporre ex novo la domanda in primo grado. Sempre dalla descritta natura dell'appello, Sez. 3, n. 11797/2016, Scrima, Rv. 640106, fa derivare la natura sostanziale di attore in capo all'appellante, con conseguente onere probatorio circa i fatti addotti a sostegno dell'impugnazione. Pertanto, costituisce suo onere, ove la decisione si fondi sull'erronea o mancata valutazione di documenti prodotti in primo grado dall'appellato e non riprodotti in secondo grado, acquisirne copia ai sensi dell'art. 76 disp. att. c.p.c. e riprodurli dinanzi al giudice d'appello. Le istanze istruttorie disattese in primo grado, per Sez. 2, n. 05812/2016, Lombardo, Rv. 639419, proprio in relazione all'onere di specificità, devono essere analiticamente riproposte, dovendo dichiararsi inammissibili ove ci si sia limitati ad un mero rinvio agli atti del grado precedente. Riguardo al contenuto dell'appello, nel rito del lavoro, Sez. L, n. 17712/2016, Negri Della Torre, Rv. 640991, ha affermato che il contenuto della "motivazione" dell'appello stesso, come richiesto dal novellato art. 434 c.p.c., implica che l'appellante debba offire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella demandata al primo giudice, e ciò al fine di non incirrere nella declaratoria di inammissibilità. È stato poi escluso, da Sez. 3, n. 00341/2016, Sestini, Rv. 638609, che il rinvio operato dall'art. 342 all'art. 163 c.p.c. debba estendersi anche all'avvertimento di cui al comma 3, n. 7), di quest'ultimo, circa le decadenze, operando tale disposto soltanto per le decadenze del giudizio di primo grado ed essendo invece regolate, quelle del giudizio d'appello, dalle norme in tema di tempestiva costituzione della parte appellata. Quanto ai poteri del giudice d'appello, Sez. 3, n. 13218/2016, Esposito A.F., Rv. 640416, ha ribadito che egli può decidere sul gravame, sebbene non siano rinvenibili nel fascicolo di parte, al momento della decisione, i documenti su cui la parte ha fondato la propria pretesa in giudizio, qualora non risultino lo smarrimento del facicolo e la richiesta di sua ricostruzione. 663 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Ancora, Sez. 1, n. 01377/2016, Valitutti, Rv. 638411, ha ribadito che, pur essendo l'appello limitato alle sole questioni oggetto di gravame, non viola il tradizionale principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che decida la controversia sulla base di ragioni diverse da quelle prospettate dall'appellante nei suoi motivi, ovvero esaminando questioni da lui non proposte, purchè esse siano implicitamente e direttamente connesse con i punti censurati della sentenza impugnata. Correlativamente, Sez. 3, n. 04889/2016, Pellecchia, Rv. 639288, ha ribadito che il giudice d'appello può confermare la statuizione del giudice di primo grado, correggendone la motivazione, a condizione che i nuovi argomenti addotti possano dirsi acquisiti al processo e ritenersi ricompresi nell'ambito della devoluzione determinata dalle censure mosse alla sentenza impugnata. Ancora, riguardo al rito del lavoro, Sez. L, n. 12825/2016, Di Paolantonio, Rv. 640368, ha affermato che ove il fascicolo di parte sia stato ritirato in primo grado e non depositato in tempo utile per la decisione, esso non può essere prodotto in appello, poiché soltanto con il rispetto delle forme di cui all'art. 74 disp. att. c.p.c. vi è prova dell'effettività e della tempestività della produzione documentale nel precedente grado di giudizio. Per Sez. 3, n. 01678/2016, Travaglino, Rv. 638540, non costituisce vizio del procedimento, e della sentenza d'appello, la mancata acquisizione del fascicolo d'ufficio di primo grado, avente funzione meramente sussidiaria, a meno che il ricorrente in cassazione non deduca e dimostri che da tale fascicolo il giudice avrebbe potuto trarre elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa. Sempre sulla estensione della cognizione del giudice d'appello, Sez. 1, n. 02658/2016, Cristiano, Rv. 638588, ha affermato che, nel caso di impugnativa di sentenza non definitva, che abbia pronunciato solo sull'an debeatur, l'eventuale accoglimento del gravame non comporta che possano conseguentemente esaminarsi le ulteriori questioni trattenute dal primo giudice, poiché la decisione di riforma si inserisce immediatamente nella dinamica processuale, determinando anche la caducazione dell'eventuale sentenza definitiva che abbia deciso sul quantum, anche se passata in giudicato. Sempre sul tema, Sez. 2, n. 27516/2016, Lombardo, in corso di massimazione, ha ribadito che - in applicazione dei principi della tassatività delle ipotesi di rimessione di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. 664 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI e della conversione nei motivi di nullità in motivi di impugnazione (art. 161, comma primo, c.p.c.), con la conseguente possibilità per le parti di svolgere ugualmente nel grado superiore le loro difese - il giudice di appello, in caso di prospettata violazione dell'art. 112 c.p.c. nei motivi di gravame, non deve rimettere la causa al giudice di primo grado, né limitarsi a dichiarare la nullità della sentenza, ma deve decidere la causa nel merito. Nel solco di consolidato orientamento, ove il primo giudice sia incorso in ultrapetizione, secondo Sez. 2, n. 00465/2016, Matera, Rv. 638217, il giudice d'appello non può rilevare d'ufficio la questione, che dev'essere denunciata come specifico mezzo di gravame, incorrendo in caso contrario, a sua volta, nel medesimo vizio. Ove il giudice d'appello abbia emesso sentenza motivata per relationem, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, secondo Sez. 1, n. 14786/2016, Ferro, Rv. 640759, la modalità di redazione è legittima ove siano esplicitate, sia pur succintamente, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi proposti, dando conto delle argomentazioni proposte dalle parti a sostegno e in senso opposto, dovendo invece cassarsi la decisione in cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado, senza il filtro delle censure proposte avverso detta decisione. Per il caso di erronea individuazione del giudice d'appello, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641081, a composizione di contrasto, ha affernato che l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della "translatio iudicii". Non così, invece, per Sez. L, n. 25267/2016, Doronzo, in corso di massimazione, che ha affermato - in applicazione del principio di tipicità dei mezzi d'impugnazione - che il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile perché proposto in luogo di un ricorso per revocazione, e dunque fuori dai casi tassativamente indicati nell'art. 360 c.p.c., non può mantenere effetti sostanziali e processuali che non gli sono tipici, sì da consentire la proposizione della nuova e diversa impugnazione attraverso la fictio iuris di un atto di riassunzione. Diverse pronunce hanno poi interessato il tema della scindibilità o inscindibilità di cause. 665 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sez. 2, n. 07401/2016, Orilia, Rv. 639447, ha affermato che, ove sia stata disposta la notifica dell'impugnazione ad uno dei convenuti in primo grado, quale litisconsorte necessario, sebbene nessuna delle parti altre parti in secondo grado abbia formulato domande nei suoi confronti, questi ha diritto al rimborso delle spese processuali da colui la cui pretesa è stata dichiarata infondata. Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria (ed evidenziato il fatto che la tradizionale distinzione tra garanzia propria e impropria è stata di recente sminuita da Sez. U, n. 24707/2015, Frasca, Rv. 638109), Sez. U, n. 07700/2016, Frasca, Rv. 639281, componendo l'annoso contrasto giurisprudenziale, ha affermato che in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda di garanzia condizionata all'accoglimento, la devoluzione di quest'ultima al giudice investito dell'appello sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la riproposizione della domanda ai sensi dell'art. 346 c.p.c.. Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova in appello. Così, Sez. 2, n. 16574/2016, Cosentino, Rv. 640834, ha affermato che, nel giudizio avviato per il rilascio di immobile, costituisce eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello, la deduzione dell'occupante di detenere l'immobile per averne ricevuto l'assegnazione con un provvedimento giudiziale emesso in sede di separazione coniugale, poiché da tale diritto discende l'efficacia impeditiva relativamente all'an exequatur. Quanto all'eccezione di pagamento, Sez. 2, n. 09965/2016, Abete, Rv. 639744, ne ha escluso la novità, ove sollevata per la prima volta in appello, purchè il pagamento risultasse già provato, trattandosi di eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio dal giudice anche in assenza di richiesta da parte del debitore. Sez. 6-1, n. 00120/2016, Genovese, Rv. 638254, in fattispecie concernente giudizio avviato in primo grado in data antecedente al 30 aprile 1995, ha affermato che il giudizio d'appello, quale che sia la data in cui esso è stato proposto, resta regolato dal disposto dell'art. 345 c.p.c. vigente all'epoca della notifica dell'atto introduttivo, sicchè, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. previgente, le parti possono proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova. Non resta preclusa, inoltre, dalla vigente disposizione dell'art. 345, comma 1, c.p.c., secondo Sez. 6-3, n. 01115/2016, Vivaldi, Rv. 638508, la proponibilità della domanda di risarcimento danni per 666 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. per la prima volta in appello, purchè si censurino comportamenti avversari tenuti nel medesimo grado, come ad esempio nell'ipotesi in cui la parte persista nel sostenere una tesi già ritenuta manifestamente infondata dal primo giudice. Analogamente è a dirsi, secondo Sez. 3, n. 01324/2016, Tatangelo, Rv. 638652, quanto alla domanda di restituzione di somme pagate a seguito di sentenza provvisoriamente esecutiva, di cui si chieda la riforma, purchè la domanda venga proposta in seno all'appello, ovvero nel corso del giudizio, qualora l'esecuzione sia avvenuta durante il corso del giudizio di secondo grado, dovendo invece escludersene la proponibilità con la comparsa conclusionale, attesa la sua funzione meramente illustrativa delle vicende processuali. Con specifico riferimento al cd. rito societario (di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, e oramai abrogato), Sez. 1, n. 01368/2016, Valitutti, Rv. 638437, ha affermato che il richiamo operato dall'art. 20, comma 2, del citato decreto legislativo, agli artt. 341 ss. c.p.c. comporta che anche per tali procedimenti opera il divieto di proposizione di nuove domande in appello, se non proposte in primo grado. Non costituisce, invece, proposizione di nuova domanda, secondo Sez. 3, n. 04384/2016, Scrima, Rv. 639371, la prospettazione in appello di una nuova qualificazione giuridica del contratto oggetto del giudizio in primo grado, purchè fondata sui medesimi fatti già allegati. Sempre sul tema dei nova, Sez. 1, n. 01366/2016, Bernabai, Rv. 638327, ha affermato che non costituisce nuova produzione, ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., il deposito in appello di un documento in originale, ove ne sia stata prodotta in primo grado una copia, trattandosi della regolarizzazione di una attività già tempestivamente espletata. Ancora riguardo ai documenti, Sez. 6-3, n. 05013/2016, Carluccio, Rv. 639364, ha affermato che l'indispensabilità ai fini della decisione, prevista dal previgente art. 345, comma 3, c.p.c., può concernere i soli documenti la cui valutazione risulti necessaria dall'esame della sentenza impugnata, non potendo ritenersi indispensabile il documento che tale già risultasse nel corso del giudizio di primo grado e prima del formarsi delle preclusioni istruttorie, evidentemente non considerato dal primo giudice per la negligenza della parte onerata. 667 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Da ultimo, Sez. 2, n. 27516/2016, Lombardo, in corso di massimazione, ha ribadito che qualora una questione di nullità venga sollevata per la prima volta in appello non come domanda ma solo come eccezione riconvenzionale rispetto all'avversa domanda riconvenzionale di pagamento contrapposta a quella principale di risoluzione, essa deve ritenersi ammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c., rimanendo circoscritta nell'ambito della difesa, senza tendere ad altro fine che non sia quello del rigetto dell'avversa domanda riconvenzionale. Deve infine segnalarsi Sez. 2, n. 04318/2016, Scarpa, Rv. 639385, secondo cui la violazione del divieto di introdurre nuove domande in appello, quand'anche non rilevato dal giudice del gravame e la controparte abbia accettato il contraddittorio, può essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità, trattandosi di preclusione all'esercizio della giurisdizione. 4. Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa. In ottica deflattiva, ma anche allo scopo di enfatizzare la funzione nomofilattica della Corte, l'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione, restringendo ampiamente la proponibilità di impugnazioni inerenti al vizio motivazionale. Nella medesima ottica, il procedimento di cassazione è stato oggetto di un recentissimo intervento normativo, apportato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197. In estrema sintesi, premessa la consueta tripartizione dei ricorsi relativamente alla destinazione, ossia a) quelli destinati ab origine alle Sezioni Unite, b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione e c) ogni altro ricorso alla Sezione ordinaria, la novella apportata al codice di rito ha introdotto, per questi ultimi, il sistema del "triplo binario", come definito dai primi commentatori. In sostanza, è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già prevista, com'è noto, dall'art. 375 c.p.c. e regolata dall'art. 380 bis c.p.c.), prevedendosi: aa) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile; b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non 668 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis. Naturalmente, in relazione alla riforma - che si applica a tutti i ricorsi già proposti alla data della sua entrata in vigore (avvenuta il 30 ottobre 2016), ma per i quali non era stata ancora fissata l'udienza - non risulta ancora adottata, da quanto consta, alcuna decisione, prevedendosi che essa entrerà a regime nei primi mesi del 2017. Al contrario, ovviamente, anche nel 2016 si registrano diverse pronunce concernenti il ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come oggi previsto dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.. Anzitutto, si segnala Sez. 3, n. 12884/2016, Sestini, Rv. 640419, che ha ritenuto sussistere il vizio di omesso esame di un fatto decisivo e controverso nel caso in cui venga preclusa alla parte la possibilità di assolvere il relativo onere probatorio, mediante motivazioni apparenti o perplesse. Ancora, Sez. 3, n. 13922/2016, Esposito A.F., Rv. 640530, ha ritenuto la sussistenza del medesimo vizio nel caso in cui venga denunciato un omesso esame delle risultanze della CTU. Sez. L, n. 15636/2016, Patti, Rv. 640726, ha poi affermato che il vizio di omesso esame di un fatto decisivo sussiste ove la corte d'appello abbia escluso, con affermazione apodittica, la natura privata di una società, ritenendola viceversa "società a partecipazione pubblica totale", senza effettuare alcun esame critico della documentazione prodotta e dello statuto della società stessa. È stato poi ribadito da Sez. 1, n. 17761/2016, Ferro, Rv. 641174, che per "fatto" controverso o decisivo per il giudizio deve intendersi non una "questione" o un "punto" della sentenza, ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto in funzione di prova di un fatto principale). Con specifico riferimento al giudizio di rinvio, Sez. 3, n. 10693/2016, Carluccio, Rv. 640124, ha ribadito che la sentenza emessa in tale sede è soggetta al regime impugnatorio vigente al momento della sua emissione, sicchè, ove essa sia stata pubblicata in data successiva al 11 settembre 2012, trova applicazione l'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., come modificato dalla più volte citata novella del 2012. 669 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI In materia di "filtro", si registra anche una interessante pronuncia emessa da Sez. 1, n. 05442/2016, Sambito, Rv. 639015, secondo cui lo scrutinio di cui all'art. 360 bis, n. 1), c.p.c. - a mente del quale il ricorso è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso la controversia in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi di ricorso non offre elementi per mutare orientamento - impone una declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza e non di inammissibilità, atteso che la valutazione dev'essere effettuata al momento della decisione e non può di per sé escludersi che, in tale momento, l'orientamento cui il giudice del merito si è attenuto non sia frattanto mutato. Al contrario, Sez. 1, n. 08804/2016, Ferro, Rv. 639563, ha ribadito il precedente orientamento (affermato da Sez. T, n. 23586/2015, Terrusi, Rv. 736464), secondo cui la decisione in tal caso dev'essere resa in rito, dal momento che il legislatore ha introdotto, in luogo del quesito di diritto, una autonoma griglia valutativa di ammissibilità, da esaminarsi al momento della proposizione del ricorso. 5. (segue) In generale. Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al capitoli dedicati al processo del lavoro e al processo tributario. Numerose pronunce si sono occupate del tema della ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze rese in grado d'appello o in unico grado. Sul piano generale, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641022, ha affermato che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso straordinario per cassazione decorre solo a seguito di notificazione su istanza di parte del provvedimento così impugnabile, mentre è irrilevante, a tal fine, che lo stesso sia stato pronunciato in udienza o comunicato dal cancelliere, ove pronunciato fuori udienza, con la conseguenza che, in tal caso, si applica il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.. Quanto alla individuazione della tipologia di provvedimenti assoggettabili al ricorso straordinario, Sez. 6-1, n. 00653/2016, Scaldaferri, Rv. 638279, ha affermato che il decreto di diniego dell'omologazione della proposta di concordato preventivo assunto in sede di reclamo ex art. 183 l.fall., cui non sia seguita la declaratoria di fallimento dell'imprenditore, è soggetto al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., solo se lo stesso decreto dipenda da ragioni che precludono una 670 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI consequenziale dichiarazione di fallimento, come ad esempio nel caso in cui si sia esclusa la qualità di imprenditore commerciale, ovvero la sussistenza dello stato d'insolvenza, o ancora si sia rilevato il difetto di giurisdizione. Deve peraltro segnalarsi che, all'udienza del 8 novembre 2016, le Sezioni Unite hanno assunto in decisione due procedimenti, rimessi dal Primo Presidente per la soluzione di questioni di massima di particolare importanza, proprio sul punto della ricorribilità per cassazione avverso il decreto di diniego dell'omologazione emesso in sede di reclamo. Le relative sentenze non sono state ad oggi pubblicate. Sul tema, si registra una importante e recentissima pronuncia, Sez. U, n. 27073/2016, De Chiara, in corso di massimazione, che risolvendo questione di massima di particolare importanza ha stabilito che il decreto con cui il tribunale dichiara inammissibile la proposta di concordato, ex art. 162, comma 2, l. fall. (anche eventualmente a seguito della sua mancata approvazione ai sensi dell'art. 179, comma 1), ovvero revoca l'ammissione alla procedura concordataria, giusta l'art. 173, senza emettere consequenziale sentenza di fallimento del debitore, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., non avendo carattere decisorio. Ancora, la stessa pronuncia, risolvendo ulteriore questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il decreto con cui il tribunale definisce, in senso positivo o negativo, il giudizio di omologazione del concordato preventivo, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento del debitore, ha carattere decisorio, ma, essendo reclamabile ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., non è soggetto a ricorso ex art. 111 Cost., proponibile, invece, avverso il provvedimento della medesima corte conclusivo del giudizio sull'eventuale reclamo. Con pronuncia pressoché coeva, Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, in corso di massimazione, risolvendo questione di massima di particolare importanza, ha stabilito che il decreto con cui la corte di appello, decidendo sul reclamo ex artt. 183, comma 1, e 182 bis, comma 5, l.fall., provvede in senso positivo o negativo sull'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, è ricorribile in Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo natura decisoria e non essendo altrimenti impugnabile. La relativa legittimazione, peraltro, non spetta al P.M., bensì ai creditori per titolo e causa anteriore alla data di pubblicazione dell'accordo nel registro delle imprese, cui si riferiscono gli effetti dell'accordo stesso, nonché agli altri interessati che abbiano proposto opposizione. 671 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sempre in materia concorsuale, Sez. 1, n. 03483/2016, Ferro, Rv. 638840, ha escluso la ricorribilità del decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che, stante la contestazione del curatore circa l'ammontare del credito vantato, abbia respinto la richiesta di pagamento in prededuzione ex art. 111 bis, comma 3, l.fall., trattandosi di decisione che non incide in via definitiva sul diritto del creditore. Ancora, Sez. 6-1, n. 04176/2016, Scaldaferri, Rv. 638839, ha del pari escluso la ricorribilità del decreto con cui il tribunale, in caso di concordato preventivo con riserva, abbia autorizzato - in uno con l'assegnazione del termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione - la sospensione dei contratti in corso di esecuzione (nella specie, bancari), ai sensi dell'art. 169 bis l.fall., difettando anche in tal caso i necessari requisiti di decisorietà e definitività. Allo stesso modo, Sez. 1, n. 06362/2016, Di Virgilio, Rv. 639214, ha negato la ricorribilità per cassazione del decreto del tribunale, confermativo del diniego di autorizzazione, da parte del giudice delegato, al pagamento in prededuzione e in via immediata del compenso per l'attività professionale giudiziale svolta nell'interesse della procedura, trattandosi di provvedimento modificabile in ogni momento ove l'attivo liquidato risulti insufficiente e, quindi, privo dei requisiti di decisorietà e definitività. Con una interessante decisione resa in materia di trust, Sez. 1, n. 01873/2016, Valitutti, Rv. 638476, ha stabilito che, ove l'atto istitutivo consenta di chiedere al tribunale la sostituzione del trustee, il relativo decreto reso in sede di reclamo non è ricorribile per cassazione, trattandosi di provvedimento modificabile e revocabile in ogni tempo, inidoneo ad incidere in via definitiva su un diritto soggettivo e, quindi, privo dei caratteri della decisorietà e della definitività in senso sostanziale. Analoga decisione è stata resa da Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638758, in tema di sovraindebitamento, relativamente al decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento di diniego dell'ammissibilità del piano del consumatore ai sensi degli artt. 6, 7, comma 1 bis e 8, della legge 27 gennaio 2012, n. 3. Sez. 1, n. 02985/2016, Bisogni, Rv. 638755, ha ribadito che i provvedimenti emessi in sede di reclamo riguardo alla designazione o nomina di amministratore di sostegno, trattandosi di provvedimenti distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, non sono ricorribili per cassazione, il ricorso essendo ammesso esclusivamente nell'ipotesi di cui all'art. 720 bis, ult. comma, c.p.c., 672 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI relativamente ai decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze emesse in materia di interdizione ed inabilitazione, mentre tale facoltà non si estende ai provvedimenti a carattere gestorio. Così, Sez. 6-1, n. 14983/2016, Acierno, Rv. 640716, ha ritenuto la ricorribilità per cassazione del decreto della corte d'appello che neghi l'apertura dell'amministrazione di sostegno. In materia di esecuzione forzata, Sez. 6-3, n. 12170/2016, Frasca, Rv. 640317, ha escluso la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che abbia provveduto sulla sospensione dell'esecuzione nell'ambito di opposizione proposta ai sensi degli artt. 615, 617 o 619 c.p.c., quand'anche si sia disposto sulla liquidazione delle spese, trattandosi di provvedimento non definitivo, e suscettibili di essere ridiscusso in seno al giudizio di merito. Ove poi difetti la fissazione del termine per l'introduzione del giudizio di merito, l'omissione può essere sanata richiedendo l'integrazione del provvedimento, ex art. 289 c.p.c., ovvero introducendo autonomamente il giudizio a cognizione piena, attività la cui mancanza determina l'estinzione del procedimento ex art. 307 c.p.c., con conseguente impossibilità di rimettere in discussione la statuizione sulle spese. Di stringente attualità è la pronuncia resa da Sez. U, n. 24102/2016, Perrino, in corso di massimazione, che he escluso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso la decisione dell'Ufficio centrale per il referendum, che per quanto composto esclusivamente da magistrati ed insediato presso la Suprema Corte, non è tuttavia un organo giurisdizionale in senso proprio, sicchè le sue decisioni non assumono la valenza di provvedimenti giurisdizionali. Ancora, Sez. 1, n. 23631/2016, Acierno, in corso di massimazione, sul rilievo che l'ordinanza che dichiari l'ammissibilità dell'azione di classe di cui all'art. 140 bis del cd. "codice del consumo" è inidonea a definire il procedimento, ha escluso che il provvedimento reso in appello, che la confermi, sia ricorribile in cassazione. Del pari, Sez. U, n. 22718/2016, Petitti, in corso di massimazione, ha escluso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso una ordinanza resa dalla stessa Suprema Corte, quand'anche per motivi attinenti alla giurisdizione, giacchè le sentenze e le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 375, comma 1, numeri 4) e 5), c.p.c., possono soltanto 673 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI essere soggette a revocazione, nell'ipotesi di cui all'art. 395, numero 4), c.p.c., secondo la previsione dell'art. 391 bis c.p.c.. Riguardo al ricorso ordinario, Sez. 6-3, n. 02263/2016, De Stefano, Rv. 639118, ha precisato che esso non può essere proposto avverso sentenza d'appello non definitiva, che, respingendo l'eccezione di prescrizione, non abbia definito, neppure parzialmente, il giudizio, ostandovi il disposto dell'art. 360, comma 3, c.p.c., che distingue a tal fine tra sentenze non definitive su domanda, o parziali (assoggettate al ricorso immediato per cassazione o all'impugnazione differita, previa riserva), e «sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio». Analoga pronuncia, quanto alla sentenza non definitiva emessa in giudizio di opposizione di terzo revocatoria dalla corte d'appello, che abbia dichiarato ammissibile l'impugnazione e respinto l'eccezione di tardività del mezzo, è stata resa da Sez. 2, n. 07411/2016, Giusti, Rv. 639474. Quanto al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 00622/2016, Didone, Rv. 638274, ha affermato che, poiché la ssospensione dei termini processuali durante il periodo feriale non si applica alle «cause inerenti alla dichiarazione e revoca del fallimento», senza alcuna limitazione o distinzione tra le varie fasi e i diversi gradi del giudizio, resta del pari escluso che detta sospensione possa applicarsi riguardo al ricorso contro la sentenza pronunciata in grado d'appello avverso la la dichiarazione di fallimento. Riguardo alla notificazione del ricorso, Sez. L, n. 00710/2016, Di Paolantonio, Rv. 638230, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che il ricorrente può sanare la nullità della notifica o rinnovando motu proprio la notifica stessa, anticipando l'ordine di cui all'art. 291 c.p.c., oppure quando agisca in sua esecuzione, restando irrilevante che la rinnovazione giunga in epoca successiva alla scadenza del termine per impugnare. Sez. 2, n. 02574/2016, Orilia, Rv. 638776, ha affermato, in linea con risalente orientamento, che la notificazione del ricorso per cassazione può essere validamente effettuata dagli ufficiali giudiziari addetti agli uffici giudiziari eletti dagli intimati presso i loro difensori, poiché ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 e 107, comma 2, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, la potestà notificatoria è attribuita sia all'ufficiale giudiziario del luogo in cui essa deve essere eseguita, sia a quello addetto all'autorità giudiziaria competente a conoscere la causa. 674 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Ancora sulla notifica, Sez. 2, n. 03648/2016, Falaschi, Rv. 638761, ha ritenuto nulla, e non inesistente, la notifica eseguita presso il difensore costituito della parte appellata ma privo della qualità di domiciliatario, con la conseguenza che la nullità resta sanata in caso di costituzione del destinatario. Nello stesso senso, la successiva Sez. L, n. 06006/2016, Boghetich, Rv. 639163. È invece inesistente, per Sez. 1, n. 07959/2016, Lamorgese, Rv. 639607, la notifica del ricorso effettuata a procuratore non avente alcun tipo di relazione o collegamento con l'intimato. Di particolare interesse è Sez. 3, n. 26102/2016, Barreca, in corso di massimazione, che ha affermato che ai sensi dell'art. 3 bis, comma 3, e 6, comma l, della legge 21 gennaio 1994, n. 53, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, per la regolarità della notifica del ricorso per cassazione costituito dalla copia informatica dell'atto originariamente formato su supporto analogico, non è necessaria la sottoscrizione dell'atto con firma digitale, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all'originale, secondo le disposizioni vigenti ratione temporis (nella specie, a norma dell'art. 22, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82). La pronuncia ha altresì affermato che quando il deposito del ricorso per cassazione non avvenga con modalità telematiche, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., dell'avvenuta sua notificazione per via telematica va data prova mediante il deposito - in formato cartaceo, con attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti - del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna previste dall'art. 6, comma 2, del d.P.R. 11 febbraio 2005 n. 68. Relativamente all'interesse ad impugnare, Sez. U, n. 01520/2016, Cirillo E., Rv. 638237, ha affermato che il ricorso per cassazione proposto contro la sentenza che ha rigettato la richiesta di revocazione è inammissibile, per carenza di interesse ad una ulteriore pronuncia di legittimità, qualora la sentenza revocanda sia stata già annullata in accoglimento di un precedente ricorso per cassazione. Sez. 6-3, n. 04981/2016, Carluccio, Rv. 639480, ha escluso l'ammissibilità del ricorso proposto dalla parte totalmente vittoriosa in appello sull'oggetto del giudizio e diretto ad ottenere l'inammissibilità del gravame proposto da controparte. Sez. 1, n. 05759/2016, Scaldaferri, Rv. 639273, ha ribadito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, mentre può impugnare la sentenza di merito entro il termine di decadenza, 675 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI non può tuttavia intervenire nel giudizio di legittimità, difettando una specifica disciplina al riguardo. Ha tuttavia precisato Sez. 1, n. 11638/2016, Acierno, Rv. 639906, che il successore a titolo particolare nel diritto controverso può comunque intervenire nel giudizio di legittimità ove non si sia costituito il suo dante causa, altrimenti determinandosi una ingiustificata lesione del suo diritto di difesa. Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 1, n. 04116/2016, Terrusi, Rv. 638861, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso ove la società ricorrente assuma di aver incorporato altra società, parte nei precedenti gradi di giudizio, ma nonostante la contestazione di controparte, non produca la relativa documentazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c.. Ancora, deve segnalarsi, in argomento, Sez. U, n. 05944/2016, Bernabai, Rv. 638989, che in ambito fallimentare ha negato sussista la legittimazione attiva del creditore ammesso al passivo di società in amministrazione straordinaria, ai fini della proposizione del ricorso per cassazione avverso atti di liquidazione dei beni, ove egli abbia ceduto il credito a terzi; allo stesso modo, ha negato la legittimazione attiva in capo al cessionario ai fini dell'intervento in giudizio, poiché il credito è solo il presupposto, ma non anche l'oggetto dell'accertamento. E' stato poi ribadito da Sez. 3, n. 19386/2016, Olivieri, in corso di massimazione, che è valida ed efficace la procura alle liti conferita dal liquidatore di una società (nella specie società a responsabilità limitata), munito di potere rappresentativo, a nulla rilevando che egli abbia dichiarato di agire nella veste di "amministratore" della società (carica ricoperta prima dell'apertura della fase di liquidazione). Ai fini di stabilire la legittimazione processuale del soggetto che rappresenta la società, infatti, occorre fare riferimento non alla qualità dichiarata, ma a quella effettiva di colui il quale svolge funzioni di amministratore o di liquidatore. Quanto agli aspetti più strettamente procedimentali, Sez. 3, n. 00684/2016, De Stefano, Rv. 638673, ha ribadito che quando il ricorrente si si avvalso del servizio postale al fine di depositare in cancelleria il ricorso notificato, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., assume rilievo la data di consegna del plico al servizio postale, giacchè l'iscrizione a ruolo deve ritenersi avvenuta in tale data. Tuttavia, per Sez. 6-L, n. 24178/2016, Marotta, in corso di massimazione, il ricorso è improcedibile qualora il ricorrente si sia limitato a inviare a mezzo posta la cd. "velina" del ricorso stesso, anziché quello notificato, irrilevante essendo anche il contegno 676 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI processuale di controparte, che non abbia eccepito alcunché in seno al controricorso. Ancora, Sez. 1, n. 01958/2016, Nazzicone, Rv. 638479, ha affermato che il termine di venti giorni dall'ultima notifica ai fini del deposito del ricorso, ex art. 369, comma 1, c.p.c., deve calcolarsi rispetto all'ultima notifica effettuata nei confronti di una delle più controparti destinatarie, e non anche rispetto a quella reiterata nei confronti della medesima parte, a meno che la prima non fosse affetta da nullità. Ove il ricorrente abbia omesso di depositare il ricorso e gli altri documenti indicati dall'art. 369 c.p.c., secondo Sez. 1, n. 03193/2016, Ferro, Rv. 638563, il controricorrente ha il potere di richiedere l'iscrizione a ruolo al fine di ottenere la declaratoria di improcedibilità, onde ottenere il recupero delle spese ed evitare che, ove non siano ancora decorsi i termini, il ricorrente provveda a notificare una nuova impugnazione. Sez. 6-1, n. 05819/2016, Mercolino, Rv. 639092, ha ribadito che la mancata trasmissione del fascicolo d'ufficio, tempestivamente richiesta dal ricorrente ai sensi dell'art. 369, comma 3, c.p.c., non incide sulla regolarità del procedimento, a meno che l'esame degli atti in esso contenuti non risulti indispensabile ai fini della decisione. Ribadisce poi Sez. L. n. 01757/2016, Berrino, Rv. 638717, che nel giudizio di cassazione non può applicarsi l'istituto dell'interruzione, a causa della sua particolare struttura e della sua disciplina, sicchè ove la morte di una delle parti intervenga dopo la rituale instaurazione del giudizio, essa non assume rilievo, né tantomeno consente agli eredi di partecipare al giudizio stesso. Nel caso in cui, del pari, la parte sia colpita da perdita di capacità, sebbene ininfluente, Sez. 6-L, n. 03471/2016, Marotta, Rv. 638961, ha affermato che il successore che intenda partecipare al giudizio di cassazione può farlo con atto d'intervento, da notificarsi a controparte, non essendo sufficiente il mero deposito di un atto in cancelleria. Quanto alla composizione del collegio giudicante, Sez. L, n. 03980/2016, Boghetich, Rv. 638848, ha ribadito che, ove la sentenza emessa in sede di rinvio sia nuovamente assoggettata a ricorso per cassazione, i componenti del precedente collegio che dispose l'annullamento ben possono partecipare al nuovo giudizio, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e di terzietà del giudice. Nello stesso senso, anche la successiva Sez. 3, n. 14655/2016, Ambrosio, Rv. 640587. 677 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sez. 6-2, n. 07080/2016, Parziale, Rv. 639490, ha affermato che ove il difensore abbia indicato un numero di fax per la ricezione di avvisi di cancelleria, egli ha l'onere di tenere attivata l'apparecchiatura in forma automatica, ovvero di presidiare (o far presidiare) la stessa quantomeno nelle ore antimeridiane, dovendo quindi ritenersi inesigibile ogni ulteriore tentativo di comunicazione dell'avviso di fissazione di udienza da parte della cancelleria, che vi abbia provato in giorni diversi, e sempre nelle ore antimeridiane, per ben due volte, con conseguente regolarità della comunicazione stessa. Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 09611/2016, Di Marzio M., Rv. 639619, ha affermato che essa determina l'estinzione del processo e comporta normalmente il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, salvo il caso in cui quest'ultima sia stata modificata nei suoi effetti nel corso del procedimento di impugnazione. Ancora, Sez. 3, n. 12743/2016, Sestini, Rv. 640420, ha affermato che la rinuncia al ricorso, quale atto unilaterale recettizio, non determina l'estinzione del giudizio ove non notificata o comunicata alle altre parti costituite, ma segna comunque il venir meno dell'interesse alla pronuncia, determinando l'inammissibilità sopravvenuta del ricorso, con la conseguenza che il rinunciante non può, successivamente, depositare memoria ex art. 378 c.p.c., modificando la propria condotta processuale. Riguardo allo ius postulandi, Sez. 6-3, n. 00058/2016, Rubino, Rv. 637916, ha ribadito che è invalida - ai fini della proposizione del ricorso per cassazione - la procura rilasciata a margine dell'atto introduttivo di primo grado, benché per tutti i gradi del giudizio, irrilevante essendo che la sentenza sia divenuta direttamente impugnabile per cassazione a seguito dell'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. e che persista la validità della procura stessa per il giudizio d'appello; ciò in quanto la procura per il ricorso per cassazione ha carattere speciale e deve essere rilasciata successivamente all'emissione della pronuncia impugnata, in modo da assicurare, con certezza, la riferibilità dell'attività difensiva al titolare della posizione giuridica controversa. Sez. 2, n. 00474/2016, Scarpa, Rv. 638640, ha affermato che, quand'anche conferito prima della pubblicazione della sentenza impugnata, il mandato conferito con procura generale o speciale ad negotia attribuisce al mandatario tutti i poteri spettanti al mandante al riguardo, compreso quello di instaurare un giudiczio di legittimità e di rilasciare procura speciale al difensore. 678 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sez. 6-3, n. 04980/2016, Carluccio, Rv. 639346, ha ancora rilevato l'inammissibilità del ricorso per difetto di specialità della procura ove questa sia stata rilasciata in calce al ricorso recante uno specifico riferimento ad altro giudizio, insufficiente essendo il rilascio di successiva procura notarile di ratifica e sanatoria della precedente. Di particolare interesse è Sez. L, n. 24263/2016, Spena, in corso di massimazione, secondo cui, nel caso di procura rilasciata da una unica persona fisica, che agisca sia in proprio che quale legale rappresentante di un soggetto giuridico, non occorre la spendita della doppia veste in cui si agisce, in seno alla procura, purchè la duplice qualità sia comunque evincibile dall'atto cui la procura accede, dovendo darsi prevalenza da un lato alla volontà del soggetto conferente, e nel dubbio dovendo farsi applicazione del prjncipio di conservazione degli effetti dell'atto. In relazione, invece, al ricorso incidentale, Sez. 1, n. 08798/2016, Di Virgilio, Rv. 639536, ha affermato che la procura apposta nell'unico atto contenente sia il controricorso che l'impugnazione incidentale deve intendersi estesa anche a quest'ultima, e il suo rilascio, benché privo di data, le conferisce con certezza sia il carattere dell'anteriorità che quello della specialità. Quanto all'elezione di domicilio, Sez. U, n. 11383/2016, Giusti, Rv. 639971, ha affermato che ove il difensore domiciliatario non lo abbia indicato in Roma, il cancelliere ben può effettuare la comunicazione presso la stessa cancelleria della Corte, in applicazione del disposto degli artt. 136 e 366 c.p.c., secondo un'interpretazione orientata all'effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo, ma solo nel caso in cui non siano andati a buon fine né la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, né a mezzo fax. Relativamente all'impugnazione incidentale, Sez. T, n. 00574/2016, Iannello, Rv. 638333, ha affermato che, ove nel giudizio di merito la parte vittoriosa avesse proposto domande non esaminate perché ritenute assorbirte dalla statuizione adottata, la stessa parte, resistente nel giudizio di legittimità, non può proporre ricorso incidentale, benché condizionato, poiché tali domande rimangono impregiudicate e possono riproporsi, in caso di cassazione della sentenza, nel giudizio di rinvio. Va invece esclusa la proponibilità del ricorso incidentale, quand'anche condizionato, secondo Sez. 1, n. 04472/2016, Nazzicone, Rv. 638871, da parte di colui che sia risultato totalmente 679 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI vittorioso nel giudizio d'appello, presupponendo comunque essa la soccombenza. Nel caso in cui avverso la medesima sentenza siano stati proposti due ricorsi, entrambi presentati come autonomi, senza che si sia provveduto alla loro formale riunione, per Sez. 6-L, n. 07096/2016, Pagetta, Rv. 639296, l'intervenuta decisione di una delle due impugnazioni non solo non incide sulla validità della stessa decisione, ma preclude l'esame del ricorso non ancora esaminato, che va quindi dichiarato improcedibile, in forza dei principi di unità della decisione, del giusto processo e della sua ragionevole durata. Sez. L, n. 23531/2016, Cavallaro, in corso di massimazione, ha stabilito che il ricorso incidentale condizionato dell'appellato totalmente vittorioso, che riproponga una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, che l'abbia visto soccombente, dev'essere esaminato e deciso prioritariamente ove fondato su una ragione più liquida, in aderenza con le esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzate dagli artt. 24 e 111 Cost. Sempre sul tema, Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, in corso di massimazione, ha affermato che un controricorso ben può valere come ricorso incidentale, ma, a tal fine, per il principio della strumentalità delle forme – secondo cui ciascun atto deve avere quel contenuto minimo sufficiente al raggiungimento dello scopo - occorre che esso contenga i requisiti prescritti dall'art 371 in relazione agli artt. 365, 366 e 369 c.p.c. ed in particolare, la richiesta, anche implicita, di cassazione della sentenza specificatamente prevista dal n. 4 dell'art 366 c.p.c. Quanto alla funzione della memoria ex art. 378 c.p.c. e di quella omologa di cui all'art. 380 bis c.p.c., Sez. 6-L, n. 03471/2016, Marotta, Rv. 638962, ha ribadito che con esse non può specificarsi o integrarsi, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni, né dedurre nuove eccezioni o sollevarsi questioni nuove, pena la violazione del diritto di difesa. Inoltre, poiché il termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione fissato per il deposito, ex art. 378 c.p.c., ha la funzione di assicurare al giudice e alle altre parti di prendere cognizione della memoria con congruo anticipo rispetto all'udienza stessa, Sez. 2, n. 07704/2016, Falaschi, Rv. 639477, ha negato in proposito l'applicabilità in via analogica dell'art. 134, comma 5, disp. att. c.p.c., in tema di deposito del ricorso del controricorso a mezzo del servizio postale, che la suddetta norma dispone doversi ritenere perfezionato nella data di spedizione del plico. 680 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sez. 1, n. 26332/2016, Ferro, in corso di massimazione, ha infine stabilito che, proprio alla luce della descritta funzione, sono inammissibili le "ulteriori memorie conclusionali" depositate dal ricorrente, in aggiunta ad una prima memoria già versata in atti ex art.378 c.p.c., posto che nel giudizio di cassazione non sono ammissibili scritti difensivi con la deduzione di nuove censure. Riguardo all'onere di depositare la copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., Sez. 6-3, n. 03564/2016, De Stefano, Rv. 638916, ha ribadito che ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza stessa gli è stata notificata, deve presumersi che egli abbia inteso avvalersi del cd. "termine lungo", procedendo quindi alle verifica della sua osservanza. Ove però in seguito, per eccezione di parte o aliunde, emerga invece che la sentenza gli era stata notificata ai fini del decorso del termine per impugnare, a prescindere dall'osservanza del termine breve, la Corte di cassazione deve verificare che il ricorrente abbia depositato la copia della sentenza entro il termine di cui all'art. 369 c.p.c., in mancanza dovendo dichiarare l'improcedibilità del ricorso, valutazione che precede quella sull'eventuale sua inammissibilità. Non rispetta l'onere in discorso, ed incorre quindi nella declaratoria di improcedibilità del ricorso, secondo Sez. T, n. 16498/2016, Tricomi L., Rv. 640779, il ricorrente che depositi una copia della sentenza impugnata "uso studio", priva del visto di conformità, anziché la copia autentica. Non così, invece, secondo Sez. U, n. 19675/2016, Frasca, Rv. 641091, nel caso in cui il ricorrente depositi una copia incompleta, benché autentica, della sentenza impugnata, ove ciò non determini l'impossibilità di scrutinare l'impugnazione sulla base della pur incompleta copia depositata, in virtù del principio della sanatoria delle nullità processuali per raggiungimento dello scopo. Ove invece il ricorrente depositi una copia conforme della sentenza impugnata, ma nella stesura antecedente alla successiva correzione dell'errore materiale, ciò non determina, per Sez. 1, n. 23638/2016, Sambito, in corso di massimazione, l'inammissibilità del ricorso, trattandosi di vizio solo formale, secondo il principio di lesività in concreto della violazione di norme processuali. Con specifico riguardo alla materia fallimentare e segnatamente al procedimento di opposizione allo stato passivo, Sez. 1, n. 09987/2016, Di Virgilio, Rv. 639801, ha stabilito che il deposito del relativo decreto decisorio, non corredato dalla prova della sua notificazione o comunicazione ai sensi dell'art. 99, ultimo 681 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI comma, l.fall., determina l'improcedibilità del ricorso ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., non potendo la Corte valutare la tempestività del ricorso, a prescindere dal contegno processuale della controparte. In relazione all'attività esercitabile all'udienza di discussione dai procuratori delle parti, Sez. 6-1, n. 00429/2016, Bisogni, Rv. 638120, ha precisato che la facoltà delle parti di presentare brevi osservazioni per iscritto, ai sensi dell'art. 379, comma 4, c.p.c., può essere esercitata solo per replicare alle conclusioni del P.M., ma non anche per replicare alle difese svolte oralmente dal difensore avversario. Sez. 3, n. 06180/2016, Vincenti, Rv. 640311, ha poi escluso l'ammissibilità del deposito di conclusioni scritte da parte del P.M. dopo averle rassegnate oralmente, giacchè tale facoltà è riservata unicamente alle parti, in replica alle stesse conclusioni del P.M.. Sul tema della produzione documentale, Sez. L, n. 00195/2016, Berrino, Rv. 638424, ha affermato che l'onere di depositare gli atti processuali, i documenti, i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda, imposto a pena di improcedibilità dall'art. 369, comma 2, n. 4), c.p.c., può ritenersi soddisfatto, per il principio di strumentalità delle forme processuali, con la produzione del fascicolo di parte per gli atti in esso contenuti, e con il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, munita di visto ex art. 369, comma 3, c.p.c., ferma l'esigenza di rispettare, comunque, i dettami di cui all'art. 366, n. 6), c.p.c., a pena d'inammissibilità. Con particolare riguardo al deposito di nuovi documenti, Sez. 2, n. 03934/2016, Criscuolo, Rv. 638973, nel solco di risalente orientamento, ha affermato che sebbene l'art. 372 c.p.c. testualmente ne consenta la produzione ove essi siano finalizzati a sostenere l'inammissibilità del ricorso, esso deve interpretersi in senso estensivo, essendo ammessa anche la produzione di documenti a sostegno di cause di improponibilità, improcedibilità e improseguibilità dello stesso ricorso. Ancora, Sez. 1, n. 09334/2016, Ferro, Rv. 639618, ha affermato che, poiché l'eccezione di estinzione della società appellante a cagione della sua cancellazione dal registro delle imprese già in epoca antecedente alla proposizione dell'appello può direttamente considerarsi come causa di potenziale nullità della sentenza di secondo grado, il ricorrente può formulare tale eccezione per la prima volta col ricorso per cassazione, producendo 682 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI ai sensi dell'art. 372 c.p.c. la documentazione che ne comprovi l'intervenuta estinzione. Al contrario, in tema di società di persone, Sez. L, n. 13792/2016, Manna A., Rv. 640451, ha affermato che, poiché l'iscrizione dell'atto che la cancella ha natura dichiarativa, il difetto di legittimazione processuale non può essere dedotto per la prima volta in cassazione, con la produzione dell'atto di cancellazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c., ciò comportando una inammissibile introduzione di una nuova questione di fatto in sede di legittimità. Circa i requisiti di forma e contenuto del ricorso, di particolare interesse è Sez. 6-3, n. 26936/2016, De Stefano, in corso di massimazione, che avuto riguardo alla portata dell'art. 6 della CEDU ha affermato che la giurisprudenza della Corte europea autorizza il formalismo nel giudizio di legittimità in generale e nella sua fase introduttiva in particolare, purché sia superato il consueto vaglio di proporzionalità nel bilanciamento tra esigenza di certezza del diritto (e buona amministrazione della giustizia) e diritto del singolo al giusto processo; ciò che si verifica quando il singolo requisito formale: a) è funzionale al ruolo nomofilattico della Corte di cassazione; b) non è interpretato in senso eccessivamente formalistico; c) è imposto in modo chiaro e prevedibile; d) non impone un onere eccessivo per chi deve formare il ricorso, tenuto conto della particolare professionalità attesa dal difensore abilitato alla difesa della parte in Cassazione. Sez. 2, n. 00138/2016, Matera, Rv. 638533 ha ribadito che l'erronea indicazione del numero della sentenza impugnata in ricorso non ne determina l'inammissibilità, ove l'intimato abbia elementi sufficienti ad individuarla senza possibilità di equivoci. Analogamente, Sez. 2, n. 01989/2016, Orilia, Rv. 638773, ha escluso che l'omessa indicazione della parte intimata determini l'inammissibilità del ricorso, ex art. 366, comma 1, n. 1), c.p.c., ove dal contesto del ricorso ovvero dal riferimento ai precedenti gradi del giudizio la parte stessa sia identificabile con certezza. Nel solco di consolidato orientamento, poi, Sez. L, n. 04293/2016, Di Paolantonio, Rv. 639158, ha ribadito che, poiché il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio, bensì un giudizio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione limitata all'ambito dei motivi di censura proposti, nel caso in cui la decisione impugnata si regga su più rationes decidendi ciascuna delle quali idonea a giustificare la decisione, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze in relazione a tutte le predette rationes. 683 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sempre in ambito di specificità delle censure, con riguardo all'ipotesi in cui il ricorrente si dolga dell'utilizzo, da parte del consulente tecnico d'ufficio, di documenti forniti dal consulente tecnico di parte al di fuori del contraddittorio, Sez. 1, n. 07737/2016, Lamorgese, Rv. 639309, ha affermato che il ricorrente stesso ha l'onere di indicare specificamente quali siano tali documenti e quali siano gli accertamenti e le valutazioni basate sugli stessi e svolti dal consulente d'ufficio, poi utilizzati dal giudice. Per il caso in cui la copia notificata del ricorso manchi di una o più pagine e l'originale sia stato tempestivamente depositato, Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641080, componendo un contrasto di giurisprudenza, ha stabilito che ciò non comporta l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica, sanabile ex tunc, mediante nuova notifica di copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell'intimato, salva la concessione di un termine a quest'ultimo per integrare le sue difese. Ancora, Sez. 6-3, n. 03385/2016, Frasca, Rv. 638771, ha ribadito che la tecnica del cd. "assemblaggio", mediante la quale il ricorrente riproduca pedissequamente gli atti di causa, viola il precetto di cui all'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., giacchè l'esposizione sommaria del fatto non può neanche desumersi dall'illustrazione del o dei motivi. Sez. T, n. 18021/2016, Sabato, Rv. 641127, ha affermato che ove i motivi di impugnazione prospettino una pluralità di questioni precedute dall'elenco delle norme asseritamente violate, essi sono inammissibili sia per la negazione della regola della chiarezza, e dall'altro perché impongono alla Corte una attività tesa ad enucleare, dalla mescolanza dei motivi, quelle parti inerenti le separate censure. Quanto in particolare al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene la fonte normativa nell'art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., va qui segnalata Sez. 1, n. 09888/2016, Nazzicone, Rv. 639725, che ha affermato che, nel caso si denunci la violazione di norme processuali, ai fini del rispetto di quel requisito, si devono specificare gli elementi fattuali che in concreto condizionano l'ambito di operatività della violazione. Sez. 3, n. 12288/2016, Olivieri, Rv. 640255, ha poi affermato che le "tabelle milanesi", dettate in tema di liquidazione del danno alla persona, non costituiscono fatto notorio, sicchè il ricorso per cassazione deve ritenersi non in linea con la previsione art. 366, 684 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI comma 1, n. 6), c.p.c., ove esso non le riporti specificamente, limitandosi ad enunciare le somme pretese in virtù della loro applicazione ed omettendo di indicarle tra i documenti, ex art. 369, comma 2, c.p.c., e di individuare quando siano state prodotte nel giudizio di merito e il luogo del processo in cui esse siano reperibili; né l'omissione può essere superata da una successiva produzione ex art. 372 c.p.c., non trattandosi di documenti inerenti all'ammissibilità del ricorso. In tema di contenzioso tributario, Sez. T, n. 19118/2016, Tricomi L., Rv. 641234, ha stabilito che, poiché l'inammissibilità di tutti i motivi del ricorso determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, la Corte non può esaminare né una eventuale questione di costituzionalità sollevata, né l'eventuale integrazione del contraddittorio, in caso di litisconsorzio necessario. Quanto ai poteri della Corte di Cassazione, ove il ricorrente riproponga una questione giuridica non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata e che necessiti di un accertamento di fatto, Sez. 2, n. 07048/2016, Orilia, Rv. 639515, ha affermato che, al fine di evitare la declaratoria di inammissibilità della censura per novità, è onere dello stesso ricorrente indicare dove e quando la questione è stata introdotta, al fine di consentire alla Corte di verificare la veridicità dell'affermazione, prima di esaminarla nel merito, e ciò quand'anche si verta in tema di rilevabilità d'ufficio della nullità in ogni stato e grado, giacchè il potere officioso non può essere esercitato qualora si rendano necessari accertamenti di fatto. Negli stessi termini si è anche pronunciata Sez. 2, n. 08206/2016, Orilia, Rv. 639513. Un cospicuo numero di pronunce hanno riguardato il tema dei vizi denunciabili col ricorso. Anzitutto, deve segnalarsi Sez. U, n. 01513/2016, Frasca, Rv. 638245, che ha affermato che, ove si censuri col ricorso la qualificazione della domanda data dal giudice di merito ai fini della individuazione della giurisdizione, il motivo si riverbera sempre sull'applicazione delle norme regolatrici della giurisdizione, sicchè è riconducibile alla previsione di cui al'art. 360, comma 1, n. 1), c.p.c.. Sez. 2, n. 02443/2016, Orilia, Rv. 638775, ha ribadito che le nuove questioni di diritto, ancorchè rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, non sono proponibili per la prima volta nel giudizio di legittimità, allorchè comportino o presuppongano nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto, salvo che nelle ipotesi di cui all'art. 372 c.p.c., tra cui il caso della nullità della sentenza, purchè il vizio attenga direttamente al provvedimento. 685 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sez. 3, n. 11892/2016, Frasca, Rv. 640194, ha affermato che il cattivo esercizio del potere di valutazione delle prove non legali da parte del giudice del merito non rientra tra i vizi denunciabili con il ricorso per cassazione, non potendo integrare né un "fatto storico", ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., né tantomeno in un'anomalia motivazionale, denunciabile ai sensi della previsione di cui al n. 4) dello stesso articolo, in relazione al disposto dell'art. 132, comma 4, c.p.c.. Pertanto, prosegue la stessa pronuncia, Rv. 640192, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere denunciata quale vizio processuale solo ove si sostenga che il giudice ha dichiarato di non dover osservare detta norma, ovvero abbia deciso sulla base di prove non introdotte dalle parti ma disposte di sua iniziativa al di fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non essendo sufficiente affermare che il giudice abbia attribuito maggior capacità persuasiva ad alcune prove piuttosto che ad altre. Sez. L, n. 02529/2016, Blasutto, Rv. 638935, ha affermato che l'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, non può essere denunciata ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., ma con revocazione a norma dell'art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c.. Ancora, deve segnalarsi Sez. 3, n. 23704/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, che in tema di distinzione tra errore di calcolo o materiale, ha ribadito che l'errore di calcolo del giudice del merito può essere denunciato solo con ricorso per cassazione quando sia riconducibile all'impostazione dell'ordine delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, perché in tali ipotesi si lamenta un vero e proprio error in iudicando nella individuazione dei parametri e dei criteri di conteggio sulla cui base sono stati effettuati i calcoli. Qualora, invece, esso consista in un'erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici esattamente determinati ed esatta individuazione ed ordine delle operazioni da compiere, esso è emendabile con l'apposita procedura di correzione regolata dagli artt. 287 ss. c.p.c.. Riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723, che a composizione di contrasto di giurisprudenza ha affermato che l'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che la violazione di norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza 686 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perché dotate di efficacia retroattiva; in tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta. E ancora, con ulteriore statuizione, è stato affermato che il ricorso per violazione di legge sopravvenuta incontra il limite del giudicato, sicchè, se la sentenza si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l'accoglimento dell'impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, la proposizione dell'impugnazione nei confronti della parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest'ultima. Sez. L, n. 00287/2016, Amendola F., Rv. 638395, ha ribadito che la denuncia della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che in tesi inficia la sentenza impugnata, postula, pena l'inammissibilità, che vengano puntualmente indicate le norme asseritamente violate, ma anche che vengano rese specifiche argomentazioni tese a dimostrare in qual modo le affermazioni in diritto contenute nella sentenza stessa si pongano in contrasto con le norme che regolano la fattispecie o con l'interpretazione propugnata dalla dottrina o dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, occorrendo prospettare una valutazione comparativa tra soluzioni diverse, in modo da consentire alla Corte la valutazione del fondamento della denunciata violazione. Sez. 6-L, n. 00329/2016, Marotta, Rv. 638341, ha ribadito che l'omessa pronuncia da parte del giudice di merito non può essere denunciata né come "violazione e falsa applicazione di norme di diritto", né come vizio di motivazione, poiché queste censure presuppongono logicamente che il giudice del merito abbia preso in esame la questione sottesa, occorrendo invece censurare l'error in procedendo ai sensi dell'art. 112 c.p.c., in relazione alla previsione di cui all'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.. Ancora, Sez. L, n. 06267/2016, Manna A., Rv. 639244, ha affermato che non può denunciarsi in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione dei pareri del Comitato regionale previsto dall'art. 12 del d.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, trattandosi di atti privi di valenza normativa e non essendo essi assimilabili al contratto o accordo collettivo nazionale di lavoro. Sez. L, n. 02529/2016, Blasutto, Rv. 638935, ha affermato che quando si assuma il giudice del merito è incorso in un errore di fatto risultante dagli atti del processo, il ricorso prioposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., è inammissibile, essendo 687 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI denunziato un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall'art. 395, comma 4, c.p.c.. In relazione all'error in procedendo, denunciabile a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., Sez. L, n. 08069/2016, Manna A., Rv. 639483, ha ribadito che la denuncia di tale vizio faculta la Corte ad esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito, indipendentemente dalla sufficienza e logicità dell'eventuale motivazione esibita al riguardo. Sez. L. n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032, ha però precisato che detta denuncia presuppone pur sempre che il ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti gli atti sui quali esso si fonda (nella specie, si era denunciata la violazione delle regola del tantum devolutum, quantum appellatum), al fine di individuare esattamente in che termini si ponga il vizio processuale, occorrendo riportare esattamente, e non solo per estratto o riassunto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione era stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure (ritenute inammissibili) erano state formulate. Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), Sez. 2, n. 04826/2016, Cosentino, Rv. 639176, ne ha escluso la sussistenza (e quindi, ha escluso la necessità di rimettere in termini il ricorrente per la proposizione di motivi aggiunti) nel giudizio avviato in relazione a sanzioni amministrative per abuso di informazioni privilegiate, a causa dell'intervenuto annullamento del regolamento CONSOB contenente le regole sul procedimento sanzionatorio, non investendo esso né una norma processuale, né precludendo lo stesso il diritto di azione o di difesa. Relativamente al regime delle spese, Sez. 6-3, n. 03376/2016, Rossetti, Rv. 638887, in controversia introdotta in primo grado in epoca antecedente al 4 luglio 2009, ha affermato che nel giudizio di cassazione si configura un'ipotesi di colpa grave, tale da legittimare l'irrogazione dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), quando la parte abbia agito o resistito sostenendo tesi in iure contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, ciò che è incompatibile con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il principio di ragionevole durata del processo, di illiceità dell'abuso del processo, e della necessità che le norme processuali vengano interpretate in modo da non comportare spreco di energie giurisdizionali. 688 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sempre sul tema delle spese, ma avuto riguardo al regime introdotto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, Sez. 6-L, n. 01778/2016, Mancino, Rv. 638714, ha affermato che l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato in capo al ricorrente la cui impugnazione sia stata respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, non sussiste ove ricorrente sia una Amministrazione dello Stato, che è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo mediante il meccanismo della prenotazione a debito. Relativamente al giudizio di rinvio, Sez. 3, n. 00340/2016, Sestini, Rv. 638610, ha affermato che il rinvio da parte della Corte di cassazione attribuisce al detto giudice una competenza funzionale ratione materiae, che questi non può modificare. Sez. 1, n. 02411/2016, Lamorgese, Rv. 638507, coordinando il principio della rilevabilità in ogni stato e grado del giudicato, interno o esterno, con la peculiarità del giudizio di rinvio e la preclusione dettata dalla sentenza di cassazione, ha stabilito che il giudice del rinvio non può esaminare la questione circa l'esistenza di un giudicato, qualora essa risulti tuttavia esclusa, anche implicitamente, dalla statuizione di cassazione con rinvio, né a maggior ragione quando quel giudicato, come individuato dal giudice del rinvio, sia incompatibile con il principio pronunciato ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c.. Sempre sui poteri del giudice di rinvio, Sez. 2, n. 04317/2016, Scarpa, Rv. 639382, ha escluso che questi possa rilevare, d'ufficio, la non integrità del contraddittorio e rimettere quindi la causa al primo giudice ex art. 354, comma 1, c.p.c., ostandovi il disposto dell'art. 394 c.p.c.. In tal caso, ove la pronuncia non venga impugnata, essa acquista efficacia irretrattabile, sicchè il relativo giudizio non costituisce una prosecuzione impropria del giudizio di rinvio, bensì come un giudizio iniziato ex novo, con la conseguenza che le parti sono reintegrate nella pienezza di tutti i poteri processuali propri del giudizio di primo grado, e il giudice può liberamente riesaminare la controversia, senza il vincolo di alcuna pregressa statuizione. Sez. 2, n. 06292/2016, Matera, Rv. 639416, ha poi negato l'esaminabilità di questioni pregiudiziali non dedotte o rilevate in sede di legittimità da parte del giudice del rinvio, stante il carattere "chiuso" del giudizio. Non resta invece preclusa al giudice del rinvio, per Sez. 3, n. 10421/2016, Tatangelo, Rv. 640063, la valutazione sulla ammissibilità di una domanda nel caso di cassazione con rinvio per 689 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI omessa pronuncia, ove essa non sia stata esplicitamente affermata o, comunque, presa in considerazione dalla Corte. Ancora, Sez. U, n. 11844/2016, Ambrosio, Rv. 639945, ha affermato che, salva l'ipotesi del rinvio cd. "restitutorio", la sentenza emessa dal giudice del rinvio quale giudice di primo e unico grado è sempre soggetta a ricorso ordinario per cassazione, senza che rilevi il mutato regime di impugnabilità sopraggiunto nelle more, atteso che il giudizio di riunvio non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario. Infine, Sez. L, n. 13458/2016, Spena, Rv. 640270, ha affermato che la Corte di cassazione è tenuta a dare immediata applicazione alla sopravvenuta decisione della Commissione Europea, trattandosi di atto normativo vincolante ai sensi dell'art. 288 del T.F.U.E. e, dunque, ius superveniens; conseguentemente la Corte, in attuazione della decisione sopravvenuta, deve decidere il merito, ovvero, ove necessitino accertamenti in fatto, cassare la sentenza impugnata e rimettere il relativo compito al giudice del rinvio. Sempre riguardo alle sopravvenienze, di particolare interesse è la pronuncia con cui Sez. 1, n. 26193/2016, Terrusi, in corso di massimazione, ha affermato che il vincolo derivante al giudice di rinvio dalla regula iuris enunciata dalla Corte a norma dell'art. 384 c.p.c. viene meno nel caso in cui la norma da applicare in aderenza a tale principio venga successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza pubblicata dopo la pronuncia rescindente. In casi simili deve farsi applicazione, rispetto ai fatti già accertati nelle precedenti fasi del processo, del ius superveniens costituito dalla decisione della Corte costituzionale. Infine, Sez. 3, n. 20004/2016, Cirillo F.M., in corso di massimazione, ha affermato che, nel giudizio di cassazione proposto avverso la sentenza d'appello resa nel giudizio di rinvio, la mancata produzione di copia autentica della pronuncia della S.C. che quel rinvio ha disposto non è sanzionata con l'improcedibilità, ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., tanto più che, trattandosi di sentenza resa nello stesso procedimento, ben può disporsene l'acquisizione d'ufficio, costituendo dovere istituzionale del giudice di legittimità quello di conoscere i propri precedenti. 6. Revocazione. Riguardo ai rapporti tra giudizio di cassazione e quello di revocazione avverso la stessa sentenza, secondo Sez. 6-3, n. 03680/2016, Barreca, Rv. 638922, il termine per la proposizione del ricorso per cassazione resta sospeso a 690 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI seguito della proposizione della domanda di revocazione, ex art. 398, comma 4, c.p.c., e ciò fino alla comunicazione della sentenza che decide sulla revocazione. Pertanto, il ricorso per cassazione può dirsi tempestivo solo se, dalla data di comunicazione, non risulti superato il termine residuo già sospeso. Ove invece pendano in sede di legittimità i ricorsi avverso la sentenza d'appello e contro quella che abbia deciso l'impugnazione per revocazione avverso la prima, per Sez. T, n. 16435/2016, Luciotti, Rv. 640658, i ricorsi devono essere riuniti, benché aventi ad oggetto decisioni diverse, atteso che la connessione tra le due pronunce giustifica l'applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello quello avverso la sentenza di revocazione, che dev'essere quindi esaminato per primo. Sempre sul rito, Sez. L, n. 13063/2016, Negri Della Torre, Rv. 640414, ha ribadito che la revocazione delle sentenze emesse in materia di lavoro e previdenza è soggetta al rito del lavoro, con la conseguenza che essa deve ritenersi tempestivamente proposta ove il relativo ricorso sia depositato in cancelleria entro il termine di cui all'art. 327 c.p.c., irrilevante essendo la successiva data di notifica del ricorso e del pedissequo decreto. Ancora riguardo al rito, Sez. U, n. 04413/2016, Spirito, Rv. 638744, ha affermato che l'omissione della trattazione in camera di consiglio è una mera irregolarità del procedimento, che non determina violazione dei diritti di difesa, in virtù della più ampia garanzia assicurata dal giudizio in pubblica udienza. Riguardo ai singoli motivi di revocazione, Sez. L, n. 19174/2016, Torrice, Rv. 641388, ha ribadito che costituisce vizio revocatorio, rientrante nell'ipotesi di cui all'art. 395, n. 4), c.p.c., non denunciabile quindi con ricorso per cassazione, l'affermazione contenuta nella sentenza d'appello circa l'inesistenza nel fascicolo d'ufficio o nei fascicoli di parte di un documento che invece vi è incontestabilmente inserito, trattandosi di svista di carattere materiale e non di un errore di giudizio. presuppone la preesistenza del documento rispetto alla decisione impugnata, ossia che esso sia stato recuperato solo in epoca successiva, irrilevante essendo che il documento stesso faccia riferimento a fatti antecedenti alla sentenza, sicchè l'ipotesi di revocazione in discorso non può utilmente essere invocata nel caso in cui il documento sia di formazione ad essa successiva. Ancora, circa l'errore di fatto, Sez. 2, n. 17847/2016, Falabella, Rv. 640892, ha escluso che l'erronea percezione di 691 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI documenti che riproducano le prescrizioni circa le distanze legali possa ad esso ricondursi, poiché queste, ove contenute negli strumenti urbanistici, hanno valore di norme giuridiche. Sempre sul tema, Sez. 1, n. 03816/2016, Genovese, Rv. 639274, ha affermato che il nesso causale tra errore di fatto e decisione, necessario ai fini della valutazione di essenzialità e decisività dell'errore revocatorio, non è un nesso di causalità storica, ma di carattere logico-giuridico, nel senso che si tratta di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell'errore, per necessità logico-giuridica, e non già di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l'errore di fatto. Riguardo alla scoperta di documenti, Sez. 2, n. 09652/2016, Matera, Rv. 640068, ha ribadito che il relativo onere della prova circa la tempestività dell'impugnazione (da proporsi entro trenta giorni dalla scoperta stessa) grava sul proponente, che deve anche indicare in citazione, pena la sua inammissibilità, le prove di tali circostanze, nonché del giorno della scoperta o del ritrovamento del documento. Per quanto concerne, infine, la revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-3, n. 11530/2016, Frasca, Rv. 640209, ha precisato che l'errore di fatto circa la pretermissione di un motivo di ricorso non può consistere nella mera carenza, nella motivazione, di qualsiasi giustificazione in iure circa l'omissione, bensì nell'erronea supposizione dell'inesistenza del motivo stesso, ovvero di un fatto processuale che invece è esistente. Del pari, per Sez. 1, n. 13435/2016, Nazzicone, Rv. 640325, costituisce errore revocatorio l'aver confermato la Corte di cassazione la declaratoria dello stato di adottabilità di un minore su una specifica circostanza supposta esistente (ossia, l'aver i genitori abbandonato il minore nel proprio autoveicolo) la cui verità era invece esclusa dalle risultanze di causa. Sez. 6-L, n. 06607/2016, Arienzo, Rv. 639299, ha affermato che il decreto presidenziale con cui viene dichiarata l'estinzione del giudizio di cassazione non può formare oggetto di revocazione o correzione di errore materiale, giacchè l'art. 391 bis c.p.c. riserva tali rimedi per le sentenze e per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 375, comma 1, numeri 4) e 5), c.p.c.. Sez. 6-3, n. 10028/2016, Rubino, Rv. 639834, ha poi affermato che la nullità della notificazione del ricorso per cassazione, non rilevata in sede di legittimità, non è deducibile in 692 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI sede di rinvio a seguito di sentenza rescindente, potendo tuttavia essere denunciata con revocazione, ove non rilevata per errore percettivo in sede di controllo degli atti processuali. Ancora, Sez. 6-3, n. 08472/2016, De Stefano, Rv. 639738, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 395, 391 bis e 391 ter, c.p.c., in relazione agli artt. 2, 3, 11, 24, 101 e 111, Cost., e ha del pari escluso la necessità di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E., nella parte in cui non ammettono la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione per pretesi errori di fatto diversi dalla mera svista su questioni non oggetto della precedente controversia, poiché la non ulteriore impugnabilità risponde all'esigenza, tutelata come primaria dalle stesse norme costituzionali e convenzionali, di conseguire il giudicato all'esito di un sistema strutturato anche su differenti impugnazioni, con l'immutabilità e definitività della pronuncia che tutela i diritti delle parti. Di rilievo, infine, Sez. L, n. 25569/2016, Amendola F., in corso di massimazione, secondo cui si verte senza dubbio nella fattispecie di errore di fatto prevista dal n. 4) dell'art. 395 c.p.c., nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata sulla supposizione di un fatto - l'esistenza di soli tre motivi - la cui verità in base al ricorso era incontrastabilmente esclusa per la presenza anche di un quarto, quinto e sesto motivo. Ricorre quindi il presupposto dell'emergenza dell'errore dalla sentenza per effetto di una supposizione in essa contenuta e non invece per il solo fatto che la sentenza sia stata semplicemente silente sul motivo. 7. Le altre impugnazioni. Un breve cenno, infine, meritano alcune pronunce concernenti altri mezzi di impugnazione. Anzitutto, in tema di opposizione di terzo, Sez. 2, n. 11235/2016, Lombardo, Rv. 639950, ha affermato che le sentenze della Corte di cassazione, salvo che decidano nel merito, non sono suscettibili di opposizione ex art. 404 c.p.c., atteso che, in caso di rigetto del ricorso, il pregiudizio al terzo deriva dall'esecutività della sentenza di merito convalidata in sede di legittimità, mentre nell'ipotesi di accoglimento (con o senza rinvio) viene meno la statuizione che pregiudica il terzo, che potrà quindi opporsi o contro la precedente statuizione di merito, ovvero, in caso di rinvio, avverso la nuova decisione che riportasse ad attualità la pretesa lesione del suo diritto. Ancora, Sez. 2, n. 03925/2016, Matera, Rv. 638833, ha stabilito che la domanda diretta volta alla demolizione di un 693 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI immobile in comunione va proposta nei confronti di tutti i comproprietari, quali litisconsorti necessari dal lato passivo, poiché la sentenza pronunziata solo nei confronti di alcuni è inutiliter data, in quanto il rapporto dedotto in giudizio è unitario. Pertanto, ove il litisconsorte pretermesso proponga opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di condanna alla demolizione resa in grado di appello, il giudice che accerti la fondatezza dell'opposizione deve provvedere ex artt. 406 e 354 c.p.c. Quanto al regolamento di competenza, merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 02791/2016, Frasca, Rv. 638984, secondo cui, poiché le disposizioni concernenti il processo telematico hanno trovato applicazione, per i procedimenti iniziati prima del 30 giugno 2014, a decorrere dal 31 dicembre 2014, mentre anteriormente e fino a tale data era possibile solo depositare atti e documenti, ne deriva che il potere di autentica esercitato dal difensore, ai sensi della disciplina sul processo digitale, per attestare la conformità all'originale della copia di una ordinanza emessa, prima del 31 dicembre 2014, in un giudizio iniziato prima del 30 giugno 2014, non ha giustificazione normativa e il ricorso per regolamento di competenza proposto avverso tale ordinanza è improcedibile stante il mancato deposito di idonea copia autentica del provvedimento impugnato. Infine, sul tema, Sez. 6-1, n. 25535/2016, Genovese, in corso di massimazione, ha ribadito che in tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, si ha interferenza tra fattispecie di concorrenza sleale e tutela della proprietà industriale o intellettuale sia nelle ipotesi in cui la domanda di concorrenza sleale si presenti come accessoria a quella di tutela della proprietà industriale e intellettuale, sia in tutte le ipotesi in cui, ai ,fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti asseritamente di concorrenza sleale interferiscano con un diritto di esclusiva. Ne consegue che la competenza delle sezioni specializzate va negata nei soli casi di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, tale da dover essere valutata, sia pure incidenter tantum, nella sua sussistenza e nel suo ambito di rilevanza. 694 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE CAPITOLO XXXVIII IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE (di Giovanni Fanticini) SOMMARIO: 1. Questioni di giurisdizione. – 2. Questioni di competenza. – 3. Varie questioni di rito. – 3.1. Lealtà e correttezza processuale. – 3.2. Thema decidendum. – 3.3. Mezzi istruttori. – 3.4. Decisione e giudicato. – 4. Le impugnazioni. – 4.1 Appello – 4.2. Ricorso per cassazione. – 4.3. Revocazione – 5. L'impugnazione dei licenziamenti – 6. Il cd. rito Fornero – 7. Il processo in materia di previdenza – 7.1. Competenza territoriale. – 7.2. Litisconsorzio. – 7.3. Mezzi di prova. – 7.4. Regime delle spese. – 7.5. Accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. 1. Questioni di giurisdizione. Il riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo su vicende riguardanti il lavoro pubblico contrattualizzato ha trovato un assetto consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Difatti, dopo il passaggio – coincidente con la data del 30 giugno 1998 – dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria (art. 45, comma 17, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi trasfuso nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), la giurisdizione spetta, di regola, al giudice ordinario per le questioni riguardanti il periodo del rapporto successivo alla predetta data, ma anche per quelle inerenti al periodo anteriore se la fattispecie dedotta in giudizio è unitaria: perciò, quando l'oggetto della domanda attiene a un presunto «inadempimento dell'amministrazione espressione di un fenomeno unitario», come nel caso di istanza risarcitoria per patologie manifestatesi prima del 30 giugno 1998, ricondotte ad esposizione a radiazione ionizzanti protrattasi anche oltre il predetto discrimine temporale, deve reputarsi giurisdizionalmente competente il giudice ordinario per l'intera pretesa risarcitoria avanzata dal danneggiato (Sez. U, n. 11851/2016, Curzio, Rv. 639997). La residuale giurisdizione del giudice amministrativo riguarda, invece, le controversie in cui la questione dedotta attiene al periodo del rapporto compreso entro la data suddetta, sempre che le relative domande siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000 ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001. Dubita della legittimità costituzionale della menzionata disposizione Sez. U, n. 06891/2016, Mammone, Rv. 639170, in quanto il termine decadenziale «pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato», in contrasto con i principi dell'art. 6 CEDU (come interpretato dalle sentenze della 695 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE Corte europea diritti dell'uomo, 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia e Staibano c. Italia), norma a cui l'art. 117, comma 1, Cost., impone di conformarsi. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo anche le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), concetto che deve essere interpretato estensivamente, includendo pure i lavoratori parasubordinati ai quali siano attribuiti incarichi mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa (Sez. U, n. 13531/2016, Curzio, Rv. 640439). Per l'individuazione del giudice munito di giurisdizione in relazione alle controversie concernenti il diritto all'inserimento in una graduatoria ad esaurimento (già permanente), occorre avere riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio: se oggetto della domanda è l'annullamento dell'atto amministrativo e, quale effetto, l'accertamento del diritto all'inserimento in quella graduatoria, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo; se, viceversa, la domanda è specificamente volta all'accertamento del diritto all'inserimento nella graduatoria direttamente derivante da normazione primaria e implicante la disapplicazione dell'atto amministrativo, la giurisdizione va attribuita al giudice ordinario (Sez. U, n. 25836/2016, Petitti, in corso di massimazione). Tuttavia, uno spazio residuale al giudice ordinario deve essere riconosciuto anche nella materia de qua, qualora la pubblica amministrazione, una volta approvata la graduatoria, non addivenga alla nomina ed assunzione del soggetto utilmente collocato senza provvedere espressamente; difatti, se è del tutto mancante – e non solo viziata – la forma prevista dalla legge, non può ravvisarsi l'esercizio di un potere autoritativo (Sez. U, n. 05075/2016, Nobile, Rv. 639080; nella fattispecie è stata esclusa la giurisdizione ordinaria poiché la scelta di non dar corso alla nomina era stata assunta con un provvedimento la cui legittimità era soggetta a verifica da parte del giudice amministrativo). Parimenti, la controversia promossa dal dirigente pubblico che lamenti un pregiudizio professionale derivante da atti di macro- organizzazione (ridefinizione delle strutture amministrative e determinazione dei criteri di attribuzione degli incarichi dirigenziali) appartiene alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, poiché il rapporto di lavoro non costituisce l'effettivo oggetto del giudizio e gli effetti pregiudizievoli derivano 696 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE direttamente dall'atto presupposto di cui si contesta la legittimità (Sez. U, n. 11387/2016, Giusti A., Rv. 639996). Spetta invece al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie promosse da ufficiali e sottufficiali in servizio presso l'Aeronautica militare e volte ad ottenere – in applicazione dell'art. 4 d.l. 24 giugno 2014, n. 90 – il transito nel corrispondente ruolo del personale civile dell'ente pubblico economico ENAV – Ente nazionale di assistenza al volo (Sez. U, n. 25051/2016, Bronzini, in corso di massimazione). Peculiare è la vicenda decisa da Sez. U, n. 13536/2016, Ragonesi, Rv. 640220, relativa alle assunzioni di personale da parte di rappresentanze diplomatiche e uffici consolari di prima categoria italiani (ex art. 152 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, nel testo sostituito dall'art. 1, del d.lgs. 7 aprile 2000, n. 103, applicabile ratione temporis): la Corte ha statuito che al giudice italiano compete la giurisdizione sulle domande avanzate nei confronti del Ministero degli esteri, ai sensi degli artt. 18, 19 e 60.1 del regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, restando inefficace la clausola di deroga della competenza giurisdizionale pattuita nel contratto, avente l'effetto non di consentire, bensì di imporre al lavoratore di rivolgersi a un giudice diverso da quello previsto dal regolamento stesso (nello stesso senso, Sez. U, n. 26990/2016, Tria, in corso di massimazione). 2. Questioni di competenza. È pacifico che non pone una questione di competenza in senso proprio – attenendo invece alla ripartizione degli affari all'interno dello stesso ufficio e al rito prescritto per lo svolgimento del processo – l'ordinanza del giudice che, dichiarata la propria incompetenza, abbia disposto la riassunzione del giudizio innanzi al magistrato del lavoro del medesimo ufficio; un siffatto provvedimento è certamente illegittimo, ma determina comunque il venir meno di ogni potere sulla controversia in capo al giudice che lo abbia emesso, di talché devono considerarsi nulle e abnormi sia la successiva pronuncia di estinzione del giudizio per mancata riassunzione, sia la declaratoria di esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto, poiché la valutazione dell'attività processuale astrattamente riconducibile al modello della riassunzione spetta soltanto al giudice ad quem (Sez. 1, n. 14790/2016, Lamorgese, Rv. 640707). Può invece parlarsi propriamente di competenza della sezione specializzata in materia di impresa (cd. tribunale delle imprese, disciplinato dal d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168) in relazione alle cause 697 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE ed ai procedimenti «relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario» (art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 168 del 2003), tra i quali si deve ricomprendere la domanda introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest'ultima dovute a titolo di compenso per l'attività esercitata, che non è riconducibile al lavoro parasubordinato ex art. 409, comma 3, c.p.c. (Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638620; nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 13956/2016, Scaldaferri, Rv. 640356). Proprio perché il rapporto che lega l'amministratore alla società non è qualificabile come lavoro subordinato o quale collaborazione coordinata e continuativa, trattandosi piuttosto di lavoro professionale autonomo ovvero di «rapporto societario», le controversie tra amministratori e società – incluse quelle riguardanti i diritti degli amministratori (nella specie, quello al compenso) – possono essere compromesse in arbitrato, qualora tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621). Si segnala in tema che non risulta ancora decisa la questione rimessa alle Sezioni Unite da Sez. 3, n. 03738/2016, De Stefano, non massimata, ritenuta di massima di particolare importanza ed oggetto di contrasto giusrisprudenziale, circa la qualificazione del rapporto tra società di capitali ed amministratori come rapporto di lavoro parasubordinato o di lavoro autonomo o di opera professionale, o piuttosto come estraneo a tale ambito, seppure ai diversi fini delle conseguenze in tema di estensione ai loro compensi dei limiti di pignorabilità previsti per gli stipendi dall'art. 545 c.p.c. Se il rapporto societario è, invece, quello che lega alla cooperativa il socio lavoratore, l'interruzione del rapporto, di lavoro e mutualistico, per ragioni attinenti al contratto di lavoro (nella specie, il superamento del periodo di comporto), appartiene al giudice del lavoro la competenza sulla controversia relativa all'impugnativa del licenziamento e all'accertamento dell'inesistenza/invalidità del rapporto associativo, trattandosi di cause connesse per le quali opera la norma dell'art. 40, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15798/2016, Mancino, Rv. 640686; già Sez. 6-L, n. 19975/2015, Garri, Rv. 637380, aveva affermato, in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c., la competenza del giudice del lavoro per le controversie riguardanti la risoluzione del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa per cause tra loro concorrenti, 698 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE incidenti l'una sugli obblighi statutari e l'altra sui doveri del lavoratore in forza dell'art. 40, comma 3, c.p.c.). Sez. 6-2, n. 15809/2016, Abete, Rv. 640713, non ravvisa alcuna deroga alla competenza del giudice di pace per l'opposizione all'ingiunzione per inottemperanza dell'ordine di precettazione, poiché la sanzione amministrativa discende dalla violazione di norme riguardanti la protezione degli utenti dei servizi pubblici essenziali e non la tutela del lavoro, appartenente alla competenza per materia del tribunale. Quanto alla competenza per territorio, la «dipendenza alla quale è addetto il lavoratore» (art. 413 c.p.c.) può consistere anche in un parcheggio di terzi, luogo presso il quale si trovano i beni strumentali alla prestazione lavorativa (carico delle merci, trasporto e successivo ritorno) e dove hanno inizio e fine le mansioni quotidianamente svolte dal lavoratore (Sez. 6-L, n. 02003/2016, Marotta, Rv. 638702). L'equazione, ai fini dell'individuazione dei criteri di competenza territoriale, fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro costituendo (o virtuale) determina un'erosione della portata applicativa dell'art. 413, comma 7, c.p.c., sia nel lavoro privato (rispetto ai criteri ex art. 413, comma 2, c.p.c.), sia nel rapporto di pubblico impiego (in riferimento all'art. 413, comma 5, c.p.c.). Perciò – sulla scorta del menzionato principio generale e in relazione a domande di docenti precari volte ad ottenere, in base al d.m. 8 aprile 2009, n. 42, l'iscrizione nelle graduatorie permanenti costituite in diverse province "a pettine", anziché "in coda" (con riferimento, quindi, al punteggio di cui gli stessi erano titolari nella graduatoria principale) – si è statuito che la competenza territoriale appartenga al foro nel quale ciascuno di essi prestava la propria attività al momento della domanda, poiché la pretesa azionata si riferisce alle modalità di inserimento nelle graduatorie con riferimento al punteggio precedentemente conseguito e ciò rende manifesto il collegamento funzionale con il rapporto in essere al momento della proposizione del ricorso e con la sede dell'ufficio in tal guisa individuata (Sez. 6-L, n. 11762/2016, Arienzo, Rv. 640253; conforme a Sez. 6-L, n. 10449/2015, Arienzo, Rv. 635398). Premesso che determina una questione di competenza la decisione riguardante l'attribuzione di una lite alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria o a quella degli arbitri rituali (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786), e che ai sensi dell'art. 806 c.p.c. (come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) possono 699 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE compromettersi in arbitri anche le controversie ex art. 409 c.p.c., sempre che ciò sia previsto da accordi o contratti collettivi, tra queste devono annoverarsi le liti fra la società e i suoi dipendenti inerenti alla distribuzione di azioni ai lavoratori tramite l'utilizzo delle stock option, trattandosi di una forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili (Sez. L, n. 15217/2016, Manna, Rv. 640737). 3. Varie questioni di rito. 3.1. Lealtà e correttezza processuale. I principi di buona fede, lealtà e correttezza costituiscono parametro di valutazione della condotta delle parti non solo durante l'esecuzione del rapporto contrattuale, ma anche nell'ambito processuale. In particolare, costituisce abuso del processo il comportamento del creditore che, per ottenere l'esatto adempimento delle prestazioni ancora dovute, costringa il debitore a subire una serie di azioni processuali, volte ad uno scopo normalmente realizzabile mediante un unico giudizio (Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316). Nello specifico settore giuslavoristico si è ritenuto illegittimo il frazionamento delle pretese del lavoratore che, dopo la conclusione dell'unico rapporto, promuova due distinte azioni giudiziarie nei confronti del datore di lavoro, l'una relativa al pagamento del premio di risultato e l'altra alla rideterminazione del t.f.r. per l'incidenza di voci retributive percepite in via continuativa (Sez. L, n. 04016/2016, Berrino, Rv. 639227). Di frazionamento della tutela giurisdizionale si è occupata anche Sez. L, n. 04867/2016, Tria, Rv. 639115, rilevando un abuso dello strumento processuale nella proposizione di due distinte impugnazioni di licenziamento, la prima fondata solo su vizi formali e l'altra su vizi di merito del provvedimento espulsivo, sebbene il rapporto sostanziale nascesse dallo stesso fatto. Per la prevalente giurisprudenza di legittimità la sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità (configurabile nella proposizione di una pluralità di domande, relative ad un unico rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima) è costituita dalla improponibilità delle domande successive alla prima. Stando al predetto orientamento giurisprudenziale si dovrebbe ritenere che, avendo carattere unitario la fonte dei diritti scaturenti dal rapporto di lavoro, una volta che il creditore abbia agito la prima volta nella consapevolezza dell'esistenza di altri crediti 700 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE e colpevolmente non li abbia fatti valere unitariamente, debba restare preclusa ogni domanda successiva. Tuttavia, una siffatta interpretazione condurrebbe ad obliterare definitivamente i diritti successivamente esercitati, per i quali non è decorso il termine di prescrizione; inoltre, dall'unitario rapporto di lavoro discendono, per sua natura, plurime obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi (retribuzioni, t.f.r., ecc.) e, dunque, non potrebbe affermarsi che al momento della cessazione del rapporto lavorativo il lavoratore possa vantare un «unico credito» costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie da quello derivanti. Ritenendo che il divieto di frazionamento dell'azione e, soprattutto, la correlata sanzione processuale non possano trovare applicazione in presenza di azioni che differiscono per causa petendi, disciplina e presupposti (giuridici e di fatto), Sez. L, n. 01251/2016, Blasutto, non massimata, ha rimesso la controversia alla decisione delle Sezioni Unite della Corte, prospettando un potenziale contrasto con i precedenti arresti giurisprudenziali e trattandosi comunque di questione «di massima di particolare importanza». L'abuso dello strumento processuale può essere sanzionato anche con la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., la quale presuppone l'esercizio di un'azione spiegata in mala fede (coscienza dell'infondatezza della domanda) o con colpa grave (carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza), tale, cioè, da alimentare un contenzioso pretestuoso; solo in presenza di detti elementi soggettivi si giustifica il risarcimento di un danno «punitivo» (che prescinde dal concreto pregiudizio procurato alla controparte), ma a tali fini l'azione deve essere considerata nel suo complesso e non atomisticamente, con riguardo a singoli aspetti della stessa (Sez. L, n. 07726/2016, Amendola F., Rv. 639485, ha cassato la decisione di merito che aveva fatto applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. poiché, tra i molteplici motivi di impugnazione, uno di essi era da ritenersi «francamente temerario»). Rientra tra i doveri di correttezza processuale il divieto, ex art. 89 c.p.c., di utilizzo di espressioni sconvenienti negli atti: con una propria istanza la parte può sollecitare il giudice (anche la Suprema Corte per gli scritti difensivi del giudizio di legittimità) ad impiegare il proprio potere officioso di disporre la cancellazione di parole sconvenienti od offensive; la norma del codice di rito mira, però, ad eliminare le espressioni dettate da un intento dispregiativo, mentre 701 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE non possono reputarsi scorrette quelle che mantengono un rapporto (anche indiretto) con la materia controversa, non comportano un eccesso dalle esigenze difensive e sono preordinate a dimostrare la scarsa attendibilità delle affermazioni avversarie (Sez. L, n. 21031/2016, Tria, Rv. 641412). 3.2. Thema decidendum. Le norme del rito del lavoro impongono alle parti di formulare immediatamente le proprie domande e difese, presentando nel ricorso introduttivo i fatti e gli elementi di diritto sui quali si fonda la pretesa (art. 414 c.p.c.) ed esponendo in maniera precisa e non generica sia le contestazioni delle circostanze affermate dall'attore, sia le ragioni di fatto ostative all'accoglimento della domanda (art. 416 c.p.c.): in base alle allegazioni del ricorrente e del convenuto e dalle specifiche contestazioni di quest'ultimo si determina il thema decidendum. Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo soggetto al predetto rito, le parti sono sostanzialmente invertite e, perciò, l'atto che deve contenere gli elementi ex art. 414 c.p.c. (e, cioè, l'indicazione specifica dei fatti e degli elementi di diritto, nonché dei mezzi di prova resi necessari dall'opposizione) è la memoria difensiva dell'opposto, le cui lacune possono condurre alla revoca del provvedimento monitorio (Sez. L, n. 04212/2016, Berrino, Rv. 639776); di contro, nell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo devono essere formulate le eccezioni in senso stretto dell'opponente (convenuto sostanziale), inclusa quella relativa all'insussistenza del vincolo di solidarietà passiva tra coeredi (Sez. L, n. 19186/2016, Venuti, Rv. 641199). Quanto alla specificità delle contestazioni del resistente, non è sufficiente al datore di lavoro – convenuto per il pagamento di somme (festività, ferie non godute, lavoro supplementare, differenze retributive, tredicesima mensilità, mancato preavviso e trattamento di fine rapporto) analiticamente indicate in un prospetto degli importi percepiti e di quelli asseritamente dovuti – dichiarare di avere corrisposto al lavoratore «tutto quanto dovuto per la quantità e qualità del lavoro prestato» (Sez. L, n. 02832/2016, Doronzo, Rv. 638933). Una volta delineato il thema decidendum con gli atti iniziali, l'unica modifica della domanda consentita è quella che integra una emendatio libelli, che può essere autorizzata dal giudice, ex art. 420 c.p.c., anche implicitamente consentendo la formulazione, in sede di conclusioni, di una domanda modificata, poi esaminata e decisa nel merito (Sez. L, n. 04702/2016; Blasutto, Rv. 639159; la Corte ha 702 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE ritenuto implicita l'autorizzazione alla modificazione della domanda di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2087 c.c., atteso che il giudice di primo grado, all'esito di c.t.u., aveva considerato anche le patologie insorte successivamente al deposito dell'atto introduttivo, in quanto derivanti in via concausale e indiretta dall'esposizione patogena originaria). Di contro, viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (precipitato del divieto di mutatio libelli) la decisione che – a fronte di una iniziale domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto proposta ex art. 69, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (lavoro a progetto venutosi concretamente a configurare come un rapporto di lavoro subordinato) – accolga la diversa istanza avanzata soltanto nelle note conclusive e affermi la natura subordinata del rapporto per essere stata la collaborazione prestata in mancanza di specifico progetto ex art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 (Sez. L, n. 09471/2016, Cavallaro, Rv. 639685). Parimenti inammissibile è la mutatio libelli operata in appello (in violazione dell'art. 437 c.p.c.) quando alla domanda di riconoscimento di rendita per malattia professionale si pretenda di cumulare la richiesta di un'altra rendita relativa a diversa malattia professionale non riferibile a modificazioni delle condizioni fisiche dell'assicurato successive alla proposizione della iniziale domanda, poiché tale istanza amplia il thema a nuovi e distinti fatti costitutivi, senza che sia applicabile il disposto dell'art. 149 disp. att. c.p.c., che opera solo ove il diverso infortunio sia intervenuto in corso di giudizio (Sez. L, n. 04022/2016, Balestrieri, Rv. 639166). Allo stesso modo, il lavoratore che dapprima rivendichi l'applicabilità anche ai lavoratori autonomi dei benefici ex art. 13 della legge 27 marzo 1992, n. 257, e successivamente deduca la propria qualità di lavoratore subordinato compie un'inammissibile mutatio della domanda, posto che il fatto costitutivo presuppone la sussistenza di una certa qualifica normativa (Sez. L, n. 17376/2016; Cavallaro, Rv. 640884). Il divieto di nova riguarda anche le eccezioni se le stesse si fondano su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado oppure se, introducendo un nuovo tema d'indagine, alterano i termini sostanziali della controversia (Sez. L, n. 05051/2016, Negri Della Torre, Rv. 639302, ha escluso il denunciato vizio della pronuncia di merito che aveva ridotto il numero delle retribuzioni spettanti alla lavoratrice illegittimamente licenziata, poiché l'eccezione – «in senso lato» – del datore di lavoro 703 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE era volta soltanto al contenimento degli effetti patrimoniali della sentenza di primo grado). Non costituisce, invece, domanda nuova – bensì mera precisazione del petitum originario – la richiesta di determinazione dell'ammontare del credito di valore alla data della liquidazione definitiva: l'importo, maggiore rispetto a quanto dedotto in primo grado per effetto di svalutazione monetaria o di rivalutazione della rendita, può essere richiesto anche in grado di appello, senza necessità di proposizione di impugnazione incidentale e, ricorrendone le condizioni, può essere liquidato anche di ufficio (Sez. L, n. 04089/2016, D'Antonio, Rv. 639145, in tema di azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro, responsabile dell'infortunio sul lavoro subito dal dipendente assicurato). Le barriere preclusive per la formazione del thema decidendum riguardano anche la domanda riconvenzionale, la cui proposizione deve avvenire con la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. con contestuale richiesta, prescritta a pena di decadenza, di fissazione di nuova udienza; la menzionata decadenza, prevista dall'art. 418 c.p.c., non esclude però che la domanda dichiarata inammissibile possa essere riproposta in un altro giudizio, sia perché la declaratoria di inammissibilità spiega effetti soltanto di natura processuale, sia perché è autonoma la riconvenzionale, diretta non ad ottenere il rigetto della pretesa avversaria ma una diversa pronuncia giurisdizionale a sé favorevole (Sez. L, n. 18125/2016; Balestrieri, Rv. 641083). L'estensione della controversia a soggetti diversi dalle parti originarie amplia, quantomeno sotto il profilo soggettivo, il thema decidendum. Tuttavia, l'istanza di chiamata in causa di altri soggetti non obbliga il giudice di primo grado all'adozione automatica e acritica dei provvedimenti previsti dall'art. 420, comma 9, c.p.c., i quali presuppongono, invece, una valutazione sulla comunanza della controversia e sulle ragioni dell'intervento del terzo; pertanto, solo in caso di omesso esame dell'istanza oppure di mancato rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario si verifica un vizio del processo tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado ex art. 383 c.p.c. (Sez. L, n. 02522/2016, Balestrieri, Rv. 638936, ha confermato la sentenza che aveva motivato sulla sussistenza di un'interposizione illecita di manodopera tra le parti del giudizio, escludendo la dedotta comunanza di causa con il soggetto solo interposto). 704 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 3.3. Mezzi istruttori. Il rito del lavoro scandisce rigorosamente anche la formazione del thema probandum, dato che i già menzionati artt. 414 e 416 c.p.c. impongono l'indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti di cui le parti intendono avvalersi. A norma dell'art. 115 c.p.c. non necessitano di prova «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita», ma l'onere di contestazione del resistente concerne soltanto le allegazioni di fatto della controparte e non anche i documenti prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento o di proporre, se necessario, querela di falso; perciò, la valenza probatoria dei documenti resta intatta nel corso del giudizio, ben potendo la stessa essere messa in discussione dalle parti o autonomamente valutata da parte del giudice (Sez. 6-L, n. 06606/2016, Arienzo, Rv. 639300). Qualora, poi, il giudice sia in grado, ex officio e in base alle risultanze ritualmente acquisite, di accertare l'esistenza o l'inesistenza di un fatto costitutivo della domanda, lo stesso non può considerarsi escluso dal tema di indagine per effetto della mancata contestazione avversaria (Sez. 6-L, n. 26395/2016, Mancino, in corso di massimazione). In ogni caso, il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., può riguardare soltanto i fatti primari costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato – e, al più, nel testo della norma riformulato dall'art. 45, comma 14, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (applicabile solo ai giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della predetta legge), i fatti secondari – ma non si estende alle mere difese (Sez. L, n. 17966/2016, Manna A., Rv. 641176, ha stabilito che non integra neppure un fatto secondario il generico assunto del datore di lavoro di avere adottato una turnazione articolata su più di sei giorni lavorativi consecutivi senza riposo «per venire incontro alla richiesta dei lavoratori»). Anche nel rito del lavoro la prova testimoniale deve essere articolata in capitoli specifici e separati, ma, poiché la parte ha l'onere di allegare specificamente i fatti negli atti introduttivi si ricava che, in quella sede, è possibile indicare come oggetto dei mezzi di prova i fatti allegati a fondamento delle pretese iniziali, senza necessità di riformularli separatamente come capi di prova; quest'ultima attività può essere compiuta entro il termine che il giudice, riscontrata l'irregolarità nell'indicazione dei capitoli, può assegnare alle parti ex art.421 c.p.c. con l'invito ad una nuova formulazione degli stessi, di talché la decadenza della parte dal diritto di assumere la prova si verifica soltanto nell'ipotesi di 705 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE inottemperanza all'invito entro il termine fissato (Sez. L, n. 19915/2016, Spena, Rv. 641373). Non costituisce prova documentale dotata di fede privilegiata il verbale di conciliazione in sede sindacale poiché la partecipazione del rappresentante sindacale, che non è un pubblico ufficiale munito del potere di autenticare le sottoscrizioni delle parti, ha lo scopo di garantire l'assenza di uno stato di soggezione del lavoratore, il quale può limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione facendo ricadere sulla controparte l'onere di chiederne la verificazione, a pena di inutilizzabilità dell'atto (Sez. 6-L, n. 09255/2016, Marotta, Rv. 639595.) Secondo Sez. L, n. 03980/2016, Boghetich, Rv. 638849, assume particolare efficacia probatoria la sentenza penale di patteggiamento (rectius, di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.), perché, pur non potendosi individuare nella stessa una pronuncia di condanna, la statuizione presuppone l'ammissione di colpevolezza dell'imputato: conseguentemente, la parte è esonerata dall'onere di dimostrare i fatti oggetto dell'imputazione e il giudice di merito è tenuto a fornire adeguata motivazione per discostarsi da un elemento di prova costituito dalla dichiarazione di responsabilità alla quale il giudice penale ha prestato fede. La consulenza tecnica d'ufficio non può essere impiegata per la soluzione di problemi giuridici (quali, ad esempio, la qualificazione come attività usurante o stressante della «attività confacente alle attitudini dell'assicurato», ai fini dell'art. 1 della legge 12 giugno 1984, n. 222) ma essa è funzionale alla sola risoluzione di questioni di fatto che presuppongano cognizioni di ordine tecnico; pertanto, i consulenti non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni riguardanti la qualificazione giuridica o la conformità al diritto di determinate condotte e le risultanze di una siffatta inammissibile consulenza non sono utilizzabili, a meno che non vengano vagliate criticamente e, comunque, sottoposte al dibattito processuale delle parti (Sez. L, n. 01186/2016, Tria, Rv. 638390). Il ricorso alle prestazioni del consulente tecnico non esime il giudice del merito dall'obbligo di fornire un'adeguata motivazione sul punto decisivo della controversia costituito proprio dalle risultanze della consulenza rinnovata in appello (difformi da quella espletata in primo grado), effettuando una comparazione critica delle due relazioni; detta comparazione si compie mediante l'esposizione delle deduzioni dei consulenti e l'analitica confutazione delle argomentazioni poste a base delle conclusioni del primo dei due ausiliari, mentre deve escludersi la sufficienza di una 706 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE acritica adesione al parere del secondo ausiliario, scevra dalla valutazione delle censure e dei rilievi di parte (Sez. L, n. 21528/2016, Doronzo, Rv. 641435). Ai sensi dell'art. 2712 c.c. il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche – per far perdere alle stesse la loro qualità di prova – deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e, dunque, concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta: non è sufficiente, perciò, la contestazione della data e dell'ora del video che ritrae il lavoratore mentre esegue lavori sul tetto della propria abitazione nel periodo di malattia, risultando così dimostrati i fatti documentati nel filmato – svolgimento e durata dell'attività – e potendo essi, unitamente ad altre risultanze istruttorie (nella specie, testimonianza dell'investigatore privato), essere posti a fondamento della decisione sulla legittimità licenziamento (Sez. L, n. 18507/2016, Negri Della Torre, Rv. 641190). In forza dell'art. 4, comma 2, st.lav. ratione temporis vigente, sono inutilizzabili per dimostrare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori i dati forniti da impianti o apparecchi di controllo che, installati per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, rilevino anche circostanze relative all'attività lavorativa dei dipendenti (Sez. L, n. 19922/2016, Bronzini, Rv. 641350). Una particolare agevolazione probatoria è prevista dall'art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, a tenore del quale la presentazione di elementi indiziari idonei a far presumere la «esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso» determina il trasferimento dell'onere di dimostrare l'insussistenza della discriminazione in capo al convenuto; Sez. L, n. 23286/2016, Manna, Rv. 641579, ha ritenuto, in virtù di una interpretazione conforme alla normativa dell'Unione Europea nelle letture date dalla Corte di giustizia, che la menzionata disposizione trovi applicazione anche nella fattispecie di molestie sessuali, da considerare equiparate alle discriminazioni di genere. L'art. 437, comma 2, c.p.c. sancisce un rigido sbarramento all'introduzione di nuovi mezzi istruttori in appello e tale regime è attenuato solo dalla valutazione di indispensabilità per la decisione della nuova prova offerta; difatti, la mancata indicazione e/o l'omessa produzione, con l'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti determinano la decadenza del diritto alla prova documentale, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda 707 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo). L'irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori decadenziali, impedisce una sua reviviscenza in grado di appello, né può essere legittimamente sollecitato il potere istruttorio officioso del giudice ex art. 437 c.p.c. (o ex art. 421 c.p.c.), perché tale potere deve essere esercitato con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel contraddittorio e non può assumere funzione totalmente sostituiva dell'onere di allegazione e di prova incombente su ciascuna parte (Sez. L, n. 23652/2016, Riverso, in corso di massimazione; nel caso di specie, l'INPS aveva eccepito in primo grado l'interruzione della prescrizione riservandosi di documentarla, senza nemmeno specificare quando, come ed in virtù di quale atto l'interruzione si fosse prodotta, salvo poi produrre in secondo grado un avviso bonario, regolarmente notificato all'appellato, dal quale risultava l'interruzione dei termini prescrizionali). Sempre con riguardo alla prova dell'interruzione della prescrizione e alla sua acquisizione ex officio, si è espressa Sez. L, n. 19305/2016, Spena, Rv. 641377, rilevando che il potere istruttorio d'ufficio non è meramente discrezionale e che lo stesso può essere esercitato per un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo, non già per aggirare preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle parti (nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che la tempestiva produzione della lettera inviata al datore di lavoro e contenente la richiesta di pagamento delle somme oggetto di giudizio costituisse una «pista probatoria» che il giudice del primo grado, poi erroneamente riformato dalla corte territoriale, aveva doverosamente approfondito con l'ammissione della produzione dell'avviso di ricevimento ex art. 421 c.p.c.). Un mutamento di orientamento giurisprudenziale – cd. overruling – sulla ripartizione dell'onere probatorio (nella fattispecie, in tema di prova del requisito numerico richiesto ai fini della tutela reale del lavoratore licenziato) giustifica, invece, l'esercizio del potere officioso del giudice di ammettere la documentazione prodotta dal datore di lavoro costituitosi tardivamente (Sez. L, n. 00819/2016, Esposito L., Rv. 638455). Il giudizio operato dal giudice del gravame sull'indispensabilità della prova influisce solo indirettamente sul merito della controversia, posto che esso attiene, invece, al rito e, 708 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE segnatamente, alla preclusione processuale eventualmente formatasi riguardo all'ammissibilità di una richiesta istruttoria; perciò, se nel ricorso per cassazione viene dedotta l'erroneità dell'ammissione (o della dichiarazione di inammissibilità) di una prova documentale in appello, la Suprema Corte è chiamata a sindacare un error in procedendo ed è quindi tenuta a stabilire se effettivamente si trattasse di una prova indispensabile (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638499). In ogni caso, la tardività delle prove documentali prodotte in primo grado deve essere tempestivamente denunciata con le difese spiegate nell'appello e, dunque, la questione non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità, dovendosi attribuire il significato di rinuncia ex art. 346 c.p.c. al silenzio serbato sul punto dalla parte interessata all'eccezione (Sez. L, n. 20678/2016, Spena, Rv 641429). 3.4. Decisione e giudicato. Per il combinato disposto degli artt. 429, comma 1, secondo periodo, e 430 c.p.c., la decisione del giudice del lavoro va assunta mediante la lettura del dispositivo all'esito della discussione e in tal caso il contenuto della motivazione successivamente depositata deve fedelmente rispecchiare il contenuto del dispositivo, che è assolutamente immodificabile. È evidente che il giudice (anche collegiale) che ha assistito alla discussione sin dal suo inizio deve coincidere con quello chiamato ad emettere la decisione, in quanto la violazione del principio di immutabilità del giudicante determina la nullità assoluta e insanabile della pronuncia (Sez. L, n. 18126/2016, Balestrieri, Rv. 641085, in fattispecie di diversa composizione del collegio di appello). Anche nel rito del lavoro la prevalenza del dispositivo sulla motivazione è circoscritta alle ipotesi in cui vi è contrasto tra le due parti della pronuncia; se non può invece ravvisarsi incompatibilità (come nella fattispecie, in cui il giudice di merito, pur non riproducendone il dettato nel dispositivo, aveva in motivazione chiaramente espresso la condanna del lavoratore a restituire la somma eccedente rispetto a quella riconosciutagli in appello), la portata precettiva della pronuncia va individuata integrando il dispositivo con la motivazione (Sez. L, n. 12841/2016, Negri Della Torre, Rv. 640232). Richiamando un consolidato e risalente orientamento giurisprudenziale, Sez. 6-L, n. 03024/2016, Arienzo, Rv. 638930, ha ritenuto che l'integrazione del dispositivo indeterminato o 709 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE incompleto o contraddittorio con il contenuto della motivazione non possa aver luogo per le sentenze di natura processuale, a maggior ragione per quelle pronunciate con il rito del lavoro, nelle quali il dispositivo ha autonoma rilevanza esterna. Ai sensi dell'art. 429, comma 3, c.p.c., la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve contenere, oltre gli interessi nella misura legale, la determinazione del maggior danno subito per la diminuzione di valore del credito (id est, la rivalutazione monetaria), accessori che devono essere riconosciuti d'ufficio anche nel grado d'impugnazione, sempre che non si sia formato il giudicato sulla pretesa avanzata in via principale (Sez. L, n. 19312/2016, Manna A., Rv. 641375, ha escluso che possa formarsi un giudicato, anche solo implicito, sul diniego dei predetti accessori da parte del giudice di primo grado qualora sia stata ritualmente impugnata, anche in via incidentale, la decisione sulla sorte capitale). Gli interessi e la rivalutazione monetaria attribuiti ex art. 429 c.p.c. decorrono dal giorno della maturazione del diritto; se questo è costituito dall'indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010, si applica la menzionata norma (che si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva), ma – trattandosi di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva – il dies a quo per il riconoscimento di rivalutazione monetaria e interessi legali coincide con la data della sentenza (ancorché non definitiva) che ha disposto la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Sez. L, n. 03062/2016, Mammone, Rv. 639081; Sez. 6-L, n. 05344/2016, Arienzo, Rv. 639099). L'interpretazione della decisione che costituisce titolo esecutivo da parte del giudice dell'opposizione all'esecuzione è finalizzata a determinare l'esatto importo spettante al creditore procedente in forza del titolo opposto, nel rispetto delle deduzioni delle parti e considerando che la controversia ha per oggetto la sussistenza originaria e la permanenza del titolo esecutivo: perciò, non può ravvisarsi alcuna ultrapetizione nella pronuncia che, pur in carenza di eccezione di parte, ha ritenuto non dovute al lavoratore le mensilità aggiuntive e gli scatti di anzianità, riconoscendogli soltanto la somma stabilita a titolo di indennità ex art. 18 st.lav., oltre agli accessori ex art. 429 c.p.c. (Sez. L, n. 04432/2016, Patti, Rv. 639230). Le disposizioni che regolano l'influenza di un giudizio su un altro e prevengono il conflitto di giudicati impongono la 710 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE sospensione del processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c. quando tra due cause, pendenti dinanzi allo stesso giudice o a due giudici diversi, esiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico: non sussistono, perciò, i presupposti per la sospensione di un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento motivato dal rifiuto della prestazione lavorativa per asserito diritto al collocamento in quiescenza nelle more della decisione della Corte dei conti sul ricorso proposto dallo stesso lavoratore per sentir pronunciare il suo diritto al pensionamento anticipato (Sez. L, n. 05229/2016, Cavallaro, Rv. 639276). Per le stesse ragioni, non si può far luogo a sospensione necessaria del processo nell'ipotesi di contemporanea pendenza di un giudizio sull'imputazione del rapporto di lavoro subordinato per violazione dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 e di altro di impugnativa di licenziamento, trattandosi di controversie con diversi causa petendi e petitum, promosse nei confronti di distinte parti convenute (Sez. L, n. 06258/2016, Ghinoy, Rv. 639552). L'esistenza del giudicato esterno, anche se formatosi successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, è in ogni caso rilevabile d'ufficio pure nel giudizio di cassazione, perché, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti secondo il principio ne bis in idem, corrisponde ad un interesse pubblicistico; perciò, il divieto posto dall'art. 372 c.p.c. non si estende ai documenti attestanti la successiva formazione del giudicato, la cui produzione può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l'impugnazione (Sez. L, n. 25269/2016, Cavallaro, in corso di massimazione). 4. Le impugnazioni. Varie decisioni hanno riguardato la decorrenza del termine (breve) per proporre le impugnazioni. Poiché sorge un litisconsorzio «unitario o quasi necessario» quando la domanda risarcitoria è proposta nei confronti di distinti convenuti in base ad un unico fatto generatore dell'illecito, è necessariamente unitario anche il termine per proporre impugnazione, di talché la notifica della sentenza eseguita da una delle parti segna, nei confronti suoi e della destinataria della notificazione, l'inizio del termine breve per impugnare contro tutte le altre parti e la correlata decadenza dall'impugnazione esplica effetto nei confronti di tutti i contendenti (Sez. L, n. 00986/2016, Mammone, Rv. 638865, in ragione dell'estensione degli effetti della rituale notifica della sentenza d'appello effettuata da una 711 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE controparte, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione del lavoratore nei confronti di entrambi i soggetti convenuti in primo grado per il ristoro dei danni subiti a causa della prematura destinazione al lavoro, dipesa da erronea diagnosi dell'INAIL e da violazione dell'obbligo datoriale di sicurezza). Ai fini del decorso del termine breve, la notificazione della sentenza di primo grado va effettuata al dipendente che, a norma dell'art. 417-bis c.p.c., ha rappresentato la pubblica amministrazione nel primo grado delle controversie relative a rapporti di lavoro; al contrario, è radicalmente nulla la notifica eseguita al funzionario delegato dall'Avvocatura dello Stato alla rappresentanza in giudizio (art. 2 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611), poiché in quest'ultimo caso l'attività defensionale è affidata all'ufficio dell'Avvocatura competente per territorio al quale deve essere notificata la pronuncia ex art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933 (Sez. L, n. 17596/2016, Boghetich, Rv. 640885). La riproposizione dello stesso appello prima della dichiarazione di inammissibilità di quello precedentemente presentato comporta la decorrenza del termine breve dalla notificazione della prima impugnazione, poiché questa è equipollente alla notificazione della sentenza; nelle controversie soggette al rito del lavoro il termine predetto decorre dalla data di deposito del ricorso, in quanto tale atto determina la pendenza del giudizio di appello (Sez. 6-L, n. 02478/2016, Garri, Rv. 638949). Il luogo della notificazione dell'atto introduttivo deve essere correttamente individuato dalla parte che avanza l'impugnazione, la quale è tenuta a dare prevalenza al domicilio dichiarato nel corso del giudizio di appello e risultante dall'intestazione della sentenza notificata dalla controparte (non assumendo rilievo le divergenti e non aggiornate risultanze del sito internet del Consiglio dell'Ordine) o, alternativamente (ed eventualmente), a richiedere la notificazione in più luoghi diversi (Sez. L, n. 21037/2016, Di Paolantonio, Rv. 641409). La procura speciale al difensore, rilasciata in primo grado «per il presente giudizio» e senza alcuna indicazione delimitativa, deve intendersi conferita anche per l'appello, quale ulteriore grado in cui si articola il giudizio stesso, poiché la presunzione di conferimento per il solo primo grado ex art. 83, ult. comma, c.p.c. opera soltanto quando vengano utilizzati termini assolutamente generici o in assenza di qualsivoglia indicazione sulla sua estensione (Sez. L, n. 24973/2016, Riverso, in corso di massimazione). 712 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 4.1. Appello. L'art. 434, comma 1, c.p.c. è stato riscritto dall'art. 54, comma 1, lettera c)-bis, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e la sua attuale formulazione coincide quasi integralmente con il testo dell'art. 342, comma 1, c.p.c., contestualmente introdotto. Le novellate disposizioni perseguono lo scopo di migliorare l'efficienza dell'appello rendendo esplicita l'esigenza che l'appellante, in un'ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, rispetti precisi oneri nella formalizzazione delle ragioni dell'impugnazione, individuando in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum. Senza alcun intento di imporre irragionevoli adempimenti formali, il legislatore, per ottenere una esaustiva definizione del thema decidendum del giudizio di gravame, ha richiesto all'appellante sia l'espressa individuazione dei punti e dei capi della sentenza che vengono impugnati, sia la critica, attraverso la proposizione di un percorso logico alternativo a quello adottato dal giudice, dei passaggi argomentativi che li sorreggono: pertanto, a carico dell'appellante è posto il preciso onere processuale, prescritto a pena di inammissibilità, di offrire una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella assunta in primo grado (Sez. L, n. 17712/2016, Negri Della Torre, Rv. 640991; nello stesso senso, già in precedenza, Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, e Sez. U, n. 10878/2015, Di Amato). Non richiedono la proposizione di un appello incidentale della parte pienamente vittoriosa in primo grado le eccezioni pregiudiziali non esaminate o rimaste assorbite nella decisione impugnata, essendo anzi sufficiente riproporle espressamente nel giudizio di impugnazione, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame e di evitare così la presunzione di rinuncia (ex art. 346 c.p.c.) derivante da un comportamento omissivo dell'appellato (Sez. L, n. 24124/2016, Spena, Rv. 641710). In applicazione delle statuizioni di Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15, gli oneri di notificazione a carico dell'appellante ex art. 435, comma 2, c.p.c. sorgono dalla comunicazione al medesimo dell'avvenuto deposito del decreto di fissazione dell'udienza di discussione (Sez. L, n. 19176/2016, Di Paolantonio, Rv. 641200), in difetto della quale deve essere disposta, di ufficio o ad istanza dell'appellante medesimo, la fissazione di altra udienza di discussione in data idonea a consentire la notificazione nel rispetto dei termini (Sez. 6-L, n. 27375/2016, Fernandes, in corso di massimazione). 713 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE L'art. 435, comma 3, c.p.c. prescrive un termine di venticinque giorni tra la data di notificazione all'appellato del ricorso col decreto di fissazione dell'udienza di discussione e quella dell'udienza stessa: trattandosi di un termine a difesa volto ad assicurare al convenuto un congruo periodo per l'apprestamento delle difese, esso deve intendersi "libero", escludendo dal computo sia il dies a quo (quello della notificazione) sia il dies ad quem (quello della comparizione) (Sez. 6-L, n. 16110/2016, Pagetta, Rv. 640862). L'omissione della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di trattazione da parte della corte d'appello comporta, di regola, l'improcedibilità del gravame; se, però, l'udienza è stata rinviata d'ufficio prima della sua apertura, la menzionata sanzione non può trovare applicazione qualora l'appellante abbia proceduto, nel rispetto dei termini di legge, alla notifica con riferimento alla nuova udienza e l'appellato si sia ritualmente costituito, poiché in tal caso nessuna lesione deriva al principio di ragionevole durata del processo o al diritto di difesa della parte appellata, dimostrato dalla sua rituale costituzione (Sez. 6-L, n. 16517/2016, Arienzo, Rv. 640851; è solo apparente il contrasto con Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080, con cui si era confermata – in una fattispecie analoga ma non identica – la declaratoria di improcedibilità dell'appello sebbene la notifica fosse avvenuta per altra udienza successiva a cui la causa era stata rinviata, perché in quel caso non si poteva ravvisare un rinvio d'ufficio, che, a mente di consolidata giurisprudenza, è quello disposto prima della data fissata e prima che l'udienza stessa sia aperta, seppure senza svolgimento di una concreta attività processuale). Anche l'appello incidentale tempestivamente proposto incorre nella sanzione di improcedibilità se non viene notificato e il giudice, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, non può assegnare all'appellante un termine per provvedere a nuova notifica, ma deve, anzi, dichiarare improcedibile il gravame pronunciandosi ex officio, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti (Sez. L, n. 00837/2016, Cavallaro, Rv. 638397). Con una rigorosa statuizione, Sez. L, n. 12825/2016, Di Paolantonio, Rv. 640368, ha stabilito che nel rito del lavoro, non è utilizzabile in appello il fascicolo di parte ritirato nel corso del giudizio di primo grado e non depositato prima della decisione, poiché solo con il rispetto delle forme imposte dall'art. 74 disp. att. c.p.c., vi è la prova dell'effettività e della tempestività della produzione documentale nel precedente grado di giudizio (dalla 714 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE motivazione si evince che la decisione non è in netto contrasto con Sez. 6-3, n. 26030/2014, De Stefano, Rv. 633803, secondo cui, in caso di mancata restituzione del fascicolo di parte, ritualmente ritirato, entro il termine previsto dall'art. 190 c.p.c., il giudice di primo grado deve decidere la causa prescindendo dai documenti in esso contenuti, ma la parte ha la facoltà di produrre nuovamente in grado di appello i documenti non esaminati nella decisione appellata, i quali, se ed in quanto ritualmente prodotti in primo grado, non sono qualificabili come "nuovi"; difatti, la Sezione Lavoro sottolinea che nella fattispecie esaminata il difetto era da attribuire all'operato dell'appellante che aveva inserito gli atti asseritamente prodotti in primo grado nel fascicolo di parte di appello, anziché produrre il fascicolo del precedente grado di giudizio, e così facendo aveva eluso le norme codicistiche volte a dimostrare l'effettività e la tempestività della produzione). 4.2. Ricorso per cassazione. Innanzitutto, sotto il profilo formale, ex art. 369 c.p.c. il ricorso per cassazione deve essere depositato in originale entro venti giorni dalla sua notificazione a pena di improcebilità (rilevabile d'ufficio e non sanata dalla notificazione dell'avversario controricorso privo di eccezione sul punto), restando irrilevante il deposito a mezzo posta di una "velina", per giunta priva di ogni riferimento anche solo all'avvio del procedimento notificatorio del ricorso (Sez. 6-L, n. 24178/2016, Marotta, in corso di massimazione). Con riguardo al ricorso per cassazione e alle caratteristiche del giudizio di legittimità, Sez. L, n. 11738/2016, Boghetich, Rv. 640032, ribadisce che – anche nel caso di denuncia di errores in procedendo, che legittimano il diretto esame degli atti del giudizio di merito da parte della Corte di legittimità – costituisce valutazione preliminare quella relativa all'ammissibilità dei motivi, i quali devono rispettare i principî di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione (ciò impone che siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell'atto d'appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate). Il vizio di violazione di legge, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, nel provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; se, invece, è oggetto di critica la 715 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE ricognizione della fattispecie concreta effettuata tramite le risultanze istruttorie, la S.C. non è chiamata ad un'interpretazione nomofilattica della norma, bensì a un sindacato sulle valutazioni operate dal giudice di merito, la cui censura è possibile solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. L, n. 00195/2016, Berrino, Rv. 638425, in tema di penosità delle prestazioni di lavoro svolte nei turni di pronta disponibilità). Analogamente, Sez. L, n. 18715/2016, Amendola F., Rv. 641229, ha statuito che il ricorso per cassazione in tema di giusta causa di licenziamento (clausola generale caratterizzata da molteplici elementi fattuali) può denunciare una violazione di legge ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c, quando la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non integrano la nozione legale di "giusta causa"; al contrario, l'omesso esame di un parametro decisivo (tale, cioè, da poter condurre ad un diverso esito della lite) tra quelli individuati dalla giurisprudenza va denunciato come vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello attiene al rito e la natura processuale del denunciato error in procedendo attribuisce alla Suprema Corte la funzione di giudice anche del fatto e il potere di stabilire essa stessa se si trattasse di prova indispensabile (Sez. 1, n. 01277/2016, Nappi, Rv. 638499). La natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata e con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi, limita il potere del giudice di individuare la regula iuris applicabile alla fattispecie in assenza di motivo di impugnazione sul punto (Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640002, ha escluso che un lavoratore, pubblico impiegato, potesse avvantaggiarsi, nel giudizio di rinvio, della ritenuta applicabilità di un regime sanzionatorio diverso in tema di licenziamento, invocando la tutela reintegratoria ex art. 18 st.lav., vecchia formulazione, in luogo di quella indennitaria ai sensi della inapplicabile l. n. 92 del 2012). Quanto all'oggetto del ricorso per cassazione, l'art. 63, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 – che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro relativi al pubblico impiego privatizzato – è norma di stretta interpretazione, che non può trovare applicazione per i contratti collettivi di ambito territoriale, regionali (Sez. L, n. 07671/2016, Negri Della Torre, Rv. 639470) o provinciali (Sez. L, n. 17716/2016, Napoletano, Rv. 641014). 716 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 4.3. Revocazione. Il rito speciale del lavoro trova applicazione anche nell'impugnazione per revocazione, sicché è tempestiva la domanda di revocazione se il relativo ricorso è stato depositato nella cancelleria del giudice adito nel termine di cui all'art. 327 c.p.c., restando irrilevante il fatto che la notificazione dello stesso, con l'unito decreto di fissazione dell'udienza, sia avvenuta successivamente (Sez. L, n. 13063/2016, Negri Della Torre, Rv. 640414). L'errore revocatorio deve essere fatto valere entro il termine e con le forme prescritti dall'art. 395 c.p.c.: la proposizione di un mezzo di impugnazione inammissibile (nel caso, ricorso per cassazione in luogo di ricorso per revocazione) non può essere ovviata mediante l'applicazione dell'art. 50 c.p.c., sia perché tale norma presuppone una pronuncia di incompetenza con cui il giudice adito, spogliandosi della causa, indichi altro giudice dinanzi al quale la lite può essere proseguita, sia perché il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile non può mantenere effetti sostanziali e processuali tali da consentire la proposizione della nuova e diversa impugnazione attraverso la fictio iuris di un atto di riassunzione (Sez. L, n. 25267/2016, Doronzo, in corso di massimazione). L'errore di fatto risultante dagli atti di causa ex art. 395, n. 4, c.p.c. può consistere nella supposizione dell'esistenza di solo alcuni motivi di ricorso per cassazione quando invece risulta incontrastabilmente la presenza anche di ulteriori motivi, sui quali la sentenza sia stata silente proprio per aver erroneamente supposto un dato processuale contrario al ricorso (Sez. L, n. 25560/2016, Amendola F., in corso di massimazione). 5. L'impugnazione dei licenziamenti. L'esigenza di definire entro tempi certi (e rapidi) le controversie in tema di licenziamento ha indotto il legislatore a modificare (con l'art. 32, comma 1, legge 4 novembre 2010, n. 183, "Collegato Lavoro") l'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sia prescrivendo un termine decadenziale di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento per manifestare la volontà del lavoratore di impugnare il provvedimento espulsivo, sia imponendo l'avvio del relativo giudizio entro il termine di 270 giorni (poi, ridotto a 180 giorni ex art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012) dall' "impugnazione" extragiudiziale a pena di inefficacia di quest'ultima. 717 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE L'art. 32, comma 1-bis, della menzionata legge n. 183 del 2010 (introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito nella legge 26 febbraio 2011, n. 10) prevede, «in sede di prima applicazione», il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni «relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento». Nel solco di pregresse pronunce sulla medesima questione (Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, Rv. 637925; Sez. 6-L, n. 13563/2015, Arienzo, e Sez. 6-L, n. 02494/2015, Garri) Sez. U, n. 04913/2016, Amoroso, Rv. 639067, ha statuito che il differimento dell'entrata in vigore della disposizione riguarda tutti i contratti di lavoro elencati dall'art. 6, comma 3, della l. n. 604 del 1966 – ivi comprese le cause riguardanti la validità di contratti a termine in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. Collegato lavoro) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di 60 giorni per l'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale) – e a questi si applica mediante l'istituto della rimessione in termini; difatti, la ratio legis del differimento, secondo interpretazione costituzionalmente orientata, mira ad attenuare le conseguenze dell'introduzione del nuovo regime di decadenze. La novella introdotta dall'art. 32, comma 1-bis, della l. n. 183 del 2010 ha disegnato una disciplina unitaria dei suddetti termini – 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento con qualunque atto scritto e 270 giorni (poi 180 giorni) per il successivo deposito del ricorso – e, quindi, la relativa decorrenza è differita al 31 dicembre 2011, quando il ricorso giudiziale è intervenuto in epoca anteriore a tale data (Sez. L, n. 23865/2016, Lorito, Rv. 641706; con analoghi principî si è espressa Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641712). L'impugnazione stragiudiziale non perde efficacia se alla stessa fa seguito il deposito del ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della l. n. 92 del 2012 – al quale non è equiparato il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c. (Sez. L, n. 14390/2016, Napoletano, Rv. 640467) – oppure la richiesta stragiudiziale di tentativo di conciliazione o arbitrato, la quale può essere inoltrata anche via fax poiché la norma non prescrive specifiche modalità di comunicazione e la ricezione del fax è del tutto equipollente alle modalità di consegna stabilite dall'art. 410, comma 5, c.p.c. (Sez. L, n. 17253/2016, Amendola F., Rv. 641017). 718 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 6. Il cd. rito Fornero. Con specifico riferimento alla struttura del cd. rito Fornero, dettato per l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi disciplinate dall'art. 18 st.lav., già Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, e Corte cost., 13 maggio 2015, n. 78, avevano rilevato che la prima fase – necessaria, sommaria ed informale – e la seconda successiva – eventuale e a cognizione piena – non vertono sullo stesso oggetto: mentre l'ordinanza opposta è pronunciata su un ricorso "semplificato" e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti allo stato indispensabili, l'opposizione non è limitata alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali. Dalla riconosciuta struttura bifasica, ma unitaria, del giudizio si evince che la fase a cognizione ordinaria iniziata con l'opposizione non costituisce un'impugnazione e, cioè, un'istanza di revisione del precedente giudizio, come tale inidonea ad introdurre nuovi temi o nuovi mezzi istruttori; pertanto, l'attività istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio deve essere valutata unitariamente, senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova (Sez. L, n. 13788/2016, Esposito L., Rv. 640452, ha ritenuto tempestiva la produzione nella fase di opposizione dell'originale del documento prodotto in fotocopia, ancorché l'originaria produzione e la contestazione di non conformità all'originale fossero intervenute nella precedente fase). Il rito speciale della l. n. 92 del 2012 trova applicazione anche quando l'impugnativa di licenziamento del lavoratore è proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro (di cui si chiede di accertare la effettiva titolarità del rapporto), dato che il giudice è tenuto a individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione della parte, prescindendo dalla fondatezza delle allegazioni (Sez. L, n. 17775/2016, Amendola F., Rv. 641000). Possono essere proposte in un unico ricorso ex art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 – in via subordinata tra loro – la domanda di tutela avverso il licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 st.lav. e quella avente ad oggetto l'impugnativa dello stesso recesso con la tutela di cui all'art. 8 della l. n. 604 del 1966: difatti, gli elementi costitutivi sono i medesimi e la dimensione dell'impresa non è un elemento costitutivo della domanda del lavoratore e, 719 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE peraltro, l'interpretazione estensiva del cd. rito Fornero consente di evitare la parcellizzazione dei giudizi e di far sì che da un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro possa scaturire un unico processo (Sez. L, n. 12094/2016, Amendola F., Rv. 640027). La pronuncia si pone in consapevole contrasto col precedente di Sez. L, n. 16662/2015, Maisano, Rv. 636735, secondo cui la peculiarità del rito e le sue finalità "acceleratorie" riguardano anche il thema decidendum, tanto che il cumulo di domande diverse è ammesso solo se siano basate su fatti costitutivi identici a quelli fondanti la richiesta di tutela reale (mentre la domanda subordinata, volta alla tutela obbligatoria, trova presupposti nel diverso numero dei dipendenti impiegati e nella differente natura delle imprese datrici). La decisione più recente non condivide la conclusione dell'esclusività del rito di cui all'art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 per le sole cause di impugnativa del licenziamento alle quali consegua – in prospettazione – la reintegrazione nel posto di lavoro sulla base di argomenti tratti dalla complessiva ricognizione della giurisprudenza in materia di recesso datoriale e, segnatamente, da Sez. U, n. 00141/2006, Roselli, Rv. 585625, secondo cui la tutela di cui all'art. 18 st.lav. implica che fatti costitutivi dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre la dimensione dell'impresa e il giustificato motivo del recesso datoriale costituiscono fatti impeditivi del diritto dedotto in giudizio. Inoltre, la domanda di tutela reale e quella di tutela obbligatoria sono da tempo considerate – nella giurisprudenza di legittimità – in rapporto di continenza, nel senso che la prima contiene la seconda fino al punto di ritenere proponibile in appello, per la prima volta, la domanda di tutela cd. obbligatoria da parte del lavoratore rimasto soccombente, in primo grado, sulla base di domanda di reintegrazione ai sensi dell'art. 18 st.lav. (Sez. L, n. 08906/1997, Cuoco, Rv. 507809). Sempre in via subordinata alla principale impugnativa di licenziamento discriminatorio avanzata secondo il rito Fornero, è consentito al lavoratore proporre sia le domande volte alla declinatoria di difetto di giusta causa ovvero ingiustificatezza del recesso datoriale, che sono basate sul comune presupposto della vicenda estintiva del rapporto (Sez. L, n. 17107/2016, Venuti, Rv. 640783, la quale rileva che non possono derivare aggravi istruttori dalla trattazione congiunta), sia quelle finalizzate al pagamento del t.f.r. e dell'indennità di preavviso, diritti che comunque nascono 720 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE dalla cessazione del rapporto e sono fondati su fatti costitutivi già dedotti (Sez. L, n. 17091/2016, Esposito L., Rv. 640782). L'introduzione del processo disciplinato dalla legge Fornero avviene con ricorso al giudice del lavoro, da notificare unitamente al decreto di fissazione di udienza nel termine fissato, non inferiore a 25 giorni prima dell'udienza stessa (art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012). Il termine stabilito dal giudice per la notificazione del ricorso non può essere qualificato come perentorio, sicché la sua violazione non può condurre alla nullità dell'intero processo (Sez. L, n. 16349/2016, Balestrieri, Rv. 640852). L'art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 prescrive, invece, il termine decadenziale di 30 giorni per avanzare l'opposizione avverso l'ordinanza, di accoglimento o di rigetto, emessa in conclusione della fase sommaria; il dies a quo coincide con la data di comunicazione o di notificazione del provvedimento opposto, senza che rilevi la sua lettura all'esito dell'udienza, stante la specialità delle disposizioni del rito Fornero (Sez. L, n. 18403/2016, Balestrieri, Rv. 641192). Nei procedimenti contenziosi incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, anche nella disciplina antecedente alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2, della l. n. 228 del 2012, introdotta dal d.l. n. 83 del 2015, il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio – nella specie, opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 – non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità (Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti A., Rv. 639888); se l'invio telematico fosse stato accettato e il file caricato nel fascicolo telematico (anziché respinto dal cancelliere), l'irregolarità posta in essere sarebbe stata sanata, con salvezza degli effetti del deposito, tra i quali quello di impedire la decadenza; conseguentemente, deve reputarsi legittimo il provvedimento del giudice di merito che rimetta l'opponente in termini per il deposito dell'atto di opposizione(Sez. L, n. 22479/2016, Ghinoy, Rv. 641629). La mancata notifica del ricorso in opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012 e del decreto di fissazione dell'udienza è sanzionata con l'improcedibilità: è illegittimo il provvedimento di rimessione in termini per la notificazione ex novo dell'atto introduttivo della fase, di natura soltanto eventuale e volta a confermare o modificare una precedente decisione idonea al giudicato, poiché oblitera l'interesse della controparte ad ottenere la stabilizzazione entro tempi prefissati, certi e ragionevolmente brevi 721 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE (Sez. L, n. 17325/2016, Ghinoy, Rv. 640877; la precedente Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, Rv. 637792, aveva invece ammesso la rinnovazione della notificazione dell'opposizione, pur rilevando l'inesistenza di qualsiasi notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nei termini prescritti dalla norma). Il reclamo ex art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012 è, nella sostanza, un appello, sicché per tutti i profili non regolati dalle disposizioni specifiche trova applicazione la disciplina dell'appello nel rito del lavoro, incluso il disposto dell'art. 434 c.p.c. nel testo introdotto dall'art. 54, comma 1, lett. c)-bis, del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012 (Sez. L, n. 17863/2016, Torrice, Rv. 640992). L'impugnazione della decisione conclusiva del primo grado deve essere proposta entro il breve termine ex art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, che decorre dalla comunicazione alle parti della sentenza del tribunale (o dalla notificazione, se anteriore), anche nelle ipotesi nelle quali il giudice abbia dato lettura in udienza del dispositivo e della motivazione, come consentito dall'art. 429 c.p.c., poiché la legge Fornero ha previsto un rito speciale, la cui disciplina deve essere osservata senza possibilità di deroga (Sez. L, n. 14098/2016, Boghetich, Rv. 640473). Secondo Sez. L, n. 16216/2016, De Gregorio, Rv. 640857, la maggiore novità introdotta in tema di impugnazione, rispetto alla disciplina di cui agli artt. 325 e segg. c.p.c., è costituita proprio dal rilievo processuale attribuito alla comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria del giudice che lo ha emesso (o alla notificazione, se anteriore), mentre non può trovare applicazione la disciplina generale dell'impugnazione entro il termine lungo ai sensi dell'art. 327 c.p.c.; la specialità attiene, però, soltanto al reclamo principale, mentre il destinatario dell'impugnazione può avanzare il reclamo nel termine ex art. 436 c.p.c., in quanto le esigenze acceleratorie previste dal rito Fornero riguardano l'impulso processuale e la struttura del procedimento di primo grado (Sez. L, n. 24258/2016, Balestrieri, Rv. 641711). Tuttavia, se la controversia inerente il licenziamento è stata erroneamente trattata in primo grado con le forme del rito del lavoro anziché col rito Fornero, il mezzo d'impugnazione esperibile avverso la sentenza deve essere individuato in base alla qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal giudice nel provvedimento stesso, a prescindere dalla sua esattezza e, conseguentemente, deve reputarsi tempestivo l'appello proposto 722 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE nel termine di sei mesi ex art. 327 c.p.c. decorrente dalla pubblicazione della sentenza (Sez. L, n. 25553/2016, Boghetich, in corso di massimazione). Data per acquisita la natura sostanziale di appello del reclamo disciplinato dall'art. 1, commi 58-60, della legge Fornero e l'applicabilità della disciplina delle impugnazioni del rito del lavoro, la violazione del termine previsto per la notificazione del reclamo non può dar luogo a nullità se l'atto ha raggiunto lo scopo, così come, in generale, il mancato rispetto del termine ex art. 435, comma 3, c.p.c. non produce nullità se l'appellato si è costituito (in tal senso, Sez. L, n. 25684/2015, Napoletano, Rv. 638083); pertanto, quando non sia stata effettuata la notifica dell'impugnazione nel rispetto del termine ex art. 1, comma 60, della l. n. 92 del 2012, può essere disposta, d'ufficio o ad istanza della parte, la fissazione di altra udienza di discussione in data idonea a consentire il rispetto di detti termini (Sez. 6-L, n. 27395/2016, Marotta, in corso di massimazione), potendo peraltro ritenersi validamente costituito il contraddittorio anche quando il collegio, senza un formale provvedimento di rinnovo della notificazione, si sia limitato, all'udienza di discussione originariamente fissata, a disporre il rinvio della medesima, con notificazione alla controparte non costituita (Sez. L, n. 22780/2016, Amendola F., Rv. 641602). 7. Il processo in materia di previdenza. Le domande giudiziali volte al riconoscimento del diritto a fruire di prestazioni previdenziali o assistenziali comportano anche il previo accertamento dell'esistenza del grado di invalidità del richiedente, ma tale accertamento non può essere domandato in via autonoma, trattandosi di un elemento frazionato della complessiva fattispecie dedotta in giudizio (Sez. 6-L, n. 09013/2016, Pagetta, Rv. 639682, ha ritenuto inammissibile, per difetto di interesse ad agire, l'azione di mero accertamento del grado di invalidità, essendo stato esplicitato solo nel corso del giudizio di primo grado che la domanda era finalizzata a godere del beneficio ex art. 80 della legge n. 288 del 2000 o dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario); in fattispecie analoga, Sez. 6-L, n. 25395/2016, Mancino, in corso di massimazione). 7.1. Competenza territoriale. In tema di applicazione dei criteri di competenza per le cause previdenziali, la Suprema Corte ha specificato che la controversia inerente agli obblighi contributivi di un lavoratore autonomo rientra nella competenza del giudice del 723 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE lavoro nella cui circoscrizione risiede l'attore ex art. 444, comma 1, c.p.c., atteso che l'art. 444, comma 3, c.p.c., il quale prevede la competenza territoriale del tribunale della sede dell'ufficio dell'ente creditore per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro, è norma di eccezione rispetto al principio generale e, pertanto, non è suscettibile di applicazione estensiva o analogica (Sez. 6-L, n. 20578/2016, Garri, Rv. 641372; nello stesso senso,Sez. 6-L, n. 23690/2016, Arienzo, in corso di massimazione). All'azione di regresso esercitata dall'Inail nei confronti del datore di lavoro responsabile dell'infortunio ex art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 deve invece applicarsi la disciplina dell'art. 444, comma 3, c.p.c., e la competenza territoriale spetta, quindi, al giudice del luogo in cui si trova la sede territoriale dell'ente previdenziale che ha trattato la pratica dell'infortunio ed ha erogato la conseguente indennità al lavoratore (Sez. 6-L, n. 17387/2016, Mancino, Rv. 640879). L'art. 618-bis, comma 2, c.p.c. attribuisce alla competenza funzionale del giudice dell'esecuzione esclusivamente la fase endoesecutiva dell'opposizione agli atti esecutivi o all'esecuzione e, «nei limiti dei provvedimenti assunti con ordinanza», l'adozione delle decisioni di natura cautelare a questa inerenti (sospensione del processo esecutivo, provvedimenti indilazionabili), mentre nella successiva (ed eventuale) fase di merito, in forza del comma 1 della citata disposizione, trovano applicazione le norme ordinarie sulle controversie di lavoro e previdenziali, ivi comprese quelle sulla competenza territoriale ex art. 444 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 16222/2016, Marotta, Rv. 640863). 7.2. Litisconsorzio. Si registrano decisioni di segno opposto sul litisconsorzio dell'ente impositore nelle controversie attinenti alla riscossione coattiva di contributi previdenziali Difatti, Sez. 1, n. 09016/2016, Mercolino, Rv. 639535, ha escluso la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra l'ente creditore e l'agente della riscossione anche quando la domanda ha ad oggetto non già la regolarità o la ritualità degli atti esecutivi, bensì l'esistenza stessa del credito; la chiamata dell'ente, prevista dall'art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, deve essere pertanto ricondotta all'art. 106 c.p.c. e, come tale, è rimessa alla esclusiva valutazione discrezionale del giudice del merito. Al contrario, secondo Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria vantata dall'agente della 724 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE riscossione di contributi previdenziali oppure eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, al quale spetta la titolarità del credito e la correlata legittimazione a stare in giudizio, dato che l'agente ha invece una legittimazione meramente processuale. Anche Sez. L, n. 00594/2016, Patti, Rv. 638246, configura un litisconsorzio necessario, ma con riferimento all'agente della riscossione rispetto alle opposizioni ex art. 615 c.p.c. a cartelle di pagamento relative a contributi previdenziali; difatti, il dedotto vizio di notifica degli atti determinante la prescrizione del credito per mancata tempestiva notificazione dell'atto interruttivo (perciò, non soltanto vizio di opposizione agli atti esecutivi, ma pure di opposizione all'esecuzione) potrebbe, in caso di accoglimento dell'opposizione, incidere sul rapporto con l'ente impositore (la pronuncia riconosce, quindi, la legittimazione dell'agente della riscossione ad appellare la sentenza che, per le suesposte ragioni, abbia escluso il diritto di agire in executivis). 7.3. Mezzi di prova. Nelle controversie assistenziali l'autocertificazione del requisito reddituale (cioè, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà riferita al medesimo requisito) non ha alcun valore probatorio, neanche indiziario, atteso che la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni; tuttavia il documento in atti può essere reputato idoneo, con valutazione insindacabile ove congruamente motivata, a sollecitare il potere istruttorio ufficioso del giudice di merito, trattandosi di principio di prova suscettibile di essere integrato da ulteriori acquisizioni processuali ex artt. 421 e 437 c.p.c. (Sez. L, n. 22484/2016, Doronzo, Rv. 641617; più rigorosamente Sez. 6-L, n. 0 0 5 4 7 / 2 0 1 5 , P a g e t t a , R v . 6 3 4 0 9 6 , a v e v a a ffe r m a t o c h e l'autocertificazione non può rilevare ai fini dell'attivazione dei poteri officiosi ex art. 437, comma 2, c.p.c.). Nel giudizio tra datore di lavoro ed ente previdenziale avente ad oggetto il mancato pagamento di contributi, non può rendere testimonianza sulla contestata sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato il lavoratore i cui contributi siano stati omessi, perché è incapace di deporre avendo un interesse "in causa"; resta ferma la possibilità di un suo interrogatorio libero sui fatti di causa da parte del giudice, nell'esercizio dei poteri ex art. 421 c.p.c. (Sez. L, n. 01256/2016, Ghinoy, Rv. 638313). 725 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 7.4. Regime delle spese. L'esonero dalle spese giudiziali della parte soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, previsto dall'art. 152 disp. att. c.p.c., è subordinato alla titolarità di redditi esigui riferibili all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio (Sez. 6-L, n. 16131/2016, Pagetta, Rv. 640864, ha confermato la sentenza di condanna alle spese di lite in favore dell'ente previdenziale, in quanto l'assicurato aveva allegato, ad un ricorso in primo grado del 2010, dichiarazione sostitutiva di certificazione riferita al reddito imponibile IRPEF dell'anno 2008, anziché del 2009) e alla formulazione di apposita e tempestiva dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo. Quest'ultima non richiede l'adozione di una rigida formula, tanto che non occorre nemmeno una specifica indicazione dell'entità del reddito del nucleo familiare (Sez. 6-L, n. 24303/2016, Pagetta, in corso di massimazione), pur essendo prescritta la sottoscrizione della parte personalmente (Sez. 6-L, n. 22952/2016, Garri,Rv. 641507, ha ritenuto inefficace la sottoscrizione del solo difensore); al contrario,mentre l'impegno a comunicare eventuali rilevanti variazioni dei limiti di reddito fino alla definizione del processo non deve essere contenuto nella predetta dichiarazione iniziale, né costituisce condizione per l'esenzione (Sez. 6-L, n. 16132/2016, Pagetta, Rv. 640728). Sussistendone i presupposti, l'art. 152 disp. att. c.p.c. esenta la parte dal carico delle spese di lite e di consulenza anche nelle controversie in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali (Sez. 6-L, n. 16131/2016, Pagetta, Rv. 640864) e nell'accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. (Sez. 6-L, n. 16515/2016, Arienzo, Rv. 640850). 7.5. Accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. L'accertamento del diritto all'assegno di invalidità compiuto con sentenza passata in giudicato non può essere soggetto ad una nuova valutazione medico-legale sulle circostanze di fatto già considerate e divenute inoppugnabili verità processuali; tuttavia, in sede di successivo ricorso ex art. 445-bis, comma 6, c.p.c. per ottenere il ripristino dell'assegno d'invalidità, il principio del giudicato non impedisce di considerare i mutamenti intervenuti, potenzialmente idonei a determinare la perdita del requisito sanitario da parte del ricorrente e, conseguentemente, a condurre a una decisione difforme dalla prima sentenza (Sez. 6-L, n. 14140/2016, Arienzo, Rv. 640461). 726 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE Col decreto di omologa dell'accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze della relazione del consulente tecnico il giudice deve emettere pronuncia sulle spese (art. 445-bis, comma 5, c.p.c.), ma tale statuizione, in ossequio al principio generale sulla soccombenza ex art. 91 c.p.c., non può contenere la condanna della parte totalmente vittoriosa al pagamento delle spese in favore della controparte (Sez. 6-L, n. 12028/2016, Marotta, Rv. 640029, ha annullato il decreto che, pur accertando l'insussistenza del requisito sanitario per l'indennità di accompagnamento, aveva posto a carico dell'INPS le spese processuali e di c.t.u.). In ogni caso, le spese non possono gravare sul ricorrente che si trovi nelle condizioni reddituali di cui all'art. 152 disp. att. c.p.c., salvo che la sua pretesa sia manifestamente infondata e temeraria (Sez. 6-L, n. 16515/2016, Arienzo, Rv. 640850). Alla statuizione sulle spese nella parte motiva del decreto di omologa ex art. 445-bis c.p.c. deve corrispondere la loro liquidazione nel dispositivo, la cui omissione non può essere emendata con la procedura di correzione dell'errore materiale, attesa la necessità, ai fini della di una concreta determinazione e quantificazione degli importi, di una pronuncia del giudice (Sez. 6-L, n. 22344/2016, Marotta, Rv. 641595. Quest'ultima, poi, deve considerare sia il valore della controversia (applicando il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. in riferimento all'ammontare delle prestazioni assistenziali effettivamente riconosciute e al periodo oggetto della statuizione), sia il disposto dell'art. 152 disp. att. c.p.c. (modificato dall'art. 52, comma 6, della l. n. 69 del 2009 e applicabile ai giudizi instaurati successivamente al 4 luglio 2009) a norma del quale «le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio» (Sez. 6-L, n. 24319/2016, Marotta, in corso di massimazione). 727 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE CAPITOLO XXXIX IL PROCESSO DI ESECUZIONE (di Raffaele Rossi) SOMMARIO: 1. Titolo esecutivo. – 2. Intervento dei creditori nella espropriazione forzata. – 3. Espropriazione presso terzi. – 4. Espropriazione immobiliare. – 4.1. La vendita forzata. – 5. Opposizioni esecutive. 1. Titolo esecutivo. Nella evoluzione della giurisprudenza di nomofilachia, il principio nulla executio sine titulo è stato interpretato in una accezione dinamica, come immanenza del titolo esecutivo rispetto alla procedura, necessaria esistenza di un titolo, valido ed efficace, dalla notifica del prodromico atto di precetto sino al compimento dell'atto terminale del procedimento esecutivo. La sopravvenuta caducazione del titolo - quale effetto dello sviluppo del giudizio di cognizione in cui si è formato o dei gradi di impugnazione - travolge gli atti esecutivi compiuti in forza dello stesso, privati ex tunc di ogni efficacia, e determina l'obbligo di ripristinare le situazioni giuridiche quo ante, fatti salvi i diritti acquistati dai terzi aggiudicatari o assegnatari in ossequio al disposto dell'art. 2929 c.c. Muovendo da queste premesse, Sez. 6-3, n. 02135/2016, Barreca, Rv. 638921, ha precisato che in caso di riforma in appello di sentenza già posta in esecuzione forzata, il debitore esecutato ha diritto alla restituzione non solo del capitale pagato sulla base del titolo successivamente riformato, ma anche delle somme corrisposte per le spese del giudizio di esecuzione sostenute dal creditore esecutante, e ciò a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di quest'ultimo. Presupposto del processo di esecuzione è, dunque, l'esistenza di un titolo esecutivo che incorpori un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori di accertamento dell'obbligazione: ciò esclude in radice la prospettabilità di questioni di giurisdizione, non potendosi individuare altro giudice competente sulla materia (principio affermato da Sez. U, n. 00065/2016, Matera, Rv. 637944, in relazione ad una opposizione ad esecuzione per rilascio di fondo rustico nella quale era stato eccepito il difetto di giurisdizione dell'A.G.O. connesso alla legittimazione e affrancazione del terreno gravato da usi civici). Circa le caratteristiche del diritto di credito incorporato nel titolo individuate dall'art. 474 c.p.c., la liquidità, intesa come 728 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE determinatezza o determinabilità della prestazione da attuare coattivamente, è stata oggetto di decisioni relative ad alcune fattispecie peculiari ma di rilevante portata operativa. In tema di provvidenze previdenziali, Sez. L, n. 14374/2016, Berrino, Rv. 640565, ha negato valenza di titolo esecutivo alla sentenza con la quale il giudice dichiari il diritto del ricorrente ad ottenere la pensione d'invalidità e condanni l'ente previdenziale al pagamento dei relativi ratei e delle differenze dovute a titolo di integrazione al minimo del trattamento pensionistico, senza precisare in termini monetari l'ammontare di tali differenze, in quanto la misura della prestazione spettante all'interessato non è in tal caso suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza o mediante il mero richiamo ai criteri di legge. Con riguardo al giudizio di separazione personale dei coniugi, Sez. 6-1, n. 04182/2016, Bisogni, Rv. 638878, ha ascritto natura di titolo esecutivo al provvedimento di condanna del genitore non affidatario al pagamento - anche pro quota - delle spese mediche e scolastiche relative ai figli, purché il genitore creditore possa allegare e documentare l'effettiva sopravvenienza degli esborsi e la relativa entità, e salvo il diritto del coniuge obbligato di contestare l'esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità di individuazione dei bisogni del minore. 2. Intervento dei creditori nella espropriazione forzata. Sulle modalità con cui i creditori possono spiegare intervento nell'espropriazione forzata, Sez. L, n. 03966/2016, De Marinis, Rv. 638847, ha chiarito che l'intervento, benché possa essere effettuato nel corso dell'udienza per l'assegnazione delle somme pignorate, richiede comunque l'indicazione degli elementi elencati nell'art. 499, comma 2, c.p.c., ovvero il nominativo del creditore, l'entità del credito, il relativo titolo, la domanda di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata e la dichiarazione di residenza (o l'elezione di domicilio), nel Comune in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione; l'esplicita menzione, nella citata norma, del paradigma formale dell'atto di intervento e dei requisiti contenutistici dello stesso impone pertanto, ad avviso di Sez. 3, n. 07780/2016, Barreca, Rv. 639498, il deposito di un ricorso e l'assistenza di un difensore munito di procura alle liti ed esclude, per incompatibilità, che possa produrre effetti omologhi una dichiarazione orale con cui un creditore manifesti l'intenzione di 729 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE intervenire nel processo esecutivo, pur se inserita nel processo verbale di un'udienza tenuta dal giudice dell'esecuzione. L'onere della forma scritta per l'intervento, secondo la pronuncia testé citata, non è invece necessario per il cessionario del credito che subentri in un processo esecutivo nel quale il cedente abbia già assunto la qualità di pignorante o di creditore intervenuto, dacché, in tale evenienza, non si determina alcun ampliamento dell'oggetto dell'esecuzione: in caso di cessione del credito in pendenza di processo esecutivo, il cessionario che eserciti la facoltà di intervenire non è tenuto al deposito di un nuovo ricorso, essendo sufficiente che egli manifesti la sua volontà di subentrare in luogo del cedente, dando prova del negozio di cessione ed avvalendosi dell'assistenza di un difensore, con modalità idonee a non ledere i diritti del debitore o degli altri creditori. Rilievo centrale nel panorama giurisprudenziale dell'anno in rassegna riveste Sez. 3, n. 00774/2016, De Stefano, Rv. 638650, avente ad oggetto la tematica, inedita nelle decisioni della S.C., dell'intervento tardivo di creditore non munito di titolo esecutivo ma avente diritto di prelazione sui beni staggiti. All'esito di una accurata analisi dei principi regolanti le modalità, anche temporali, del concorso dei creditori non assistiti da titolo nell'espropriazione forzata, in una vicenda originata da un pignoramento presso terzi di fondi comuni di investimento, la citata decisione ha escluso l'inammissibilità dell'intervento del creditore privilegiato non titolato, effettuato oltre il termine fissato dall'art. 499, comma 2, c.p.c. (e quindi dopo che sia stata tenuta l'udienza di autorizzazione alla vendita), attesa la prevalenza della disciplina prevista, per l'espropriazione presso terzi, dall'art. 551 c.p.c. (ovvero, per le espropriazioni mobiliari presso il debitore e per le espropriazioni immobiliari, degli artt. 528 e 566 c.p.c.); la tardività di un intervento siffatto, piuttosto, precludendo l'attivazione del subprocedimento di verifica del credito previsto dall'art. 499 c.p.c., comporta che il credito dell'interventore è da considerarsi ipso iure disconosciuto, sicché detto creditore, per assicurarsi almeno il diritto all'accantonamento in sede di distribuzione, è tenuto a presentare specifica istanza e a dimostrare di aver agito, entro i trenta giorni dalla data dell'intervento tardivo, per conseguire il titolo esecutivo mancante nei confronti dell'esecutato. 3. Espropriazione presso terzi. Nell'ambito della produzione giurisprudenziale sull'espropriazione presso terzi, spiccano, per valenza sistematica ed incidenza pratico-operativa, le 730 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE pronunce con le quali la S.C. ha avuto modo di ricostruire l'efficacia e il regime dell'ordinanza di assegnazione dei crediti. Ribadita la natura di atto conclusivo del procedimento espropriativo presso terzi, determinante il trasferimento (sub specie di cessione coattiva) del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore procedente, Sez. 6-1, n. 11660/2016, Genovese, Rv. 640208, ha chiarito che l'ordinanza di assegnazione, operando per legge "salvo esazione", non determina l'immediata estinzione del credito dell'assegnatario, rimessa invece alla effettiva riscossione del credito assegnato, la quale, tuttavia, non costituisce una ulteriore appendice della procedura. Da analoghi presupposti, Sez. 6-1, n. 01227/2016, Bisogni, Rv. 638560, in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, ha ritenuto l'inefficacia ex art. 44 l.fall., del pagamento eseguito dal terzo pignorato dopo la dichiarazione di fallimento seppur in ottemperanza ad un'ordinanza di assegnazione anteriormente emessa, risultando violato il principio della par condicio creditorum da qualsiasi atto estintivo di un debito riferibile, anche indirettamente, al debitore fallito ed effettuato con suo denaro o per suo incarico o in suo luogo; in tale ipotesi, ha precisato poi Sez. 1, n. 14779/2016, Cristiano, Rv. 640744, l'azione del curatore tesa a far valere detta inefficacia va esperita nei soli confronti dell'accipiens, ossia di colui che ha effettivamente beneficiato dell'atto solutorio. Pacificamente affermata l'idoneità in executivis dell'ordinanza di assegnazione nei (soli) confronti del terzo pignorato per la coattiva riscossione del credito assegnato, Sez. 3, n. 09390/2016, Barreca, Rv. 639898, con indicazione di notevole rilevanza pratica, ha ascritto tuttavia efficacia di titolo esecutivo a tale ordinanza soltanto dal momento in cui essa sia portata a conoscenza del terzo, argomentando, dal punto di vista processuale, dal fatto che si tratta di un provvedimento formato (se pronunciato a seguito di dichiarazione positiva del terzo oppure di dichiarazione mancata o rifiutata) in un procedimento del quale il terzo non è parte e, dal punto di vista sostanziale, dalla necessità di rendere edotto il terzo della modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio derivante dalla cessione coattiva del credito implicata dall'assegnazione. Da ciò la impossibilità per il creditore assegnatario del credito, inapplicabile essendo il disposto dell'art. 479 c.p.c., di intimare il precetto contestualmente alla notifica dell'ordinanza di assegnazione in forma esecutiva al terzo, senza cioè che quest'ultima sia stata previamente portata a conoscenza del terzo stesso con la concessione di un termine adeguato (di almeno dieci giorni) per 731 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE adempiervi: un comportamento del genere da parte del creditore configura abuso dello strumento esecutivo nei confronti del terzo non ancora inadempiente, con derivante non ripetibilità delle spese sostenute per il precetto, che restano a carico del creditore. Rimedio impugnatorio avverso l'ordinanza di assegnazione è rappresentato dall'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. - da proporre entro il termine, perentorio e a pena di decadenza, decorrente dalla conoscenza della stessa - avente, quale possibile thema decidendum, la deduzione di vizi propri del provvedimento ed altresì, a parere di Sez. 3, n. 03712/2016, De Stefano, Rv. 638884, la contestazione del credito assegnato per fatti anteriori alla pronuncia dell'ordinanza fondata sull'erroneità della qualificazione come positiva della dichiarazione del terzo. Oltre che in conseguenza dell'esperimento dell'opposizione agli atti, la stabilità dell'ordinanza di assegnazione può essere minata dall'accertamento (successivo rispetto alla pronuncia della stessa) dell'inefficacia del titolo esecutivo al momento del pignoramento da cui è scaturita la procedura espropriativa: alla stregua di Sez. 3, n. 06535/2016, Frasca, Rv. 639322, la caducazione dell'assegnazione si verifica però solo se assegnatario sia il creditore procedente, in quanto, in tal caso, l'assegnatario non è terzo estraneo rispetto all'illegittimo svolgimento dell'azione esecutiva ma è responsabile della non azionabilità del titolo. Da ultimo, in tema di espropriazione presso terzi, degne di nota sono alcune decisioni in tema di giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo che, seppur riferite alla disciplina dell'istituto anteriore alle travagliate evoluzioni legislative degli ultimi anni (specificamente, alle novelle introdotte dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162, e dal decreto legge 27 giugno 2015, convertito nella legge 6 agosto 2015, n. 132), segnano una utile traccia da seguire anche nel mutato assetto normativo. Si fa riferimento, in specie, a Sez. 3, n. 21242/2016, Barreca, in corso di massimazione: l'accertamento dell'obbligo del terzo, pur svolgendosi (secondo le regole ratione temporis applicabili) come un ordinario giudizio di cognizione, non necessita, per la sua introduzione, di un atto di citazione da parte del creditore, essendo invece sufficiente che questi formuli un'istanza, anche oralmente, all'udienza celebrata innanzi al giudice dell'esecuzione per la dichiarazione del terzo (istanza validamente proposta nei confronti delle parti presenti e da portare a conoscenza alle parti assenti mediante notifica del processo verbale); domanda giudiziale, precisa 732 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE Sez. 3, n. 21799/2016, Rubino, in corso di massimazione, che non richiede il conferimento di una autonoma e distinta procura al difensore del creditore, per essere il relativo potere ricompreso nella procura rilasciata per l'esperimento del processo esecutivo. Ambedue detti principi appaiono pianamente applicabili (così orientando la soluzione di dubbi ermeneutici già affiorati) nel mutato contesto normativo, nel quale l'accertamento dell'obbligo del terzo è delineato come un sub-procedimento incidentale al procedimento esecutivo, devoluto sempre alla delibazione del giudice dell'esecuzione e da svolgersi secondo le forme semplificate dei procedimenti camerali. 4. Espropriazione immobiliare. Il pignoramento avente ad oggetto un diritto reale su un bene immobile si definisce come una fattispecie complessa a formazione progressiva che contempla, quali elementi strutturali, le attività, differenti per funzioni ma tra di loro complementari, della notificazione dell'atto al debitore esecutato e della sua trascrizione nei registri immobiliari, quest'ultima condizione di efficacia nei confronti dei terzi (preordinata alla opponibilità ad essi della vendita o dell'assegnazione) ma anche presupposto imprescindibile per la messa in vendita del bene. All'efficacia della trascrizione del pignoramento, l'art. 2668- ter c.c. fissa un termine di durata ventennale a partire dalla data della stessa, salva rinnovazione intervenuta in tale lasso temporale. Delle conseguenze del mancato rinnovo della trascrizione del pignoramento nel termine ventennale (questione assai dibattuta ma inedita nella giurisprudenza di nomofilachia) si è occupata, con diffusa motivazione, Sez. 3, n. 04751/2016, Frasca, Rv. 639344. Affermata la centralità della trascrizione del pignoramento, quale modalità coessenziale a realizzare lo scopo funzionale della espropriazione immobiliare (porre il ceto creditorio al riparo da atti di disposizioni compiuti dal debitore, garantire un acquisto da parte dell'aggiudicatario conforme alle leggi di circolazione dei diritti reali immobiliari), la S.C. ha ritenuto il mancato compimento della doverosa rinnovazione della trascrizione alla stregua di attività non soltanto condizionante l'ulteriore corso della procedura (cioè a dire cagionante la improseguibilità dell'esecuzione) ma altresì determinante la caducazione, con effetto ex tunc, dell'originario pignoramento e delle attività processuali in forza di esso espletate, reputando priva di basi giustificative e praeter legem una rinnovazione della trascrizione eseguita, su autorizzazione del giudice o di iniziativa del soggetto interessato, oltre la scadenza del termine 733 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE ventennale, che ancori la ripresa del processo esecutivo all'originario pignoramento, ma con un vincolo divenuto sensibile agli atti di disposizione medio tempore posti in essere dal debitore. Per una completa ricostruzione dell'istituto e con finalità nomofilattiche, la pronuncia ha inoltre specificato che: la legittimazione alla rinnovazione della trascrizione del pignoramento, in quanto attività necessaria per preservare la conservazione del processo esecutivo, compete al creditore procedente, ai creditori intervenuti titolati nonché (nel lasso di tempo corrente tra aggiudicazione e trascrizione del decreto di trasferimento) all'aggiudicatario; l'omessa rinnovazione della trascrizione, quale ragione impediente l'ulteriore svolgimento dell'espropriazione, è suscettibile di rilievo ex officio, ma, in quanto non ricondotta dal legislatore tra le cause di estinzione cd. tipica, va dichiarata con provvedimento sottoposto (anche in caso di diniego) all'ordinario rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi. È evenienza normale nelle espropriazioni immobiliari la sostituzione nelle funzioni di custodia del bene del debitore (che dette mansioni assume ex lege dal momento della notifica dell'atto di pignoramento), con un ausiliario del G.E., il custode giudiziario, cui l'art. 560 c.p.c. affida il compito della gestione ed amministrazione dell'immobile, senza tuttavia curarsi di disciplinare l'onere della provvista degli esborsi per tali attività. Sulla controversa questione, di assai rilevante impatto pratico negli uffici giudiziari, è intervenuta, per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 3, n. 12877/2016, Ambrosio, Rv. 640292, la quale, in una lettura dell'art. 8 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, riferita ai procedimenti di espropriazione forzata, ha compreso nella nozione di spese per "gli atti necessari al processo" gravanti, con onere di anticipazione, sul creditore istante per l'esecuzione (e poi rimborsabili a titolo di spese privilegiate ex art. 2770 c.c. in sede di distribuzione), oltre agli esborsi per atti giudiziari veri e propri, pure le spese per il compimento di attività materiali, anch'esse immanenti alla realizzazione dello scopo proprio dell'espropriazione forzata, dacché finalizzate ad evitarne la chiusura anticipata; la pronuncia si è poi peritata di specificare che le spese necessarie alla conservazione dell'immobile staggito sono quelle indissolubilmente finalizzate al mantenimento del bene in fisica e giuridica esistenza (come quelle attinenti alla sua struttura o intese ad evitarne il crollo o il perimento), restando invece esclusi da tale accezione gli esborsi per interventi che non abbiano un'immediata funzione conservativa dell'integrità del cespite, quali le spese dirette 734 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE alla manutenzione ordinaria o straordinaria ovvero gli oneri di gestione condominiale. 4.1. La vendita forzata. Momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero dalla trasformazione del bene staggito in denaro liquido da distribuire poi tra i creditori. Sulle modalità di svolgimento delle relative operazioni, e, segnatamente, sulla legittimazione a partecipare agli esperimenti di vendita si segnala, anche per la rarità di precedenti sul tema, Sez. 3, n. 08951/2016, Ambrosio, Rv. 639721, la quale, nell'interpretare il disposto dell'art. 571 c.p.c., ha ritenuto abilitato a presentare offerte di acquisto nella vendita senza incanto il "procuratore legale" dell'offerente, locuzione da intendersi orami sostituita con quella di "avvocato" (e non invece riferibile al procuratore non falsus), escludendo invece irragionevoli disparità di trattamento con la differente disciplina della vendita con incanto, nella quale l'offerta può essere compiuta anche a mezzo di mandatario, munito di procura speciale, oppure, nel solo caso di offerte per persona da nominare, a mezzo di "procuratore legale". Circa la efficacia e la disciplina della vendita forzata, sulla scia della esaustiva ricostruzione operata in precedenti arresti, Sez. 6-1, n. 14165/2016, Scaldaferri, Rv. 640489, premessa la peculiare caratteristica della vendita in sede di espropriazione forzata quale atto che, ad un tempo, realizza l'interesse pubblico (partecipando alla natura pubblicistica del procedimento) e l'interesse privato (dei creditori concorrenti e dell'aggiudicatario), ha considerato giustificata e frutto di una legittima scelta del legislatore (come tale non in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione) l'esclusione per detta vendita della garanzia per i vizi della cosa, relativa, a mente dell'art. 2922 c.c., alle fattispecie prefigurate dagli artt. da 1490 a 1497 c.c. (vizi e mancanza di qualità della cosa), ma non all'ipotesi di consegna di aliud pro alio, configurabile quando il bene aggiudicato appartenga ad un genere affatto diverso da quello indicato nell'ordinanza di vendita, ovvero manchi delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico- sociale, oppure quando sia del tutto compromessa la destinazione all'uso, presa in considerazione nell'ordinanza di vendita, che abbia costituito elemento determinante per l'offerta di acquisto. In applicazione di una nozione così circoscritta di aliud pro alio (inevitabile portato della differenza strutturale tra vendita forza e vendita negoziale), Sez. 3, n. 01669/2016, Ambrosio, Rv. 638696, 735 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE ha denegato tutela all'aggiudicatario invocante la nullità del decreto di trasferimento in relazione alla vendita forzata di una unità abitativa la cui inagibilità, dichiarata dal Comune per la presenza di elementi inquinanti, era emersa solo a seguito di una integrazione della perizia di stima depositata dopo il versamento del saldo prezzo, era solo temporanea per la piena recuperabilità della salubrità dell'immobile. In caso di aggiudicazione definitiva del diritto staggito, l'effetto traslativo sostanziale si produce con l'emissione del decreto di trasferimento, atto conclusivo del sub-procedimento di vendita forzata (sul quale, pertanto, si riverberano eventuali nullità degli atti anteriori, opponibili all'aggiudicatario nei limiti fissati dall'art. 2929 c.c.) e, ad un tempo, titolo esecutivo per il rilascio dell'immobile. Da ciò, in base alla distinzione acutamente operata da Sez. 3, n. 12523/2016, Ambrosio, Rv. 640274, una duplicità di rimedi esperibili avverso siffatto decreto: nell'ambito della espropriazione immobiliare, l'opposizione agli atti esecutivi per censure riguardanti il modo con cui si sia svolto l'espropriazione stessa, e cioè eventuali vizi della fase liquidativa (o degli atti prodromici) tali da far venir meno l'idoneità del decreto a determinare il trasferimento all'aggiudicatario; nell'ambito della diversa esecuzione per rilascio minacciata o intrapresa in virtù di esso, le opposizioni (ex artt. 615 o 617 c.p.c.) per far valere irregolarità formali proprie del decreto come titolo esecutivo (ad esempio, il difetto di spedizione con formula) oppure per contestarne la qualità di titolo esecutivo o la sua giuridica inesistenza oppure ancora per negare l'identità del bene immobile di cui si chiede il coattivo rilascio con quello oggetto di trasferimento con il decreto. 5. Opposizioni esecutive. Ponendosi in linea di sostanziale continuità con indirizzi esegetici espressi negli anni precedenti, la giurisprudenza di legittimità in rassegna ha compiutamente ricostruito aspetti regolanti - in maniera comune - lo svolgimento delle varie tipologie di opposizioni, tanto quelle proposte prima quanto quelle successive all'inizio dell'esecuzione. Nell'illustrato contesto si staglia, quale assolutamente centrale, il decisum di Sez. 3, n. 16281/2016, Frasca, in corso di massimazione, riguardante il modo di operare della condizione generale dell'azione dell'interesse ad agire ex art.100 c.p.c. in relazione alle opposizioni esecutive. Secondo la ora citata pronuncia, nelle opposizioni esecutive l'interesse ad agire è legislativamente tipizzato con riferimento 736 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE all'atto con cui viene formulata la minaccia di espropriazione forzata, ovvero la intimazione del precetto, per cui, come altresì si evince dal disposto dell'art. 480 c.p.c. circa il radicamento territoriale della lite oppositiva, prima della notificazione del precetto non può ravvisarsi legittimo timore di essere assoggettato ad esecuzione giustificante l'esperibilità del rimedio oppositivo. Avverso la mera notificazione di una sentenza indebitamente munita di formula esecutiva poiché non recante statuizioni suscettibili di essere coattivamente azionate non sono dunque proponibili le opposizioni esecutive, tanto per motivi concernenti l'an debeatur (inquadrabili come all'esecuzione ex art. 615 c.p.c.) quanto per censure afferenti il quomodo exequatur (classificabili come agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), fatta salva tuttavia la esperibilità, prima della notifica del precetto, di una ordinaria azione di cognizione in accertamento negativo quando alla notifica del solo titolo esecutivo si accompagni, con manifestazione di intenti coeva o precedente, un vanto esplicito della pretesa esecutiva. Nelle controversie oppositive non di rado sorgono questioni di competenza; sul punto, vanno segnalate: - nella peculiare fattispecie di opposizione all'esecuzione riservata alla competenza dei tribunali dell'impresa (istituiti ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito nella legge 24 marzo 2012, n. 27), qualora si tratti di opposizione spiegata avverso un precetto contenente solo l'ordine di pagare una somma di denaro determinata, la competenza spetta al giudice dell'esecuzione come individuato sulla base dei criteri di cui agli artt. 17, 27 e 615 c.p.c. (e, quindi, ratione materiae al Tribunale - sezione specializzata in materia di impresa), non venendo in considerazione la particolare competenza, prevista dall'art. 124, comma 7, del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, del giudice emittente la sentenza, la quale opera in relazione all'esecuzione delle speciali misure contenute nei commi 1, 3, 4 e 5 del medesimo articolo (Sez. 6-3, n. 06945/2016, Cirillo F.M., Rv. 639333); - con carattere più generale, in tema di foro dell'opposizione a precetto ex art. 480, comma 3, c.p.c., la competenza per territorio va individuata in base al possibile luogo dell'esecuzione, compreso quello della notifica del precetto, nessuna valenza rivestendo, a tal fine, l'elezione di domicilio del creditore contenuta nel precetto, vincolante invece quale (unico) luogo di notifica dell'atto introduttivo del giudizio di opposizione (Sez. 3, n. 16649/2016, Rossetti, Rv. 641487); 737 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE - sulle opposizioni agli atti esecutivi proposte prima dell'inizio dell'esecuzione, la competenza per materia, giusta il richiamo nell'art.480, comma 3, c.p.c., si radica presso il giudice della (minacciata) esecuzione, e dunque, a seguito della soppressione dell'ufficio del Pretore, presso il Tribunale (Sez. 6-3, n. 19051/2016, Frasca, in corso di massimazione, con l'aggiunta che analoga competenza per materia sussiste anche per le opposizioni agli atti esecutivi spiegate dopo l'inizio dell'esecuzione); - quanto alle opposizioni esecutive in senso stretto (ovvero ad esecuzione già iniziata), l'art. 618-bis, comma 2, c.p.c., laddove prevede che la competenza del giudice dell'esecuzione resta ferma «nei limiti dei provvedimenti assunti con ordinanza», si riferisce ai soli provvedimenti ordinatori e interinali (quali la sospensione dell'esecuzione), sicché, per la fase di merito, in forza della regola dettata dal comma 1 del medesimo articolo, trovano applicazione le norme sulle controversie di lavoro e previdenziali, ivi comprese quelle sulla competenza territoriale: in virtù di questo principio, Sez. 6-L, n. 16222/2016, Marotta, Rv. 640863, ha dichiarato la competenza territoriale del Tribunale, giudice del lavoro, del luogo nella cui circoscrizione risiedeva il creditore esecutante, ex art. 444, comma 1, c.p.c., a fronte di un credito discendente da sentenza della Corte di Appello di altro distretto. In linea di logica coerenza con la più volte declinata struttura delle controversie oppositive esecutive in senso stretto quali giudizi unitari a bifasicità eventuale, Sez. 6-3, n. 12170/2016, Frasca, Rv. 640317, ha confermato che l'ordinanza conclusiva della prima fase, a cognizione sommaria, pur dovendo contenere necessariamente la statuizione sulle spese, in sé riesaminabile nel giudizio di merito, è priva del carattere di definitività (e, come tale, non passibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., anche se ometta di fissare il termine per l'iscrizione a ruolo della causa di merito: così Sez. 6-3, n. 25902/2016, Barreca, in corso di massimazione), mentre la mancata indicazione del termine entro cui introdurre la successiva eventuale fase di merito può essere sanata richiedendo l'integrazione del provvedimento ai sensi dell'art. 289 c.p.c., ovvero introducendo autonomamente il giudizio a cognizione piena, attività in mancanza delle quali il giudizio si estingue ex art. 307 c.p.c. con conseguente impossibilità di rimettere in discussione la decisione sulle spese. Il modus ingrediendi della fase sommaria dell'opposizione è costituito da un ricorso diretto al giudice dell'esecuzione, funzionalmente competente; l'adozione di una differente forma dell'atto introduttivo, tuttavia, ancorché erronea, può non integrare 738 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE vizio inficiante il processo e rivelarsi invece idonea allo scopo, allorquando il diverso atto in concreto utilizzato costituisca valido succedaneo: così, in una fattispecie di opposizione agli atti esecutivi successiva proposta con citazione anziché con ricorso, Sez. 3, n. 02490/2016, Barreca, Rv. 639070, ha reputato rispettato il termine perentorio ex art. 617, comma 2, c.p.c. se l'atto di opposizione sia depositato (in sede di iscrizione a ruolo della lite) entro venti giorni dalla conoscenza dell'atto impugnato. L'instaurazione del contraddittorio nella fase sommaria deve avvenire nel termine perentorio stabilito dal giudice dell'esecuzione, da intendersi osservato pur quando il ricorso non sia notificato a tutti i legittimi resistenti, dovendo in tal caso essere disposta l'integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. (in tal senso Sez. 3, n. 03890/2016, Chiarini, Rv. 638894). Costituisce jus receptum la non applicabilità alle opposizioni esecutive dell'istituto della sospensione feriale dei termini, regola valevole, per Sez. 3, n. 14961/2016, De Stefano, Rv. 641272, anche per il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. per il recupero delle spese dell'esecuzione per obblighi di fare o di non fare, vertendosi in controversia tesa al ristoro delle anticipazioni cui il creditore è stato costretto dall'inadempimento del debitore, indefettibile complemento di una effettiva tutela e di un sollecito soddisfacimento delle ragioni creditorie. Sempre in tema di sospensione feriale, qualora, nell'ambito di un'opposizione a precetto si sia formato il giudicato sui motivi di opposizione e il processo sia proseguito esclusivamente in ordine alla domanda riconvenzionale, la controversia non è più qualificabile come opposizione all'esecuzione, sicché non si sottrae alla sospensione dei termini durante il periodo feriale (Sez. 3, n. 12888/2016, Graziosi, Rv. 640428). In ordine al regime della sentenza conclusiva dei giudizi di opposizione, è stata riconfermata la proponibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un'unica sentenza in ragione dei plurimi oggetti della stessa: per Sez. 3, n. 12730/2016, Ambrosio, Rv. 640277, quando le contestazioni della parte integrino, nello stesso procedimento, opposizione all'esecuzione e opposizione agli atti esecutivi, la sentenza, pur formalmente unica, contiene due decisioni distinte, soggette rispettivamente ad appello ed a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.. Sotto il profilo dell'oggetto, la delimitazione del discrimen tra opposizione all'esecuzione ed opposizione agli atti, ha da sempre interessato il giudice della nomofilachia, chiamato a pronunciarsi, in 739 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE una sterminata casistica applicativa, sulla - non di rado affatto agevole - sussunzione delle contestazioni sollevate come ragioni concernenti l'an ovvero il quomodo exequatur. In questo filone si inserisce Sez. 3, n. 12406/2016, Barreca, Rv. 640453: la deduzione del diritto di ritenzione ex art. 1152 c.c. (in favore del possessore di buona fede a garanzia del credito per i miglioramenti apportati all'immobile) prospetta un ostacolo al diritto di procedere esecutivamente al rilascio dell'immobile ritenuto e configura, pertanto, una opposizione all'esecuzione. Secondo Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640525, la contestazione della possibilità per il creditore di iniziare o proseguire l'esecuzione forzata individuale in costanza del fallimento del debitore, ai sensi dell'art. 51 l. fall., attiene al diritto di procedere all'esecuzione forzata (individuale) e non semplicemente alla regolarità di uno o più atti della procedura ovvero alle modalità di esercizio dell'azione esecutiva, sicché va qualificata come opposizione all'esecuzione e non è assoggettata al regime, anche di decadenza, di cui all'art. 617 c.p.c.. Con riferimento alle opposizioni agli atti esecutivi, Sez. 6-3, n. 25900/2016, Barreca, in corso di massimazione, ha ribadito che la deduzione dei vizi procedimentali (tipico thema decidendum di tali giudizi) va scrutinata sulla scorta dei principi generali in tema di nullità degli atti processuali dettati dal libro primo del codice di rito ed ha pertanto ritenuto che la nullità della notificazione del titolo esecutivo e del precetto deve reputarsi sanata per raggiungimento dello scopo per effetto della proposizione da parte del debitore dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il pignoramento. Esulano infine dal possibile thema decidendum dei giudizi oppositivi questioni afferenti la ricorrenza o meno della cause di estinzione della procedura esecutiva: come chiarito dalla stessa Sez. 3, n. 14449/2016, Tatangelo, Rv. 640527, tutti i provvedimenti del giudice dell'esecuzione in tema di estinzione cd. tipica (ivi inclusa la fattispecie prevista dall'art. 567 c.p.c.) sono impugnabili esclusivamente con il reclamo nelle forme previste dall'art. 630, commi 2 e 3, c.p.c., proponibile contro il provvedimento che dichiari o neghi l'estinzione o anche ometta di pronunciarsi sull'istanza in tal senso proposta dalla parte; resta così esclusa la esperibilità di una opposizione all'esecuzione per farne valere l'improseguibilità dopo la verificazione della causa di estinzione ovvero un'opposizione avverso gli atti esecutivi adottati successivamente alla verificazione della causa di estinzione non dichiarata. 740 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE 741 CAPITOLO XL I PROCEDIMENTI SPECIALI (di Francesco Federici) CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il procedimento per ingiunzione. – 3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. – 4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. – 5. Il procedimento sommario di cognizione. – 6. I procedimenti camerali. – 7. Gli altri procedimenti speciali. 1. Premessa. Nel 2016 si registra un numero d'interventi della giurisprudenza di legittimità inferiore rispetto a quello dell'anno precedente in materia di procedimenti speciali. Tuttavia, soprattutto in tema di procedimento monitorio, si affermano alcuni interessanti principi. 2. Il procedimento per ingiunzione. I provvedimenti intervenuti in materia di procedimento d'ingiuzione toccano tanto gli aspetti della opposizione quanto l'efficacia del decreto concesso nella fase sommaria. In tema di opposizione, Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641159, Rv. 641158, afferma che la sua tempestività, quando è proposta da uno dei soci di società di persone avverso un decreto ingiuntivo emesso a carico sia dei singoli soci, sia della medesima società, deve essere determinata esclusivamente assumendo come dies a quo la data di notifica del provvedimento monitorio al socio opponente, a nulla rilevando, ai fini del computo del termine perentorio previsto dall'art. 641 c.p.c., la solidarietà passiva con la società e con gli altri soci. Per converso, la medesima pronuncia chiarisce che il decreto ingiuntivo richiesto e concesso nei confronti della società e dei singoli soci illimitatamente responsabili acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all'eventuale accoglimento dell'opposizione avanzata dalla società o dall'altro socio. D'altronde, come afferma Sez. 1, n. 15417/2016, Genovese, Rv. 640948, l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta da uno dei condebitori solidali non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intimati, condebitori in solido, rispetto ai quali il decreto ingiuntivo da essi impugnato acquista efficacia di giudicato senza che possano più giovarsi della disposizione di cui all'art. 1306 c.c. 742 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Alcune pronunce si sono occupate della opposizione tardiva al decreto ingiuntivo. In particolare Sez. 6-3, n. 06518/2016, De Stefano, Rv. 639534, afferma che, ai fini della legittimità dell'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, prevista dall'art. 650 c.p.c., non è sufficiente l'accertamento della irregolarità della notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre la prova, che incombe sull'opponente, che a causa di quelle irregolarità egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e conseguentemente non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione. Nel caso specifico la pronuncia ha sostenuto che la mera circostanza della nullità della notifica del decreto ingiuntivo a militare di leva, in violazione dell'art. 146 c.p.c., non è sufficiente a fondare l'ammissibilità dell'opposizione tardiva, se non si alleghino e non si provino circostanze specifiche che, in relazione alle concrete modalità di espletamento del servizio, abbiano reso impossibile al militare mantenere contatti con il suo luogo di residenza abituale e con i suoi congiunti ivi rimasti, come la madre -che pur aveva irritualmente ricevuto la notifica del provvedimento- e dunque di prendere cognizione dell'atto per reagire tempestivamente. In ordine poi alla portata della opposizione tardiva, Sez. 1, n. 14910/2016, Cultrera, Rv. 626881, sostiene che il rimedio della opposizione tardiva prevista dall'art. 650 c.p.c. comprende, nella ipotesi della irregolarità della notificazione, tutti i vizi che la inficiano e quindi anche la notificazione del decreto ingiuntivo oltre i termini di legge, che, ai sensi dell'art. 644 c.p.c., comporta l'inefficacia del provvedimento, senza tuttavia escludere la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale; su di essa pertanto si costituisce il rapporto processuale, sebbene per iniziativa di parte convenuta, che eccepisce l'inefficacia e si difende al contempo del merito. È in conseguenza compito del giudice adito provvedere in sede contenziosa ordinaria sia sulla eccezione sia sulla fondatezza della pretesa azionata nel procedimento monitorio. Vi sono altri provvedimenti che hanno diretto l'attenzione al contenuto della decisione del giudice adito in sede di opposizione. In particolare Sez. 3, n. 03908/2016, Ambrosio, Rv. 638893, in merito alla notificazione del provvedimento monitorio oltre il termine di legge, afferma che l'opposizione proposta al fine di eccepirne l'inefficacia non esime il giudice dal decidere non solo sulla proposta eccezione, ma anche sulla fondatezza della pretesa creditoria già azionata con il ricorso per decreto ingiuntivo. 743 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Sez. 2, n. 230/2016, Falaschi, 638536, in una ipotesi in cui si contestava l'esistenza del mandato difensivo dato all'avvocato, afferma che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali, ogni contestazione, anche generica, in ordine all'espletamento e alla consistenza dell'attività, è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di verificare anche il quantum debeatur, senza incorrere nella violazione dell'art. 112 c.p.c. Sul contenuto della sentenza declinatoria della competenza territoriale, Sez. 1, n. 01372/2016, Nazzicone, Rv. 638491, chiarisce che la sentenza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiara l'incompetenza territoriale, non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull'opposizione ma contiene necessariamente, ancorchè implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicchè quello che trasmigra innanzi al giudice ad quem deve considerarsi non più propriamente una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, ormai inesistente, bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. Tale pronuncia, prosegue la sentenza, deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c., anche se emessa in grado di appello. In ordine a taluni specifici aspetti processuali del giudizio monitorio nella fase a cognizione piena Sez. L, n. 04212/2016, Berrino, Rv. 639776, chiarisce che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo soggetto al rito del lavoro, tenuto conto della posizione sostanziale di attore dell'opposto, la memoria difensiva deve contenere gli elementi previsti dall'art. 414 c.p.c., sicchè la mancata indicazione specifica dei fatti e degli elementi di diritto, nonché dei mezzi di prova resi necessari dall'opposizione, può condurre al rigetto di questa con conseguente revoca del decreto. In tema di tempestività dell'impugnazione, deve poi evidenziarsi Sez. 6-3, n. 04987/2016, Rossetti, Rv. 639349, secondo cui, nel caso di appello proposto avverso una sentenza resa all'esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ai fini della operatività del termine semestrale di decadenza dal gravame, previsto dall'art. 327 c.p.c., così come modificato dall'art. 58 della l. 18 giugno 2009, n. 69, e applicabile ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore, la "pendenza del giudizio" va individuata con riferimento non alla notificazione dell'atto di opposizione, bensì al deposito del ricorso monitorio. 744 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Merita infine un cenno Sez. 6-3, n. 12248/2016, Cirillo F.M., Rv. 640268, che afferma come in tema di liquidazione di onorari di avvocato, ove il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo si sia svolto nelle forme ordinarie e sia stata contestata l'esistenza del diritto al compenso, la decisione è impugnabile con appello e non mediante ricoso per cassazione, non trovando applicazione in detta ipotesi l'art. 14 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. 3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. Non sono numerose le pronunce in materia, relative ad aspetti processuali, che abbiano introdotto novità rispetto ai precedenti indirizzi. Con riferimento alla opposizione tardiva, Sez. 3, n. 00122/2016, Frasca, Rv. 638548, afferma che quando sia stata pronunciata l'ordinanza di convalida in assenza dell'intimato, senza che vi sia prova dell'avvenuta ricezione da parte di quest'ultimo dell'avviso di ricevimento della raccomandata ex art. 140 c.p.c., ciò non costituisce di per sé ipotesi di ammissibilità dell'opposizione tardiva ai sensi dell'art. 668 c.p.c., occorrendo a tal fine dimostrare che il procedimento notificatorio si sia svolto in modo nullo o che si sia perfezionato con il ricevimento dell'avviso di cui all'art. 140 c.p.c., ovvero con il decorso dei dieci giorni dalla spedizione, in un momento tale da non consentire il rispetto del termine libero di cui al quarto comma dell'art. 668 c.p.c. In tema di causa petendi e di prospettazione del suo mutamento in sede di gravame, Sez. 3, n. 19528/2016, Vincenti, Rv. 636987, sostiene che non costituisce mutatio libelli, vietata ai sensi dell'art. 345 c.p.c., la precisazione che la domanda di risarcimento danni per l'illegittima occupazione di un immobile locato, originariamente proposta sul presupposto della intervenuta scadenza contrattuale, debba intendersi riferita anche alla data di introduzione di un separato giudizio di sfratto per morosità, qualora i fatti integranti tale ulteriore causa petendi risultino comunque dedotti in primo grado ed il petitum risarcitorio sia solo specificato in relazione a fatti già allegati, poiché ciò non determina una novità della domanda. Infine, sulla regolamentazione delle spese nel procedimento di convalida, Sez. 2, n. 19425/2016, Vincenti, (in corso di massimazione), ha affermato che nel caso di declaratoria di estinzione del procedimento di convalida, per mancata comparizione del locatore intimante all'udienza fissata nell'atto di citazione, e in assenza di istanza del conduttore intimato, comparso 745 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI a detta udienza, che si proceda, previo mutamento del rito, all'accertamento negativo del diritto azionato, non può il locatore intimante essere condannato al pagamento delle spese di procedimento, dovendo invece queste essere poste a carico delle parti che le hanno anticipate, in applicazione analogica dell'art. 310 c.p.c. 4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. Alcune pronunce, in verità non molte, sono intervenute in materia cautelare e possessoria, affermando interessanti principi. 4.1. In tema di accertamento tecnico preventivo, si sofferma sugli elementi necessari per l'introduzione dello strumento cautelare probatorio Sez. 2, n. 18521/2016, Correnti, Rv. 18521/2016, affermando che in tema di istruzione tecnica preventiva non è necessaria la prospettazione della domanda di merito nei confronti del destinatario, perché la strumentalità del procedimento cautelare è riferibile alla sola ammissibilità e rilevanza del mezzo di prova nell'eventuale successivo giudizio di merito. Ne consegue che la domanda di merito va rappresentata nel suo contenuto essenziale, per consentire una valutazione di funzionalità alla stessa del mezzo istruttorio preventivamente richiesto. Il principio è stato affermato con riguardo ad una fattispecie nella quale il convenuto eccepiva la mancata costituzione del contraddittorio nei suoi confronti, assumendo che il ricorso di istruzione preventiva gli era stato notificato a solo titolo di conoscenza e senza specifiche censure al suo operato. Quanto alle modalità di utilizzo dell'accertamento tecnico nel giudizio a cognizione piena, Sez. 2, n. 06591/2016, Lombardo, Rv. 639479, sostiene che l'acquisizione della relazione disposta nel relativo procedimento, tra le fonti utilizzate per l'accertamento dei fatti di causa, non deve necessariamente avvenire a mezzo di un provvedimento formale, essendo sufficiente anche la sua materiale acquisizione e che il giudice di merito l'abbia poi esaminata, traendone elemento per il proprio convincimento, assicurando in ogni caso che la parte che lamenti la irritualità della acquisizione e l'impossibilità di esame delle risultanze dell'indagine sia stata posta in grado di contraddire su di esse. Il principio è stato affermato in una fattispecie in cui la relazione tecnica conseguente l'istruzione preventiva era stata prodotta dall'attore nel giudizio di merito in primo grado senza che il convenuto avesse formulato alcuna eccezione in ordine alla sua acquisizione. 746 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI 4.2. In tema di azioni nunciatorie, deve segnalarsi Sez. 2, n. 05336/2016, Scalisi, Rv. 639407, che, con riferimento alla individuazione del soggetto passivamente legittimato, afferma che nell'azione di danno temuto è legittimato passivo non solo il titolare del diritto reale, ma anche il possessore e colui che in ogni caso abbia la disponibilità del bene, da cui si assume che derivi la situazione di pericolo di danno grave, in quanto l'obbligo di custodia e manutenzione sussiste in ragione dell'effettivo potere fisico sulla cosa. 4.3. In materia possessoria deve segnalarsi Sez. 2, n. 19720/2016, Abete, Rv. 641096, la quale, a proposito dell'efficacia dei provvedimenti possessori, afferma che essi, pur restando efficaci indipendentemente dell'instaurazione del giudizio di merito in applicazione dell'art. 669 octies c.p.c., sono inidonei ad acquisire efficacia di giudicato, non avendo carattere decisorio, come le misure cautelari per le quali opera detta disposizione, e stante l'omesso richiamo, compiuto invece per altre ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria, agli effetti di cui all'art. 2909 c.c. Interessante è poi il principio affermato da Sez. 2, n. 00107/2016, Abete, Rv. 638450, in tema di efficacia probatoria delle dichiarazioni raccolte durante il procedimento interditttale. La pronuncia infatti chiarisce che le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale ove assunte nel contraddittorio delle parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, mentre quelle raccolte ai fini dell'eventuale adozione del decreto inaudita altera parte, ex art. 669 sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo utilizzabili anche ai fini della decisione, quali indizi da valutare liberamente. 4.4. Sul procedimento di sequestro si segnala una sola pronuncia, relativa alla incidenza sul giudizio di merito del difetto dello ius postulandi in sede cautelare. Sul punto infatti Sez. 2, n. 15463/2016, Lombardo, Rv. 640598, sostiene che la nullità del provvedimento reso sull'istanza di sequestro in difetto di ius postulandi non si estende alla sentenza che definisce il giudizio di merito, essendo quest'ultimo indipendente ai sensi dell'art. 159, comma 1, c.p.c. 4.5. Altrettanto numericamente esigui risultano i provvedimenti in tema di procedimento cautelare d'urgenza. 747 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Tra essi merita segnalazione Sez. L, n. 10840/2016, Spena, Rv. 639850, nella quale si afferma che il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e degli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell'art. 669 octies, comma 6, c.p.c., aggiunto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella l. 14 maggio 2005, n. 80 - che ha introdotto una struttura di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito mediante la previsione della instaurazione del giudizio a cognizione piena solo in via facoltativa -, ha assunto ad ogni effetto le caratteristiche di una autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via definitiva, pur senza attitudine al giudicato, sicchè la proposizione del ricorso è idonea ad impedire il maturare di termini di decadenza. 5. I procedimenti camerali. Anche la giurisprudenza che si è occupata delle questioni relative al rito camerale, nonché a quello sommario di cognizione non è particolarmente copiosa. In tema di contenzioso relativo alla candidabilità degli amministratori comunali, Sez. 1, n. 11579/2016, Nazzicone, Rv. 640175, afferma che al giudizio di cassazione avente ad oggetto l'incandidabilità degli amministratori comunali nell'ipotesi prevista dall'art. 143, comma 11, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, non si applicano i termini dimidiati previsti dall'art. 22, commi 1 e 11, del d.lgs. n. 150 del 2011, che rinvia al rito sommario di cognizione di cui all'art. 702 bis e segg. c.p.c., in ragione del richiamo contenuto nell'ultima parte del medesimo comma 11 dell'art. 143 al rito camerale contenzioso previsto dall'art. 737 e segg. c.p.c. 6. Gli altri procedimenti speciali. Nella giurisprudenza del 2016 vanno segnalate alcune pronunce intervenute in procedimenti speciali afferenti varie discipline. 6.1. In materia successoria può menzionarsi Sez. 2, n. 14756/2016, Criscuolo, Rv. 640573, la quale afferma che in tema di scioglimento della comunione, l'istanza di attribuzione ex art. 720 c.c., pur tendenzialmente soggetta alle preclusioni processuali, può essere avanzata per la prima volta nel corso del giudizio, e anche in grado di appello, ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa denotino l'insorgere di una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l'extrema ratio voluta dal legislatore. 748 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Sez. 6-2, n. 13820/2016, Falaschi, Rv. 640211, afferma, con riguardo alla eredità beneficiata, che il decreto con cui il tribunale, accertata la difficoltà dei coeredi di completare la liquidazione, autorizzi la vendita concorsuale non è impugnable con ricorso straordinario per cassazione, in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, tale decreto chiude un procedimento non contenzioso, privo di vero e proprio contraddittorio, senza statuire su dette posizioni in via decisoria e definitiva. Con riguardo poi alla materia della famiglia, deve segnalarsi Sez. 1, n. 10365/2016, Scaldaferri, Rv. 639726, in tema di competenza del tribunale ordinario, secondo cui la vis attractiva del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219, anche in pendenza di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, ex art. 710 c.p.c., a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due procedimenti (ricorrente in quello minorile e interventore obbligatorio nell'altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della suddetta disposizione, ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti e incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi. Deve anche segnalarsi, in ordine al rapporto di efficacia tra provvedimenti giurisdizionali assunti in materia di famiglia e accordi raggiunti dai coniugi medesimi, Sez. 2, n. 00298/2016, Matera, Rv. 638452, secondo cui gli accordi modificativi delle disposizioni contenute nel decreto di omologazione della separazione ovvero nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nell'art. 1322 c.c., sono validi ed efficaci, anche a prescindere dal procedimento ex art. 710 c.p.c., qualora non superino i limiti di derogabilità posti dall'art. 160 c.c., e purchè non interferiscano con l'accordo omologato, limitandosi invece a specificarne il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti agli interessi ivi tutelati. In materia di adozione, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031, sostiene che l'omessa notifica nel termine assegnato dal giudice del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del relativo decreto di fissazione d'udienza non comporta, in assenza di una espressa previsione in tal senso, l'improcedibilità dell'impugnazione, dovendosi evitare 749 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI interpretazioni formalistiche delle norme processuali, che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., sempre che la parte appellata non si sia costituita, così sanando in ogni caso il vizio di notificazione con effetto ex tunc. Sez. 6-1, n. 11782/2016, Bisogni, Rv. 639921, chiarisce che ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, comma 2, della l. 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi, fin dalla sua apertura, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina di un difensore tecnico. Ne deriva, in caso di omessa nomina di quest'ultimo, cui non segua la designazione di un difensore d'ufficio, la nullità del procedimento de quo, non avendo potuto il minore esercitare alcun contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione del giudice di merito. In ordine alla giurisdizione volontaria e all'attività del giudice tutelare, deve segnalarsi Sez. 6-1, n. 01631/2016, De Chiara, Rv. 638612, secondo cui il giudice competente per l'apertura della tutela di chi si trovi in stato di interdizione legale per condanna definitiva alla pena dell'ergastolo va individuato in quello del luogo in cui alla data dell'apertura, coincidente con l'informativa della condanna al giudice tutelare, l'interdetto abbia la sede principale dei suoi affari e interessi. Tale luogo, da individuarsi in concreto, è, secondo l'id quod plerunque accidit, quello della sua residenza anagrafica salva la prova contraria, ed in particolare della circostanza che, per effetto della eventuale detenzione cautelare nel luogo in cui risiedeva prima dell'arresto l'interdetto non abbia più i propri rapporti o interessi principali, e che dunque il centro degli stessi si sia spostato nel luogo di detenzione. 6.2. Anche nel 2016 sono intervenute alcune pronunce su procedimenti speciali, fuori da quelli contemplati nel Libro IV del codice di procedura civile. In ordine a questioni squisitamente processuali relative alla materia della immigrazione, e con riferimento all'ambito di cognizione del giudice ordinario, Sez. 6-1, n. 04794/2016, De Chiara, Rv. 639018, afferma che il giudice investito della impugnazione del provvedimento di espulsione ha piena cognizione 750 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI dei fatti di causa, che deve accertare anche in base ai documenti prodotti solo in sede processuale, secondo le regole generali valevoli per i giudizi davanti a lui, finalizzati a correggere, grazie alla pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa, eventuali lacune o errori del procedimento amministrativo. Sez. 6-1, n. 12711/2016, De Chiara, Rv. 640097, afferma invece che tra il giudizio di opposizione all'espulsione e l'accertamento in sede penale dei fatti che sarebbero alla base della valutazione di pericolosità dell'espulso, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell'art. 295 c.p.c., idoneo a giustificare la sospensione del primo, ma solo un rapporto di connessione. Sempre in merito agli stranieri, Sez. 6-1, n. 13815/2016, B i s o g n i , R v . 6 4 0 3 0 3 , a ffe r m a c h e l ' i m p u g n a z i o n e a v v e r s o l'ordinanza reiettiva del permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all'art. 30, comma 1, lett. a), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, va proposta con atto di citazione anzicchè con ricorso e, nel caso di erronea introduzione del giudizio, la tempestività del gravame va verificata con riferimento non solo alla data di deposito dell'atto introduttivo, ma anche a quella di notifica dello stesso alla controparte, che deve avvenire nel rispetto del termine di trenta giorni previsto dall'art. 702 quater c.p.c. a pena di inammissibilità, senza che possa essere effettuata alcuna conversione del rito in appello, riguardando l'art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 solo il primo grado. Nell'esaminare altri interventi relativi ai procedimenti speciali, sul procedimento disciplinare nei confronti dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639768, afferma che in tema di impugnazione dei provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai, il reclamo dinanzi alla Corte d'Appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale è soggetto, ai sensi degli artt. 3 e 26 del d.lgs. n. 150 del 2011, agli artt. 702 bis e 702 ter, commi 1, 4, 5, 6 e 7, c.p.c., che nulla dispongono relativamente alla pubblicità delle udienze, per cui opera il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, pienamente compatibile con l'art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l'attività processuale deve svolgersi pubblicamente, ma deve essere assicurato un momento di trattazione della causa in un'udienza pubblica. In tema di responsabilità disciplinare dei notai deve anche menzionarsi Sez. 2, n. 24730/2016, Bianchini, (in corso di massimazione), secondo cui, la contemporanea previsione, nella legge professionale e nel codice deontologico, di condotte analoghe non crea dubbi interpretativi laddove nel testo di rango 751 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI sovraordinato nell'ordine delle fonti sia contenuta tutta la disciplina sanzionatoria, trovando in questo caso applicazione solo la legge professionale, mentre la analoga previsione contenuta nel codice deontologico non assume valore di precetto autonomamente sanzionabile. la S.C. ha affermato questo principio in una fattispecie in cui al notaio, cui si contestava di aver rogato un numero elevato di atti fuori sede nei giorni di presenza obbligatoria nel proprio ufficio, era stata comminata la sanzione disciplinare, più grave, risultante dal combinato disposto degli artt. 6 del codice deontologico e 147 della legge notarile, anzicchè quella disciplinata e sanzionata dagli artt. 26 e 137 della legge notarile, evidenziandosi che la condotta prevista dall'art. 26 cit. era sovrapponibile a quella prevista dall'art. 6 cit. Sugli onorari di avvocato invece, Sez. 6-3, n. 04002/2016, Armano, Rv. 638895, afferma che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente, previste dall'art. 28 della l. 14 giugno 1942, n. 794, come modificato dall'art. 34 del d.lgs. n. 150 del 2011 e dall'abrogazione degli artt. 29 e 30 della medesima l. 794 cit., devono essere trattate con la procedura disciplinata dall'art. 14 del suddetto d.lgs. n. 150 del 2011, anche nell'ipotesi in cui la domanda riguardi l'an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l'inammisibilità della domanda. Quanto infine alle opposizioni alle ingiunzioni fiscali, Sez. 1, n. 09989/2016, Sambito, Rv. 639654, chiarisce che la Pubblica Amministrazione convenuta in giudizio di opposizione ad ingiunzione ex art. 3 del r.d. 14 aprile 1910, n. 639 per l'accertamento di un credito riconducibile ai rapporti obbligatori di diritto privato, assume la posizione sostanziale di attrice, sicchè, ai sensi dell'art. 2697 c.c., è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l'opponente deve dimostrare la loro inefficacia ovvero l'esistenza di cause modificative o estintive degli stessi. La pronuncia poi aggiunge che non vale obiettare che la menzionata ingiunzione cumula in sé la natura di funzione di titolo esecutivo unilateralmente formato dalla P.A. nell'esercizio del suo peculiare potere di autoaccertamento e di atto prodromico all'inizio dell'esecuzione coattiva, in quanto ciò non implica affatto che nel giudizio di opposizione l'ingiunzione sia assistita da una presunzione di verità, dovendo piuttosto ritenersi che la posizione di vantaggio riconosciuta alla P.A. sia limitata al momento della formazione unilaterale del titolo esecutivo, restando escluso, perché 752 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI del tutto ingiustificato in riferimento a dati testuali e ad un'esegesi costituzionalmente orientata in relazione all'art. 111 Cost., che essa possa permanere anche nella successiva fase contenziosa, in seno alla quale il rapporto deve essere provato secondo le regole ordinarie. 753 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI CAPITOLO XLI LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI (di Paolo Di Marzio) SOMMARIO: 1. Comunione legale dei beni e litisconsorzio necessario. – 2. Il giudizio di separazione personale dei coniugi. – 3. L'affidamento dei figli minori. – 4. Separazione personale, spese per i figli minori e regime probatorio. – 5. La domanda di assegno divorzile per il coniuge, condizioni di proponibilità. – 6. L'assegno di mantenimento per il figlio minorenne. – 7. L'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne. – 8. Impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, dichiarazione giudiziale e disconoscimento di paternità. – 9. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. – 10. Responsabilità genitoriale: giurisdizione. – 11. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. – 12. L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption). – 13. Sottrazione internazionale di minori e valutazioni demandate al giudice di merito. – 14. Matrimonio telematico straniero ed ordine pubblico italiano. – 15. Amministrazione di sostegno e procedure di inabilitazione ed interdizione. – 16. Incapacità naturale e processo. – 17. Il bambino con due madri. – 18. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. 1. Comunione legale dei beni e litisconsorzio necessario. Qualora uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile oggetto della comunione, ha deciso la S.C., il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale, Sez. 2, n. 8468/2016, Scarpa, Rv. 639705. 2. Il giudizio di separazione personale dei coniugi. In tema di prova in ordine alla capacità reddituale dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, la Corte ha statuito che, ove il giudice abbia chiesto ad entrambe le parti l'esibizione della documentazione relativa ai rapporti bancari da ciascuna intrattenuti ed una sola di queste abbia ottemperato alla richiesta fornendo materia per gli accertamenti giudiziali, il giudice che di essi abbia fatto uso ha l'obbligo di motivare in ordine al significato del 754 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI comportamento omissivo della parte inottemperante, costituendo l'asimmetria comportamentale ed informativa una condotta da cui desumere argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c., Sez. 6-1, n. 00225/2016, Genovese, Rv. 638441. La S.C. ha evidenziato che il giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado in tema di separazione personale tra coniugi si svolge nelle forme del rito camerale, ai sensi dell'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 8 della legge 12 febbraio 1987, n. 74, applicabile ai giudizi di separazione, secondo quanto disposto dall'art. 23, comma 1, di quest'ultima legge, sicché la corte d'appello, investita della cognizione del gravame, può decidere la controversia nella stessa udienza fissata dal presidente con decreto in calce al ricorso notificato alla controparte, non trovando applicazione, in materia, la disposizione di cui all'art. 352 c.p.c., Sez. 1, n. 01867/2016, Lamorgese, Rv. 638602. Ancora in riferimento al giudizio di separazione personale dei coniugi, il giudice di legittimità ha chiarito che l'attitudine al lavoro dei medesimi, quale elemento di valutazione della loro capacità di guadagno, può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno di mantenimento, solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche. In applicazione di questo principio, è stata confermata la sentenza impugnata che, nel quantificare l'assegno di mantenimento riconosciuto alla moglie, aveva valutato il titolo di studio universitario e l'abilitazione professionale da lei posseduti ma anche le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali, Sez. 6-1, n. 06427/2016, Mercolino, Rv. 639189. Nel giudizio di separazione personale dei coniugi è inammissibile la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento quando proposta, per la prima volta, in appello, in violazione dell'art. 345 c.p.c., a nulla rilevando che la parte istante sia rimasta contumace in primo grado, Sez. 6-1, n. 07451/2016, Genovese, Rv. 638359. 3. L'affidamento dei figli minori. In tema di affidamento di figli minori, ha statuito la S.C., qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini 755 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI della modifica delle modalità di affidamento il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena, Sez. 1, n. 06919/2016, Lamorgese, Rv. 630323. In tema di affidamento dei minori, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice della separazione, ha chiarito la Corte, è costituito dall'esclusivo interesse morale a materiale della prole, previsto in passato dall'art. 155 c.c. ed oggi dall'art. 337 quater c.c., il quale, imponendo di privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore, richiede un giudizio prognostico circa la capacità del singolo genitore di crescere ed educare il figlio, da esprimersi sulla base di elementi concreti attinenti alle modalità con cui ciascuno in passato ha svolto il proprio ruolo, con particolare riguardo alla capacità di relazione affettiva, nonché mediante l'apprezzamento della personalità del genitore. È stata, quindi, confermata la sentenza di merito, ritenendo che la scelta spirituale di uno dei genitori di aderire ad una confessione religiosa diversa da quella cattolica, quella dei Testimoni di Geova, non potesse costituire ragione sufficiente a giustificare l'affidamento esclusivo dei minori all'altro genitore, in presenza di emergenze probatorie per le quali entrambi i coniugi risultano legati ai figli e capaci di accudirli nella quotidianità, Sez. 6-1, n. 14728/2016, Mercolino, Rv. 641025. 4. Separazione personale, spese per i figli minori e regime probatorio. Il provvedimento con il quale, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del giudice in sede di cognizione, qualora il genitore creditore possa allegare e documentare l'effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità, salvo il diritto dell'altro coniuge di contestare l'esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle 756 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI modalità d'individuazione dei bisogni del minore, Sez. 6-1, n. 04182/2016, Bisogni, Rv. 638878. 5. La domanda di assegno divorzile per il coniuge, condizioni di proponibilità. È proponibile innanzi al giudice italiano, la domanda volta ad ottenere un assegno divorzile successivamente alla pronuncia, avvenuta nella Repubblica Ceca, della sentenza di divorzio, atteso che la contestualità fra la decisione sullo status e quella sull'assegno non è imposta dall'art. 5 della l. n. 898 del 1970, né, a maggior ragione, può costituire preclusione processuale qualora la sentenza di divorzio provenga da un ordinamento che prevede la possibilità di introdurre separatamente le relative domande, Sez. 1, n. 01863/2016, Bisogni, Rv. 638604. 6. L'assegno di mantenimento per il figlio minorenne. In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli minori, proposta ex art. 9 della l. n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell'entità dell'assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell'attribuzione dell'emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l'equilibrio così raggiunto e ad adeguare l'importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale, Sez. 6-1, n. 00214/2016, Acierno, Rv. 638131. 7. L'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne. La cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell'avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età, Sez. 1, n. 12952/2016, Acierno, Rv. 640096. La S.C. ha quindi chiarito che il carattere sostanzialmente alimentare dell'assegno di mantenimento riconosciuto a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione dei genitori, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette 757 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI prestazioni, sicché la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione, Sez. 6-1, n. 13609/2016, Genovese, Rv. 640399. 8. Impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, dichiarazione giudiziale e disconoscimento di paternità. In tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, la Corte ha chiarito che è necessaria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell'art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell'altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi ex ante una coincidenza ed omogeneità d'interessi in ordine né alla conservazione dello status, né alla scelta contrapposta, fondata sul favor veritatis e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica, Sez. 1, n. 01957/2016, Acierno, Rv. 638384. In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la Corte ha deciso che l'ammissione degli accertamenti immuno- ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito in materia dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in 758 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status, Sez. 1, n. 03479/2016, Bisogni, Rv. 638757. In tema di azione di disconoscimento di paternità, la Cassazione ha ribadito che grava sull'attore la prova della conoscenza dell'adulterio, che si pone come dies a quo del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione ex art. 244 c.c., in ciò avvalendosi anche del principio di non contestazione, che opera – anche in materia di diritti indisponibili – espungendo il fatto generatore della decadenza dall'ambito del thema probandum, fermo restando che l'esistenza di una non contestazione sulla data della scoperta dell'adulterio non esclude che il giudice, in ragione della preminenza dell'interesse pubblico nelle questioni di stato delle persone, non possa rilevare ex actis un eventuale ulteriore termine di decorrenza che renda l'azione inammissibile, Sez. 1, n. 13436/2016, Nazzicone, Rv. 640400. 9. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. Nei procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la Corte ha statuito che il principio della perpetuatio iurisdictionis, in forza del quale la competenza territoriale del giudice adito rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, a seguito del trasferimento del genitore con cui egli convive, prevale, per esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, su quello di "prossimità", ove il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi il giudice competente sia quello stesso richiesto con l'istanza introduttiva o con altra che si inserisca incidentalmente nella medesima procedura. È stato, pertanto, accolto il regolamento di competenza d'ufficio sollevato dal Tribunale per i minorenni di Brescia dinanzi al quale era stato riattivato, nei medesimi termini originari, il procedimento de potestate dopo la pronuncia di incompetenza del Tribunale per i minorenni di Bologna, adito dal P.M., motivata sul trasferimento, in corso di causa, della madre, insieme alle minori, in un comune in provincia di Brescia, Sez. 1, n. 07161/2016, Mercolino, Rv. 639358. La vis attractiva del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, anche in pendenza di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due procedimenti (ricorrente in quello minorile ed interventore obbligatorio nell'altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, 759 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI facente leva sul solo tenore letterale della citata disposizione, ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, rese da due organi giudiziali diversi, Sez. 6-1, n. 10356/2016, Scaldaferri, Rv. 639726. 10. Responsabilità genitoriale: giurisdizione. Le Sezioni Unite hanno statuito che, ai sensi dell'art. 3, lett. d), del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008, qualora il giudice italiano sia investito della domanda di separazione personale dei coniugi ed il giudice di altro Stato membro sia investito della domanda di responsabilità genitoriale, a quest'ultimo spetta la giurisdizione anche sulla domanda relativa al mantenimento del figlio minore, trattandosi di domanda accessoria a quella di responsabilità genitoriale, Sez. U, n. 02276/2016, Nappi, 638227. Ancora le Sezioni Unite hanno, quindi, chiarito che in tema di responsabilità genitoriale, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale, occorre dare rilievo – per principio generale – al criterio della residenza abituale del minore al momento della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Nel caso di specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di merito, per la quale doveva considerarsi abitualmente residente in Brasile il minore che vi aveva vissuto fra i tre ed i sei anni di età, periodo intensamente relazionale, con un intervallo di appena sei mesi, trascorso in Italia, Sez. U, n. 05418/2016, Ragonesi, Rv. 638990. 11. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. La Corte ha deciso che, in tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, comma 2, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo del 2001, n. 149, il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi, fin dalla sua apertura, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. Ne deriva, in caso di omessa nomina di quest'ultimo cui non segua la 760 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI designazione di un difensore d'ufficio, la nullità del procedimento de quo, non avendo potuto il minore esercitare alcun contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione del giudice di merito, Sez. 6-1, n. 11782/2016, Bisogni, Rv. 639921. Pronunciando in materia di adozione, ma affermando un principio di rilevanza generale, il giudice di legittimità ha poi statuito che l'omessa notifica, nel termine assegnato dal giudice, del ricorso introduttivo dell'appello avverso la declaratoria dello stato di adottabilità e del relativo decreto di fissazione di udienza (nella specie, per la rilevata mancanza di prova della ricezione della stessa, effettuata a mezzo posta elettronica certificata), non comporta, in assenza di una espressa previsione in tal senso, l'improcedibilità dell'impugnazione, dovendosi evitare interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., sempre che la parte appellata non si sia costituita, così sanando il vizio della notificazione con effetto ex tunc, Sez. 1, n. 16335/2016, Acierno, Rv. 641031. 12. L'adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale (cd. stepchild adoption). Nel procedimento di adozione in casi particolari di cui all'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, la Corte ha statuito che non è configurabile un conflitto di interessi in re ipsa, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante, che imponga la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., dovendo, anzi, individuarsi nella necessità dell'assenso del genitore dell'adottando, di cui all'art. 46 della legge citata, un indice normativo contrario all'ipotizzabilità astratta di un tale conflitto che, invece, va accertato in concreto da parte del giudice di merito. Tale peculiare istituto, infatti, mira a dare riconoscimento giuridico, previo accertamento della corrispondenza della scelta all'interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con quest'ultimo e caratterizzate dall'adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali, in quanto inteso a consolidare, ricorrendone le condizioni di legge, legami preesistenti e ad evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato. È stata, quindi, confermata la sentenza impugnata che, a fronte della richiesta di adozione del partner omosessuale del genitore naturale del minore, aveva ritenuto 761 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI in concreto insussistente il conflitto di interessi tra quest'ultimo e lo stesso genitore-rappresentante legale dell'adottando, Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640132. 13. Sottrazione internazionale di minori e valutazioni demandate al giudice di merito. In tema di sottrazione internazionale illecita di minori, ha deciso la Corte, il giudice italiano può considerare gli inconvenienti per la condizione del minore, connessi al suo prospettato rientro nello Stato di residenza abituale, solo se raggiungano il grado del pericolo fisico o psichico o dell'effettiva intollerabilità, trattandosi delle uniche condizioni ostative al rientro ai sensi dell'art. 13, lett. b), della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 (resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 1994, n. 64). Il relativo accertamento costituisce indagine di fatto sottratta al controllo di legittimità se la ponderazione del giudice di merito è sorretta da una motivazione immune da vizi logici e giuridici, Sez. 1, n. 02417/2016, Forte, Rv. 638635. 14. Matrimonio telematico straniero ed ordine pubblico italiano. Il matrimonio contratto all'estero alla presenza di uno solo dei nubendi e con la partecipazione in via telematica dell'altro non è contraria all'ordine pubblico italiano a condizione che lo stesso sia stato validamente celebrato secondo la legge del Paese straniero, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero, senza possibilità di sottoporlo ad un sindacato di tipo contenutistico, tanto più che neppure per il legislatore italiano la forma di cui all'art. 107 c.c. ha valore inderogabile, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641023. Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha statuito che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., avverso i provvedimenti aventi contenuto decisorio e carattere di definitività, decorre solo a seguito della notificazione ad istanza di parte, mentre è irrilevante, al predetto fine, che gli stessi siano stati pronunciati in udienza o, se pronunciati fuori udienza, siano stati comunicati alle parti dal cancelliere, con la conseguenza che, in tali ipotesi, è applicabile il termine di cui all'art. 327 c.p.c. È stata perciò ritenuta l'ammissibilità del ricorso per cassazione nei confronti del decreto di rigetto del reclamo avverso l'autorizzazione alla trascrizione di un matrimonio contratto all'estero, proposto dal Ministero dell'Interno nel cd. termine lungo, in assenza di notifica del provvedimento ad istanza di parte, Sez. 1, n. 15343/2016, Lamorgese, Rv. 641022. 762 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI 15. Amministrazione di sostegno e procedure di inabilitazione ed interdizione. L'autorità giudiziaria competente per l'apertura della tutela di chi si trovi in stato di interdizione legale per essere stato definitivamente condannato alla pena dell'ergastolo va individuata nel giudice tutelare del luogo in cui, alla data di inizio della procedura – coincidente con la comunicazione della condanna –, l'interdetto abbia la sede principale dei suoi affari ed interessi. Tale luogo, da individuarsi in concreto, è, secondo l'id quod plerumque accidit, quello della sua residenza anagrafica, salva la prova contraria, ed in particolare della circostanza che, per effetto della eventuale detenzione cautelare, nel luogo in cui risiedeva (anagraficamente o effettivamente) prima dell'arresto, l'interdetto non abbia più i propri rapporti o interessi principali, e che, dunque, il centro degli stessi si sia spostato nel luogo di detenzione, Sez. 6-1, n. 01631/2016, De Chiara, Rv. 638162. Il giudice di legittimità ha statuito che la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed ex ante, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Nel caso di specie, la S.C. ha escluso, pur in assenza della nomina di un curatore speciale, la ricorrenza di tale conflitto tra il figlio minore e la madre, attesa l'attività processuale effettivamente svolta da quest'ultima in favore del figlio il quale, raggiunta la maggiore età, aveva proposto ricorso per cassazione insieme alla madre, con il medesimo difensore che li aveva assistiti nei precedenti gradi del giudizio, Sez. 2, n. 01721/2016, D'Ascola, Rv. 638532. La Corte ha sancito che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno che sono emanati in applicazione dell'art. 384 c.c. (richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio, Sez. 1, n. 02985/2016, Bisogni, Rv. 638755. 763 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI La S.C. ha pure chiarito che il decreto della corte d'appello il quale nega l'apertura dell'amministrazione di sostegno è ricorribile per cassazione, Sez. 6-1, n. 14983/2016, Acierno, Rv. 640716. 16. Incapacità naturale e processo. Proposta domanda di annullamento di un testamento olografo per incapacità naturale del testatore, ha chiarito il giudice di legittimità, costituisce domanda nuova la richiesta, formulata in sede di memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo vigente anteriormente all'1 marzo 2006), di annullamento del medesimo testamento per altro motivo (nella specie, difetto di data), fondando le due azioni, pur nella identità di petitum, su fatti costitutivi diversi, né potendo il giudice rilevare ex officio l'annullabilità dell'atto di ultima volontà per tale diversa ragione, mancando una norma che espressamente gli riconosca tale potere, Sez. 2, n. 00698/2016, Criscuolo, Rev. 638366. In tema di invalidità negoziali, la Corte ha statuito che il giudicato formatosi sull'insussistenza dell'incapacità naturale, richiesta per l'annullamento contrattuale ex art. 428 c.c., è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace atteso che, mentre l'art. 428 c.c. richiede l'accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere, ai fini dell'art. 643 c.p. è, invece, sufficiente che l'autore dell'atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall'età, dall'insorgenza o dall'aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all'altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio, Sez. 1, n. 10329/2016, Acierno, Rv. 639668. 17. Il bambino con due madri. La S.C. ha spiegato che il giudice nazionale, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto di stato civile straniero (nella specie, dell'atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, deve verificare non già se quell'atto applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto a più norme interne (benché imperative o inderogabili), ma se contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo desumibili dalla Costituzione, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641309. Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha deciso che è riconoscibile in Italia un atto di 764 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (una che l'ha partorito e l'altra che ha donato l'ovulo), atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641314. Ancora è stato chiarito che la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, come previsto dall'art. 269, comma 3, c.c., non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l'atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l'ha partorito e l'altra che ha donato l'ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641313. 18. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario contratto da uno dei coniugi per metus reverentialis, postula che la corte d'appello verifichi la compatibilità della qualificazione canonistica della suddetta causa di nullità matrimoniale con l'ordine pubblico italiano, valutando in concreto che non si sia trattato di una mera reverentia dovuta a persona cui uno degli sposi era legato da particolare rapporto, ma unicamente di situazioni tali da integrare gli estremi della gravità, estrinsecità e decisività ai fini della formazione del consenso, Sez. 1, n. 01749/2016, Lamorgese, Rv. 638577. In materia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, la richiesta del convenuto di negare il riconoscimento degli effetti civili a causa della convivenza ultratriennale dei coniugi, costituisce una eccezione in senso stretto, che deve essere proposta nella comparsa di risposta a pena di decadenza. La Corte ha ribadito il principio, specificando che non vi è la possibilità di conseguire una rimessione in termini (come invece affermato da Sez. 1, n. 25676/2015, Rv. 638192), Sez. 1, n. 26188/2016. 765 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE CAPITOLO XLII I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE AD ORDINANZA INGIUNZIONE (di Luca Varrone) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Principi comuni in materia di sanzioni amministrative. - 3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. – 4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. – 5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. – 6. Altre pronunce di interesse. 1. Premessa. Nel presente capitolo, come è avvenuto per la rassegna 2015, viene trattato, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale, l'intero tema delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento nei casi soggetti alla giurisdizione del Giudice ordinario. Il capitolo, pertanto, comprende oltre al tradizionale giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, anche i procedimenti di opposizione nei confronti delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob e dalla Banca d'Italia. Com'è noto a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n.162 del 2012 e n. 94 del 2014, tali giudizi sono ritornati alla giurisdizione ordinaria, cui spettavano prima dell'approvazione del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). Il decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 sulla semplificazione dei riti, ha stabilito un'applicazione generalizzata della disciplina del processo del lavoro per le controversie in tema di opposizione a sanzioni amministrative ex lege 24 novembre 1981, n. 689. Al momento della riforma i giudizi nei confronti delle sanzioni comminate dalla Consob e dalla Banca d'Italia erano stati già devoluti al TAR Lazio per effetto dell'abrogazione operata dal citato d.l.gs. n. 104 del 2010 rispettivamente degli artt. 187 septies, commi, 4-8 e 195, commi 4-8, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF), e dell'art. 145 commi 4-8, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (TUB), sicché era del tutto pacifica la loro estraneità all'ambito di operatività della nuova disciplina. Oggi, a seguito della citata declaratoria di incostituzionalità, sembra comunque questo il rito applicabile di qui la trattazione nel presente capitolo. La materia delle sanzioni amministrative è molto vasta e del tutto eterogenea. Sotto il profilo quantitativo deve evidenziarsi che l'Ufficio del massimario ha proceduto alla massimazione di 18 sentenze relativamente alla violazione delle norme del testo unico bancario e finanziario, a 13 sentenze relativamente alla violazione 766 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE del codice della strada a 8 sentenze relativamente al rito e a 9 sentenze relativamente a tutti gli altri settori. Si rende necessario, pertanto, dopo un primo paragrafo avente ad oggetto i principi comuni in materia, dedicare un intero paragrafo rispettivamente sia alle violazioni in materia bancaria e societaria che a quelle relative al codice della strada. Seguirà un paragrafo dedicato esclusivamente alle pronunce aventi ad oggetto il rito. Infine si riporteranno nel paragrafo finale le restanti pronunce in materia di sanzioni amministrative, non ricomprese tra quelle relative al codice della strada o alle violazioni finanziarie e bancarie. 2. Principi comuni in materia di sanzioni amministrative. Le pronunce del 2016 che stabiliscono principi comuni a tutta l'ampia materia delle sanzioni amministrative si segnalano prevalentemente per aver dato continuità a orientamenti giurisprudenziali già affermatisi in passato e che caratterizzano tradizionalmente il regime peculiare delle sanzioni amministrative. In tal senso, ad esempio, Sez. 1, n. 02406/2016, Di Marzio, Rv. 638467, ha ribadito che in tema di sanzioni amministrative, l'art. 3 della l. n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto vietato, riservando a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa. Il caso riguardava un provvedimento sanzionatorio emesso dalla Banca d'Italia nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e della direzione di una banca, per inosservanza delle istruzioni relative all'organizzazione amministrativa e contabile ed omesso invio delle prescritte segnalazioni all'istituto d'emissione. Nella specie si è detto che spetta ai destinatari della sanzione dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore, rimanendo, comunque, irrilevante, ai fini dell'esclusione della colpa, che la situazione in cui versava la banca fosse preesistente al loro insediamento. Allo stesso modo Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640354 e Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638803, hanno chiarito che il principio del cd. favor rei non opera nella materia delle sanzioni amministrative e che, in assenza di una specifica disposizione, deve trovare applicazione il distinto principio del tempus regit actum: sicché si è ritenuto che le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998, apportate dal decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72, non si applicano alle violazioni commesse prima dell'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia, poiché in tal senso dispone l'art. 6 del d.lgs. n. 72 cit.. 767 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Nell'affermare tale principio, si è anche aggiunto che non possono dirsi violati i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia) atteso che tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale. Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638803 ha, inoltre, anche affermato che, in materia di sanzioni amministrative, il principio di tipicità e di riserva di legge, stabilito dall'art. 1 della l. n. 689 del 1981, vieta che l'illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, ma non esclude che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare. In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto legittimo che l'art. 5, comma 3, del regolamento Consob n. 11971 del 1999 integri gli artt. 191 e 94 del d.lgs. n. 58 del 1998 con riferimento al contenuto dell'attestazione, da allegarsi da parte dell'intermediario finanziario al prospetto informativo sul collocamento di titoli di nuova emissione ed avente ad oggetto le informazioni rilevanti di cui sia venuto a conoscenza nel corso delle verifiche effettuate. Sempre sotto il profilo sostanziale, Sez. 1, n. 02406/2016, Di Marzio, Rv. 638468, ha precisato che, quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla relativa sanzione salvo che sia diversamente stabilito dalla legge (art. 5 della l. n. 689 del 1981), restando, in tal modo, la pena pecuniaria applicabile a tutti coloro che abbiano offerto un contributo alla realizzazione dell'illecito, concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei quali l'evento punito costituisce il risultato. Nel confermare il principio la S.C., ha ritenuto che esso non subisce alcuna deroga per le sanzioni amministrative previste dall'art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo di istituti bancari. Con la medesima sentenza si è anche data continuità al principio secondo il quale la quantificazione delle sanzioni rientra nel potere discrezionale del giudice che può determinarne l'entità, entro i limiti sanciti dalla legge, allo scopo di commisurarla all'effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia 768 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall'art. 11 della l. n. 689 del 1981, quali la gravità della violazione, la personalità dell'agente e le sue condizioni economiche. Sez. 2, n. 06737/2016, Parziale, Rv. 639489, ha confermato il principio secondo cui, ai sensi dell'art. 7 della l. n. 689 del 1981, la morte dell'autore della violazione comporta l'estinzione dell'obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall'Amministrazione, la quale non si trasmette agli eredi con conseguente cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione all'ordinanza-ingiunzione. Nella specie si è detto che la cessazione della materia del contendere può essere pronunciata anche in sede di legittimità, ove il decesso sia documentato ex art. 372 c.p.c. Non si riscontrano precedenti, invece, rispetto a quanto affermato da Sez. 2, Sentenza n. 02956/2016, Picaroni, Rv. 638970, in riferimento al principio di offensività: in tale occasione è stato chiarito che, in tema di sanzioni amministrative, la valutazione circa l'offensività, in concreto, del comportamento del trasgressore non rileva quale causa di esclusione della responsabilità, salva la sua sussumibilità nell'esimente della buona fede, giacché l'idoneità della condotta a realizzare l'effetto vietato è stata valutata ex ante dal legislatore con la previsione della norma sanzionatoria. Una importante sentenza, Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv. 641633, ha stabilito il principio, di carattere generale, secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. "conversione" del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c., si applica con riguardo a tutti gli atti - in ogni modo denominati - di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali, ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali, nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre 769 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo. Con ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 26063/2016, Scarpa ha rimesso alle sezioni unite la risoluzione di un contrasto nella giurisprudenza della corte circa l'interpretazione degli artt. 6 e 14 della l. n. 869 del 1981. In particolare la questione oggetto di contrasto concerne la natura e la funzione della responsabilità dell'obbligato solidale ex art. 6 della l. n. 689 del 1981, nonché, di riflesso, gli effetti dell'estinzione dell'obbligazione principale per mancanza o intempestività della contestazione al trasgressore in relazione alla possibilità, per l'obbligato solidale che abbia pagato la sanzione, di esperire l'azione di regresso, individuandosene i destinatari. Secondo un primo orientamento, l'estinzione dell'obbligazione dell'autore materiale dell'infrazione comporta ex se anche l'esclusione dell'obbligazione gravante sull'obbligato solidale, dovendosi riconoscere carattere principale all'obbligazione incombente sul primo dei due soggetti, nonché un rapporto di accessorietà e dipendenza alla posizione del secondo. Un'opposta interpretazione afferma che il vincolo intercorrente, ai sensi dell'art. 6, comma 3, della legge n. 689 del 1981, tra l'autore materiale della violazione e la persona giuridica di cui è prevista la responsabilità solidale, assume rilevanza nel solo caso in cui l'Amministrazione se ne avvalga in concreto, agendo contro ambedue gli obbligati oppure contro uno o l'altro di essi. Tale vincolo di solidarietà non assumerebbe, quindi, rilevanza nell'ipotesi in cui l'Amministrazione proceda alla contestazione nei confronti dell'uno o dell'altro degli obbligati, rimanendo l'effetto estintivo della pretesa sanzionatoria limitato al soggetto nei cui riguardi non sia stata eseguita la notifica, come stabilisce l'art. 14, ultimo comma, legge n. 689 del 1981. 3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. Le pronunce in materia di sanzioni amministrative per violazioni del testo unico bancario e finanziario, anche per il 2016, si caratterizzano prevalentemente in relazione all'esigenza di assimilare e assorbire l'impatto della già citata sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, del 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia nel nostro ordinamento, soprattutto in relazione al principio di natura convenzionale secondo il quale al destinatario delle sanzioni che presentano un carattere di afflittività, anche se qualificate come amministrative, devono essere riconosciute tutte le garanzie proprie delle sanzioni penali. 770 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE A tal proposito Sez. 2, n. 03656/2016, Matera, Rv. 638686, ha negato il carattere di afflittività alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d'Italia ai sensi dell'art. 144 TUB per carenze nell'organizzazione e nei controlli interni. La Corte ha ritenuto che tali sanzioni non siano equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla CONSOB ai sensi dell'art. 187 ter TUF per manipolazione del mercato e, pertanto, ne ha escluso la natura sostanzialmente penale, natura che in precedenza aveva invece riconosciuto a queste ultime. L'esclusione del carattere di afflittività delle suddette sanzioni ha determinato il superamento di ogni problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 CEDU. Sul piano procedurale invece, Sez. 2, n. 08210/2016, Cosentino, Rv. 639663, ha affermato che, nel procedimento amministrativo sanzionatorio previsto dall'art. 187 septies del d.lgs. n. 58 del 1998, l'omessa previsione della trasmissione all'interessato delle conclusioni dell'Ufficio sanzioni amministrative, e la conseguente impossibilità di interloquire, non si pone in contrasto con l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, quando - come stabilito dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia -, pur avendo le sanzioni natura sostanzialmente penale, il provvedimento con cui le stesse vengono irrogate sia assoggettato - come, appunto, quello adottato ex art. 187 septies cit., anche nel testo vigente ratione temporis - ad un sindacato giurisdizionale pieno, attuato nell'ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo. Nella sostanza la suddetta sentenza, in linea con la Corte EDU, ha ribadito che anche con riferimento alle sanzioni amministrative aventi carattere di afflittività e, quindi, assimilabili a quelle penali, il procedimento sanzionatorio può derogare al principio del contraddittorio qualora sia prevista una successiva fase giurisdizionale dove le garanzie della difesa possano trovare piena esplicazione. Sez. 5, n. 20675/2016 Chindemi, Rv. 641302, con ordinanza interlocutoria, ha rimesso alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale la questione se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, interpretato alla luce dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per il quale il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile. Il caso è particolarmente interessante perché è una 771 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE delle primissime volte che viene sollevata, dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea una questione pregiudiziale attinente la violazione di una norma della Carta dei diritti fondamentali come interpretata dalla Corte dei diritti dell'Uomo. Nel caso di specie era stata emesso un provvedimento sanzionatorio con cui la Consob aveva irrogato la sanzione amministrativa pecuniaria di € 10.200.000,00, ai sensi dell'art. 187 ter T.U.F. in relazione alla condotta illecita di manipolazione del mercato. Nelle more l'autore della violazione era stato sottoposto a procedimento penale per i medesimi fatti per i quali gli era stata comminata la sanzione amministrativa, procedimento conclusosi con sentenza di patteggiamento, divenuta definitiva, con cui veniva prevista la pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione, ridotta ad anni 3 per la scelta del rito e quindi, estinta per indulto ex l. n. 241 del 2006. Congiuntamente alla pena principale erano state applicate anche le pene accessorie. della: a) interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di anni tre; b) incapacità di contrattare con la P.A. per anni 3, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio, c) interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per anni 3; d) interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria; e) pubblicazione della sentenza su due quotidiani di rilevanza nazionale; f) interdizione dai pubblici uffici per anni 3. La Corte nella motivazione, in primo luogo premette che nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza di patteggiamento va assimilata a quella penale di condanna e, subito dopo, rammenta che la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, dell'art. 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 e alla luce l'applicazione dei principio del ne bis in idem di cui agli artt. 2 e 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU). In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che l'ordinanza di rimessione non aveva sciolto "il nodo" dei rapporti tra concetto di ne bis idem desumibile dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretata dalla Corte EDU, e concetto di ne bis in idem nel market abuse, come desumibile dal sistema UE. La Corte, quale giudice di ultima istanza obbligata a sottoporre alla Corte di giustizia UE le questioni d'interpretazione pregiudiziale della normativa euro unitaria, rimette alla Corte di Giustizia il quesito interpretativo sopra indicato al fine dello scioglimento in maniera netta dei predetti nodi. Infatti, secondo i supremi giudici non sussistono dubbi, alla luce dei principi CEDU, della natura sostanzialmente 772 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE penale della sanzione amministrativa effettivamente comminata (€5.000.000) afflittiva e munita di funzione deterrente. Pertanto l'obbligatorietà delle sanzioni amministrative, aventi natura afflittiva, nei sistema degli illeciti di market abuse sembrerebbe contrastare col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, così come interpretato dal diritto dell'unione, allorché sia stata preliminarmente emessa una sanzione penale preclusiva della comminatoria della sanzione amministrativa. Il divieto del cd. bis in idem vieta di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo stato membro di comminare una violazione amministrativa di natura penale in presenza di comminatoria di una sanzione penale per gli stessi fatti. La mancata previsione dell'allargamento del principio ne bis in idem anche ai rapporti tra sanzione penale e amministrativa di natura penale appare non conforme ai principi unionali, ritenendosi contraria ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale.A proposito della presunzione di colpa posta dall'art. 3 della l. n. 689 del 1981, Sez. 1, n. 04114/2016, Terrusi, Rv. 638801, ha affermato che, anche in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il d.lgs. n. 58 del 1998 individua una serie di fattispecie a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate su mere condotte considerate doverose, sicché il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazione dell'indagine sull'elemento oggettivo dell'illecito all'accertamento della suitas della condotta inosservante, per cui, una volta integrata e provata dall'autorità amministrativa la fattispecie tipica dell'illecito, grava sul trasgressore, l'onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Sez. 2, Sentenza n. 04826/2016, Cosentino, Rv. 639176, ha affrontato il tema dell'incidenza dell'annullamento della delibera adottata dalla CONSOB contenente il regolamento sul procedimento sanzionatorio, rispetto ai ricorsi per cassazione già proposti. Con tale pronuncia si è detto che non è ammissibile alcuna rimessione in termini per la proponibilità di motivi aggiunti fondati su tale annullamento giacché, non investendo esso una norma processuale, né precludendo l'esercizio del diritto di azione o di difesa, non risultano applicabili i principi elaborati in materia di overruling. Sul piano sostanziale, invece, Sez. 1, n. 06037/2016, Lamorgese, Rv. 639053 ha chiarito che la complessa articolazione 773 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l'esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza - in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori - e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia ed alla Consob. Sez. 2, n. 06738/2016, Falaschi, Rv. 639638, ha ribadito il principio secondo il quale, qualora la sanzione sia stata inflitta all'Ente, quale responsabile in solido, l'obbligatorietà dell'azione di regresso prevista dall'art. 195, comma 9, del d.lgs. n. 58 del 1998 nei confronti del responsabile, comporta che alla persona fisica autrice della violazione, anche se non ingiunta del pagamento, deve essere riconosciuta un'autonoma legittimazione ad opponendum, che le consenta tanto di proporre separatamente opposizione quanto di spiegare intervento adesivo autonomo nel giudizio di opposizione instaurato dalla società, configurandosi in quest'ultimo caso un litisconsorzio facoltativo, e potendosi nel primo caso evitare un contrasto di giudicati mediante l'applicazione delle ordinarie regole in tema di connessione e riunione di procedimenti. Con la medesima pronuncia si è anche detto che, in caso di inerzia della persona fisica, il giudicato formatosi nel giudizio di opposizione intentato dalla società spiega effetti nel successivo giudizio di regresso quanto ai fatti accertati, mentre, in caso di mancata opposizione da parte della società non si verifica alcuna preclusione e la persona fisica potrà, in sede di regresso, spiegare tutte le opportune difese anche sul merito della sanzione. Un altro consolidato principioha trovato conferma in Sez. 2, n. 08687/2016, Falaschi, Rv. 639747, con riferimento al momento di decorrenza del termine entro il quale l'amministrazione deve procedere alla contestazione degli illeciti: a tal proposito si è detto che il momento dell'accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener 774 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto ed alle date delle operazioni, tanto più ove la violazione sia riferibile ad un tempo ben determinato e circoscritto. Nel caso di specie in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che, senza illustrarne le ragioni, aveva ritenuto la liceità della sanzione nonostante fossero decorsi oltre tre anni e mezzo dai fatti, per i quali la Consob aveva compiuto gli ultimi atti di indagine a distanza di oltre due anni dalla prima valutazione del materiale acquisito. Sempre in tema di termine per la contestazione Sez. 2, n. 09643/2016, Manna, Rv. 639878, ha ritenuto che a seguito della trasformazione di illeciti penali in illeciti amministrativi (nella specie, con riguardo all'ipotesi di abuso di informazioni privilegiate in materia di intermediazione finanziaria), tanto ai sensi dell'art. 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62, quanto ai sensi dell'art. 41, comma 1, della l. n. 689 del 1981 (la prima in rapporto di specialità con la seconda), il termine di centottanta giorni entro cui deve avvenire la contestazione dell'illecito decorre non dalla comunicazione della sola copia del provvedimento conclusivo del procedimento o del processo penale, ma dalla trasmissione degli atti all'autorità amministrativa (nella specie, la CONSOB), trattandosi di attività che realizza un continuum procedimentale diretto a trasferire nella sede amministrativa il patrimonio di conoscenze del fatto formatosi in quella penale. Con riferimento a singole violazioni, due casi particolarmente interessanti hanno riguardato l'art. 187 ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF), che sanziona «chiunque, tramite mezzi di informazione, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari». Sez. 2, n. 09644/2016, Manna, Rv. 639917, ha interpretato la norma citata nel senso che la parola "ovvero" non significa "cioè", sì da equiparare i due termini "false" e "fuorvianti" e considerare decettive solo le notizie che abbiano in concreto fuorviato il mercato degli strumenti finanziari. Si è invece attribuito alla parola "ovvero" un valore disgiuntivo, sicché per "false" devono intendersi le notizie oggettivamente non vere mentre per "fuorvianti" quelle che inducono in errore circostanziando un fatto vero con aggiunte od omissioni suggestive. Dunque la norma vieta tanto le notizie false quanto quelle fuorvianti che siano anche solo suscettibili di alterare il mercato. 775 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Con la medesima pronuncia si è inoltre ritenuto che taluni affermazioni riguardanti la valutazione in eccesso dei derivati negoziati da una banca, non fossero notizie o informazioni false, bensì giudizi tecnici opinabili, rientranti nella libera manifestazione del pensiero. Con altra decisione, Sez. 2, n. 14059/2016, Manna, Rv. 640184, ha affermato che, ai sensi dell'art. 187 ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, non può integrare "notizia falsa" una stima mark to market, perché questa, esprimendo una valutazione condizionata dal metodo di calcolo, sfugge all'alternativa secca tra vero e falso. Infine, si è ritenuto che l'art. 21 octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha carattere processuale, ed è pertanto applicabile con effetto retroattivo anche ai giudizi di opposizione in corso, ancorché promossi in epoca successiva alla sua emanazione, sicché gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dall'art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, che si svolge innanzi alla Consob, non sono rilevanti, sia in ragione della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, sia della immodificabilità del suo contenuto Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640355. 4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. In tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada devono segnalarsi, in primis, alcune sentenze che hanno un rilevante impatto sul contenzioso. Si tratta, infatti, di pronunzie che hanno deciso questioni oggetto di migliaia di cause pendenti presso gli uffici giudiziari di tutto il nostro Paese. Prime fra tutte, due decisioni in materia di accertamento delle violazioni sui limiti di velocità, che hanno ribadito l'obbligo di segnalare la presenza delle apparecchiature automatiche di rilevamento della velocità in mancanza delle quali la contestazione è illegittima. In particolare, Sez. 2, n. 15899/2016, Manna, Rv. 640570, ha ritenuto che «in tema di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità compiuto a mezzo di apparecchiatura di controllo comunemente denominata "autovelox", l'art. 4 del d.l. n. 121 del 2002, conv. in l. n. 168 del 2002 - per cui dell'installazione dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo deve essere data preventiva informazione agli automobilisti - non prevede un obbligo rilevante esclusivamente nell'ambito dei servizi organizzativi interni della P.A., ma è finalizzato ad informare gli automobilisti della presenza dei dispositivi di controllo medesimi, onde orientarne 776 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di infrazioni, con conseguente nullità della sanzione eventualmente irrogata in violazione di tale previsione». Nello stesso senso si è espressa Sez. 2, n. 09033/2016, Oricchio, Rv. 639939, secondo cui «in materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità, compiuto mediante dispositivi o mezzi tecnici di controllo, il cartello di avviso della presenza della postazione di rilevamento deve essere apposto in modo da garantirne la corretta percepibilità e leggibilità, ex art.79, comma 5, del d.p.r. n. 495 del 1992, sicché è illegittimo l'accertamento eseguito mediante foto-rilevazione avvenuta prima (nella specie, a più di duecento metri) del cartello mobile di avviso». Sui limiti del potere di accertamento dei dipendenti delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, si è espressa Sez. 2, n. 02973/2016, Criscuolo, Rv. 638925, secondo cui tali dipendenti con funzioni ispettive ai quali, ai sensi dell'art. 17, comma 133, della l. n. 127 del 1997, siano state conferite le funzioni di cui al comma 132 del citato articolo, possono accertare le violazioni in materia di circolazione e sosta limitatamente alle corsie riservate al trasporto pubblico, ex art. 6, comma 4, lett. c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, con esclusione, quindi, dell'esercizio di tali funzioni relativamente ad ogni altra area del territorio cittadino. Sez. 2, n. 16258/2016, Giusti, Rv. 641006, ha chiarito che non costituisce inadempimento contrattuale ma illecito amministrativo la sosta a pagamento su suolo pubblico che si protragga oltre l'orario per il quale è stata corrisposta la tariffa. In tali casi, pertanto, è legittima la sanzione di cui all'art. 7, comma 15, C.d.s., trattandosi di evasione tariffaria in violazione delle prescrizioni della "sosta regolamentata", introdotte per incentivare la rotazione e la razionalizzazione dell'offerta di sosta. Con altra sentenza si è chiarito il rapporto tra la violazione dell'obbligo di comunicare il conducente del mezzo al momento dell'infrazione e l'infrazione stessa. A tal proposito Sez. 6-2, n. 07003/2016, Correnti, Rv. 639472, ha ritenuto che ove la contestazione della violazione principale sia avvenuta tardivamente, va esclusa la sussistenza dell'obbligo, per il proprietario del veicolo, di comunicare gli estremi del conducente del mezzo al momento del rilevamento dell'infrazione, in quanto la tempestività della contestazione risponde alla ratio di porre il destinatario in condizione di difendersi, considerato che il trascorrere del tempo rende evanescenti i ricordi. 777 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Sez. 2, n. 08415/2016, Falabella, Rv. 639688, ha stabilito che l'obbligo di preventiva informazione del trattamento dei dati personali operato a mezzo di dispositivi elettronici per la rilevazione della violazioni al codice della strada, introdotto a carico dei Comuni dalla delibera del Garante per la protezione dei dati personali dell'8 aprile 2010, in attuazione dell'art. 13 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 n. 196, è correlato funzionalmente al rispetto di un obbligo di riservatezza e non mira, invece, a disciplinare la condotta di guida, sicché la sua inosservanza, a differenza della violazione degli obblighi di informazione previsti dal codice della strada circa la presenza delle dette apparecchiature che costituiscono norme di garanzia per l'automobilista, non incide sulla legittimità dell'accertamento e l'irrogazione della sanzione. Secondo Sez. 6 - 2, n. 23564/2016, Falaschi, Rv. 641677 il giudizio di opposizione a fermo amministrativo conseguente a violazioni del codice della strada, ai sensi del combinato disposto dell'art. 205 d. lgs. n. 285 del 1992 e dell'art. 22 bis l. n. 689 del 1981, che attribuisce al giudice di pace la competenza per materia a provvedere sulle opposizioni avverso gli atti di contestazione o di notificazione di violazioni del codice della strada, senza alcun limite di valore, è di competenza del giudice di pace, giacché il provvedimento opposto non Sulla procedura di contestazione Sez. 2, n. 09974/2016, Lombardo, Rv. 639758, ha precisato che il verbale di contestazione della infrazione deve contenere gli estremi dettagliati e precisi della violazione, a norma dell'art. 201 cod. strada, come ribadito dall'art. 383, comma 1, del relativo regolamento di esecuzione, con riguardo al "giorno, ora e località", prescrizioni dirette entrambe a garantire l'esercizio del contraddittorio da parte del presunto contravventore. (Nella specie si è ritenuta priva di fondamento la doglianza relativa alla mancata indicazione del numero civico, essendo sufficiente l'indicazione nel verbale della strada). Nello stesso senso Sez. 2, n. 00462/2016, Matera, Rv. 638212, secondo cui, la validità della contestazione, quale che sia la forma usata, dipende unicamente dalla sua idoneità a garantire l'esercizio del diritto di difesa al quale è preordinata, e solo tale ha natura di atto di espropriazione forzata, ma di procedura a questa alternativa, trattandosi di misura puramente afflittiva volta ad indurre il debitore all'adempimento e, dunque, la sua impugnativa, sostanziandosi in un'azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione in tema di riparto della competenza per materia e per valore. 778 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE accertata inidoneità può essere causa di nullità del verbale e della successiva ordinanza-ingiunzione Per le violazioni avvenute in epoca antecedente l'introduzione dell'art. 224 ter del codice della strada, Sez. 2, n. 01419/2016, Matera, Rv. 638827, ha negato la possibilità di comminare la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo "adoperato per commettere un reato", ai sensi dell'art. 213, comma 2 sexies, cod. strada (nel testo applicabile ratione temporis), essendo necessario l'accertamento del reato da parte del giudice penale, attesa l'inapplicabilità dell'art. 224 stesso codice, che, con riguardo alle sanzioni della sospensione e della revoca della patente, attribuisce al Prefetto, in caso di estinzione del reato per cause diverse dalla morte, il potere di accertare la sussistenza dei relativi presupposti e di irrogare le conseguenti misure, trattandosi di disposizione speciale non suscettibile di applicazione analogica per il principio di tassatività delle sanzioni amministrative. Sulla possibilità per i viceprefetti di disporre la sospensione della patente di guida Sez. 6-2, n. 13832/2016, Parziale, Rv. 640186, ne ha riconosciuto l'ammissibilità, in quanto l'art. 4 del d.m. 4 agosto 2005 non contempla un'esclusione del potere di delega prefettizio, né l'esclusione può desumersi dalla ratio legis. Sez. 6-2, n. 00167/2016, D'Ascola, Rv. 638728, ha ritenuto che la sanzione prevista dall'art. 23, comma 13 bis, cod. strada, per l'omessa rimozione di cartelli pubblicitari nel termine di dieci giorni dalla comunicazione della diffida dell'ente titolare della strada è autonoma e non accessoria rispetto alla diversa sanzione amministrativa di cui al comma 11 del citato art. 23 relativa all'abusiva installazione di detti cartelli, trattandosi di condotte differenti e a carico di soggetti diversi, rispettivamente il diffidato inadempiente all'obbligo di rimozione e l'installatore abusivo, sicché, la prima può essere applicata al soggetto inadempiente alla diffida, senza necessità della preventiva contestazione della condotta di installazione abusiva. Sez. 6-2, n. 25868/2016, Correnti, in corso di massimazione, ha ribadito che, la nuova disposizione prevista dal comma 1-bis dell'art. 204 del codice della strada - secondo cui i termini di cui ai commi 1-bis e 2 dell'art. 203 e al comma 1 dello stesso art. 204 sono perentori e si cumulano fra loro ai fini della valutazione di tempestività dell'adozione dell'ordinanza-ingiunzione - deve intendersi nel senso che la cumulabilità dei due termini consente al Prefetto di usufruire - per il complessivo svolgimento della sua attività di accertamento e decisione - del tempo massimo previsto 779 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE dalla somma delle due scansioni operative, ovvero di 60 giorni per la raccolta dei dati e le deduzioni degli accertatori e di 120 giorni per l'emissione del provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa, senza che, a tal fine, abbia alcuna incidenza sul computo totale di 180 giorni l'eventuale trasmissione anticipata (ovvero prima della scadenza del termine massimo prescritto di sessanta giorni) degli atti di competenza da parte dell'organo accertatore. Sez. 6-2, n. 25870/2016, Correnti, in corso di massimazione, ha nuovamente stabilito il principio secondo cui la sospensione provvisoria della patente di guida è misura cautelare di esclusiva spettanza prefettizia, necessariamente preventiva , strumentalmente e teleologicamente tesa a tutelare con immediatezza l'incolumità e l'ordine pubblico, e, per ciò stesso, oggetto di un particolare e celere iter procedimentale che riconosce all'Amministrazione la facoltà di adottare provvedimenti cautelari, anche prima dell'effettuazione della comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati, così escludendo anche la necessità di dare ingresso (e risposta) alle eventuali osservazioni di costoro, che altrimenti ricorrerebbe alla stregua delle regole generali (artt. 3, 7, comma l, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990, art. 204, nuovo codice della strada, art. 18 della legge n. 689 del 1981). Altro principio riaffermato in tema di violazioni delle norme del codice della strada da Sez. 6-2, n. 24999/2016, Picaroni, in corso di massimazione, riguarda la redazione del verbale redatto in forma meccanizzata. L'art. 385 del d.P.R. 16 dicembre 1992 n. 495 - regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada - prevede al terzo comma che, nel caso di contestazione non immediata ai sensi dell'art. 201 del codice della strada, il verbale redatto dall'organo accertatore rimane agli atti dell'ufficio o comando, mentre ai soggetti ai quali devono essere notificati gli estremi viene inviato uno degli originali o copia autenticata a cura del responsabile dello stesso ufficio o comando, e che, allorquando il verbale sia stato redatto con sistema meccanizzato o di elaborazione dati, esso viene notificato con il modulo prestampato recante la intestazione dell'ufficio o comando predetti. Tale norma è stata interpretata nel senso che il modulo prestampato notificato al trasgressore, pur recando unicamente l'intestazione dell'ufficio o comando cui appartiene il verbalizzante, è parificato per legge in tutto e per tutto al secondo originale o alla copia autenticata del verbale ed è, al pari di questi, assistito da fede privilegiata e che non è invalida la contestazione effettuata mediante notificazione del 780 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE verbale redatto dal sistema informatico, ancorché l'atto notificato non rechi l'attestazione di conformità al documento informatico. Chiude la rassegna in materia di violazioni al codice della strada Sez. 2, n. 16310/2016, Cosentino, Rv. 640997, che si è occupata della circolazione con targa di prova, individualmente autorizzata, stabilendo che, ai sensi dell'art. 1 del d.P.R. 24 novembre 2001, n. 474, la stessa possa avvenire in deroga al disposto di cui agli artt. 78, 93, 110 e 114 del d.lgs. n. 285 del 1992, ma non all'art. 80 del d.lgs. cit., sicché non può ritenersi consentita la circolazione, neppure in prova, di un veicolo non presentato per la revisione. 5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. Una prima decisione avente ad oggetto il rito riguarda la motivazione dell'ordinanza ingiunzione che, nell'irrogare al trasgressore una sanzione amministrativa, abbia disatteso le deduzioni difensive presentqate dal contravventore. Secondo Sez. 2, n. 02959/2016, Picaroni, Rv. 638872, sotto il profilo del vizio motivazionale è censurabile dal giudice dell'opposizione unicamente l'ordinanza ingiunzione che sia del tutto priva di motivazione (ovvero questa sia solo apparente) e non anche quella la cui motivazione risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante. In tema di mutamento dei termini della contestazione rispetto all'originario verbale di accertamento della violazione, Sez. 2, n. 04725/2016, Cosentino, Rv. 639147 ha affermato che è possibile solo una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto accertato e non anche la contestazione di un fatto nuovo. In particolare si è detto che in caso di mutamento della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell'accertamento, sulla cui base l'ente irrogatore abbia ritenuto di passare dalla contestazione di un illecito a quella di un altro non determina alcuna violazione del diritto di difesa, mantenendo il trasgressore la possibilità di contestare l'addebito in relazione all'unico fatto materiale accertato nel rispetto delle garanzie del contraddittorio. Con altro arresto, Sez. 6-2, n. 09355/2016, Manna, Rv. 639937. ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di convalida per mancata comparizione dell'opponente ex art. 23, comma 5, della l. n. 689 del 1981, qualora 781 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE lo stesso sia stato proposto oltre il termine di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., senza che sia invocabile il disposto di cui al comma 2 dell'art. 327 medesimo, dovendosi ritenere che l'opponente abbia sempre sicura conoscenza del processo per averlo iniziato con il deposito del ricorso in opposizione, sicché, ove non abbia notizia, entro un ragionevole lasso di tempo, della fissazione dell'udienza, è tenuto ad attivarsi per conoscere gli sviluppi processuali del giudizio, usando la normale diligenza, come l'ordinamento - nel prevedere il suddetto termine di decadenza - gli impone. Sempre in tema di ricorso per cassazione avverso sentenze emesse nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione, devono citarsi altre due pronunce. La prima, Sez. 2, n. 09770/2016, Lombardo, Rv. 639892, ha precisato che, qualora l'amministrazione opposta sia rimasta contumace oppure si sia avvalsa, ai sensi dell'art. 23, comma 4, della l. n. 689 del 1981, della facoltà di farsi rappresentare da un proprio funzionario, il ricorso per cassazione, in deroga all'art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, deve essere proposto nei confronti della stessa Amministrazione e notificato presso la sua sede legale.; sotto altro profilo, invece, Sez. 2, n. 02961/2016, Picaroni, Rv. 638826, ha ribadito che, qualora sia stata proposta opposizione direttamente avverso il verbale di contestazione della violazione, la legittimazione passiva spetta all'amministrazione dalla quale dipendono gli agenti che hanno accertato la violazione, sicché ove il verbale sia stato elevato dalla Polizia municipale, legittimato a resistere all'opposizione è il Comune (e non, come nel caso di specie, il Consorzio di Polizia locale), traducendosi l'erronea identificazione, in assenza di intervento correttivo della cancelleria, non nell'inammissibilità del ricorso ma in vizio della sentenza, rilevabile per la prima volta in cassazione se la relativa questione non sia coperta da giudicato perché non oggetto di espressa pronuncia a seguito di contestazione specifica. Sez. 6-2, n. 16853/2016, Parziale, Rv. 640996, ha affermato la natura ordinatoria e non perentoria del termine di cui all'art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011, per il deposito della documentazione strettamente connessa all'atto impugnato. La norma citata, infatti, prevede testualmente che: «con il decreto di cui all'articolo 415, secondo comma, del codice di procedura civile il giudice ordina all'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell'udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della 782 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE violazione. Il ricorso ed il decreto sono notificati, a cura della cancelleria, all'opponente ed ai soggetti di cui al comma 5» e, dunque, non prevede alcuna decadenza, a differenza di quanto stabilito dall'art. 416 c.p.c. che si applica, per il richiamo operato dal comma 1 del medesimo art. 7, per gli altri documenti depositati dall'Amministrazione. Devono essere segnalate, infine, altre due sentenze più strettamente legate alla fase dell'esecuzione: da un lato, Sez. 6-3, n. 12351/2016, Barreca, Rv. 640285, che ha nuovamente precisato che la notificazione della cartella di pagamento emessa per la riscossione di sanzioni amministrative, ai sensi della l. n. 689 del 1981 (e successive modificazioni), è disciplinata dall'art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, anche dopo la modificazione apportata a quest'ultima norma con l'art. 12 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, sicché la notifica può essere eseguita direttamente da parte dell'esattore mediante raccomandata con avviso di ricevimento; dall'altro, Sez. 3, n. 12412/2016, Barreca, Rv. 640411, per cui, in materia di violazioni del codice della strada, l'opposizione, proposta dopo il 6 ottobre 2011 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011) e con cui si deduca l'illegittimità della cartella esattoriale per sanzione amministrativa, per omessa notifica del verbale di contestazione della violazione, è soggetta al termine di trenta giorni stabilito dall'art. 7, comma 3, del medesimo d.lgs., perché l'impugnazione della cartella, in caso di omessa contestazione della violazione, ha funzione recuperatoria, venendo restituita al ricorrente la medesima posizione giuridica che avrebbe avuto se il verbale gli fosse stato notificato, sicché, se non impugnato nel predetto termine perentorio di trenta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, l'accertamento contenuto nel verbale di contestazione della violazione, anche se non notificato, diviene definitivo. 6. Altre pronunce di interesse. La rassegna in materia di giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione si chiude con un paragrafo dedicato alle pronunce che hanno riguardato singole sanzioni amministrative. Tale paragrafo, rende evidente, come la materia delle sanzioni amministrative sia estremamente complessa e di difficile elaborazione organica. Infatti la nostra legislazione è disseminata di norme amministrative sanzionatorie nei settori più disparati, dalla salute alla sanità, dall'edilizia e urbanistica alle norme antinfortunistiche, dal commercio all'agricoltura, ciò impedisce una 783 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE qualunque elaborazione sistematica, e costringe ad un elencazione frammentaria delle singole sanzioni nei più disparati settori. Come si è detto i principi generali in materia sono fissati dalla l. n. 689 del 1981, n. 689 che ha progressivamente acquisito una funzione paradigmatica all'interno della disciplina del potere sanzionatorio dell'amministrazione, tuttavia, tali principi sono applicabili solo in via residuale, ovvero in quanto compatibili e salvo deroga. L'art. 12 della legge 689 del 1981, stabilisce che le disposizioni del primo Capo «si osservano, in quanto applicabili e salvo quanto non sia diversamente stabilito per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale». L'interprete, dunque, è chiamato a individuare la disciplina applicabile sulla base dei suddetti criteri, stabilendo di volta in volta se la singola disciplina di settore sia o meno derogatoria della legge n. 689 del 1981. Venendo alle singole violazioni, si può individuare un primo gruppo di pronunce che hanno riguardato la materia del commercio. In particolare, in materia di violazioni della normativa in materia di etichettatura dei prodotti alimentari. Sez. 2, n. 17028/2016, Scarpa, Rv. 640841, ha stabilito che la competenza ad irrogare le sanzioni amministrative previste dagli artt. 2 e 18 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 spetta all'Ispettorato centrale repressione frodi e non alle ASL, in quanto la principale finalità delle norme in materia è garantire la corretta informazione del consumatore sul bene commercializzato. Ancora in materia di sicurezza ed etichettatura delle merci Sez. 6-2, n. 18171/2016, Falaschi, Rv. 641097, ha affermato che, il dettagliante che immette sul mercato prodotti privi delle informazioni prescritte è sanzionabile, alla stregua di un'interpretazione sistematica della relativa disciplina, per la violazione degli obblighi informativi di cui all'art. 6 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, senza che possa invocare la propria buona fede per aver acquistato i prodotti da rivenditori autorizzati o grossisti, trattandosi di errore di diritto non scusabile, stante la semplicità degli adempimenti richiesti, basati su una conoscenza minima e necessaria della legislazione nazionale ed europea, tanto più che il suo operato si colloca nella fase in cui è maggiore l'esigenza di tutelare la libera autodeterminazione del consumatore. Sempre in materia di tutela del consumatore nella commercializzazione dei prodotti alimentari Sez. 2, n. 03670/2016, 784 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Scarpa, Rv. 639109, ha stabilito che per i controlli di conformità alle norme di commercializzazione relative ai prodotti ortofrutticoli freschi, l'art. 10, comma 3, del Reg. CE n. 1148 del 2001 (applicabile ratione temporis) non richiede l'indicazione dei dati che consentono la tracciabilità della merce anche sul documento di trasporto interno (cd. "bolla XAB") relativo al trasporto dal deposito ad una filiale della medesima azienda, giacché l'obbligatorietà della previsione di tali estremi sui documenti di accompagnamento concerne solo i livelli della filiera a monte della destinazione finale del prodotto presso le piattaforme della grande distribuzione e non anche, ove dette prescrizioni siano state rispettate, i transiti a valle, da queste ultime ai singoli punti vendita. Un'altra interessante pronuncia ha riguardato le sanzioni amministrative in materia di riservatezza dei dati. Secondo Sez. 2, n. 15908/2016, Scarpa, Rv. 640576, infatti, la struttura pubblica o privata che effettui il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute dei pazienti nella prestazione di servizi sanitari relativi a una banca dati in rete telematica deve darne notifica al Garante per la protezione dei dati personali, agli effetti dell'art. 37, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, obbligo che non sussiste quando il trattamento sia effettuato manualmente tramite archivi cartacei o nell'ambito di servizi di assistenza telefonica o comunque mediante banche dati non collegate a reti telematiche. Sez. 6-2, n. 00101/2016, Correnti, Rv. 638020, conferma e stablizza il precedente orientamento secondo cui configurano le ipotesi del gioco d'azzardo e dell'alea, concretando il divieto di cui all'art. 110, comma 7 bis del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U.L.P.S.), le macchine da gioco che consentano la selezione dell'opzione "poker room" e distribuiscano premi, ancorché sotto forma di punti spendibili on line, atteso che costituisce vincita in denaro anche quella che comporta un risparmio sull'acquisto di un prodotto, mentre il fine di lucro che caratterizza il gioco illecito non deve di necessità tradursi in una somma di denaro, essendo sufficiente che si tratti di un guadagno economicamente apprezzabile. In materia di sanzioni a tutela del lavoro Sez. 5, n. 13744/2016, Iannello, Rv. 640544, ha ritenuto che in caso di impiego di lavoratori non regolarmente denunciati, la base di calcolo della sanzione prevista dall'art. 3, comma 3, del d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73 (nel testo vigente ratione temporis), debba essere costituita dal costo del lavoro quantificato in base ai vigenti contratti collettivi nazionali. 785 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Infine Sez. 2, n. 17855/2016, Orilia, Rv. 640891, ha chiarito che la competenza ad irrogare la sanzione per il trasporto non di linea nelle acque di navigazione interna della città di Venezia (nella specie, il Canale di Tessera) senza autorizzazione spetta, ai sensi dell'art. 1, della legge regionale Veneto, n. 10 del 1977, al Comune di Venezia, trattandosi di competenza amministrativa, delegata dalla Regione Veneto, attribuita ai sensi dell'art. 5, comma 5, della l.reg. Veneto, n. 63 del 1993, senza che rilevi la concorrenza potestà, sulla medesima area, del Magistrato delle Acque, afferente ad un diverso ambito (nella specie, alla disciplina della sicurezza della navigazione). 786 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI CAPITOLO XLIII LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI (di Giuseppe Fichera) SOMMARIO: 1. La dichiarazione di fallimento. – 2. L'impugnazione della sentenza di fallimento. – 3. I reclami endofallimentari e la competenza del tribunale. – 4. La formazione dello stato passivo e le opposizioni. – 4.1. L'accertamento della prededuzione. – 5. I riparti. – 6. L'esdebitazione. – 7. Il concordato preventivo: i presupposti. – 7.1. Il concordato "in bianco". – 7.2. La revoca dell'ammissione. – 7.3. L'omologa. – 7.4. I rapporti con il fallimento. – 7.5. L'annullamento e la risoluzione. – 8. Il sovraindebitamento. 1. La dichiarazione di fallimento. Nel corso dell'anno 2016 molteplici e di sicuro interesse, sono state le decisioni della Suprema Corte che hanno riguardato i profili processuali delle procedure concorsuali. Numerose decisioni si sono occupate dell'instaurazione del contraddittorio in sede prefallimentare, anche alla luce della novella dell'art. 15 l.fall., introdotta con l'art. 17 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, in tema di notifica a mezzo posta elettronica certificata (PEC). Sez. 6-1, n. 13917/2016, Genovese, Rv. 640360, ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 15, comma 3, l.fall. nella parte in cui non prevede una nuova notifica dell'avviso di convocazione in caso di accertata aggressione ad opera di esterni all'account di posta elettronica del resistente: quest'ultimo, infatti, tenuto per legge a munirsi di un indirizzo PEC, ha il dovere di assicurarsi del corretto funzionamento della propria casella postale certificata e di utilizzare dispositivi di vigilanza e di controllo, dotati di misure anti intrusione, oltre che di controllare prudentemente la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come "posta indesiderata". Sez. 6-1, n. 27050/2016, Genovese, in corso di massimazione, ribadisce che ai fini del perfezionamento della notifica telematica del ricorso tramite PEC, occorre aver riguardo unicamente alla sequenza procedimentale stabilita dalla legge; e tale principio, non può soffrire deroga in ragione del fatto che l'amministratore unico (e pure unico socio della società) fosse, nel giorno in cui ha avuto luogo l'esecuzione della notificazione e per tutto il periodo successivo, fino alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, in stato di detenzione cautelare, atteso che 787 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa e gli obiettivi di speditezza e operatività, al quali deve essere improntato il procedimento concorsuale, giustificano che il tribunale resti esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell'imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico. Sez. 1, n. 17946/2016, Didone, in corso di massimazione, precisa che in caso di società già cancellata dal registro delle imprese, il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere notificato, all'indirizzo PEC della società cancellata in precedenza comunicato al registro delle imprese, ovvero, nel caso in cui non risulti possibile – per qualsiasi ragione – la notifica a mezzo PEC, direttamente presso la sua sede risultante dal registro delle imprese ed, in caso di ulteriore esito negativo, mediante deposito presso la casa comunale del luogo in cui la medesima aveva sede. Soggiunge Sez. 1, n. 17767/2016, Ferro, in corso di massimazione, che anche nel regime anteriore alle modifiche apportate all'art. 15, comma 3, l.fall. dall'art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, l'avvocato del ricorrente può notificare il ricorso di fallimento, ai sensi dell'art. 3 bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53, a mezzo di spedizione diretta all'indirizzo PEC della società debitrice, pur se cancellata dal registro delle imprese. Di notevole interesse, poi, Sez. 1, n. 15035/2016, Nappi, Rv. 640803, che in tema di notifiche telematiche nei procedimenti civili, compresi quelli cd. prefallimentari, precisa come la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC), rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata del destinatario, costituisce documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella "certezza pubblica" propria degli atti facenti fede fino a querela di falso. E invero, da un lato, atti dotati di siffatta speciale efficacia, incidendo sulle libertà costituzionali e sull'autonomia privata, costituiscono un numero chiuso e non sono suscettibili di estensione analogica e, dall'altro, l'art. 16 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 , si esprime in termini di "opponibilità" ai terzi ovvero di semplice "prova" dell'avvenuta consegna del messaggio; e ciò tanto più che le attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di posta elettronica certificata, a differenza di quelle apposte sull'avviso di ricevimento dall'agente postale nelle notifiche a mezzo posta, aventi 788 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI fede privilegiata, non si fondano su un'attività allo stesso delegata dall'ufficiale giudiziario. In via generale, poi, Sez. 1, n. 17050/2016, Di Virgilio, Rv. 640931, precisa che il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione vanno notificati all'ente incorporante, che, ai sensi dell'art. 2504 bis c.c., assume i diritti e gli obblighi della prima e ne prosegue tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l'eventuale dichiarazione di fallimento. Chiarisce Sez. 1, n. 17444/2016, Lamorgese, Rv. 640940, che la notificazione tramite polizia giudiziaria del ricorso di fallimento e del decreto di convocazione non è inesistente, bensì nulla, in quanto non totalmente incompatibile con le regole della procedura prefallimentare, sicché il vizio resta sanato ove la notifica sia giunta a buon fine per aver raggiunto lo scopo di portare l'atto a conoscenza del destinatario, nonché, a maggior ragione, quando il debitore, informato del deposito del ricorso e della fissazione dell'udienza, si sia costituito ovvero sia comparso senza nulla eccepire innanzi al tribunale chiamato a pronunciarsi sulla dichiarazione di fallimento. Sul termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell'udienza, Sez. 6-1, n. 14814/2016, Ragonesi, Rv. 640748, afferma che la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale, previste dall'art. 15, comma 5, l.fall., costituisce causa di nullità astrattamente integrante la violazione del diritto di difesa, ma non determina – ai sensi dell'art. 156 c.p.c., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell'atto – la nullità del decreto di convocazione se, il debitore, pur eccependo la nullità della notifica, abbia attivamente partecipato all'udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile. Quanto alla dichiarazione di fallimento di società con soci illimitatamente responsabili, secondo Sez. 6-1, n. 01105/2016, Mercolino, Rv. 638423, l'obbligo di convocazione di questi ultimi, sancito dall'art. 147, comma 3, l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, trova giustificazione non in un loro generico interesse riferito alla 789 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI dichiarazione di fallimento della società, ma nel fatto che detta dichiarazione produce anche il loro fallimento; ne consegue che, siccome la sentenza che dichiara il fallimento della società e dei soci contiene una pluralità di dichiarazioni di fallimento, tra loro collegate da un rapporto di dipendenza unidirezionale, trovando la dichiarazione di fallimento del socio il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società (la cui nullità travolge anche la prima, mentre non è vero il contrario), la mancata convocazione del socio determina unicamente la nullità del suo fallimento, ove specificamente impugnato, ma non si riflette sulla validità della pronuncia emessa nei confronti della società. Di sicuro interesse anche Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638845, a tenore della quale i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti dell'imprenditore apparentemente individuale sono litisconsorti necessari nel procedimento di estensione previsto dagli artt. 15 e 147, comma 5, l.fall., compresa la fase dell'eventuale reclamo, avendo l'interesse, non delegabile al curatore, né ad altro legittimato che abbia assunto l'iniziativa, ad evitare che, sui beni del socio già dichiarato fallito, possano concorrere, ex art. 148 l.fall., i creditori della società occulta. Pertanto, se il giudice di primo grado non ha disposto l'integrazione del contraddittorio e la corte d'appello non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l'intero procedimento e si impone, in sede di legittimità, l'annullamento, anche d'ufficio, delle pronunce emesse ed il rinvio della causa al giudice di prime cure ai sensi dell'art. 383, ultimo comma, c.p.c. Con riferimento al fallimento della società a responsabilità limitata che sia socia di una società persone, anche di fatto, fallita, merita sicuro rilievo, trattandosi della prima decisione della S.C. sul tema, Sez. 1, n. 01095/2016, Nazzicone, Rv. 638275, secondo cui per la valida partecipazione alla società non è richiesto il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, costituendo un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili 790 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall'art. 147, comma 1, l.fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza. A sua volta, Sez. 1, n. 10507/2016, Cristiano, Rv. 639798, afferma che l'art. 147, comma 5, l.fall. trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto) – non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento – la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev'essere conforme, e non contrario, all'interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, a favore dell'esistenza della holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza a richiesta di un creditore. Soggiunge Sez. 1, n. 03621/2016, Ferro, Rv. 638844, che ai sensi dell'art. 147 l.fall., qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, la sentenza di estensione muta soltanto il titolo in virtù del quale l'altro socio è già stato dichiarato fallito, vale a dire non più quale imprenditore individuale ma come socio illimitatamente responsabile della società occulta. Il passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento individuale, pertanto, fa soltanto venir meno tale mutamento del titolo, ma non determina alcun effetto sulla sentenza di estensione, la quale, quindi, acquisisce carattere originario quanto a presupposti e procedimento, con la conseguente necessità, nell'eventuale giudizio impugnatorio, di un nuovo accertamento dei requisiti soggettivi ed oggettivi di fallibilità della società occulta e dei suoi soci illimitatamente responsabili. Ancora, Sez. 1, n. 15346/2016, Terrusi, Rv. 640752, precisa che la società di fatto holding esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di altre società ed è, 791 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI pertanto, autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall'abuso sanzionato dall'art. 2497 c.c., nonché al danno così arrecato all'integrità patrimoniale delle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori. Sulle tematiche concernenti la competenza per territorio sull'istanza di fallimento, va senz'altro segnalata Sez. 1, n. 16951/2016, Ferro, Rv. 640938, a tenore della quale la pluralità di procedimenti pendenti, avanti a tribunali diversi, per la dichiarazione di fallimento del medesimo debitore su istanza di legittimati non coincidenti determina un conflitto, reale o virtuale, la cui regolazione dovrà avvenire solo dopo la dichiarazione di fallimento, alla stregua dell'art. 9 ter l.fall., tenuto conto della prevenzione che permette, nel frattempo, di dichiarare il fallimento ove se ne accertino i presupposti, restando in ogni caso esclusa l'applicazione del criterio dirimente di cui all'art. 39, comma 1, c.p.c. Afferma poi Sez. 1, n. 19343/2016, Mercolino, in corso di massimazione, che il regolamento di competenza di ufficio è esperibile, in applicazione analogica dell'art. 45 c.p.c., in presenza di un conflitto di competenza sia reale positivo che meramente virtuale, attesa l'inderogabilità della previsione dell'art. 9 l.fall. e la conseguente rilevabilità di ufficio ed in ogni tempo della sua violazione, cui non osta l'eventuale avvenuta pronuncia, in uno dei due giudizi, della sentenza di fallimento, anche se divenuta cosa giudicata. Né, in contrario, può invocarsi l'art. 9 ter l.fall., che, nell'enunciare il principio della prevenzione quale criterio per l'individuazione del giudice innanzi al quale deve proseguire la procedura ove il fallimento sia stato dichiarato da più tribunali, postula che questi ultimi siano tutti ugualmente competenti ex art. 9 l.fall., sicché è inutilizzabile se quello pronunciatosi per primo abbia affermato la propria competenza in relazione ad una sede dell'impresa non corrispondente a quella principale. 2. L'impugnazione della sentenza di fallimento. In apertura va segnalata senz'altro Sez. 1, n. 02302/2016, Didone, Rv. 638407, a tenore della quale è inammissibile, oltre che per difetto di interesse anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione, il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento proposto ai sensi dell'art. 18 l.fall. (nella formulazione derivante dalle modifiche apportate dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 792 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI 169), laddove lo stesso sia fondato esclusivamente su vizi di rito (nella specie, l'inosservanza del termine dilatorio di comparizione di cui all'art. 15, comma 3, l.fall.), senza la contestuale e rituale deduzione delle eventuali questioni di merito, ed i vizi denunciati non rientrino tra quelli che comportino una rimessione al primo giudice, tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354 c.p.c. Sulla desistenza dell'unico creditore istante, Sez. 6-1, n. 08980/2016, Genovese, Rv. 639565, precisa che detta rinuncia, ove rilasciata in data successiva alla dichiarazione di fallimento non è idonea a determinare l'accoglimento del reclamo e, conseguentemente, la revoca della sentenza di fallimento. Sulla decorrenza dei termini per impugnare, Sez. 1, n. 10632/2016, Mercolino, Rv. 639799, chiarisce che sebbene l'art. 18, comma 4, l.fall. richiami espressamente il solo art. 327, comma 1, c.p.c., per ragioni riconnesse al rispetto del principio del contraddittorio, riferibile anche al procedimento prefallimentare, deve ritenersi applicabile anche il successivo comma 2 qualora l'impugnazione sia stata proposta da chi, come la società fallita, pur rivestendo ivi la qualità di parte, per esserne stata destinataria dell'atto introduttivo, sia rimasta sostanzialmente estranea ad esso, non avendone avuto conoscenza a causa di un vizio della notificazione, mentre tale disposizione non si applica se il reclamo sia proposto da chi, come il socio della società fallita, pur titolare di posizioni giuridiche che potrebbero essere pregiudicate dalla dichiarazione di fallimento, non sia, tuttavia, destinatario della relativa istanza, né del decreto di convocazione, dei quali, infatti, non è prevista la notificazione anche nei suoi confronti, sicché lo stesso, benché legittimato a proporre reclamo, non è dispensato dall'osservanza del termine di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., indipendentemente dalla partecipazione al procedimento di primo grado e dal fatto che la notifica del ricorso di fallimento alla società fallita sia inesistente o nulla. Sempre sui termini per il reclamo, va segnalato il seguente contrasto tra le sezioni. Sez. 6-1, n. 05374/2016, Scaldaferri, Rv. 638900, afferma che la comunicazione del testo integrale del decreto reiettivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata (anteriormente all'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv., con modif., dalla l. 11 agosto 2014, n. 114) dalla cancelleria della corte d'appello mediante PEC, non è idonea a farne decorrere il termine breve per l'impugnazione in cassazione. Sez. 1, n. 10525/2016, di Virgilio, Rv. 639848, invece, assume che la 793 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI notifica del testo integrale della sentenza reiettiva del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata ai sensi dell'art. 18, comma 13, l.fall., dal cancelliere mediante PEC, ex art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif, dalla l. n. 221 del 2012, è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione in cassazione ex art. 18, comma 14, l.fall., non ostandovi il nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014, secondo il quale la comunicazione del testo integrale della sentenza da parte del cancelliere non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 c.p.c. Di sicura rilevanza sistematica appare Sez. 1, n. 12964/2016, Ferro, Rv. 640113, la quale afferma che nel caso in cui la sentenza dichiarativa di fallimento faccia seguito ad un provvedimento di inammissibilità della domanda di concordato preventivo, l'effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso la sentenza di fallimento riguarda anche la decisione sull'inammissibilità del concordato, perché parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della stessa crisi, sicché, ove il debitore abbia impugnato la dichiarazione di fallimento, censurando innanzitutto la decisione del tribunale sulla sua mancata ammissione al concordato, il giudice del reclamo, adìto ai sensi degli artt. 18 e 162 l.fall., è tenuto a riesaminare, anche avvalendosi dei poteri officiosi previsti dall'art. 18, comma 10, l.fall., tutte le questioni concernenti detta ammissibilità, pur attinenti a fatti non allegati da alcuno nel corso del procedimento innanzi al giudice di primo grado, né da quest'ultimo rilevati d'ufficio, ed invece dedotti per la prima volta nel giudizio di reclamo ad opera del curatore del fallimento o delle altre parti ivi costituite. Infine, sulle complesse questioni di diritto intertemporale, determinate dalle plurime novelle apportate alle legge fallimentare del '42, da segnalare Sez. 1, n. 05925/2016, Ferro, Rv. 639059, secondo la quale il ricorso per cassazione avverso la decisione della corte d'appello emessa in epoca successiva alla vigenza del d.lgs. n. 169 del 2007, ma resa in un giudizio di opposizione nei confronti di una sentenza dichiarativa di fallimento depositata in data antecedente all'entrata in vigore del menzionato decreto legislativo (oltre che del d.lgs. n. 5 del 2006), va dichiarato inammissibile laddove proposto oltre il termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza impugnata di cui al novellato art. 18, comma 14, l.fall. Invero, l'art. 22 del d.lgs. n. 169 del 2007 dà piena attuazione al principio processuale del tempus regit actum, secondo il quale la 794 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI normativa sopravvenuta trova applicazione anche ai processi in corso, a nulla rilevando che il fallimento sia stato pronunciato prima della riforma del 2006, né che la sentenza di appello sia stata emanata – ovvero trattata parzialmente nei giudizi impugnatori che l'hanno seguita o preceduta secondo il regime previsto dalla normativa antecedente alla riforma del 2006-2007. 3. I reclami endofallimentari e la competenza del tribunale. Sez. 2, n. 12005/2016, Criscuolo, Rv. 640365, ricorda che il reclamo avverso i decreti del giudice delegato va proposto, ex art. 26 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e successivamente modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007, innanzi al tribunale in composizione collegiale, sicché ove la corte d'appello, erroneamente investita, ometta di rilevarne l'inammissibilità, l'impugnazione, in sede di legittimità, va dichiarata inammissibile d'ufficio, con cassazione senza rinvio della sentenza erroneamente emessa, riguardando l'erronea individuazione del giudice legittimato a decidere non la competenza ma la valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame medesimo, senza che al gravame inammissibilmente spiegato (con relativo passaggio in giudicato della decisione di primo grado) possa riconoscersi efficacia conservativa del processo di impugnazione. Di sicuro interesse in tema, Sez. 1, n. 08404/2016, Nappi, Rv. 639537, secondo cui nel caso in cui il tribunale sia chiamato alla determinazione del compenso complessivo spettante al curatore del fallimento ed al successivo riparto dello stesso tra i curatori che si sono succeduti nella funzione, l'unitarietà della situazione sostanziale impone la partecipazione al procedimento camerale di cui all'art. 39 l.fall. di tutti i soggetti che hanno rivestito tale qualità, al fine di individuare la frazione del compenso spettante a ciascuno, nel rispetto del principio del contraddittorio, la cui attuazione, peraltro, trattandosi di un procedimento non altrimenti disciplinato, è rimessa, in applicazione delle regole generali sui giudizi in camera di consiglio ex artt. 737 ss. c.p.c., alle forme più idonee individuate dal collegio. Sez. 1, n. 19340/2016, Bisogni, in corso di massimazione, ribadisce il costante orientamento della S.C., a tenore del quale l'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, comma 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, – quale strumento di reintegrazione del patrimonio 795 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti, sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, comma 2, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse. 4. La formazione dello stato passivo e le opposizioni. Numerose sono state, nell'anno in rassegna, anche le decisioni della S.C. concernenti la formazione dello stato passivo. Di sicuro interesse Sez. 1, n. 09617/2016, Didone, Rv. 639616, la quale afferma che l'opposizione allo stato passivo del fallimento (come disciplinata a seguito del d.lgs. n. 169 del 2007), ancorché abbia natura impugnatoria, costituendo il rimedio avverso la decisione sommaria del giudice delegato, non è un giudizio di appello, per cui il relativo procedimento è integralmente disciplinato dalla legge fallimentare, la quale prevede che avverso il decreto di esecutività dello stato passivo possano essere proposte solo l'opposizione (da parte dei creditori o dei titolari di diritti su beni), l'impugnazione (da parte del curatore o di creditori avverso un credito ammesso) o la revocazione. Ciascuno di tali rimedi, peraltro, può essere utilizzato dal soggetto legittimato, esclusivamente entro il termine di cui all'art. 99 l.fall., restando concettualmente inconfigurabile un'impugnazione incidentale, tardiva o tempestiva, atteso che, ove il termine sia ancora pendente, non può che essere proposta l'impugnazione a sé spettante, mentre, se sia ormai decorso, si è decaduti dalla possibilità di contestare autonomamente lo stato passivo. Sez. 6-1, n. 01342/2016, Acierno, Rv. 638408, ribadisce che non essendo equiparabile all'appello, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, regolato dagli artt. 98 e 99 l.fall., non si applicano le norme dettate per il procedimento di gravame e la mancata comparizione della parte opponente, tempestivamente costituitasi, in un'udienza successiva alla prima, non può dar luogo a pronuncia di improcedibilità dell'opposizione. 796 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI Sez. 1, n. 12116/2016, De Chiara, Rv. 640037, poi, ricorda che, ai sensi dell'art. 99 l.fall. (nella formulazione derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. n. 169 del 2007), la trattazione dei procedimenti di impugnazione di cui all'art. 98, ivi compreso quello di opposizione allo stato passivo, può avvenire davanti al collegio o ad uno dei suoi componenti, delegato dal presidente ai sensi del comma 3, e, ove si sia optato per questa seconda modalità, l'investitura del collegio per la decisione non è disciplinata dalle norme del codice di procedura civile, che riguardano il rito ordinario e non sono applicabili, neppure per ragioni logico- sistematiche, allo speciale rito delle impugnazioni dello stato passivo fallimentare. Occupandosi dei poteri istruttori ufficiosi del giudice, Sez. 1, n. 19596/2016, Bisogni, in corso di massimazione, afferma che l'art. 421 c.p.c. è norma relativa al rito del lavoro e non trova applicazione nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ai sensi dell'art. 98 l.fall., che è retto dalle norme che regolano il giudizio ordinario, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l'impresa assoggettata alla procedura concorsuale. Di rilievo appaiono anche le decisioni che si sono occupate dei soggetti che devono partecipare ai giudizi di opposizione allo stato passivo. Così Sez. 1, n. 02538/2016, Genovese, Rv. 638567, affrontando la disciplina transitoria di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 169 del 2007, precisa che la normativa sopravvenuta si applica ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 2008) ed alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte dopo tale data, sicché, come il ricorso per opposizione allo stato passivo depositato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, ma in data anteriore al 1° gennaio 2008, deve essere notificato anche al fallito, secondo la previsione della sola disciplina normativa del d.lgs. n. 5 cit., pure la corrispondente impugnazione, ai sensi dell'art. 99 l.fall. ratione temporis vigente, va notificata a tale soggetto, che, tuttavia, non è un litisconsorte necessario del curatore, poiché la sua presenza è finalizzata unicamente all'eventuale apporto volontario di elementi utili alla decisione. Ne consegue che, avendo il predetto adempimento il valore di semplice denuntiatio litis, la sua omissione, in difetto di specifica diversa disposizione, non costituisce causa di inammissibilità dell'impugnazione, dovendo il tribunale disporre unicamente la rinnovazione dell'atto mancante. 797 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI Sez. 6-1, n. 00119/2016, Genovese, Rv. 638047, esclude la legittimazione attiva del fideiussore dell'imprenditore fallito alle impugnazioni allo stato passivo di cui all'art. 98 l.fall., atteso che, da un lato, la sua posizione è accessoria a quella del debitore principale, a sua volta privo di interesse a veder ridotta la consistenza del proprio passivo, essendo stata la relativa legittimazione attribuita, in sua vece, al curatore fallimentare, e, dall'altro, è estraneo alle ragioni sottostanti all'ammissione dei crediti e, quindi, alla stessa formazione dello stato passivo. Sempre in ordine alle giuste parti nei giudizi di impugnazione, occorre segnalare un contrasto tra le sezioni. Sez. 1, n. 09016/2016, Mercolino, Rv. 639535, afferma, infatti, che in tema di riscossione dei contributi previdenziali mediante iscrizione a ruolo, deve escludersi la configurabilità di un litisconsorzio necessario tra l'ente creditore ed il concessionario del servizio di riscossione qualora il giudizio sia promosso da quest'ultimo o nei confronti dello stesso, non assumendo a tal fine alcun rilievo che la domanda abbia ad oggetto, non la regolarità o la ritualità degli atti esecutivi, ma l'esistenza stessa del credito, posto che l'eventuale difetto del potere di agire o di resistere in ordine a tale accertamento comporta l'insorgenza solo di una questione di legittimazione, la cui soluzione non impone la partecipazione al giudizio dell'ente creditore. La chiamata in causa di quest'ultimo, prevista dall'art. 39 del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, dev'essere, pertanto, ricondotta all'art. 106 c.p.c. ed è, come tale, rimessa alla esclusiva valutazione discrezionale del giudice del merito, il cui esercizio non è censurabile né sindacabile in sede d'impugnazione. Di tenore esattamente opposto la successiva Sez. L, n. 12450/2016, Riverso, Rv. 640372, secondo cui nell'opposizione allo stato passivo fallimentare promossa dal concessionario dei servizi di riscossione di contributi previdenziali ex art. 24 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, qualora il debitore deduca fatti o circostanze che incidono sul merito della pretesa creditoria, o eccepisca in compensazione un proprio controcredito, sussiste il litisconsorzio necessario con l'ente impositore, unico reale legittimato a stare in giudizio, essendo quella del concessionario una legittimazione meramente processuale. Sui rapporti tra rito ordinario e giudizio di accertamento dei crediti, va senz'altro segnalata Sez. 1, n. 03953/2016, Terrusi, Rv. 638866, a tenore della quale le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario, attesa l'opponibilità 798 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell'effetto prenotativo della trascrizione, mentre le pretese, accessorie, di restituzione e risarcimento del danno devono necessariamente procedere, previa separazione dalle prime, nelle forme degli art. 93 e ss. l.fall., in quanto assoggettate alla regola del concorso e non suscettibili di sopravvivere in sede ordinaria. Di sicuro interesse anche Sez. 6-1, n. 00535/2016, Genovese, Rv. 638272, secondo cui in sede di accertamento del passivo, il curatore, in quanto parte pubblica (al pari del PM), ha il dovere di non nascondere gli elementi di cui sia entrato in possesso per ragioni dell'ufficio esercitato (che è pur sempre quello di assicurare ai creditori la loro par condicio, senza avvantaggiarne ma anche danneggiarne alcuni), specie quando questi siano il risultato del concreto atteggiarsi del principio di vicinanza della prova. Ne consegue che il suo parere favorevole all'ammissione di un credito allo stato passivo fallimentare non può essere disatteso dal giudice delegato in via astratta e generalizzata, in assenza di fatti che impongano di formulare eccezioni ufficiose agli elementi di prova che risultino già in possesso del curatore e senza che tali elementi siano specificamente verificati, eventualmente anche nel contraddittorio delle parti. Affronta una questione nuova Sez. L, n. 14099/2016, Venuti, Rv. 640463, secondo la quale la formazione dello stato passivo, ed il relativo decreto di esecutività, presuppongono – come risulta dall'art. 96, comma 4, l.fall. – che sia completato l'esame di tutte le istanze, dovendosi escludere che, in relazione alle domande esaminate nella prima udienza, e nelle successive eventuali di rinvio, possano essere adottati altrettanti provvedimenti di esecutività, sicché il termine per l'eventuale opposizione di un creditore escluso (nella specie, per credito di lavoro), anche in relazione ad istanza di insinuazione tardiva, ai sensi dell'art. 101, comma 1, l.fall., decorre dalla data di deposito del decreto di esecutività emesso dopo l'esame di tutte le domande. Sulle domande tardive occorre segnalare, anzitutto, Sez. 1, n. 14936/2016, Didone, Rv. 640742, secondo la quale il sistema della legge fallimentare – in ragione del principio generale che riconosce carattere giurisdizionale e decisorio al procedimento di verificazione del passivo – esclude la possibilità di una duplice insinuazione, ordinaria e tardiva, di uno stesso credito, sicché, dovendosi identificare il petitum della domanda di ammissione al passivo nel riconoscimento del diritto a partecipare al concorso per un credito individuato e con un certo rango, una volta collocato 799 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI definitivamente al passivo in via chirografaria, è preclusa, la formulazione di una successiva domanda tardiva per il riconoscimento di un diritto di prelazione sul medesimo credito, fermo restando che l'onere di provare che la domanda di ammissione tardiva si riferisce ad un credito già insinuato incombe sul curatore, trattandosi di fatto impeditivo all'ammissione al concorso. Per Sez. 1, n. 00814/2016, Di Virgilio, Rv. 638394, tuttavia, la rinuncia all'ammissione al passivo da parte del creditore ivi già ammesso non incide sul diritto di credito azionato, sicché non preclude la possibilità di far valere nuovamente, mediante riproposizione dell'istanza di insinuazione in via tardiva, il diritto sostanziale già dedotto, anche da parte di chi, nelle more, se ne sia reso cessionario. Sempre in tema di insinuazioni tardive, Sez. 6-1, n. 04408/2016, De Chiara, Rv. 639020, afferma che il termine perentorio per il deposito delle dette domande, previsto dall'art. 101, comma 1, l.fall., è soggetto alla sospensione feriale, sulla base delle indicazioni desumibili dagli artt. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e 36 bis l.fall., in quanto si tratta di termine processuale, entro il quale il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa altra forma di tutela del diritto. Assai interessante in tema di accertamento dei crediti nell'ambito delle liquidazioni coatte amministrative, Sez. 1, n. 02917/2016, Didone, Rv. 638553, la quale afferma che nella detta procedura, avendo la prima fase natura amministrativa e non giurisdizionale, le operazioni di verifica dei crediti sono affidate al commissario liquidatore, organo estraneo alla giurisdizione, e prescindono dalla domanda di parte e dal suo contenuto, sicché deve ritenersi consentito al creditore, con l'opposizione allo stato passivo, di modificare o integrare l'istanza eventualmente presentata al commissario suddetto ai sensi dell'art. 208 l.fall. 4.1. L'accertamento della prededuzione. Sui crediti prededucibili vantati nei confronti della massa si segnala Sez. 6-1, n. 02694/2016, Mercolino, Rv. 638526, a tenore della quale resta sempre necessario il ricorso alle sole forme di cui agli artt. 93 e seguenti l.fall., sicché anche il credito opposto in compensazione può essere riconosciuto esclusivamente in sede fallimentare, deponendo in tal senso l'art. 111 bis, comma 1, l.fall., introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, il quale assoggetta espressamente alle modalità previste per l'accertamento del passivo i crediti prededucibili, con 800 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI esclusione soltanto di quelli non contestati, per collocazione e ammontare, nonché di quelli sorti a seguito di provvedimento di liquidazione dei compensi dei soggetti nominati ai sensi dell'art. 25 l.fall. Soggiunge Sez. 1, n. 14536/2016, Ferro, Rv. 640490, che il compenso degli amministratori giudiziari officiati ex art. 15, comma 8, l.fall. è prededucibile nel conseguente fallimento, ed il relativo credito va insinuato al passivo attraverso le forme previste, per l'accertamento di quest'ultimo, dagli artt. 93 e ss. l.fall., non potendo essere adottata la procedura semplificata prevista per i crediti dei professionisti nominati ex art. 25 l.fall. Di sicuro interesse, infine, Sez. 1, n. 03483/2016, Ferro, Rv. 638840: secondo la detta decisione il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento con cui il giudice delegato, a fronte della contestazione del curatore circa l'ammontare del credito vantato, abbia respinto la richiesta di pagamento in prededuzione ex art. 111 bis, comma 3, l.fall., non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di statuizione che, in quanto meramente ricognitiva del difetto dei presupposti per il pagamento invocato, non decide in via definitiva sul diritto del creditore. 5. I riparti. Sul tema occorre citare Sez. 1, n. 00502/2016, Ferro, Rv. 638133, secondo la quale i creditori, nel regime anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, possono proporre reclamo avverso il decreto che rende esecutivo il progetto di riparto anche quando non abbiano presentato le osservazioni di cui all'art. 110, comma 3, l.fall., configurandosi, di solito, quel decreto come l'unico provvedimento definitivo suscettibile di determinare preclusioni circa la collocazione dei crediti correnti. Precisa poi Sez. 1, n. 17948/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione, che l'art. 110, comma 3, l.fall. novellato dalla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, prevedendo che, nei confronti del progetto di riparto dell'attivo fallimentare, i creditori possono proporre reclamo al giudice delegato ai sensi dell'art. 36 l.fall., rinvia integralmente alla disciplina processuale ivi contenuta, compreso il termine di otto giorni per ricorrere al tribunale nei, confronti del decreto pronunciato dal giudice delegato. 6. L'esdebitazione. Merita di essere segnalata in tema Sez. 1, n. 16620/2016, Di Virgilio, Rv. 641036, la quale afferma che, poiché il subingresso dei soci alla società estinta nella titolarità di un credito ammesso al passivo fallimentare, non li dispensa, se si tratta di 801 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI procedura fallimentare anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, dall'onere di insinuarsi al passivo ai sensi dell'art. 101 l.fall., in mancanza di insinuazione, detti soci non sono litisconsorti necessari nel giudizio di esdebitazione. 7. Il concordato preventivo: i presupposti. In tema anzitutto appare di rilievo sistematico Sez. 1, n. 12273/2016, Genovese, Rv. 640012, secondo la quale lo statuto legale dei liquidatori delle società di capitali non è identico a quello degli amministratori, atteso che i poteri di questi ultimi si presumono in base alla legge, mentre quelli dei secondi devono risultare dalla deliberazione dell'assemblea che li ha nominati. Ne consegue che il potere dei liquidatori di deliberare la proposta e le condizioni di un concordato preventivo ai sensi dell'art. 152, comma 2, lett. b), l.fall., non può ritenersi compreso nell'atto di nomina degli stessi, né può rientrare tra gli atti utili per la liquidazione della società di cui all'art. 2489, comma 1, c.c., ma deve essere loro specificamente attribuito dall'assemblea ex art. 2487, comma 1, lett. c), c.c. 7.1. Il concordato "in bianco". Sul concordato preventivo cd. "in bianco", "prenotativo" o "con riserva", introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, diverse e assai significative le pronunce intervenute nell'annata. Sez. 1, n. 06277/2016, Cristiano, Rv. 639217, afferma che il termine fissato dal giudice al debitore, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., per la presentazione della proposta, del piano e dei documenti ha natura perentoria e disciplina mutuata dall'art. 153 c.p.c., cosicché non è prorogabile a richiesta della parte o d'ufficio se non in presenza di giustificati motivi, che devono essere allegati dal richiedente e verificati dal giudice, la cui decisione è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. Pertanto, in ragione della natura decadenziale del menzionato termine, alla sua inosservanza consegue l'inammissibilità della domanda concordataria. Sempre Sez. 1, n. 06277/2016, Cristiano, Rv. 639218, precisa che decorso il termine assegnato dal giudice per il deposito della proposta, del piano e dei documenti e respinta l'eventuale istanza di proroga, la domanda tardivamente integrata dal debitore deve essere dichiarata inammissibile ai sensi dell'art. 162, comma 2, l.fall.; peraltro, in pendenza dell'udienza fissata per la declaratoria di inammissibilità della domanda concordataria e l'eventuale dichiarazione di fallimento, il debitore può depositare un nuovo 802 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI ricorso ex art. 161, comma 1, l.fall. (corredato, dunque, ab initio dalla proposta, dal piano e dai documenti), dal quale si desuma la rinuncia alla pregressa domanda "con riserva", e sempre che la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario. Sez. 1, n. 12957/2016, Di Virgilio, Rv. 640115, chiarisce che va sempre rispettato l'obbligo di audizione del debitore ex art. 162, comma 2, l.fall. per consentire allo stesso di svolgere le proprie difese prima della pronuncia di inammissibilità, salvo che, inserendosi la proposta nell'ambito della procedura prefallimentare, il debitore sia stato comunque sentito in relazione alla proposta ed abbia avuto modo di difendersi. Sez. 6-1, n. 04176/2016, Scaldaferri, Rv. 638839, infine, assume come inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto con il quale il tribunale, nell'assegnare il termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, abbia altresì autorizzato, ai sensi dell'art. 169 bis l.fall., la sospensione di contratti (nella specie, bancari per anticipazione su effetti) in corso di esecuzione, trattandosi di provvedimento privo dei requisiti della decisorietà e della definitività. 7.2. La revoca dell'ammissione. Sempre più numerose le decisioni pubblicate in tema di procedimento di revoca dell'ammissione al concordato. Così Sez. 1, n. 18704/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, afferma che l'omesso deposito della somma di cui all'art. 163, comma 3, l.fall., come quantificata nel decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo, innesta, attraverso l'informativa che il commissario giudiziale deve al tribunale, il subprocedimento di revoca dell'ammissione a quella procedura, ex art. 173 l.fall., che si articola in due fasi: la prima, necessaria ed officiosa, nel corso della quale il tribunale verifica la sussistenza dei requisiti per l'adozione del provvedimento; la seconda, eventuale e ad impulso di parte, che può condurre alla dichiarazione di fallimento ove ne ricorrano i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.fall. Soggiunge Sez. 1, n. 03324/2016, Cristiano, Rv. 638667, che nel subprocedimento di revoca del concordato preventivo, i creditori concordatari non sono portatori di un interesse immediato e diretto che gli possa far assumere la qualifica di litisconsorti necessari, neppure nella fase che conduce all'eventuale dichiarazione di fallimento, non avendo essi un diritto al fallimento (o al mancato 803 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI fallimento) del proprio debitore, sicché la comunicazione prevista, nei loro confronti, dall'art. 173, comma 1, l.fall. si atteggia a semplice litis denuntiatio, volta a consentirne la loro volontaria partecipazione all'udienza, la cui omissione comporta non già una nullità assoluta ed insanabile, ma solo una nullità relativa della prima fase del subprocedimento di revoca che, non ripercuotendosi sull'eventuale fase successiva, non è causa di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento. Per Sez. 1, n. 03324/2016, Cristiano, Rv. 638668, i pagamenti eseguiti dall'imprenditore ammesso al concordato preventivo in difetto di autorizzazione del giudice delegato, non comportano, ai sensi dell'art. 173, comma 3, l.fall., l'automatica revoca della suddetta ammissione, la quale consegue solo all'accertamento, da compiersi ad opera del giudice di merito, che tali pagamenti, non essendo ispirati al criterio della migliore soddisfazione dei creditori, siano diretti a frodare le ragioni di questi ultimi, così pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato. E tale principio risulta ribadito da Sez. 1, n. 07066/2016, Cristiano, Rv. 639261, in caso di pagamento non autorizzato di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato con riserva, dovendosi sempre valutare se detto pagamento costituisca, o meno, atto di straordinaria amministrazione e, in ogni caso, se la violazione della regola della par condicio sia diretta a frodare le ragioni dei creditori, pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta negoziale formulata con la domanda di concordato. Interessante anche Sez. 6-1, n. 11660/2016, Genovese, Rv. 640207, secondo la quale la norma di cui all'art. 168, comma 1, l.fall., che fa divieto ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore ‹‹dalla data della presentazione del ricorso per l'ammissione al concordato fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione››, non può ritenersi legittimamente applicabile anche al pagamento del terzo pignorato effettuato in adempimento dell'ordinanza di assegnazione del credito. E invero, il procedimento di concordato preventivo non prevede, di fatto, la possibilità di revocatorie o di azioni ai sensi dell'art. 44 l.fall., e nemmeno è fornito di un ufficio abilitato ad agire in tal senso, essendo applicabili, in virtù del richiamo di cui all'art. 169 l.fall., soltanto le disposizioni degli articoli da 55 a 63 della medesima legge, sicché il pagamento di un debito preconcordatario deve ritenersi in sé legittimo, in quanto atto di ordinaria amministrazione, purché non 804 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI integri l'ipotesi di un atto ‹‹diretto a frodare le ragioni dei creditori››, e, quindi, sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173, comma 2, e revocabile in forza dell'art. 167, comma 2. Sez. 1, n. 25165/2016, Genovese, in corso di massimazione, ribadisce poi il sempre più consolidato orientamento della S.C., a tenore del quale l'accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell'attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell'esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore, può determinare la revoca dell'ammissione al concordato, ex art. 173 l.fall., indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e, quindi, anche nell'ipotesi in cui questi ultimi siano stati resi edotti di quell'accertamento. Soggiunge, infine, Sez. 1, n. 25164/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, che l'art. 173 l.fall., nel prevedere la revoca dell'ammissione al concordato nel corso della procedura, qualora il debitore abbia tra l'altro commesso atti di frode e mirando per tale via anche a paralizzare la portata decettiva del silenzio dell'istante, non attribuisce alcun rilievo ad eventuali ravvedimenti postumi manifestati dello stesso debitore, che ove valorizzati priverebbero di efficacia la medesima norma. 7.3. L'omologa. Anche in relazione al subprocedimento di omologa del concordato preventivo, si registrano diverse decisioni massimate. Anzitutto, sul voto dei creditori Sez. 1, n. 04977/2016, Di Palma, Rv. 638902, afferma che il principio del cd. silenzio-assenso previsto dall'art. 178, comma 4, l.fall., come modificato dall'art. 33, comma 1, del d.l. n. 83 del 2012 nel testo risultante dalla conversione nella l. n. 134 del 2012, si applica a tutti i procedimenti per concordato preventivo la cui domanda sia stata depositata a far data dal giorno 11 settembre 2012 (art. 33, comma 3, del menzionato decreto legge). Ne consegue che la disposizione così novellata non costituisce la regola di organizzazione delle adesioni alle proposte concordatarie presentate prima di tale data, anche se il nuovo regime era già vigente alla data di ammissione alla suddetta procedura concordataria. Sez. 1, n. 03954/2016, Terrusi, Rv. 638805, chiarisce poi che la legittimazione ad impugnare il decreto del tribunale discende unicamente dall'avere assunto l'impugnante la qualità di parte in senso formale nel giudizio di cui all'art. 180 l.fall. ed essere ivi 805 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI rimasto soccombente, così prescindendo dalla prova dell'effettiva esistenza del credito, che, potendo essere accertato incidenter tantum in sede concorsuale, non richiede il previo accertamento con efficacia di giudicato. Sempre Sez. 1, n. 03954/2016, Terrusi, Rv. 638804, precisa poi che la detta impugnazione, quando il decreto di omologazione sia stato depositato dopo l'emanazione del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, ma anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007, va proposta con l'appello, nel termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento, non potendosi ritenere implicitamente abrogato l'originario art. 183 l.fall., limitatamente a tale mezzo di impugnazione, per incompatibilità con l'art. 180 l.fall., nella versione introdotta dal ridetto d.l. n. 35 del 2005. E tale interpretazione trova conferma nell'art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 169 del 2007, che ha limitato l'applicabilità della nuova disciplina, contenente anche la modifica del citato art. 183 e l'introduzione del reclamo in luogo dell'appello, alle procedure concorsuali aperte successivamente al 1° gennaio 2008. Quanto al decreto emesso, ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., dalla corte d'appello, che decida sul reclamo avverso il decreto di omologazione, per Sez. 1, n. 12819/2016, Ferro, Rv. 640102, si applica il rito camerale di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., sicché è ricorribile per cassazione entro il termine ordinario di sessanta giorni, decorrenti dalla data di notificazione dello stesso, non potendo applicarsi per analogia la disciplina prevista per il concordato fallimentare dall'art. 131 l.fall. e riformata con il d.lgs. n. 169 del 2007, attesa la compiutezza della disciplina del concordato preventivo e la diversità dei presupposti oggettivi in cui interviene la rispettiva omologazione (impresa fallita da un lato e in bonis dall'altro). Assai dibattuta, anche nel corso del 2016, la questione della ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. avverso i provvedimenti in materia di concordato preventivo. Sez. 6-1, n. 00653/2016, Scaldaferri, Rv. 638279, afferma che il ricorso avverso il decreto di diniego dell'omologazione della proposta di concordato preventivo assunto in sede di reclamo ex art. 183 l.fall., nel caso in cui a tale provvedimento non abbia fatto seguito la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore (ancorché non contestuale) – dovendo in tal caso i vizi del decreto essere fatti valere unitamente all'impugnazione della sentenza di fallimento –, è ammissibile solo se il predetto decreto dipenda da ragioni che 806 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI impediscono una consequenziale declaratoria di fallimento, quali, ad esempio, l'esclusione della qualità di imprenditore commerciale, l'assenza dello stato di insolvenza o il difetto di giurisdizione. Sez. 1, n. 17949/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione, assume che l'art. 183 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007, stabilendo che avverso il decreto del tribunale che si pronuncia sull'omologazione va proposto reclamo alla corte d'appello, mentre l'art. 180, comma 3, l.fall. prevede che tale decreto non sia soggetto a reclamo, in mancanza di opposizione dei creditori. Dal combinato disposto di tali norme consegue allora che il reclamo alla corte d'appello può effettuarsi allorché l'omologazione venga respinta ovvero qualora venga accolta, nonostante la presenza di opposizioni, mentre, laddove nessun creditore abbia proposto opposizione, è ammissibile ricorso immediato per cassazione ex art. 111 Cost., trattandosi di decreto dotato dei caratteri della decisorietà e della definitività, in quanto obbligatorio per i creditori, di cui determina una riduzione delle rispettive posizioni creditorie. Ancora, Sez. 1, n. 12265/2016, Cristiano, Rv. 640038, afferma che una volta esauritasi, con la sentenza di omologazione, la procedura di concordato preventivo, tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore, e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente; ne deriva l'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato reiettivo della domanda di restituzione delle somme accantonate e destinate all'eventuale soddisfacimento dei crediti in contestazione, trattandosi di atto giudiziale esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, privo dei connotati della decisorietà e della definitività. Sez. 1, n. 17949/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione, discostandosi dall'orientamento espresso in precedenza dalla medesima sezione (Sez. 1, n. 15699/2011, Ragonesi, Rv. 618998), afferma che il decreto con il quale il tribunale, in sede di omologazione, provvede alla nomina del liquidatore giudiziale senza mutare i termini della proposta approvata, non lede il diritto del debitore a regolare la propria insolvenza secondo le clausole ivi 807 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI inserite e non è, pertanto, in quanto privo di carattere decisorio, impugnabile in cassazione a norma dell'art. 111, comma 7, Cost. Consapevole della problematicità del tema, con un trittico di ordinanze (Sez. 1, n. 03472/2016, Ragonesi; Sez. 1, n. 07958/2016, Didone; e Sez. 1, n. 18558/2016, Di Virgilio) la Prima Sezione Civile, nel corso del 2016, ha rimesso alle Sezioni Unite della S.C. il compito di stabilire se nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 162, 173, 179, 180 l.fall., in assenza di dichiarazione di fallimento, i provvedimenti che dichiarano l'inammissibilità del concordato, ovvero dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182 bis l. fall., siano ricorribili per cassazione ai sensi dell'art 111, comma 7, Cost. La risposta delle Sezioni Unite non ha tardato: - Sez. U, n. 27073/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha stabilito che il decreto con cui il tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell'art. 162, comma 2, l.fall. (anche eventualmente a seguito della mancata approvazione della proposta, ai sensi dell'art. 179, comma 1) ovvero revoca l'ammissione alla procedura di concordato, ai sensi dell'art. 173, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è soggetto a ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. non avendo carattere decisorio. Al contrario, il decreto con cui il tribunale definisce (in senso positivo o negativo) il giudizio di omologazione del concordato preventivo, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, ha carattere decisorio, ma, essendo reclamabile ai sensi dell'art. 183, comma 1, l.fall., non è soggetto a ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., che resta proponibile soltanto avverso il provvedimento della corte d'appello conclusivo del giudizio sull'eventuale reclamo. - Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha poi ritenuto che il decreto con cui la corte d'appello, decidendo sul reclamo ai sensi dell'art. 183, comma 1, richiamato dall'art. 182 bis, comma 5, l.fall., provvede in senso positivo o negativo in ordine all'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, ha carattere decisorio ed è pertanto soggetto, non essendo previsti altri mezzi d'impugnazione, a ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. - Sempre Sez. U, n. 26989/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha infine chiarito che, in caso di ricorso per cassazione del debitore avverso il decreto con cui la corte di appello, provvedendo sul reclamo ex artt. 183, comma 1 e 182 bis, comma 5, 808 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI l.fall., neghi l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, la legittimazione passiva non spetta al P.M., bensì ai creditori per titolo e causa anteriore alla data di pubblicazione dell'accordo nel registro delle imprese, cui si riferiscono gli effetti dell'accordo stesso, nonché agli altri interessati che abbiano proposto opposizione. 7.4. I rapporti con il fallimento. Sui rapporti tra concordato preventivo e fallimento merita di essere segnalata anzitutto Sez. 6-1, n. 14518/2016, Cristiano, Rv. 640491, a tenore della quale la domanda di concordato preventivo proposta dal debitore quando sia già pendente, a suo carico, un procedimento prefallimentare innanzi ad un diverso ufficio giudiziario competente a deciderlo, spetta alla cognizione di quest'ultimo, atteso che tra la prima e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili ma dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza per specularità, sicché trovano applicazione le disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c., non stabilendo, peraltro, l'art. 161 l.fall. l'inderogabilità della competenza territoriale ivi prevista per la domanda suddetta. Ancora, secondo Sez. 6-1, n. 17156/2016, Cristiano, Rv. 641030, la domanda di concordato preventivo proposta dopo la decisione sull'istanza di fallimento, ma prima della pubblicazione della relativa sentenza dichiarativa, è inammissibile, atteso che il momento della pronuncia di quest'ultima va identificato con quello della deliberazione della decisione, mentre la successiva stesura della motivazione, la sottoscrizione e la conseguente pubblicazione (da cui decorrono gli effetti della sentenza) non incidono sulla sua sostanza, né il fallendo può pretendere la revoca di una decisione già assunta e la retrocessione del processo alla fase istruttoria a seguito della tardiva presentazione di una domanda concordataria su cui il collegio non è più tenuto a statuire. Sez. 6-1, n. 02695/2016, De Chiara, Rv. 638525, afferma che il principio di unicità delle procedure, per il quale, nel caso di contemporanea pendenza di due procedure concorsuali, anche di diversa natura, sorge l'interesse dei creditori alla loro concentrazione davanti allo stesso giudice, con eventuale insorgenza di un conflitto di competenza, non può trovare applicazione quando uno stesso imprenditore abbia presentato ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio presso un tribunale diverso rispetto a quello che ha omologato una sua pregressa domanda di concordato preventivo. Invero, una volta emesso il decreto di omologazione, 809 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI non può più parlarsi di pendenza della procedura concordataria, a meno che uno dei creditori non presenti istanza di risoluzione ai sensi dell'art. 186 l.fall. Per Sez. 1, n. 17764/2016, Ferro, in corso di massimazione, la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, impedisce la dichiarazione di fallimento solo temporaneamente, sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., ma non determina l'improcedibilità del procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del P.M. Ne consegue che il decreto con cui il tribunale abbia ciononostante dichiarato improcedibile il ricorso di fallimento quale mera conseguenza dell'ammissione del debitore al concordato preventivo, non implica di per sé alcuna definizione negativa, nel merito, dell'istruttoria prefallimentare, limitandosi, piuttosto, ad attuare il necessario coordinamento organizzativo tra le procedure: sicché, una volta rimossa la condizione preclusiva alla pronuncia della sentenza di fallimento per effetto della revoca dell'ammissione ex art. 173 l.fall., gli autori della relativa iniziativa conservano la pienezza dei loro poteri di impulso per la prosecuzione del procedimento senza che sia a tal fine necessario il rilascio di un ulteriore mandato difensivo. 7.5. L'annullamento e la risoluzione. Quanto alle questioni in tema di annullamento e risoluzione del concordato, si segnala, Sez. 1, n. 18090/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione, a tenore della quale l'annullamento del concordato preventivo omologato, ex art. 186 l.fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007, è un rimedio concesso ai creditori nei casi in cui la rappresentazione dell'effettiva situazione patrimoniale della società proponente, in base alla quale il concordato è stato approvato dai creditori ed omologato dal tribunale, sia risultata falsata per effetto della dolosa esagerazione del passivo, dell'omessa denuncia di uno o più crediti, ovvero della sottrazione o della dissimulazione di tale orientamento, o di altri atti di frode, idonei ad indurre in errore i creditori sulla fattibilità e sulla convenienza del concordato proposto, dovendosi, invero, ravvisare identità di ratio tra le fattispecie legittimanti la revoca dell'ammissione a tale procedura e quelle che determinano l'annullamento della sua omologazione. Quando, poi, la corte d'appello, in sede di reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'istanza del creditore di risoluzione del concordato preventivo, abbia confermato il predetto diniego, secondo Sez. 1, n. 02990/2016, Nappi, Rv. 638675, il relativo 810 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI provvedimento non è impugnabile con ricorso ex art. 111 Cost., attesa la sua inidoneità a precludere una rinnovazione della richiesta da parte del medesimo reclamante o di altri creditori insoddisfatti, mancando i profili di definitività necessari per rendere ammissibile il ricorso straordinario. Di sicuro interesse, infine, Sez. 1, n. 14788/2016, Ferro, Rv. 640754, chiamata a pronunciarsi sull'annullamento del concordato preventivo pronunciato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007, che ha sostituito l'art. 186 l.fall.; in questo caso, ove sia altresì dichiarato il fallimento del debitore su istanza di un legittimato, l'impugnazione dell'annullamento confluisce nel reclamo previsto dall'art. 18 l.fall., che, presupponendo l'immediata esecutività di ciascuna delle statuizioni così rese dal tribunale, esclude che il fallimento possa essere dichiarato solo dopo che il decreto di annullamento sia diventato definitivo. 8. Il sovraindebitamento. Nel corso dell'annata si sono registrate le prime decisioni della S.C. sulla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinata dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3, come modificata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221. Afferma in tema Sez. 1, n. 01869/2016, Ferro, Rv. 638758, che il decreto che respinge il reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'ammissibilità del piano del consumatore di cui agli artt. 6, 7, comma 1 bis, ed 8 della l. n. 3 del 2012, non precludendo a quest'ultimo – benché nei limiti temporali previsti dall'art. 7, comma 2, lett. b), della medesima legge – di presentare un altro e diverso piano di ristrutturazione dei suoi debiti, è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, sicché non è ricorribile per cassazione. 811 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO CAPITOLO XLIV IL PROCESSO TRIBUTARIO (di Giuseppe Nicastro e Andrea Venegoni)6 SOMMARIO: 1. Premessa: le questioni rimesse alle Sezioni Unite. – 2. La giurisdizione tributaria. – 3. La competenza per territorio. – 4. La struttura del processo e le sue conseguenze. – 5. La disapplicazione di un regolamento o di un atto generale. – 6. La dichiarazione dell'inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria. – 7. Le parti.. – 7.1. Capacità e legittimazione processuale. – 7.2. La rappresentanza in giudizio degli uffici delle Agenzie fiscali. – 7.3. Difetto di rappresentanza o di autorizzazione. – 7.4. Il litisconsorzio. – 7.5. Comunicazioni e notificazioni. – 8. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. – 8.1. Gli atti impugnabili. – 8.2. Il ricorso. – 8.2.1. La procura alla lite. – 8.2.2. La proposizione. – 8.2.3. Il termine. – 8.3. La costituzione in giudizio del ricorrente. – 8.4. La costituzione in giudizio del resistente. – 8.5. L'avviso di trattazione della controversia. – 8.6. L'istruzione probatoria. – 8.6.1. Il principio di non contestazione. – 8.6.2. Le presunzioni. – 8.6.3. Le dichiarazioni extraprocessuali del terzo. – 7.6.4. Il valore probatorio delle autocertificazioni. – 8.6.5. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. – 8.6.6. Limitazioni probatorie. – 8.7. La decisione. - 9. Le impugnazioni. 9.1. Il giudizio di appello. – 9.1.1. Proposizione. – 9.1.2. Notificazione. – 9.1.3. Questioni in tema di impugnazione dell'Agenzia delle Entrate e di soggetti terzi. – 9.1.4. Motivi e oggetto. – 9.1.5. Integrazione del contraddittorio. – 9.1.6. Appello incidentale. – 9.1.7. Procedimento. – 9.2. Il giudizio di cassazione.– 9.3. La revocazione. – 10. La sospensione del processo. – 11. L'estinzione del processo. – 12. Il giudicato. – 13. Il giudizio di ottemperanza. 1. Premessa: le questioni rimesse alle Sezioni Unite. Prima di analizzare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in merito al processo tributario, va preliminarmente ricordato che nel 2016 sono state rimesse alle Sezioni Unite due questioni di massima importanza su tale argomento: la prima, sollecitata da Sez. T, n. 18000/2016, Sabato, e da Sez. T, n. 18001/2016, Virgilio, concernente, da un lato, l'individuazione del dies a quo del termine di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992 (spedizione o ricezione del ricorso) e, dall'altro, la possibilità di produrre, al momento della costituzione, in luogo della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso, la relativa ricevuta di ritorno; la seconda, sollecitata da Sez. T, n. 21808/2016, Bruschetta, relativa all'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, e, in particolare, alla sussistenza, in capo alla parte totalmente vittoriosa nel merito, dell'onere di proporre appello incidentale o, al contrario, di limitarsi a riproporre la questione pregiudiziale che non risulti assorbita ma sia stata espressamente rigettata. 6Giuseppe Nicastro ha redatto i paragrafi da 2 a 7, 9 e 10;Andrea Venegoni i paragrafi 1, 8, 11 e 12 812 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 2. La giurisdizione tributaria. La questione del riparto della giurisdizione tributaria si caratterizza, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione nel 2016, per il significativo numero di sentenze emesse dalle Sezioni Unite, a conferma della vivacità dell'argomento. Sez. U, n. 01179/2016, Petitti, Rv. 639929, si è occupata della giurisdizione sull'opposizione avverso l'ordinanza ingiunzione emessa dall'Agenzia delle entrate a carico del privato che abbia conferito un incarico retribuito a un dipendente pubblico in violazione dell'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, affermando che la stessa appartiene al giudice ordinario, e non a quello tributario, poiché la sanzione, anche se irrogata da un ufficio finanziario, inerisce al rapporto di pubblico impiego e non a un rapporto tributario. Anche la domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d'ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 26- quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248, è stata ritenuta appartenere al giudice ordinario da Sez. U, n. 11379/2016, De Stefano, Rv. 639974, in cui si è precisato che il giudice ordinario non può declinare la propria giurisdizione in ragione della devoluzione al giudice tributario della pretesa a cautela della quale l'ipoteca è stata iscritta, poiché tale pretesa è solo il presupposto di legittimità della condotta del concessionario e riguarda una questione pregiudiziale conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta la domanda principale risarcitoria. Sez. U, n. 08770/2016, Greco, Rv. 639481, in materia di contributi spettanti ai consorzi di bonifica, dopo avere precisato che l'attribuzione alle commissioni tributarie della cognizione di tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie, a norma dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come sostituito dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, include anche quelle relative ai suddetti contributi, ha poi chiarito che la giurisdizione tributaria si estende ad ogni questione relativa all'an o al quantum del tributo, arrestandosi unicamente di fronte agli atti dell'esecuzione tributaria, sicché vi ricade anche l'eccezione di prescrizione dedotta tramite l'impugnazione della cartella esattoriale, che è atto prodromico all'esecuzione. È stato, poi, disegnato il riparto di giurisdizione ratione temporis in tema di contributi per il servizio di depurazione delle acque reflue, di cui agli artt. 16 e ss. della l. n. 319 del 1976, da una sezione 813 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO diversa da quella tributaria: la Sez. 1, n. 07739/2016, Nazzicone, Rv. 639320, infatti, ha ravvisato la natura di prestazioni tributarie di tali contributi anche con riferimento al periodo successivo all'anno 1993, essendo stata tale natura ripristinata, con effetto retroattivo, dall'art. 2, comma 3-bis, del d.l. 17 marzo 1995, n. 79 , convertito, con modificazioni, in l. 17 maggio 1995, n. 172 e, quindi, dall'art. 3, comma 42, della l. 28 dicembre 1995, n. 549, dopo che la l. 5 gennaio 1994, n. 36, aveva inteso trasformare le prestazioni in questione in corrispettivi di diritto privato. Ne consegue che le controversie concernenti i predetti "canoni" appartengono alla competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie provinciali ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 546 del 1992 e, per le liti giudiziarie instaurate in epoca antecedente alla loro entrata in funzione (1° aprile 1996), sussiste una riserva di giurisdizione in favore del giudice ordinario ex art. 20, comma 6, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638. Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639286, si è, invece, occupata del riparto di giurisdizione tra giudice tributario e amministrativo in materia di classamento e attribuzione di rendite di immobili, affermando che la notifica al contribuente dell'avviso di accertamento per revisione degli stessi è impugnabile davanti alla commissione tributaria, quale operazione catastale individuale, ma non incide sulla giurisdizione amministrativa concernente gli atti amministrativi generali relativi alle "microzone" comunali, i quali possono essere autonomamente impugnati davanti al giudice amministrativo, anche da soggetti esponenziali di interessi diffusi. In argomento va ricordata anche Sez. U, n. 02950/2016, Virgilio, Rv. 638359, che ha ribadito appartenere al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie tra privati, o tra privati e P.A., aventi ad oggetto l'esistenza ed estensione del diritto di proprietà, in cui le risultanze catastali possono essere utilizzate a fini probatori, precisando, però, che qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, anche al fine di adeguarle all'esito di un'azione di rivendica o regolamento di confini, la giurisdizione spetta al giudice tributario, ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, in ragione della diretta incidenza degli atti catastali sulla determinazione dei tributi. Anche Sez. U., n. 20901/2016 e n. 20902/2016, Di Iasi, Rv. in corso di massimazione, n. 25316/16, Chindemi, Rv. in corso di massimazione, hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie attinenti l'impugnazione di atti dell'amministrazione di suddivisione di particelle catastali, 814 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO attribuzione di rendite, mutamento di intestazioni catastali, in quanto hanno ad oggetto l'attribuzione di un diritto soggettivo. Altra questione affrontata riguarda la giurisdizione sulla controversia promossa dall'appaltatore nei confronti del committente per rivalsa dell'IVA sul corrispettivo di appalto. Secondo Sez. U, n. 06451/2016, Di Iasi, Rv. 639112, la stessa ha natura privatistica, senza alcun profilo o riflesso di spettanza del giudice tributario, ancorché sorga questione circa la corrispondenza tra le somme versate a titolo di imposta e quelle dovute in relazione alle aliquote in concreto applicabili, atteso che la statuizione al riguardo non investe il rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria, ma si risolve in un accertamento incidentale nell'ambito del rapporto privatistico fra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa, nel quale l'obbligazione ex lege del committente si aggiunge all'ammontare del corrispettivo, rimanendo soggetta al regime civilistico. Sez. U, n. 01837/2016, Iacobellis, Rv. 638222, si è occupata dell'azione del consumatore verso il fornitore di gas metano per la ripetizione della quota di prezzo corrispondente all'imposta di consumo, affermando che, poiché soggetto passivo della suddetta imposta è il fornitore, che trasla l'onere all'utente in virtù di un fenomeno meramente economico, l'azione del consumatore per la ripetizione non è un'azione tributaria di rimborso, devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, ma un'azione privatistica, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario. Sez. U, n. 21690/2016, Frasca, Rv. in corso di massimazione, ha ribadito che le controversie in tema di esecuzione forzata, anche se relative al pagamento di canoni le cui cause appartengono alla giurisdizione tributaria, rientrano, in realtà, nella giurisdizione ordinaria, atteso che l'art. 2, comma 1, d. lgs 546 del 1992 esclude espressamente dalla giurisdizione tributaria il contenzioso riguardante l'esecuzione forzata. Ugualmente sono state ritenute rientrare nella competenza del giudice ordinario le cause di cognizione sugli importi iscritti a ruolo riportati in una cartella esattoriale concernente il recupero di spese di giustizia (Sez. U, n. 20427/2016, Chindemi, Rv. 641220). La questione affrontata, invece, da Sez. U, n. 19678/2016, Spirito, Rv. 641092 ha comportato, tra l'altro, l'analisi della natura del contributo per le spese di funzionamento dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, finanziate dal mercato di competenza (ai sensi dell'art. 1, comma 65, della legge 23 dicembre 815 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 2005, n. 266), ai fini della indicazione della giurisdizione delle relative controversie. La Corte ha escluso la natura tributaria dello stesso e, di conseguenza, la giurisdizione tributaria sulle relative controversie, con affermazione della giurisdizione amministrativa. Significativa appare, poi, Sez. U, n. 19069/2016, Iacobellis, Rv. in corso di massimazione, che, in una controversia in tema di recupero di somme indebitamente versate a titolo di iva, nella quale la Corte d'Appello aveva accolto la domanda ex art. 2041 c.c., riconoscendo la giurisdizione del giudice ordinario, ha affermato il principio per cui le controversie in materia di rimborso di tributi sono devolute allo stesso giudice cui è conferita giurisdizione sul rapporto tributario controverso. La deroga a tale giurisdizione sussiste soltanto nel caso in cui l'ente impositore abbia riconosciuto formalmente la non debenza del tributo versato e il diritto del contribuente al rimborso. Sez. U, n. 25515/2016, Cirillo, Rv. in corso di massimazione, ha affrontato il problema del riparto di giurisdizione - tra giudice amministrativo e tributario - delle controversie in materia di tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi, la c.d. "ecotassa" in favore delle Regioni, introdotta con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, affermando la giurisdizione di quest'ultimo. Sez. U, n. 25632/2016, Cirillo, Rv. in corso di massimazione, si è occupata della giurisdizione nelle controversie sulla c.d. transazione dei tributi già iscritti a ruolo, di cui al d.l. 8 luglio 2002, n. 138, successivamente abrogato, per la quale si era posto il dubbio della sussistenza della giurisdizione amministrativa, in virtù del potere discrezionale che la normativa conferiva all'Amministrazione per definire le controversie in base a tale istituto. Anche in tal caso, la Corte ha riconosciuto la giurisdizione tributaria. In tema di fermo amministrativo, Sez. U, n. 26269/2016, Greco, Rv. in corso di massimazione, ha concluso che nelle controversie aventi per oggetto il provvedimento di fermo di beni mobili registrati, di cui all'art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1972, ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero ad entrambi se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari e in parte a crediti non tributari. Sez. U, n. 26268/2016, Greco, Rv. in corso di massimazione, in tema di TIA, ha ritenuto che spettino alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto la debenza della tariffa di igiene 816 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO ambientale disciplinata dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, la "prima TIA", in quanto, come evidenziato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 2009 e con l'ordinanza n. 64 del 2010, tale tariffa non costituisce una entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. 15 novembre 1993, n. 507, di cui conserva la qualifica di tributo. Sez. U, n. 26125/2016, e n. 25977/2016, Perrino, Rv. in corso di massimazione, si sono, invece, occupate della giurisdizione sulle controversie in materia di rimborso di tributi pagati in luogo di altri debitori. La Corte ha reiterato il principio secondo cui spettano al giudice tributario i procedimenti nei quali il diritto del contribuente sia contestato dall'erario, mentre sono devoluti al giudice ordinario soltanto quelli in cui non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione, il quantum della restituzione e le modalità della sua esecuzione, attesa la riserva alle commissioni tributarie, disposta dall'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, di tutte le cause di cognizione aventi ad oggetto tributi. Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637939, in tema di imposta comunale sugli immobili (I.C.I.), ha affermato che, poiché la suddetta imposta è da qualificarsi come tributo e non come entrata patrimoniale pubblica extratributaria, l'opposizione proposta dal contribuente avverso l'ingiunzione fiscale, emessa dal comune in pendenza del giudizio tributario instaurato dal primo contro l'avviso di accertamento ai sensi dell'art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, quindi, sostanzialmente equivalente all'iscrizione dell'imposta nel ruolo notificata al contribuente stesso, è assimilabile alla lite concernente l'impugnazione del ruolo, sicché la relativa controversia è attribuita alla giurisdizione del giudice tributario, giusta il combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo, e 19, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 15 del d.lgs. n. 504 del 1992. Infine, va segnalata la questione affrontata da Sez. U., n. 27074/2016, Perrino, Rv. in corso di massimazione che, in una controversia riguardante il pagamento, a carico delle società di gestione degli aeroporti, dei contributi destinati ad alimentare il fondo antincendi istituito dall'art. 1, comma 1328, della l. n. 296 del 2006, hanno rimesso alla Consulta, ritenendone la non manifesta infondatezza ai fini della individuazione del giudice munito di giurisdizione, la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 102, 111, e 117 Cost., in relazione all'art. 6 Cedu, afferente i limiti della portata retroattiva, dell'art. 1, comma 478, della l. n. 208 del 2015, nella parte in cui ha novellato 817 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO l'art. 39-bis, comma 1, del d.l. n. 159 del 2007, conv., con modif., dalla l. n. 222 del 2007, atteso che la disposizione normativa escluderebbe, con effetto retroattivo, la giurisdizione tributaria per le controversie attinenti il pagamento del contributo sopra indicato che, invece, appare un vero e proprio tributo. Anche la sezioni semplici hanno avuto occasione di pronunciarsi su situazioni in cui veniva in rilievo la questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e tributario. Così, Sez. 3, n. 08952/2016, Ambrosio, Rv. 639657, ha ritenuto che la controversia relativa alla opposizione avverso il fermo amministrativo del veicolo ed il relativo preavviso ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come interpretato dall'art. 35, comma 25-quinquies, del d.l. n. 223 del 2006, convertito in l. n. 248 del 2006, appartiene al giudice tributario, salvo che l'Amministrazione abbia riconosciuto formalmente l'inesistenza del credito ovvero il diritto allo sgravio delle somme pretese, dovendosi, in tali evenienze, riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario, riguardando la controversia un mero indebito oggettivo di diritto comune. Sempre la stessa sezione, poi, ha rilevato che, di regola, è dallo stesso atto in cui si manifesta la pretesa creditoria che emergono elementi per stabilire la natura del credito e, di conseguenza, la giurisdizione. In particolare, Sez. 3, n. 11794/2016, Rubino, Rv. 640105, a proposito dell'estratto di ruolo, ha concluso che, costituendo lo stesso la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale, deve contenere tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l'ammontare della pretesa creditoria, sicché esso costituisce prova idonea dell'entità e della natura del credito portato dalla cartella esattoriale anche ai fini della verifica della natura tributaria o meno del credito azionato e, quindi, della verifica della giurisdizione del giudice adito. 3. La competenza per territorio. La Corte si è occupata della materia della competenza con riguardo all'impugnazione della cartella di pagamento, con cui il contribuente faccia valere, anche in via esclusiva, vizi del ruolo (del quale abbia avuto conoscenza soltanto tramite la cartella), affermando che, in tale caso, la competenza appartiene sempre alla commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l'agente del servizio di riscossione; ciò anche nell'ipotesi in cui l'ufficio tributario che ha formato il ruolo abbia sede in una circoscrizione diversa, atteso che 818 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO il combinato disposto degli artt. 19, commi 1, lett. d), e 3, e 21, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, considerando il ruolo e la cartella di pagamento in modo unitario e congiuntamente impugnabili, esclude sia il frazionamento delle cause tra giudici diversi sia la rimessione al ricorrente della scelta del giudice territorialmente competente da adire (Sez. T, n. 15829/2016, Virgilio, Rv. 640647). 4. La struttura del processo e le sue conseguenze. In ordine alla struttura del processo tributario e alle sue conseguenze, sono da segnalare due decisioni. Sez. T, n. 07927/2016, Zoso, Rv. 639633, dopo avere ribadito la struttura impugnatoria del processo tributario, in quanto diretto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, ne ha tratto la conseguenza dell'impossibilità, per il giudice tributario, di estendere la propria indagine all'esame di circostanze nuove ed estranee rispetto a quelle originariamente invocate dall'ufficio nell'atto impugnato. In base a tale principio, la Corte ha affermato l'inammissibilità di un appello proposto dall'Agenzia delle entrate la quale, in tema di imposta di registro, solo con i motivi di appello aveva considerato, nel calcolo della superficie utile, oltre a quella dell'abitazione, anche quella di un altro locale (indicato erroneamente in catasto come cantina). Con riferimento, invece, alla posizione del contribuente, Sez. T, n. 13126/2016, Botta, Rv. 640141, ha escluso la rilevabilità d'ufficio della nullità dell'avviso di accertamento, con la conseguenza che la relativa eccezione, se non formulata in primo grado, non può essere proposta nelle successive fasi del giudizio. 5. La disapplicazione di un regolamento o di un atto generale. Sez. T, n. 12545/2016, Solaini, Rv. 640085, ha chiarito che, alla luce del disposto dell'art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, il potere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi presupposti dall'atto impositivo impugnato non può prescindere completamente dai motivi d'impugnazione dedotti in relazione a quest'ultimo, ma deve essere esercitato con riferimento alla domanda del contribuente. Applicando tale principio, la Corte ha annullato la pronuncia del giudice di merito che aveva disapplicato il regolamento comunale in materia di TIA perché viziato da eccesso di potere, nonostante il contribuente non avesse compreso tra i motivi di impugnazione avverso l'atto impositivo l'illegittimità del detto regolamento. 819 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 6. La dichiarazione dell'inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria. Sez. 6-T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536, ha chiarito che il potere del giudice tributario di dichiarare, anche in sede di legittimità, l'inapplicabilità delle sanzioni non penali quando la violazione sia giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito applicativo della disposizione tributaria (art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992) sussiste soltanto in presenza di una domanda del contribuente, la quale deve essere formulata nei modi e nei termini processuali appropriati e non può, perciò, essere proposta per la prima volta nei giudizi di appello o di legittimità. 7. Le parti. 7.1. Capacità e legittimazione processuale. In argomento va menzionata, anzitutto, Sez. T, n. 16959/2016, Cirillo, Rv. 640802, in tema di conseguenze della dichiarazione dello stato di dissesto di un ente territoriale, secondo cui tale dichiarazione non spoglia l'ente della sua capacità processuale, atteso che il divieto di iniziare o di proseguire le azioni esecutive per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione attribuisce a quest'ultimo la legittimazione processuale passiva solo con riguardo alle azioni esecutive ma non con riguardo a quelle di cognizione. Ne consegue che l'erario può procedere ad accertamento fiscale nei confronti dell'ente territoriale di cui sia stato dichiarato il dissesto notificando l'atto impositivo all'organo istituzionale dello stesso, il quale è legittimato a proporre l'eventuale impugnazione. Deve, inoltre, segnalarsi Sez. T, n. 05736/2016, Tricomi, Rv. 639134, secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società ricorrente prima della notificazione dell'avviso di accertamento e dell'instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto di legittimazione ad agire della stessa e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell'ex liquidatore, con la conseguenza che, non sussistendo alcuna possibilità di prosecuzione dell'azione, deve essere annullata senza rinvio, ai sensi dell'art. 382 c.p.c., la sentenza impugnata con ricorso per cassazione, in presenza di un vizio originario insanabile del processo, che avrebbe dovuto da subito condurre a una pronuncia declinatoria nel merito. Va evidenziata la difformità di tale decisione rispetto alla precedente Sez. 6-T, n. 28187/2013, Bognanni, Rv. 629566, che aveva ritenuto l'ammissibilità del ricorso proposto dall'ex liquidatore avverso una 820 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO cartella di pagamento emessa nei confronti di una società successivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese «esclusivamente ai fini della rilevabilità "ex officio" della nullità della cartella di pagamento in quanto emessa nei confronti di un soggetto ormai inesistente». Occorre, poi, ricordare Sez. T, n. 05384/2016, Marulli, Rv. 639435, che ha escluso l'irritualità, nullità o inesistenza dell'atto impositivo non notificato al contribuente fallito in presenza di regolare notifica e conseguente impugnazione da parte della curatela, potendo essere esercitato il diritto di difesa del fallito, a cui la notifica è strumentale, solo in via condizionata, nell'inerzia degli organi della procedura fallimentare. Va, infine, menzionata Sez. 6-T, n. 27277/2016, Conti, in corso di massimazione, che ha chiarito che l'incapacità processuale del fallito contribuente durante la procedura fallimentare è "relativa" ed è rilevabile solo su eccezione del curatore fallimentare e non della controparte, né, tanto meno, può essere rilevata d'ufficio dal giudice. 7.2. La rappresentanza in giudizio degli uffici delle Agenzie fiscali. La Corte si è occupata dell'argomento con riguardo alla rappresentanza degli uffici periferici dell'Agenzia delle entrate, chiarendo che tutti i detti uffici hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente e alternativa al direttore, e si configurano quali suoi organi, che ne hanno la rappresentanza, sicché, in caso di evocazione e costituzione in giudizio di un ufficio territoriale diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato, non è necessario disporre la rinnovazione della notifica, poiché tutto ciò che riguarda l'articolazione organizzativa interna dell'agenzia fiscale è processualmente irrilevante, dovendo l'attività difensiva essere riferita all'agenzia fiscale quale persona giuridica di diritto pubblico e non al singolo ufficio periferico (Sez. 6-T, n. 19828/2016, Vella, Rv. 641257). 7.3. Difetto di rappresentanza o di autorizzazione. E' opportuno sottolineare l'applicabilità nel processo tributario della sanatoria prevista dall'art. 182, comma 2, c.p.c. Con riguardo alla diversa efficacia della disposizione, nella formulazione, rispettivamente, anteriore e successiva alla sua sostituzione a opera dell'art. 46, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69, Sez. T, n. 18062/2016, Iannello, Rv. 640960, ha ritenuto che, mentre nel testo anteriore la detta sanatoria aveva 821 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO effetto ex nunc, con la conseguenza che, qualora fosse intervenuta oltre il termine di proposizione del ricorso, essa non impediva la definitività dell'atto impositivo, nel testo di nuova formulazione, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dal 4 luglio 2009, ha invece efficacia retroattiva anche sul piano sostanziale. Sul tema era già intervenuta, nel corso dell'anno, Sez. 6-T, n. 03084, Caracciolo, Rv. 638909, la quale, affermata l'applicabilità al processo tributario del citato art. 182 c.p.c. in ragione del «principio di integrazione delle norme non incompatibili del codice di rito civile», ne ha tratto la conseguenza, basata sulla formulazione della disposizione successiva alla legge n. 69 del 2009, che il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in difetto di rappresentanza organica di un ente può essere sanato, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, in qualunque stato e grado del giudizio (e, quindi, anche in appello), per mezzo della costituzione in giudizio del soggetto dotato dell'effettiva rappresentanza, il quale manifesti, anche tacitamente, la volontà di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha riconosciuto efficacia sanante alla costituzione in appello del liquidatore nominato a seguito dello scioglimento della società rispetto al ricorso che era stato proposto in primo grado dal precedente legale rappresentante, ormai privo di poteri al momento della sottoscrizione dell'atto di impugnazione. 7.4. Il litisconsorzio. Con riguardo al litisconsorzio necessario, le pronunce massimate hanno riguardato il rapporto tra i giudizi instaurati, rispettivamente, dalle società di persone e dai loro soci. Sez. T, n. 15566/2016, Iannello, Rv. 640634, ha precisato che l'impugnazione dell'avviso di accertamento relativo all'IRPEF e all'IRAP, dovute dalla società di persone e dai suoi soci, riguarda inscindibilmente sia l'una che gli altri anche nel caso in cui sia proposta dal socio occulto di una società di persone per contestare tale posizione, atteso il principio di unitarietà, su cui si basa la rettifica delle dichiarazioni dei redditi della società di persone e dei suoi soci, con automatica imputazione dei redditi della prima a ciascuno dei soci, indipendentemente dalla percezione e in proporzione alla quota di partecipazione agli utili (art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), con la conseguenza che il giudizio è affetto da nullità assoluta, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in caso di mancata integrazione del 822 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO contraddittorio nei confronti di tutti i soci, che sono litisconsorti necessari. Tuttavia, come precisato da Sez. 6-T, n. 12375/2016, Caracciolo, Rv. 640036, ove le pronunce riguardanti la società e i suoi soci siano state adottate dallo stesso collegio in identica composizione, nella medesima circostanza e nel contesto di una trattazione sostanzialmente unitaria, sussiste la presunzione che si sia realizzata una vicenda sostanzialmente esonerativa del litisconsorzio formale, per cui il ricorrente per cassazione che, con riferimento al giudizio di primo grado, lamenti la violazione del litisconsorzio necessario, ha l'onere, in conformità al principio di autosufficienza, di descrivere lo sviluppo delle procedure nel corso del detto grado. Va, inoltre, sottolineato che è stato escluso il litisconsorzio necessario: dei soci della società di persone nella controversia avente a oggetto la liquidazione, in base alla procedura di controllo automatico, dell'IVA e dell'IRAP dovute dalla società in base alla sua stessa dichiarazione, atteso che l'atto impugnato dalla società non comporta alcuna rettifica dei redditi della stessa e, di conseguenza, neanche di quelli dei soci, per cui si pone soltanto una questione di solidarietà passiva ai sensi dell'art. 2313 c.c. (Sez. T, n. 09527/2016, Luciotti, Rv. 639771); della società di persone nel caso in cui alcuni soci della stessa impugnino distinti avvisi di accertamento, nascenti dalla medesima rettifica operata nei confronti della società, invocando gli effetti del condono da questa (e da un altro socio) posto in essere ai sensi dell'art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella l. 15 luglio 2011, n. 111, in quanto la società non ha alcun interesse processualmente rilevante a partecipare al giudizio (Sez. T, n. 13746/2016, Iannello, Rv. 640537). Parimenti, nel caso in cui, a seguito della definizione agevolata di cui all'art. 9- bis del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, in l. 28 maggio 1997, n. 140, sia divenuto incontestabile il reddito della società che, ai sensi del citato art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, costituisce titolo per l'accertamento nei confronti dei soci, nell'eventuale giudizio sull'impugnazione dell'avviso di rettifica del reddito di partecipazione promosso da questi ultimi non è configurabile un litisconsorzio necessario con la società e con gli atri soci, dato che si controverte esclusivamente degli effetti della definizione agevolata della società su ciascuno dei soci, sicché ciascuno di essi può opporre soltanto ragioni specifiche di carattere personale (Sez. T, n. 14490/2016, Iannello, Rv. 640545). 823 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Va, infine, menzionata sull'argomento Sez. 6-T, n. 15748/2014, Conti, Rv. 640653, che, dopo avere affermato la legittimazione del socio accomandante, in quanto contribuente e, dunque, soggetto passivo del rapporto tributario, esposto alla definitività dell'atto impositivo, a impugnare l'avviso di accertamento inerente a crediti IVA e IRAP della società, i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento della stessa, ha aggiunto che, nel relativo giudizio, sussiste un litisconsorzio necessario con il curatore e con il socio accomandante, stante l'unitarietà del detto accertamento, che è alla base dell'imputazione dei redditi a ciascun socio. Con riguardo al litisconsorzio facoltativo nel processo tributario e, in particolare, all'ammissibilità di un ricorso collettivo e cumulativo, Sez. T, n. 07940/2016, Zoso, Rv. 639441, ha affermato che, data l'assenza, nel d.lgs. n. 546 del 1992, di disposizioni sul cumulo dei ricorsi e il rinvio, operato dall'art. 1, comma 2, dello stesso decreto, alle norme del codice di procedura civile per quanto non disposto e nei limiti della compatibilità, deve ritenersi applicabile l'art. 103 c.p.c., in tema, appunto, di litisconsorzio facoltativo, con la conseguente ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se riguardante distinte cartelle di pagamento, ove esso abbia a oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa. Applicando tale principio, la Corte ha ritenuto ammissibile un ricorso collettivo e cumulativo contenente un'identica contestazione avverso distinte cartelle di pagamento emesse nei confronti di diversi contribuenti per il pagamento del canone televisivo per l'anno 2005. Si menziona, infine, sul tema anche Sez. 6-T, n. 07789/2016, Caracciolo, Rv. 639568, massimata come conforme a Sez. 6-T, n. 25300/2014, Conti, Rv. 633451. Particolarmente utile al fine di ricostruire i rapporti nel giudizio tributario tra ente impositore e concessionario o agente della riscossione e l'assenza di un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra gli stessi, risulta la recente Sez. T, n. 22729/2016, Sabato, Rv. In corso di massimazione, secondo cui, qualora il contribuente impugni l'avviso di mora per la mancata notifica della cartella di pagamento, salva la previsione dell'art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, la legittimazione passiva spetta all'ente impositore, su cui incombe l'onere probatorio, al cui adempimento è funzionale l'eventuale chiamata in causa, ex art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, del concessionario del servizio di riscossione perché provveda a 824 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO produrre la documentazione in suo possesso, mentre l'impugnazione va proposta esclusivamente nei confronti di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, per gli errori a lui direttamente imputabili e, cioè, per i vizi propri della cartella o dell'avviso di mora. 7.5. Comunicazioni e notificazioni. Con riguardo alle comunicazioni e alle notificazioni in genere, si devono segnalare due pronunce. Sez. 6-T, n. 14679/2016, Napolitano, Rv. 640495, ha chiarito che l'art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui prevede che le notificazioni all'ente locale possono essere fatte anche mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto, non si applica alle notifiche ai consorzi di bonifica, essendo questi degli enti pubblici economici, i quali non rientrano nella categoria degli enti locali disciplinati dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Da menzionare, poi, in tema di notificazione telematica a mezzo di posta elettronica certificata (PEC) da parte del difensore del contribuente munito dell'autorizzazione del consiglio dell'ordine di appartenenza, Sez. 6-T, n. 17941/2016, Napolitano, Rv. 640801, la quale ha precisato che, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che rinvia alle disposizioni del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163, le notificazioni degli atti del processo tributario tramite PEC sono previste in via sperimentale solo dal 1° dicembre 2015 ed esclusivamente dinnanzi alle commissioni tributarie della Toscana e dell'Umbria (come precisato dall'art. 16 del citato decreto). Da tale premessa si è tratta la conseguenza che la notificazione della sentenza all'Amministrazione finanziaria effettuata dal difensore autorizzato a mezzo della PEC in data 5 dicembre 2014 è inesistente e insuscettibile di sanatoria e, quindi, inidonea a fare decorrere il termine breve di impugnazione. Diverse pronunce hanno invece specificamente riguardato il luogo delle notificazioni e delle comunicazioni. Sez. T, n. 07938/2014, Scoditti, Rv. 639702, dopo avere rammentato che l'art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, prevede che le variazioni del domicilio eletto, della residenza o della sede sono efficaci nei confronti della segreteria della commissione e delle controparti costituite dal decimo giorno successivo a quello in cui è stata loro notificata la denuncia di variazione, ha affermato che, in difetto di tale notificazione, i successivi atti del processo continuano a essere validamente notificati nel luogo originariamente 825 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO dichiarato, e ciò anche nel caso in cui il domiciliatario rifiuti di ricevere l'atto, allegando, ad esempio, la rinuncia all'incarico conferitogli dal notificatario o la revoca dello stesso. Sez. 6-T, n. 13238/2016, Conti, Rv. 640135, ha peraltro precisato che il menzionato onere di notificazione delle variazioni del domicilio eletto, della residenza o della sede è previsto dal citato art. 17, comma 1, per il domicilio autonomamente eletto dalla parte, mentre l'elezione di domicilio presso lo studio del procuratore ha la mera funzione di indicare la sede dello studio di questi, con la conseguenza che il difensore domiciliatario non ha, a sua volta, l'onere di comunicare il mutamento d'indirizzo del proprio studio, ma compete, invece, al notificante effettuare apposite ricerche per individuare il nuovo luogo di notificazione, ove quello a sua conoscenza sia mutato, salva la legittimità, nel caso di esito negativo di tali ricerche, della notificazione dell'atto presso la segreteria della commissione tributaria, ai sensi del comma 3 del medesimo art. 17. Applicando tale principio, la Corte ha ritenuto valida la comunicazione dell'avviso di trattazione della causa presso la segreteria della commissione, avendo l'Amministrazione finanziaria effettuato le opportune ricerche e, in particolare, riscontrato che il domiciliatario non aveva comunicato variazioni all'ordine professionale di appartenenza. Tuttavia, pochi mesi prima Sez. T, n. 05749/2016, Solaini, Rv. 639137, nell'affermare l'applicabilità della regola residuale dell'art. 17, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che consente la notificazione e la comunicazione degli atti presso la segreteria della commissione, non solo nei casi, da essa espressamente menzionati, di originaria carenza o inidoneità delle indicazioni fornite dalla parte, ma anche nelle ipotesi in cui, non essendo stato adempiuto l'onere di comunicare le successive variazioni, la sopravvenuta inefficacia delle predette indicazioni renda in concreto impossibile procedere alla notificazione o alla comunicazione, ha ritenuto valida la comunicazione dell'avviso di trattazione della causa presso la segreteria della commissione, non avendo la parte dato notizia dell'avvenuto trasferimento dello studio del difensore, presso cui aveva eletto domicilio, contraddicendo la precedente Sez. 6-T, n. 13366/2013, Di Blasi, Rv. 626830. Sez. T, n. 16189/2016, Ragonesi, Rv. 640765, ha asserito che, prima del decorso del termine dilatorio di efficacia delle variazioni del decimo giorno successivo a quello in cui è stato notificata la relativa denuncia, gli atti del processo restano validamente notificati nel luogo originariamente dichiarato, anche qualora la variazione sia di tipo endoprocessuale, sicché il giudice, constatata la mancata 826 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO notifica dell'appello per trasferimento del destinatario, non può dichiarare inammissibile il gravame ma deve disporre il rinnovo della notificazione. Due pronunce hanno infine affrontato la questione del luogo delle notificazioni con riguardo, in particolare, alla notificazione delle sentenze, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione delle stesse previsto dall'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992. Quanto alla notificazione della sentenza di appello all'Agenzia delle entrate, Sez. T, n. 23985/2016, Virgilio, Rv. 000000, ha statuito che, mentre nel caso in cui la detta sentenza sia stata emessa in un giudizio al quale l'Agenzia delle entrate abbia partecipato senza il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, essa deve essere notificata, affinché decorra il termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione, presso la sede centrale dell'Agenzia o, alternativamente, presso la sede del suo ufficio periferico, qualora la stessa Agenzia si sia invece avvalsa nel giudizio del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la notificazione della sentenza, ai fini del decorso del termine breve, va eseguita, secondo i principi generali, presso quest'ultima. Sez. T, n. 24920/2016, Chindemi, Rv. in corso di massimazione, dopo avere ribadito che, secondo quanto statuito da Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640602, l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992, in assenza di ragioni normative che impongano di ritenere che esso si riferisca soltanto alle notificazioni endoprocessuali, si applica anche alla notificazione del ricorso in appello e, quale logica conseguenza, anche alla notificazione della sentenza di appello, ha affermato la nullità, e la conseguente inidoneità a fare decorrere il termine breve di impugnazione, della notificazione della sentenza di appello nel domicilio eletto dal notificatario (in una memoria di costituzione in appello) senza che il procuratore dello stesso avesse provveduto, a norma dell'art. 17, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, a notificare tale variazione del domicilio alla segreteria della commissione e alle parti costituite. 8. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. 8.1. Gli atti impugnabili. Con riguardo all'individuazione degli atti impugnabili, vanno anzitutto menzionate due pronunce delle Sezioni Unite. 827 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Sez. U, n. 08587/2016, Di Iasi, Rv. 639392, ha statuito che l'autorizzazione del procuratore della Repubblica necessaria, ai sensi dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire l'esame di documenti relativamente ai quali è stato eccepito il segreto professionale, è impugnabile davanti al giudice tributario solo qualora sia stato impugnato l'atto conclusivo del procedimento di verifica fiscale, dato che detta autorizzazione è un atto infraprocedimentale, non impugnabile autonomamente. La Corte ha altresì puntualizzato che ciò non determina una vuoto di tutela giurisdizionale, atteso che, qualora il procedimento di verifica non si concluda con l'emanazione di un atto impositivo o tale atto non venga impugnato, l'autorizzazione illegittima resta impugnabile davanti al giudice ordinario, in quanto lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge. Va, poi, ricordato che Sez. U, n. 00029/2016, Di Palma, Rv. 637939, già citata al paragrafo 1, in tema d'ICI, ha affermato la sostanziale equivalenza dell'opposizione proposta dal contribuente avverso l'ingiunzione fiscale emessa dal comune, ai sensi dell'art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, in pendenza del giudizio tributario promosso dal primo contro l'avviso di accertamento, alla lite concernente l'impugnazione del ruolo. Anche le sezioni semplici hanno reso nell'anno numerose pronunce in materia di atti impugnabili dinanzi al giudice tributario, a conferma dell'esistenza di una costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità al riguardo. Sulla premessa che l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 ha natura tassativa ma, in considerazione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell'Amministrazione, ogni atto adottato dall'ente impositore che porti comunque a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con l'esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche della stessa, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, Sez. 6-T, n. 03315/2016, Conti, Rv. 638796, ha affermato l'immediata impugnabilità della comunicazione di irregolarità (cosiddetto avviso bonario) prevista dall'art. 36-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Autonomamente impugnabile è stata ritenuta anche la comunicazione della sospensione di un rimborso dell'IVA in vista di una compensazione del relativo credito, con conseguente differimento in concreto dello stesso rimborso; ciò ai sensi o del 828 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 23 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, o, comunque, del medesimo art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, dato che la tassatività dell'elencazione in esso contenuta deve intendersi riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente individuati ma alle categorie cui essi sono riconducibili nelle quali vanno, pertanto, compresi anche gli atti atipici o con un nomen iuris diverso da quelli indicati, sempreché, però, producano gli stessi effetti giuridici (Sez. T, n. 05723/2016, Luciotti, Rv. 639135). La Corte ha infine riconosciuto l'autonoma impugnabilità anche del silenzio dell'Amministrazione finanziaria sull'istanza di riconoscimento di un'esenzione o di un'agevolazione, il quale deve essere qualificato come silenzio rifiuto, atteso che, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, rientra tra gli atti suscettibili di autonoma impugnazione qualunque provvedimento idoneo a incidere sul rapporto tributario (Sez. T, n. 13394/2016, Meloni, Rv. 640147). Sez. T, n. 07511/2016, Iannello, Rv. 639628, ha, invece, escluso che ricada nell'ambito previsionale dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 l'annullamento parziale in via di autotutela (o, comunque, il provvedimento di portata riduttiva) della pretesa contenuta in atti divenuti definitivi, non comportando tale provvedimento alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto e ormai consolidato, in ragione dell'omessa tempestiva impugnazione del precedente accertamento, a differenza dell'atto che abbia una portata ampliativa della pretesa originaria, di cui è riconosciuta l'autonoma impugnabilità. Con riguardo alle conseguenze dell'omessa impugnazione di atti impositivi non espressamente indicati dall'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 (si trattava, nella specie, di fatture relative alla TIA), la Corte ha ribadito (Sez. 6-T, n. 14675/2016, Napolitano, Rv. 640514; in senso conforme, Sez. T, n. 02616/2015, Napolitano, Rv. 634214 e Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281) che l'iniziativa giudiziaria costituisce una facoltà e non un onere, il cui mancato esercizio non preclude la successiva possibilità d'impugnazione unitamente all'atto successivo (nella specie, la cartella di pagamento). È, infine, interessante, il principio, affermato da Sez. 6-T, n. 19013/2016, Conti, Rv. 641108, secondo cui, nel caso di accertamento dei redditi di partecipazione, l'indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali e al singolo socio 829 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO comporta che quest'ultimo, ove abbia impugnato l'accertamento a lui notificato senza avere preso parte al giudizio promosso dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell'accertamento dei maggiori ricavi non contabilizzati operato a carico della società. 8.2. Il ricorso. 8.2.1. La procura alla lite. Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641066, in conformità con la sentenza n. 13208 del 2007 (Sez. T, n. 13208/2007, Scuffi, Rv. 599293), ha ribadito che nel processo tributario la procura alle liti deve essere apposta sull'originale del ricorso, mentre non è necessario che figuri anche sulla copia notificata alla controparte, dove è sufficiente che compaia un'annotazione che attesti la sua presenza sull'originale. 8.2.2. La proposizione. Va segnalata una pronuncia concernente le modalità di presentazione del ricorso ai sensi della previgente disciplina del processo tributario dettata dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636. Sez. T, n. 10487/2016, Iannello, Rv. 639982, ha chiarito che, nel vigore dell'art. 17 di tale decreto, come sostituito dall'art. 8 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739, l'omissione della consegna o della spedizione di una copia del ricorso al competente ufficio finanziario, legittimato a contraddire, determinava l'inammissibilità del ricorso, dato che la formalità menzionata atteneva alla valida costituzione del rapporto processuale e, quindi, alla corretta instaurazione del contraddittorio, senza che potessero ammettersi equipollenti o sanatorie della stessa. Sez. T, n. 19864/2016, Manzon, Rv. 641256, confermando Sez. T, n. 15309/2014, Greco, Rv. 631565, ha ribadito che la spedizione del ricorso (o dell'atto d'appello) a mezzo posta in busta chiusa e priva di qualsiasi indicazione relativa all'atto al suo interno, anziché in plico senza busta, come previsto dall'art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente (o dell'appellante) provare l'infondatezza della contestazione formulata. 8.2.3. Il termine. Sez. T, n. 18002/2016, Vella, Rv. 641129, ha statuito che la notificazione dell'avviso di accertamento al contribuente in bonis non è idonea a fare decorrere il termine di impugnazione dell'atto anche nei confronti del curatore del fallimento che sia sopravvenuto in pendenza di detto termine, di tal 830 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO ché l'intervenuta definitività dell'atto impositivo non è opponibile alla massa dei creditori. A tale fine, è necessario che lo stesso venga notificato anche al curatore, così da rendere manifesta l'intenzione dell'Amministrazione finanziaria di procedere all'insinuazione del credito vantato al passivo fallimentare, facendo conseguentemente sorgere un interesse concreto e attuale del curatore a contestare l'atto impositivo a tutela della massa dei creditori. Sez. 6-T, n. 11269/2016, Cigna, Rv. 639913, ha, invece, chiarito che il termine per la proposizione del ricorso, essendo "a decorrenza successiva", va computato escludendo il giorno iniziale e conteggiando quello finale, atteso che si applica l'art. 155, comma 5, c.p.c., con la conseguenza che, qualora il dies ad quem scada nella giornata di sabato, esso è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo, non rilevando l'apertura degli uffici postali o la disponibilità ad accettare gli atti in scadenza l'ultimo giorno. Sempre in tema di computo del termine per l'impugnazione, con riguardo al dies a quo, Sez. 6-T, n. 02047/2016, Cosentino, Rv. 638907, ha precisato che, nel caso di notificazione dell'atto impositivo effettuata a mezzo della posta direttamente dall'ufficio finanziario, allo scopo di garantire il bilanciamento tra l'interesse del notificante e quello del notificato, deve applicarsi in via analogica la regola dell'art. 8, comma 4, della l. 20 novembre 1982, n. 890, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell'avviso di giacenza, ovvero dalla data di ritiro del piego, se anteriore, con la conseguenza che il termine per ricorrere avverso l'atto notificato decorre da tale momento. Da segnalare, ancora, Sez. 6-T, n. 20612/2014, Crucitti, Rv. 641252, ad avviso della quale, nel caso di mancato deposito dell'atto impugnato, che determini incertezza in ordine alla tempestività del ricorso, il giudice deve concedere un termine al ricorrente perché vi provveda, atteso che l'art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992 – ai sensi del quale, ove sorgano contestazioni, il giudice tributario ordina l'esibizione degli originali degli atti e documenti di cui ai precedenti commi – consente di escludere la sanzione dell'inammissibilità, non espressamente comminata, se sia possibile accertare la sostanziale regolarità dell'atto e l'osservanza delle regole processuali fondamentali. Va, infine, in questa sede menzionata Sez. T, n. 18027/2016, Marulli, Rv. 641132, secondo cui, poiché l'art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo anteriore alle modificazioni ad esso apportate dall'art. 9, comma 1, lett. ff), n. 2), del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, stabilendo il rimborso d'ufficio del tributo corrisposto 831 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO dal contribuente in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale entro novanta giorni dalla notificazione della stessa, determina la nascita di un'obbligazione ex lege da indebito, non è soggetta ai termini di decadenza di cui all'art. 21, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 546 del 1992, l'istanza di rimborso necessaria per potere adire l'autorità giudiziaria in caso di inadempimento dell'Amministrazione. 8.3. La costituzione in giudizio del ricorrente. Sul fondamento del principio di effettività della tutela giurisdizionale, il quale impone di interpretare in senso restrittivo le previsioni di inammissibilità, Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641067, ha escluso che l'illeggibilità della sottoscrizione, da parte del ricorrente o del suo difensore, della copia del ricorso (consegnato o spedito a mezzo della posta) depositata presso la segreteria della commissione tributaria ne determini l'inammissibilità. 8.4. La costituzione in giudizio del resistente. Con riguardo all'impugnazione del rigetto di un'istanza di rimborso, Sez. T, n. 17811/2016, Cirillo, Rv. 640970, ha affermato che l'Amministrazione finanziaria, formulando nel giudizio, nel quale il contribuente assume il ruolo di attore in senso sostanziale, le proprie controdeduzioni, ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, sempreché afferenti all'oggetto della controversia, può prospettare argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle espresse in sede amministrativa nella motivazione del provvedimento negativo, di tal ché il giudice può rigettare la domanda di rimborso sulla base di un motivo esposto per la prima volta in sede processuale. Può farsi menzione, in questa sede, anche di Sez. 6-T, n. 14615/2016, Caracciolo, Rv. 640557, che, sempre con riguardo ai ricorsi avverso il rifiuto della restituzione di tributi, ha affermato che l'Amministrazione finanziaria può eccepire in compensazione il proprio credito tributario nei confronti del fallito anche qualora non sia stato oggetto di ammissione al passivo (nella specie, per la tardività della domanda di insinuazione), al solo scopo di ottenere il rigetto della domanda di rimborso della curatela, atteso che la competenza fallimentare, ai sensi dell'art. 46 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sussiste solo nel caso in cui sia chiesta la condanna del fallimento al pagamento di un'eventuale differenza. 832 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 8.5. L'avviso di trattazione della controversia. Secondo Sez. 6-T, n. 01786/2016, Conti, Rv. 638739, poiché la comunicazione della data dell'udienza, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992 – che, in virtù del richiamo operato dall'art. 61 dello stesso decreto, è applicabile anche ai giudizi d'appello – adempie a un'essenziale funzione di garanzia del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, l'omissione della detta comunicazione alle parti, almeno trenta giorni liberi prima dell'udienza, determina la nullità della decisione comunque pronunciata. 8.6. L'istruzione probatoria. 8.6.1. Il principio di non contestazione. Degna di nota è Sez. 6-T, n. 09732, Iofrida, Rv. 639869, secondo cui il difetto di specifica contestazione dei conteggi funzionali alla quantificazione del credito, oggetto della pretesa dell'attore-contribuente, che abbia avanzato istanza di rimborso di un tributo, allorché l'ufficio finanziario convenuto ne abbia negato l'esistenza, può rilevare solo quando si riferisca a fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione dell'an debeatur, atteso che la non contestazione opera sul piano probatorio e non restringe il thema decidendum ai soli motivi contestati se sia stato chiesto il rigetto dell'intera domanda. Sul tema va ricordata anche Sez. 6-T, n. 13483/2016, Federico, Rv. 640166, massimata solo come conforme a Sez. T, n. 13834/2014, Crucitti, Rv. 631297, che conferma la rilevanza della non contestazione solo sul piano probatorio e non anche su quello delle allegazioni nell'ambito del giudizio tributario, non potendo equivalere ad ammissione la mancata presa di posizione dell'ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente. 8.6.2. Le presunzioni. Sez. T, n. 07509/2016, Solaini, Rv. 639693, ha ribadito che il ricorso alle presunzioni è ammissibile in materia di tributi sia dello Stato sia degli enti locali, atteso che l'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 esclude solo il giuramento e la prova testimoniale. La sentenza ha ulteriormente chiarito che il divieto di ammissione di quest'ultimo mezzo di prova non comporta l'inammissibilità della prova presuntiva ai sensi dell'art. 2729, comma 2, c.c., non essendo applicabile tale disposizione nel processo tributario, stante la natura della materia e dei mezzi d'indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari. Sez. 5, n. 15824/2016, Virgilio, Rv. 640622, ha confermato il principio per cui, in caso di società di capitali a ristretta base sociale, 833 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO è ammissibile la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell'assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale. 8.6.3. Le dichiarazioni extraprocessuali del terzo. In tema di elementi indiziari a carico del contribuente, raccolti nella fase di accertamento, di rilievo appare Sez. T, n. 16711/2016, Marulli, Rv. 640982, secondo cui le dichiarazioni rese dai terzi, per il loro contenuto intrinseco ovvero per l'attendibilità dei riscontri offerti, possono assumere valore di presunzione grave, precisa e concordante ex art. 2729 c.c. e, quindi, di prova presuntiva idonea a fondare e a motivare l'atto di accertamento. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha confermato l'avviso di accertamento fondato sulle dichiarazioni di più soggetti acquirenti di beni immobili che avevano affermato la percezione, da parte della società contribuente, di corrispettivi non fatturati e recuperati a tassazione dall'Amministrazione finanziaria. 8.6.4. Il valore probatorio delle autocertificazioni. Sez. 6- T, n. 03244/2016, Iacobellis, Rv. 638912, dopo avere rilevato che l'art. 3, comma 3, della legge 28 dicembre 2000, n. 445, consente l'utilizzazione delle dichiarazioni sostitutive di cui ai successivi artt. 46 e 47 anche ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea, autorizzati a soggiornare nel territorio dello Stato, in funzione delle convenzioni internazionali fra l'Italia e il Paese di provenienza del dichiarante, ha affermato che, pertanto, le dette autocertificazioni, allegate a domande di rimborso in applicazione di convenzioni internazionali con il nostro Paese (nella specie, la convenzione tra l'Italia e il Giappone per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito, ratificata e resa esecutiva dalla legge 18 dicembre 1972, n. 855) hanno attitudine certificativa e probatoria. 8.6.5. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. Chiarisce la portata dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice tributario dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. T, n. 00955/2016, Iannello, Rv. 638439, secondo cui i detti poteri sono previsti non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, 834 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma solo in funzione integrativa degli elementi di giudizio, per cui il loro esercizio è consentito ove sussista una situazione di obiettiva incertezza e ove la parte non possa provvedere autonomamente, per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che il giudice tributario non potesse acquisire d'ufficio un processo verbale di constatazione richiamato nell'avviso di rettifica. 8.6.6. Limitazioni probatorie. Da segnalare, nel contesto della pluriennale opera di chiarimento della portata delle disposizioni che prevedono limiti alla facoltà di prova in conseguenza del fatto che, nel corso dell'attività di accertamento, il contribuente ha rifiutato di esibire libri, registri, scritture e documenti, Sez. T, n. 16960/2016, Perrino, Rv. 640761. Con riguardo, in particolare, alla disposizione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 – secondo cui la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso di non possedere i libri, registri, scritture e documenti richiestigli, ne preclude la valutazione in suo favore in sede amministrativa o contenziosa – la sentenza n. 16960 ha chiarito che essa è applicabile solo qualora la menzionata dichiarazione si traduca in un sostanziale rifiuto di esibizione da parte del contribuente, non, invece, qualora si fondi sull'effettiva indisponibilità della documentazione per colpa, caso fortuito o forza maggiore. La Corte ha altresì precisato che la prova dei presupposti di fatto per l'applicazione del citato art. 52, comma 5, incombe sull'Amministrazione finanziaria. 8.7. La decisione. Investe la natura stessa del processo tributario il principio enunciato da Sez. T, n. 13294, Luciotti, Rv. 640171. È, infatti, sul presupposto della natura di "impugnazione- merito" di tale processo, in quanto diretto a una decisione sostitutiva sia della dichiarazione del contribuente che dell'accertamento dell'ufficio, che la Corte ha affermato che il giudice tributario, qualora ritenga invalido l'avviso di accertamento impugnato per motivi non formali ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullarlo ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e ricondurla alla misura corretta, nei limiti delle domande di parte, restando, peraltro, esclusa, dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, la possibilità della pronuncia di una sentenza parziale solo sull'an o di una condanna generica. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato con rinvio la 835 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sentenza impugnata che, affermato l'errore dell'ufficio per avere computato anche l'IVA tra i maggiori ricavi accertati, rimetteva ad esso il ricalcolo degli stessi, la conseguente rideterminazione delle imposte dovute e l'abbattimento dei maggiori costi presumibili, correlati ai maggiori ricavi presunti, nonché la riquantificazione delle sanzioni irrogate secondo il regime del cumulo giuridico, anche pluriennale. La Corte (Sez. T, n. 07514/2016, Iannello, Rv. 639629), sulla premessa che l'art. 27 del d.lgs. n. 546 del 1992 – che attribuisce al presidente della sezione il potere di dichiarare con decreto, in sede di esame preliminare, l'inammissibilità del ricorso, se manifesta – è una norma di stretta interpretazione che risponde a esigenze di accelerazione e deflazione del contenzioso al fine di non investire il collegio di ricorsi manifestamente inammissibili, ha negato che si possa attribuire in via estensiva alla commissione tributaria provinciale un'omologa potestà di rilevare e dichiarare l'inammissibilità con sentenza inaudita altera parte, atteso che, in tale caso, verrebbero meno i vantaggi della deflazione del contenzioso ed elusi i meccanismi di salvaguardia del contraddittorio previsti dal legislatore, non potendosi ritenere equipollente al previsto reclamo al collegio avverso il decreto presidenziale la mera possibilità di impugnare in appello una sentenza così emessa. 9. Le impugnazioni. 9.1. Il giudizio di appello. La giurisprudenza del 2016 della Corte ha investito numerosi aspetti del giudizio di appello: dalle questioni sulla proposizione alla legittimazione ad appellare, da quelle attinenti a ciò che è rilevabile di ufficio o solo su eccezione di parte ai poteri istruttori del giudice e al litisconsorzio. In primo luogo, deve segnalarsi Sez. 6-T, n. 11087/2016, Conti, Rv. 639992, secondo cui, ai fini dell'operatività del termine semestrale di decadenza del gravame, di cui all'art. 327 c.p.c., nel testo novellato dalla l. n. 69 del 2009, ed applicabile ai soli giudizi pendenti dopo la sua entrata in vigore, la "pendenza del giudizio" va individuata con riferimento alla notifica del ricorso, che, ai sensi degli artt. 18 e 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, determina la litispendenza, e non alla costituzione del ricorrente, attinente a un adempimento ulteriore, che suppone una lite già pendente. Sempre con riferimento al termine d'impugnazione, Sez. T, n. 15181/2016, Bruschetta, Rv. 640643, si è occupata del caso, molto particolare ma non più così raro, della sospensione dei termini in un determinato territorio per eventi naturali. In particolare, si è posta la questione, ai 836 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO fini dell'ammissibilità dell'appello, dell'applicabilità della sospensione dei termini d'impugnazione tra il 6 aprile ed il 31 luglio 2009, prevista dall'art. 5, comma 3, del d.l. n. 39 del 2009, convertito in l. n. 77 del 2009, per gli eventi sismici della città di L'Aquila e dell'Abruzzo anche agli avvocati che, pur senza essere residenti, abbiano gli studi legali in tali territori. La risposta è stata positiva in quanto il provvedimento è rivolto a consentire anche a chi operi professionalmente nelle aree colpite dal terremoto di superare le difficoltà derivanti dall'evento sismico. 9.1.1. Proposizione. Prima di esaminare le pronunce sulle modalità di proposizione dell'appello, occorre ricordare Sez. T, n. 06334/2016, Iannello, Rv. 639630, la quale ha escluso che lo sgravio della cartella di pagamento disposto in virtù della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado favorevole al contribuente, anteriormente alla presentazione dell'appello, comporti acquiescenza alla sentenza e precluda la proposizione dell'impugnazione, atteso che tale condotta può essere giustificata da motivi diversi, che non esprimono necessariamente acquiescenza, quali la mera volontà di evitare le spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione. Sez. T, n. 16758/2016, Marulli, Rv. 641068, a proposito delle modalità di proposizione dell'appello e, quindi, della sua eventuale inammissibilità, ha ritenuto che la costituzione in giudizio del ricorrente deve essere ancorata alla spedizione del ricorso, e non alla sua ricezione da parte del resistente, per cui il termine di trenta giorni per il deposito, nella cancelleria della commissione tributaria adita, dell'originale del ricorso notificato o di copia dello stesso, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale, decorre da tale momento. In difetto, il ricorso è inammissibile e tale sanzione è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo, né è sanabile attraverso la costituzione del convenuto. Sez. 6-T, n. 23589/2016, Iofrida, Rv. in corso di massimazione, ha, però, precisato che, in caso di notificazione dell'atto tramite ufficiale giudiziario, il termine per la costituzione del ricorrente decorre dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario, giacché l'art. 22 del d.lgs. 546 del 1992 prevede il deposito dell'originale del ricorso notificato; inoltre, se il termine di trenta giorni scade di sabato, lo stesso è prorogato al lunedì successivo. 837 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Sez. 6-T, n. 19138/2016, Vella, Rv. 641113, ha, poi, affermato che non costituisce motivo di inammissibilità dell'appello notificato a mezzo posta il fatto che, all'atto della costituzione, l'appellante depositi l'avviso di ricevimento del plico inoltrato per raccomandata in luogo del prescritto avviso di spedizione, atteso che anche l'avviso di ricevimento riporta la data della spedizione, sicché il relativo deposito è perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria connessa a tale adempimento. Entrambe queste decisioni riguardano le questioni di massima importanza rimesse alle Sezioni Unite da Sez. T, n.18000, Sabato, e Sez. T, n. 18001/2016, Virgilio, concernenti, da un lato, l'individuazione del dies a quo del termine di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992 (spedizione o ricezione del ricorso) e, dall'altro, la possibilità di produrre, al momento della costituzione, in luogo della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso, la relativa ricevuta di ritorno. Sez. T, n. 14273/2016, Luciotti, Rv. 640538, ha considerato, ai fini della regolare proposizione dell'appello, la notifica tramite il messo, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.lgs n. 546 del 1992, equivalente rispetto a quella effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario, sicché, in caso di omesso deposito della copia dell'appello presso la segreteria della commissione tributaria provinciale, non opera la comminatoria di inammissibilità di cui all'art. 53, comma 2, del d. lgs. n. 546 del 1992, che si riferisce alle semplici raccomandate previste dall'art. 16, comma 3, del citato decreto, trovando applicazione la regola di cui all'art. 123, comma 1, disp. att. c.p.c., in virtù della quale l'ufficiale giudiziario, e quindi anche il messo notificatore, ha l'onere di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notificazione dell'appello al cancelliere del giudice che ha reso la sentenza impugnata. 9.1.2. Notificazione. Quanto alle modalità di notifica, Sez. T, n. 16488/2016, Stalla, Rv. 640981, ha ritenuto che, ove la parte appellante decida di notificare l'atto di gravame avvalendosi non dell'ufficiale giudiziario, ma della spedizione diretta a mezzo di piego raccomandato (consentita dall'art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992), le indicazioni che debbono risultare dall'avviso di ricevimento ai fini della validità della notificazione quando l'atto sia consegnato a persona diversa dal destinatario, non sono quelle di cui all'art. 139 c.p.c., ma quelle prescritte dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria. Pertanto, non è stata ritenuta affetta da nullità la notifica in cui l'avviso di ricevimento, debitamente 838 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO consegnato nel domicilio eletto, sia stato sottoscritto da persona ivi rinvenuta, in diretta relazione di parentela con il destinatario, salva la facoltà di dimostrare, con querela di falso, l'assoluta estraneità della persona che ha sottoscritto l'avviso alla propria sfera personale o familiare. Sez. T, n. 25095/2016, Virgilio, Rv. in corso di massimazione, ha ribadito che, ove la parte appellante decida di notificare l'atto di gravame avvalendosi non già dell'ufficiale giudiziario, ma della spedizione diretta a mezzo piego raccomandato (consentita dall'art. 16, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), la disciplina applicabile è quella concernente il servizio postale ordinario che comporta, per le raccomandate che non abbiano potuto essere recapitate, un periodo di giacenza negli uffici di destinazione di trenta giorni, con obbligo di avviso della giacenza di oggetti raccomandati od assicurati, che non abbiano potuto essere distribuiti, ai destinatari ed ai mittenti, se identificabili. Pertanto, in caso di omesso invio della raccomandata informativa di cui all'art. 8 della legge n. 890 del 1982, anche nel caso in cui sia mancato l'invio al destinatario dell'avviso di giacenza della raccomandata ordinaria, si configura la nullità (e non l'inesistenza) della notifica dell'atto d'impugnazione, con conseguente obbligo del giudice, in assenza di sanatoria a seguito di costituzione dell'intimato, di ordinarne la rinnovazione. Sez. T, n. 12785/2016, Genovese, Rv. 640140, si è, invece, occupata della situazione in cui, tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell'appello, interviene la dichiarazione di fallimento della parte. In tal caso, la notifica dell'appello presso il procuratore domiciliatario del fallito in bonis anziché nei confronti del curatore del fallimento non è stata ritenuta inesistente, ma nulla, e di conseguenza, in caso di omessa costituzione del fallimento, deve disporsene la rinnovazione. 9.1.3. Questioni in tema di impugnazione dell'Agenzia delle Entrate e di soggetti terzi. Secondo Sez. 6-T, n. 15470/2016, Federico, Rv. 640640, la provenienza di un atto d'appello dall'ufficio periferico dell'Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all'ufficio appellante o, comunque, l'usurpazione del potere di impugnare la sentenza. 839 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Sez. 6-T, n. 00022/2016, Conti, Rv. 638280, è ritornata sul problema, già affrontato in passato, del rapporto tra uffici periferici dell'Amministrazione finanziaria e le nuove Agenzie fiscali istituite nel 1999, affermando che la disposizione di cui all'art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del Ministero delle Finanze e gli uffici del territorio dovevano essere previamente autorizzati alla proposizione dell'appello dai rispettivi responsabili del servizio contenzioso, non è più applicabile una volta divenuta operativa la disciplina del 1999 e 2000 che ha istituito le Agenzie fiscali, attribuendo ad esse i poteri e le competenze dei precedenti uffici, spettando a ciascuna agenzia appellare le sentenze ad essa sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali. Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639873, in relazione all'autorizzazione all'appello di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella formulazione vigente ratione temporis, ha affermato che l'illeggibilità della firma di un atto non fa venire meno la presunzione della sua provenienza da parte del soggetto che ha il potere di impegnare l'Amministrazione finanziaria, salvo che non se ne dimostri la falsità o l'usurpazione. Sulla stessa questione, la stessa Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639872, ha anche affermato che, se la suddetta autorizzazione è contenuta in un foglio unito all'atto d'impugnazione, la stessa assicura la conoscenza, da parte del funzionario competente, dell'intero contenuto dell'appello ed equivale, pertanto, alla sua sottoscrizione. Sez. T, n. 16177/2016, Meloni, Rv. 640650, si è, invece, occupata della legittimazione ad impugnare da parte di soggetto terzo rimasto estraneo al primo giudizio, affermando che egli, anche se effettivo titolare del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, rimane terzo rispetto alla pronuncia, che è stata emessa inter alios, cosicché una sua eventuale impugnazione della sentenza deve essere dichiarata inammissibile. 9.1.4. Motivi e oggetto. Risulta confermato l'indirizzo manifestato in decisioni anche degli anni precedenti secondo cui la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda in primo grado assolve l'onere di specificità dei motivi di impugnazione, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (così Sez. T, n. 16163/2016, La Torre, Rv. 640773; nello stesso senso anche la precedente Sez. 6-T, n. 01200/2016, Caracciolo, Rv. 840 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 638624, secondo cui, in virtù del riconosciuto carattere devolutivo pieno dell'appello tributario, non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito, la riproposizione, a supporto dell'appello del contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni del giudice di primo grado, assolve l'onere di impugnazione specifica di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992). Partendo dal presupposto secondo cui il processo tributario è un giudizio di impugnazione del provvedimento impositivo e il suo ambito è circoscritto alla pretesa avanzata con l'atto impugnato, cosicché il giudice tributario non può estendere la propria indagine all'esame di circostanze nuove ed estranee a quelle originariamente invocate dall'ufficio, Sez. T, n. 07927/2016, Zoso, Rv. 639633, già citata al paragrafo 4, ha ritenuto inammissibile l'appello dell'Agenzia delle Entrate che, in materia di imposta di registro, aveva, soltanto con i motivi di appello, considerato nel calcolo della superficie utile, in aggiunta a quella dell'abitazione, anche quella di un locale erroneamente indicato in catasto come cantina. La giurisprudenza si è poi occupata, inoltre, di definire i limiti alla proposizione di domande ed eccezioni e i poteri di rilevabilità di ufficio da parte del giudice. Così, Sez. 6-T, n. 14402/2016, Iofrida, Rv. 640536, già ricordata al paragrafo 6, ha ritenuto che il potere del giudice tributario di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e l'ambito applicativo della stessa, sussiste solo in presenza di una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, che non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello, e neppure in quello di legittimità. Sez. 6-T, n. 14074/2016, Caracciolo, Rv. 640353, ha affermato che l'art. 19-bis del d.P.R. n. 636 del 1972, aggiunto dall'art. 11 del d.P.R. n. 739 del 1981, consente al contribuente di integrare soltanto nel giudizio di primo grado i motivi proposti con il ricorso a contestazione della pretesa tributaria, fino alla data di comunicazione del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, sicché è inammissibile la successiva deduzione, innanzi alla commissione tributaria di secondo grado, di motivi non proposti nel giudizio di primo grado, ed è ugualmente inammissibile la prospettazione di nuove ragioni che implichino la valutazione di fatti e situazioni in tale sede non dedotti. 841 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Quanto alle eccezioni, Sez. 6-T, n. 11223/2016, Cigna, Rv. 639912, ha ritenuto che il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi di invalidità dell'atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili. Il concetto è stato ripreso anche da Sez. T-6, n. 23587/2016, Iofrida, Rv. in corso di massimazione, che ha affermato che se il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riguarda le eccezioni in senso tecnico − ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale − mentre non limita la possibilità dell'Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un'eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso tecnico. Sulla base di tale principio, nella fattispecie riguardante l'impugnazione di silenzio rifiuto su una domanda di rimborso, si è ritenuto che «quando il contribuente impugni il silenzio rifiuto formatosi su una istanza di rimborso, deve dimostrare che, in punto di fatto, non sussiste nessuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto, e l'Amministrazione finanziaria può, dal canto suo, difendersi quindi "a tutto campo", non essendo vincolata ad una specifica motivazione di rigetto", con la conseguenza che "le eventuali "falle" del ricorso introduttivo possono essere eccepite in appello dall'Amministrazione a prescindere dalla preclusione posta dall'art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto, comunque, attengono all'originario "thema decidendum" (sussistenza o insussistenza dei presupposti che legittimano il rifiuto del rimborso), fatto salvo il limite del giudicato». Sez. T, n. 24214/2016, Zoso, Rv. in corso di massimazione, ha ritenuto l'eccezione di interruzione della prescrizione rilevabile anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche per la prima volta in appello. Così, Sez. U, n. 01518/2016, Cirillo, Rv. 638457, ha ritenuto che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere a seguito di sanatoria fiscale, ai sensi dell'art. 15 della l. 27 dicembre 2002, n. 289, intervenuta nelle more del giudizio di primo grado, può essere fatta valere per la prima volta anche in appello, dovendosi ritenere che la stessa integri un'eccezione in 842 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO senso improprio, non soggetta alle preclusioni di cui al suddetto art. 57, e rilevabile di ufficio dal giudice, atteso il rilievo pubblicistico che tale avvenimento comporta sull'originario rapporto con il Fisco. In base all'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente proposte in appello, si intendono rinunciate. Secondo Sez. 6-T, n. 10906/2016, Conti, Rv. 639983, la norma deve essere interpretata come riferita all'appellato e non all'appellante, sicché, tenuto conto del carattere impugnatorio del giudizio, della qualità di attore in senso sostanziale del Fisco e dell'indisponibilità della sua pretesa, alla quale non può rinunciare se non nei limiti di esercizio di autotutela, ove l'Amministrazione sia rimasta soccombente in primo grado per un profilo preliminare di legittimità formale dell'atto, dalla circostanza che l'appello proposto abbia per oggetto solo la suddetta statuizione non può desumersi la rinuncia a far valere la pretesa tributaria. In senso analogo, Sez. T, n. 08332/2016, Cricenti, Rv. 639874, secondo cui l'Amministrazione soccombente che impugni la sentenza di primo grado sulla sola questione preliminare, e, in particolare, della tardività della notifica della cartella impugnata, non rinuncia a fare valere nel merito la pretesa tributaria, atteso che l'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992 va riferito solo all'appellato e non anche all'appellante. Sez. 6-T, n. 12937/2016, Cigna, Rv. 640074, ribadendo un orientamento precedente, ha affermato che la volontà dell'appellato di riproporre le questioni assorbite, pur non richiedendo alcuna impugnazione incidentale, deve però essere espressa, a pena di decadenza, nell'atto di controdeduzioni da depositare nel termine previsto per la costituzione in giudizio, e non può essere manifestata in atti successivi che esplicano funzione meramente illustrativa. 9.1.5. Integrazione del contraddittorio. Si registra sul punto Sez. T, n. 14253/2016, Greco, Rv. 640560, secondo cui anche nel processo tributario, come nelle impugnazioni di quello civile, l'integrazione del contraddittorio è obbligatoria non solo in ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale (cd. cause inscindibili), ma altresì nell'ipotesi di cause che, pur scindibili, riguardano rapporti logicamente interdipendenti tra loro o dipendenti da un presupposto di fatto comune (cd. cause dipendenti), quando siano state decise nel precedente grado di giudizio in un unico processo, al fine di evitare che le successive vicende processuali conducano a pronunce definitive di contenuto 843 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO diverso, sicché deve disporsi l'integrazione del contraddittorio in sede di impugnazione della sentenza avente a oggetto un accertamento in rettifica di dichiarazione congiunta, avverso cui i coniugi abbiano proposto insieme ricorso dinanzi al giudice tributario, essendo unico il titolo impositivo, fondato, in relazione ai diversi soggetti e ai distinti rapporti tributari, su presupposti almeno in parte comuni. 9.1.6. Appello incidentale. Secondo Sez. T. n. 16477/2016, Zoso, Rv. 640775, la parte totalmente vittoriosa nel merito, rimasta soccombente su una determinata questione, onde evitare la formazione del giudicato interno deve necessariamente proporre impugnazione incidentale sul punto, non essendo sufficiente la mera riproposizione della questione in appello, ai sensi dell'art. 56 del d.lgs n. 546 del 1992, poiché la dizione «non accolte» ivi utilizzata riguarda le sole domande ed eccezioni su cui il giudice non si sia espressamente pronunciato. Successivamente, tuttavia, Sez. T, n. 21808/2016, Bruschetta, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza relativa all'art. 56 del d. lgs. n. 546 del 1992, e, in particolare, alla sussistenza, in capo alla parte totalmente vittoriosa nel merito, dell'onere di proporre appello incidentale o, al contrario, di limitarsi a riproporre la questione pregiudiziale che non risulti assorbita ma sia stata espressamente rigettata. Secondo Sez. 6-T, n. 17722/2016, Crucitti, Rv. 640962, e Sez. 6-T, n. 16909/2016, Crucitti, Rv. 640762, che si rifanno a un precedente del 2015, qualora l'appello principale sia inammissibile per mancato deposito dell'atto d'impugnazione nella segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, è inammissibile anche l'appello incidentale egualmente non depositato, atteso che tale obbligo di deposito deve ritenersi imposto anche all'appellante incidentale, pur se tempestivo, ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, vigente ratione temporis, in quanto diretto ad evitare il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata da parte della segreteria del giudice di primo grado. 9.1.7. Procedimento. Sez. 6-T, n. 01786/2016, Conti, Rv. 638739, ha ritenuto che la comunicazione della data di udienza, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile anche ai giudizi di appello in virtù del richiamo di cui all'art. 61 del medesimo decreto, adempie a un'essenziale funzione di garanzia del 844 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO diritto di difesa e del principio del contraddittorio, sicché l'omessa comunicazione alle parti, almeno trenta giorni prima, dell'avviso di fissazione dell'udienza di discussione, determina la nullità della decisione comunque pronunciata. Quanto, poi, alla produzione dei documenti in appello, Sez. T, n. 24398/2016, De Masi, Rv. in corso di massimazione., ha confermato l'orientamento secondo cui il documento irritualmente prodotto in primo grado può essere nuovamente prodotto in secondo grado nel rispetto delle modalità di produzione di cui all'art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 e in forma analoga nell'art. 87 disp. att. c.p.c. Tuttavia, ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all'atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, si deve ritenere raggiunta − ancorché le modalità della produzione non corrispondano a quelle previste dalla legge − la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l'esercizio del diritto di difesa, onde l'inosservanza delle modalità di produzione documentale deve ritenersi sanata. 9.2. Il giudizio di cassazione. Le Sezioni Unite sono intervenute sul problema della notificazione del ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, stabilendo che, riguardo al luogo della notificazione, si applica la disciplina di cui all'art. 330 c.p.c.; tuttavia, in ragione del principio di ultrattività dell'indicazione della residenza o della sede e dell'elezione di domicilio effettuate in primo grado − principio sancito dall'art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 − è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi dell'art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., ove la parte non si sia costituita nel giudizio di appello, oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione (Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640602). In tema di notifica del ricorso, è interessante la situazione di cui si è occupata Sez. 6-T, n. 24867/2016, Manzon, Rv. in corso di massimazione, relativa ai riflessi sulle notifiche del "nuovo" periodo di sospensione feriale dei termini di cui al d.l. n. 132 del 2014, che ha abbreviato tale periodo di 15 giorni. In un caso in cui la sentenza di appello era stata depositata il 10 settembre 2014, e non era stata notificata, in una controversia iniziata anteriormente al luglio 2009, e per la quale, quindi, si applicava il termine lungo annuale (che andava a scadere oltre la prima sospensione feriale successiva alla novella, e determinava quindi l'applicazione di quest'ultima), la 845 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Corte ha ritenuto tardivo il ricorso notificato il 26 ottobre 2015, atteso che, con la nuova disciplina applicabile dal 1 gennaio 2015, il termine di sospensione feriale non era più di 46 giorni, ma di 30. Il ricorso doveva, pertanto, essere notificato entro un anno e 30 giorni, e quindi entro il 12 ottobre 2015. A proposito del contenuto degli atti, Sez. T, n. 15177/2016, Criscuolo, Rv. 640969 ha stabilito che nel giudizio di legittimità è inammissibile il controricorso proposto da una società, originaria parte attrice, ormai cancellata dal registro delle imprese, atteso che, da un lato, l'estinzione intervenuta in corso di giudizio determina la perdita della capacità processuale e la successione dei soci e, dall'altro, la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, pur consentendo la notifica del ricorso alla controparte presso il difensore in appello della società estinta, non vale per la proposizione del ricorso in cassazione, che esige la procura speciale e deve, quindi, essere effettuata dai soci. Sez. T, n. 00574/2016, Iannello, Rv. 638333, si è occupata, invece, di una situazione particolare, relativa alla ammissibilità del ricorso incidentale, sia pure condizionato, con cui la parte vittoriosa in sede di merito riproponga questioni su cui i giudici di appello non si sono pronunciati, avendole ritenute assorbite dalla statuizione adottata. La decisione è stata nel senso della inammissibilità dello stesso poiché tali questioni, in caso di cassazione della sentenza, rimangono impregiudicate e possono essere ancora dedotte davanti al giudice del rinvio. Sui limiti del sindacato della Corte di Cassazione nel giudizio, Sez. T, n. 18472/2016, Luciotti, Rv. 640973, ha ritenuto che, in un caso di impugnazione da parte del contribuente della cartella esattoriale per invalidità della notificazione dell'avviso di accertamento, la Corte non può procedere ad un esame diretto degli atti per verificare la sussistenza di tale invalidità, trattandosi di accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, e non di nullità del procedimento, in quanto la notificazione dell'avviso di accertamento non costituisce atto del processo tributario, ma riguarda solo un presupposto per l'impugnabilità, davanti al giudice tributario, della cartella esattoriale. Quanto, poi, alla fase decisoria, secondo Sez. T, n. 17817/2016, Olivieri, Rv. 640652, la definizione della lite fiscale mediante presentazione da parte del contribuente dell'istanza di cui all'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modifiche, in l. n. 111 del 2011, comporta l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 per 846 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul rapporto tributario controverso, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata. Alcune sentenze si sono occupate di questioni relative al giudizio di rinvio. Sez. T, n. 07222/2016, Federico, Rv. 639240, ha statuito che nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento a quo e non possono proporre la domanda restitutoria dell'ammontare dell'imposta che risulti versato in eccedenza all'esito della cassazione della sentenza, in quanto lo stesso, prima di essere chiesto al giudice tributario, deve essere sollecitato in sede amministrativa. Se il giudizio di rinvio attiene a questioni meramente estimative, secondo Sez. 6-T, n. 11831/2016, Conti, Rv. 640019, lo stesso non richiede la riassunzione ad opera di alcuna delle parti, dovendo procedersi d'ufficio per effetto della trasmissione del fascicolo da una segreteria ad altra della commissione, che provvede alla fissazione dell'udienza secondo le scansioni temporali di cui agli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 636 del 1972. Quanto, infine, ai rapporti tra giudizio di cassazione e revocazione, secondo Sez. T, n. 16435/2016, Luciotti, Rv. 640658, i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l'impugnazione per revocazione contro la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità, nonostante si tratti di due gravami distinti aventi a oggetto distinti provvedimenti, atteso che la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l'applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l'esito di quello riguardante la sentenza di revocazione, che deve, pertanto, essere esaminato con precedenza. Il giudizio di legittimità in cui sia denunciato, quale vizio di motivazione, l'omesso esame del medesimo fatto azionato quale errore percettivo ai sensi dell'art. 395 c.p.c., va, invece, sospeso ex art. 295 c.p.c. all'esito della cassazione con rinvio della sentenza di appello di inammissibilità del ricorso per revocazione ordinaria, pur non ricorrendo una pregiudizialità in senso tecnico, ma solo logico. Infatti, in caso di prosecuzione, vi sarebbe il rischio di una possibile elisione dell'accertamento in fatto richiesto al giudice della revocazione in sede di rinvio, per cui si è adottata una soluzione interpretativa idonea ad evitare un vulnus all'effettività del diritto di difesa e a coniugare l'esigenza di un processo giusto con quella di un processo efficiente (così Sez. T, n. 05398/2016, Olivieri, Rv. 639037). 847 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 9.3. La revocazione. Un tema spesso ricorrente a proposito della revocazione, è l'individuazione del tipo di errore che consente il ricorso a tale mezzo di impugnazione. Sez. T, n. 26278/2016, Virgilio, Rv. in corso di massimazione, ha ritenuto che l'omesso rilievo di un vizio concernente la ritualità della notificazione dell'atto di impugnazione, sotto il profilo del luogo in cui essa è stata eseguita, non configura un errore di fatto, cioè un errore di natura meramente percettiva, una svista materiale, da far valere con revocazione, bensì un errore di diritto, da far valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione. Una questione che si è posta con riferimento alla pendenza del termine per la revocazione è se la stessa permetta di considerare la lite come "pendente" ai fini del condono fiscale, atteso che l'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modifiche, in l. n.111 del 2011, consente la definizione delle «liti fiscali ... pendenti alla data del 1 maggio 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio». Sez. T, n. 13306/2016, Zoso, Rv. 640146, ha ritenuto che tale disposizione non operi per le controversie già definite dalla Corte di Cassazione per le quali sia pendente solo il termine per eventuale revocazione. La norma, infatti, ha riguardo alle sole controversie definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, ma non anche a quelle definite dalla Corte di cassazione, atteso che la pendenza del termine per revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto. 10. La sospensione del processo. Con riguardo alla sospensione in dipendenza del rapporto di pregiudizialità esistente tra processi tributari, va menzionata Sez. 6-T, n. 04485/2016, Caracciolo, Rv. 639128, la quale ha statuito che, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, l'accertamento degli utili extracontabili della società, anche se non definitivo, costituisce il presupposto dell'accertamento presuntivo nei riguardi del singolo socio, in ragione della sua quota di partecipazione agli utili, con la conseguenza che l'impugnazione dell'avviso di accertamento "pregiudicante" costituisce, sino al passaggio in giudicato della pronuncia sullo stesso, condizione sospensiva, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., della decisione della controversia sull'accertamento "pregiudicato" relativo al singolo socio. La Corte ha inoltre precisato che grava sul contribuente che invochi la sospensione l'onere di allegazione e prova dell'impugnazione del provvedimento 848 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO "pregiudicante". Tale pronuncia conferma l'orientamento già emerso, difforme da quello secondo cui «quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c. (tra le altre, v. Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancini, Rv. 634272). Invero, come precisato da Sez. 6-T, n. 11441/2016, Iofrida, Rv. 640071, ai sensi dell'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella formulazione anteriore al d.lgs. n. 156 del 2015, applicabile ratione temporis, nel processo tributario non opera la sospensione ex art. 337 c.p.c., sicché il giudizio pregiudicato, in caso di decisione non ancora passata in giudicato della causa pregiudiziale, è suscettibile di sospensione ex art. 295 c.p.c., restando ammissibile, avverso la relativa ordinanza, regolamento di competenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 42 c.p.c. Va, altresì, ricordata, Sez. 6-T, n. 00999/2016, Cigna, Rv. 638486, che ha negato che il processo tributario possa essere sospeso in attesa della definizione di una questione sottoposta alla Corte di giustizia nell'ambito di una diversa controversia, in quanto tale sospensione non è possibile né ai sensi dell'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992, che regola i rapporti tra il processo tributario e i processi non tributari (pregiudizialità cosiddetta esterna) e che prevede la sospensione solo quando sia stata presentata querela di falso o debba essere decisa una questione sullo stato o la capacità delle persone diversa dalla capacità di stare in giudizio, né ai sensi dell'art. 295 c.p.c., che regola esclusivamente i rapporti tra i processi tributari (pregiudizialità cosiddetta interna). 11. L'estinzione del processo. Diverse le pronunce che si sono occupate di definire i casi, il procedimento e gli effetti dell'estinzione del processo. Sez. T, n. 00556/2016, Cappabianca, Rv. 638661, ha chiarito che, nel giudizio tributario, l'omessa riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio determina l'estinzione del processo, ai sensi dell'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, e la definitività dell'avviso di accertamento impugnato, sicché il termine di 849 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO prescrizione della pretesa tributaria, necessariamente incorporata nell'atto impositivo, decorre dalla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione, momento dal quale l'Amministrazione finanziaria può attivare la procedura di riscossione. Il medesimo principio è stato ribadito e approfondito da Sez. T, n. 23502, Stalla, Rv. in corso di massimazione, che ha precisato non potersi applicare, in caso di estinzione del processo tributario conseguente a omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, la regola generale dettata dall'art. 2945, comma 3, c.c., decorrendo il termine di prescrizione della pretesa fiscale dalla data di scadenza del termine utile per la riassunzione, giacché solo da tale momento l'atto impositivo diviene definitivo mentre, ove venisse meno l'effetto sospensivo previsto dall'art. 2945, comma 2, c.c., la prescrizione maturerebbe anteriormente a tale definitività in favore dell'unica parte processuale (il contribuente) interessata alla riassunzione, proprio al fine di evitare che l'atto impugnato diventi definitivo. Sempre con riguardo all'omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, Sez. 6-T, n. 23922/2016, Iofrida, Rv. in corso di massimazione, ha altresì chiarito che, poiché gli artt. 45 e 63 del d.lgs. n. 546 del 1992 devono essere letti in maniera «coordinata», anche per il giudizio di rinvio è possibile la declaratoria d'ufficio dell'estinzione, in base alla regola generale del comma 3 del detto art. 45; tuttavia, in virtù della disposizione speciale dell'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, l'estinzione riguarderà non solo "quel grado di giudizio", ma l'intero processo, con l'effetto − già evidenziato anche dalle due pronunce da ultimo citate – del consolidamento dell'atto impositivo che ne rappresentava l'oggetto. Sez. T, n. 16956/2016, Luciotti, Rv. 641070 ha precisato che l'atto impositivo, non essendo un atto processuale ma l'oggetto dell'impugnazione, non si sottrae, anche nel caso di estinzione del processo per omessa riassunzione del giudizio di rinvio, all'effetto del giudicato parziale formatosi tra le parti, al quale l'ufficio deve adeguare la propria posizione sostanziale, dato che l'Amministrazione non può porre in riscossione il tributo sulla base dell'atto impositivo "come se" questo non fosse stato ritenuto illegittimo, per alcuni aspetti, con sentenza passata in giudicato. Sez. T, n. 00569/2016, Iofrida, Rv. 638627, ha osservato che, poiché l'iscrizione a ruolo dell'imposta presuppone la definitività dell'accertamento, essa deve essere preceduta dalla regolare comunicazione dell'ordinanza di estinzione al contribuente, per consentirgli l'eventuale proposizione del reclamo. La Corte ha 850 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO quindi ritenuto illegittima l'iscrizione a ruolo dell'imposta per l'omessa comunicazione dell'ordinanza di estinzione del processo agli eredi del contribuente. Alcune delle pronunce in materia hanno riguardato, in particolare, l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. Comporta l'estinzione del giudizio per sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul rapporto tributario controverso, ai sensi dell'art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, la definizione della lite fiscale a seguito della presentazione, da parte del contribuente, della domanda di cui al già citato all'art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, convertito in l. n. 111 del 2011, con la conseguenza della cassazione senza rinvio della sentenza impugnata (Sez. T, n. 17817/2016, Olivieri, Rv. 640652). Sez. T, n. 14258/2016, Vella, Rv. 640540, ha statuito che l'estinzione del giudizio di legittimità per cessazione della materia del contendere ai sensi dell'art. 16, comma 8, della legge n. 289 del 2002, comporta conseguenze di ordine sostanziale sul contenuto delle domande proposte, determinando, in virtù della cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, la caducazione di tutte le pronunce emesse nei precedenti gradi di giudizio e non passate in giudicato, in quanto non più attuali in conseguenza del venir meno del contrasto tra le parti. Ancora in tema di effetti della dichiarazione di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, in particolare, a seguito di annullamento in autotutela dell'impugnato atto di attribuzione del classamento catastale e della relativa rendita, Sez. T, n. 12570/2016, Bruschetta, Rv. 640160, ha affermato che detta dichiarazione determina l'illegittimità derivata degli avvisi di accertamento con i quali era stata liquidata l'imposta sul presupposto dell'annullato classamento. Merita di essere menzionata anche Sez. 6-T, n. 03318, Conti, Rv. 639125 e Rv. 639126, secondo cui l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro che modifichi in aumento il precedente, manifestando una pretesa tributaria nuova rispetto a quella originaria, sostituisce l'avviso precedente, determinandone la caducazione d'ufficio, con la conseguenza della cessazione della materia del contendere nel giudizio avente a oggetto il relativo rapporto sostanziale, in quanto viene meno l'interesse a una decisione su di un atto, il primo avviso, sulla base del quale non possono più essere avanzate pretese tributarie, dovendosi, ormai, avere riguardo esclusivamente al nuovo avviso che lo ha sostituito. 851 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO La Corte ha altresì precisato che, stante l'esistenza del nuovo avviso di liquidazione modificativo in aumento regolarmente comunicato al contribuente, dalla richiesta dell'Amministrazione finanziaria di cessazione della materia del contendere a seguito dell'annullamento in via di autotutela del primo atto impositivo non può desumersi il venire meno dell'interesse alla pretesa tributaria. Va, infine, ricordata Sez. T, n. 11316/2016, Luciotti, Rv. 639980, che, nell'escludere che la transazione fiscale conclusa ai sensi dell'art. 182-ter, comma 6, del r.d. n. 267 del 1942, nell'ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, comporti espressamente la cessazione della materia del contendere relativamente ai giudizi in corso, atteso il mancato richiamo del comma 5 dello stesso articolo, ha tuttavia ritenuto che essa determini la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza dell'interesse delle parti a una pronuncia di merito sull'impugnazione. 12. Il giudicato. Si è riproposta la questione degli accertamenti relativi a più annualità e degli effetti del giudicato, formatosi per una annualità, sulle altre. Sez. T, n. 14509/2016, Iannello, Rv. 640501, ha ritenuto, in una causa relativa ad accertamento sintetico in base alla spesa per incrementi patrimoniali, da presumere sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell'anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti, ai sensi dell'art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo, vigente ratione temporis, che il giudicato esterno formatosi sull'accertamento riguardante uno dei quattro anni preclude, nel giudizio relativo all'accertamento eseguito sulle medesime basi per altra annualità, la possibilità di disattendere il fondamento della presunzione, ma non anche di considerare dimostrato il superamento della presunzione di maggior reddito parcellizzato. Quanto ai rapporti tra giudizio riguardante l'imposizione nei confronti di una società a ristretta base sociale e quello nei confronti dei singoli soci, Sez. 6-T, n. 11680/2016, Conti, Rv. 640014, ha affermato che la sentenza passata in giudicato di annullamento dell'atto impositivo nei confronti della prima, se fondata su motivi di rito, come l'estinzione della società, non fa stato nei confronti dei soci, mancando un accertamento inconfutabile sull'inesistenza dei ricavi non contabilizzati e della relativa pretesa fiscale. Sez. 6-T, n. 14610/2016, Iofrida, Rv. 640510, in materia di esenzione da un tributo, ha affermato che la relativa domanda, ove ritualmente e tempestivamente avanzata, costituisce esercizio del 852 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO diritto del contribuente al riconoscimento dell'inesistenza totale o parziale dell'obbligazione tributaria, fondato sulla norma d'esenzione, e implica la richiesta di restituzione, totale o parziale, di quanto cautelativamente versato, sicché vale come istanza di rimborso sia delle somme già versate, sia di quelle eventualmente versate dopo la sua proposizione, in corso di giudizio, anche a seguito di una sentenza favorevole, ma non ancora definitiva, non venendo meno l'esigenza cautelativa di non incorrere in sanzioni. Ne consegue che, qualora si formi il giudicato su entrambi i diritti, all'esenzione e al rimborso del tributo oggetto della relativa domanda, cautelativamente versato, il contribuente non è soggetto all'onere di formulare istanza nel termine dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, ma può far valere il giudicato nell'ordinario termine di prescrizione decennale. Infine, Sez. 6-T, n. 03687/2016, Crucitti, Rv. 638797, sul tema della equiparazione tra giudicato e altre forme di definizione del procedimento, ha ritenuto che, in tema d'imposta di registro, ai fini del rimborso dell'importo pagato sugli atti che definiscono, anche parzialmente, il giudizio civile, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 131 del 1986, non può essere equiparata alla sentenza di riforma passata in giudicato la transazione stragiudiziale di cui non sia parte l'Amministrazione dello Stato, essendo irrilevante che la stessa sia stata edotta della data dell'atto dinanzi al notaio e invitata a parteciparvi, attesa la necessità d'impedire indebite sottrazioni all'obbligazione tributaria. 13. Il giudizio di ottemperanza. Sez. T, n. 15827/2016, La Torre, Rv. 640648, ha affermato che nel giudizio di ottemperanza dinnanzi alle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 70 del d.lgs. n. 546 del 1992, il potere del giudice sul comando definitivo inevaso deve essere esercitato entro i confini invalicabili dell'oggetto della controversia definita con il giudicato, atteso che non possono essere attribuiti alle parti diritti nuovi e ulteriori rispetto a quelli riconosciuti con la sentenza da eseguire, ma solo enucleati e precisati gli obblighi scaturenti dalla sentenza da eseguire, chiarendone il reale significato. 853 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI CAP. XLV I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI (di Gianluca Grasso) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La responsabilità disciplinare dei magistrati. – 2.1. Gli illeciti disciplinari. – 2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. – 2.1.2. La consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. – 2.1.3. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. – 2.1.4. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. – 2.1.5. Frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione. – 2.1.6. La condotta disciplinare irrilevante. – 2.2. Il procedimento disciplinare. – 2.2.1. Revisione della sentenza disciplinare irrevocabile di condanna. – 2.2.2. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. – 3. La responsabilità disciplinare degli avvocati. – 3.1. Gli illeciti disciplinari. – 3.2. Il procedimento disciplinare. – 3.2.1. Giudizio penale e disciplinare. – 3.2.2. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei. – 4. La responsabilità disciplinare dei notai. – 4.1. Gli illeciti disciplinari. – 4.2. Il procedimento disciplinare. 1. Premessa. La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai. 2. La responsabilità disciplinare dei magistrati. Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, le pronunce delle Sezioni Unite hanno riguardato talune ipotesi di illecito e profili processuali, quali la revisione e i rapporti col giudizio penale. 2.1. Gli illeciti disciplinari. Sugli illeciti disciplinari, la Corte è intervenuta su diverse fattispecie che discendono dall'esercizio delle funzioni, con particolare riguardo alla violazione dei doveri di diligenza, all'omessa astensione, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni, nonché dall'ipotesi extrafunzionale della frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione. 2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. Riguardo al ritardo nella scarcerazione – riconducibile, nella specie, all'art. 2, comma 1, lett. g, in combinato disposto con il medesimo 854 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI art. 2, comma 1, lett. a, decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 – Sez. U, n. 18397/2016, Ambrosio, Rv. 640930 ha precisato che sussiste in capo al rappresentante del P.M. in udienza, benché non titolare del relativo fascicolo, perché assegnato ad altro sostituto del medesimo ufficio, l'obbligo istituzionale di verificare la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto a indagine, al fine di formulare le consequenziali richieste. L'inosservanza di tale obbligo costituisce grave violazione di legge derivante da negligenza inescusabile, nonché violazione del dovere di diligenza nell'esercizio delle proprie funzioni. La S.C. ha così confermato la pronuncia della sezione disciplinare del C.S.M. che aveva ritenuto sussistere la grave violazione di legge, produttiva di responsabilità disciplinare del giudice per le indagini preliminari e del pubblico ministero, in caso di scarcerazione di un indagato oltre i termini di durata della custodia cautelare, escludendo nella fattispecie l'operatività, quale causa esimente, delle difficoltà organizzative dell'ufficio, posto che solo circostanze esterne che impediscono in modo assoluto la scarcerazione possono giustificare la lesione del fondamentale diritto di libertà. Qualora la condotta del difensore abbia concorso a non allertare il P.M., essa potrà incidere unicamente sulla determinazione della sanzione nella misura minima di legge, nella specie della censura. Con riferimento all'illecito riguardante la mancata dichiarazione tempestiva della perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari di due imputati, Sez. U, n. 02724/2016, Napoletano, Rv. 638400 – a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006 (Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170) – ha escluso l'applicabilità del trasferimento di sede quale sanzione automatica delle violazioni previste dall'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 109 del 2006. 2.1.2. La consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. Relativamente all'illecito disciplinare dell'omessa astensione (art. 2, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 109 del 2006), Sez. U, n. 10502/2016, Didone, Rv. 639678, avuto riguardo all'elemento psicologico, ha ritenuto che, ai fini della consumazione dell'illecito, non occorre che il magistrato avesse uno specifico intento trasgressivo, essendo sufficiente che egli conoscesse le circostanze di fatto che lo obbligavano ad astenersi. 855 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI Nella specie, applicando tale principio, la Corte ha cassato con rinvio l'assoluzione disciplinare del P.M., il quale aveva omesso di astenersi in procedimenti ove era difensore il titolare di una società che aveva stipulato una locazione con altra società partecipata dal magistrato in quota del 95 per cento. 2.1.3. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. In tema di violazione dei doveri di diligenza e correttezza, Sez. U, n. 10157/2016, Ragonesi, Rv. 639674 ha affermato la responsabilità disciplinare del giudice, in relazione all'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. g e n, del d.lgs. n. 109 del 2006, che non si attenga al criterio dell'equa distribuzione degli incarichi di consulenza tecnica, concentrandoli su un numero ristretto di professionisti, essendo a questo fine irrilevante la soglia del 10 per cento stabilita dall'art. 23 disp. att. c.p.c., la quale riguarda gli incarichi conferiti dall'intero ufficio e non dal singolo magistrato. 2.1.4. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. Consolidando gli orientamenti della S.C. in tema di ritardi superiori all'anno nel deposito dei provvedimenti giudiziari e della loro giustificabilità, Sez. U, n. 15813/2016, Amendola, Rv. 640697 ha ribadito che la durata ultrannuale dei ritardi non comporta una responsabilità oggettiva dell'incolpato, ovvero l'ingiustificabilità assoluta della sua condotta, ma incide sulla giustificazione richiestagli, che deve riguardare tutto l'arco temporale durante il quale l'inerzia si sia protratta. In questo modo, quanto più i ritardi sono gravi tanto più seria, specifica, rigorosa e pregnante deve esserne la giustificazione. A tal fine, sarà necessario fornire la prova che, nell'intervallo temporale suddetto, non sarebbero stati possibili diversi comportamenti di organizzazione e impostazione del lavoro idonei a scongiurarli o, comunque, a ridurne la patologica dilatazione, dovendo, altresì, tale prova essere valutata tenendo conto del numero, della durata media e della punta massima dei ritardi contestati. Sul tema dell'incidenza delle scelte organizzative dell'ufficio sulla condotta del magistrato, Sez. U, n. 02948/2016, Di Iasi, Rv. 638358, ha accolto il ricorso dell'incolpato, annullando con rinvio la pronuncia della sezione disciplinare in ordine al vaglio in concreto della fondatezza e serietà della giustificazione addotta. Nella specie, l'incolpato aveva affermato di avere assunto in decisione un numero 856 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI di processi superiore alle proprie capacità di smaltimento, giustificando i gravi e reiterati ritardi nel deposito di sentenze civili sulla base di una precisa scelta organizzativa, intesa al perseguimento di un ragionato abbattimento delle pendenze e di una minore durata dei processi, anche attraverso un maggior numero di definizioni con provvedimenti diversi dalla sentenza. Secondo la S.C., i ritardi, anche se ultrannuali, non possono essere imputati al magistrato a titolo di responsabilità oggettiva, fermo l'onere dell'interessato di fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta. In relazione alle cause esimenti, nella medesima occasione Sez. U, n. 02948/2016, Di Iasi, Rv. 638357 ha confermato che lo svolgimento di un incarico straordinario non obbligatorio conferito dal C.S.M. non giustifica di per sé gravi e reiterati ritardi nel compimento degli atti relativi alle funzioni, potendo sempre il magistrato chiedere un esonero giudiziario adeguato all'incarico o, in ultima analisi, rinunciarvi (La fattispecie riguardava la partecipazione a un gruppo di studio sugli standard di rendimento). 2.1.5. Frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione. Con riferimento agli illeciti disciplinari commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni, riguardo all'ipotesi della frequentazione di persone sottoposte a misure di prevenzione, Sez. U, n. 14919/2016, Giusti, Rv. 640611 ha chiarito che per integrare l'illecito disciplinare previsto dall'art. 3, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 109 del 2006 è sufficiente che la conoscenza della particolare situazione in cui si trova la persona frequentata accompagni l'obiettività della condotta o anche di un suo segmento, ossia che al magistrato risulti quella condizione quando frequenta, o continua a frequentare, quella certa persona, non essendo necessario che la consapevolezza preceda la frequentazione. 2.1.6. La condotta disciplinare irrilevante. Sull'esimente della scarsa rilevanza del fatto, Sez. U, n. 14800/2016, Giusti, Rv. 640442 ha ritenuto inapplicabile l'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 al P.M. che abbia richiesto il rinvio a giudizio dell'imputato per un reato già prescritto. In questo caso, l'esercizio dell'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio, laddove il pubblico ministero avrebbe dovuto presentare al giudice la richiesta di archiviazione per essere il reato ipotizzato già estinto per intervenuta prescrizione, e il successivo svolgimento di un'udienza preliminare inutile e 857 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI dispendiosa, sono espressione dell'inescusabile trasgressione di un inderogabile obbligo di legge, ma anche causa di un danno per le parti, costrette ad affrontare l'udienza preliminare e, al tempo stesso, fonte di compromissione dell'immagine del pubblico ministero in presenza dell'esaurimento della pretesa punitiva da parte dello Stato. Nel merito, inoltre, la Corte ha osservato che la valutazione sulla concreta offensività del comportamento spetta esclusivamente alla sezione disciplinare del C.S.M. e non è censurabile in sede di legittimità ove sufficientemente e logicamente motivata. Sull'inoffensività della condotta, riguardo all'ipotesi della partecipazione in modo sistematico e continuativo tramite lezioni retribuite all'attività di una scuola privata per l'accesso alle professioni legali – comportamento che integra l'illecito disciplinare previsto dall'art. 3, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 109 del 2006 – Sez. U, n. 11372/2016, Amendola, Rv. 639928 ha ritenuto che non possa riconoscersi l'esimente di cui all'art. 3 bis per il disvalore insito nel fatto che tale partecipazione non è neppure autorizzabile dal C.S.M., in quanto specificamente vietata dalla normativa secondaria. 2.2. Il procedimento disciplinare. Le pronunce sui profili processuali hanno interessato l'istituto della revisione, con riferimento alla sentenza disciplinare irrevocabile di condanna, e i rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale. 2.2.1. Revisione della sentenza disciplinare irrevocabile di condanna. In tema di revisione della sentenza disciplinare, Sez. U, n. 16600/2016, Bielli, Rv. 640610 ha evidenziato che la previsione desumibile dall'art. 25, commi 1, lett. b, e 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, di carattere eccezionale e insuscettibile di applicazione analogica, riserva l'ammissibilità della proposizione di questo mezzo straordinario di impugnazione ai soli casi in cui i nuovi elementi di prova dimostrino o concorrano a dimostrare, nel merito, l'insussistenza dell'illecito. La Corte ha così ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale limitazione, con riferimento all'art. 24, comma 1, Cost., sul presupposto che essa non è né palesemente irragionevole, in quanto può ritenersi meritevole di tutela esclusivamente quest'ipotesi rispetto a quella di prova sopravvenuta dei casi di estinzione del procedimento; per altro verso è stato escluso che si possa determinare una disparità di trattamento rispetto ai casi di revisione 858 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI della sentenza penale di condanna, stante il diverso ambito settoriale del giudizio penale, ove la revisione è prevista anche in ipotesi di sopravvenienza di prove che conducono al proscioglimento per motivi non di merito. La pronuncia, infine, evidenzia che la disciplina prevista dal legislatore nel giudizio disciplinare non limita la difesa della parte, che può sempre far valere i suoi diritti fino alla formazione del giudicato. In ordine alla possibilità di impugnare la sentenza favorevole di revisione, pronunciata su istanza del condannato, Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640692 ha riconosciuto la legittimazione e l'interesse sia del Ministro della Giustizia sia del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, essendo entrambi portatori dell'interesse a che non permanga a carico di un magistrato, o di un soggetto che tale funzione ha rivestito, una condanna disciplinare rivelatasi, in seguito a elementi sopravvenuti, "ingiusta", ovvero, a che la stessa non venga revocata in assenza dei presupposti di legge. Sul piano processuale, sempre Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640693 ha avuto modo di affrontare ulteriori aspetti relativi al giudizio di revisione: anzitutto è stato chiarito che la cessazione dal servizio del magistrato già condannato in sede disciplinare con sentenza irrevocabile, che sia intervenuta anteriormente alla decisione sull'istanza di revisione, non determina l'estinzione del corrispondente giudizio, atteso che l'art. 25 del d.lgs. n. 109 del 2006 riconosce la rilevanza di un interesse, anche soltanto morale, alla presentazione di tale istanza e alla prosecuzione del relativo procedimento ai prossimi congiunti del magistrato condannato che sia deceduto o divenuto incapace, e quindi, a fortiori, al medesimo magistrato che sia vivente e capace, ancorché cessato dal servizio; quindi, venendo al merito del procedimento di revisione della sentenza disciplinare del C.S.M. per effetto dei nuovi elementi di prova descritti dall'art. 25, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640694, ha chiarito che tale giudizio postula che il giudice adito si confronti necessariamente con il contenuto della statuizione impugnata, per verificare se la sopravvenienza del fatto nuovo risulti rilevante alla stregua del quadro istruttorio e dell'impianto decisorio della stessa, giacché diversamentesi finirebbe per consentire a quel giudice di rinnovare completamente le valutazioni ivi espresse e di rimettere in discussione una decisione ormai irrevocabile ben oltre i limiti sanciti dalla norma. Sempre Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640695, ha ritenuto, inoltre, ammissibile la richiesta di revisione in funzione 859 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI dell'applicazione dell'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 sulla condotta disciplinare irrilevante. Tale esimente, infatti, esclude la configurabilità di tutte le ipotesi di illecito disciplinare, comprese quelle per le quali la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, a prescindere dalla sussistenza della materialità del medesimo. Tuttavia, la pronuncia di accoglimento richiede che il giudice adito, nell'indicare la norma di legge violata e il bene giuridico da essa protetto, spieghi in quale modo e perché, in relazione all'elemento di prova nuovo, il comportamento contestato al magistrato non debba ritenersi effettivamente lesivo del bene giuridico protetto. 2.2.2. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. Sui rapporti tra il procedimento disciplinare e quello penale, è stato affermato che il giudizio disciplinare può proseguire nei confronti del magistrato incolpato di corruzione in atti giudiziari e condurre all'irrogazione della sanzione della rimozione anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria di estinzione del rapporto d'impiego (Sez. U, n. 04004/2016, Greco, Rv. 638596). Nella specie, la sezione disciplinare del C.S.M., preso atto del giudicato penale di condanna e affermata la responsabilità anche disciplinare del magistrato, aveva ritenuto che in base all'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, che espressamente prevede la sanzione della rimozione per gli stessi fatti che comportano l'estinzione del rapporto d'impiego a norma dell'art. 32 bis c.p., all'incolpato doveva essere necessariamente irrogata la sanzione della rimozione, potendo le due sanzioni risultare applicate congiuntamente, sul piano penale e disciplinare. Nel confermare la pronuncia impugnata, la S.C. ha sottolineato la diversa natura della sanzione disciplinare rispetto alla pena accessoria, ricordando che quest'ultima, come la generalità delle sanzioni penali, nel corso del tempo può estinguersi, in forza di amnistia (art. 151, comma 1, c.p.) o per effetto della riabilitazione (art. 178 c.p.), laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne rivela la specifica afflittività, con particolare evidenza nell'ipotesi della rimozione, la più severa delle sanzioni. In questi casi non si può ravvisare una sopravvenuta carenza di interesse da parte dell'amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, pur avendo le Sezioni unite fatto riferimento a tale principio in altri casi di cessazione dal servizio, diversi dalla estinzione del rapporto di impiego ai sensi dell'art. 32 bis c.p. 860 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 3. La responsabilità disciplinare degli avvocati. Riguardo alla responsabilità disciplinare dell'avvocato, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite su taluni illeciti disciplinari, nonché sui profili procedurali, con particolare menzione delle questioni attinenti al termine di prescrizione dell'azione disciplinare, ai rapporti col giudizio penale e al principio del favor rei. 3.1. Gli illeciti disciplinari. Sulle fattispecie di illecito disciplinare, Sez. U, n. 11370/2016, Mammone, Rv. 639927 è intervenuta in merito alle espressioni sconvenienti o offensive, vietate dall'art. 20 del codice deontologico forense nel testo applicabile ratione temporis. Tali espressioni, sul piano della responsabilità disciplinare dell'avvocato, rilevano di per sé, a prescindere dal contesto in cui sono usate e dalla veridicità dei fatti che ne sono oggetto. In ordine all'omessa restituzione delle somme riscosse per conto del cliente, la S.C. ha ritenuto integrare la fattispecie di cui all'art. 44, ultimo comma, del codice deontologico forense vigente ratione temporis, la condotta dell'avvocato che abbia promesso al proprio assistito la consegna delle somme riscosse per suo conto senza provvedervi immediatamente (Sez. U, n. 13379/2016, Iacobellis, Rv. 640324). Riguardo all'estinzione dell'azione disciplinare, la Corte ha osservato che essendo la condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica e destinata a protrarsi fino alla restituzione, non decorre la prescrizione di cui all'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, ove tale comportamento persista fino alla decisione del Consiglio dell'ordine. 3.2. Il procedimento disciplinare. In ordine ai profili procedurali, è stata confermata la natura di mero atto amministrativo endoprocedimentale dell'apertura del procedimento disciplinare a carico di un avvocato disposta dal Consiglio dell'ordine territoriale (Sez. U, n. 15199/2016, Petitti, Rv. 640606). Tale atto, infatti, non costituisce una "decisione" ai sensi dell'ordinamento professionale forense, non incidendo in maniera definitiva sul relativo status professionale, né decide questioni pregiudiziali a garanzia del corretto svolgimento della procedura. Ne consegue che, avendo il solo scopo di segnare l'avvio del procedimento con l'indicazione dei capi di incolpazione, l'atto di apertura del procedimento disciplinare non è autonomamente reclamabile davanti al Consiglio nazionale forense. 861 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI La S.C. ha altresì confermato che il mutamento della precedente interpretazione giurisprudenziale, che ha portato a negare l'autonoma impugnabilità davanti al Consiglio nazionale forense dell'atto di apertura del procedimento disciplinare disposto dal Consiglio dell'ordine territoriale a carico di un avvocato, non dà luogo a una fattispecie di c.d. overruling, preesistendo un orientamento univoco, tale da fondare il legittimo affidamento dell'interessato sull'ammissibilità del rimedio impugnatorio. Osserva, infatti, Sez. U, n. 08589/2016, Di Iasi, Rv. 639390, che l'overruling consiste nel «mutamento di giurisprudenza nell'interpretazione di una norma o di un sistema di norme, idoneo a vanificare l'effettività del diritto di azione e di difesa, e dal carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso, o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema». Sul diritto di difesa e sul rispetto del contraddittorio nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, Sez. U, n. 15042/2016, Petitti, Rv. 640614, ha ritenuto che il principio di cui all'art. 45 del r.d.l. n. 1578 del 1933, secondo cui il Consiglio dell'ordine territoriale non può infliggere alcuna pena disciplinare senza che l'incolpato sia stato citato a comparire davanti ad esso, ha valenza generale, perché volto a garantire il rispetto di diritti fondamentali. e, pertanto, trova applicazione, in base al rinvio contenuto nell'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, anche per l'adozione del provvedimento di cancellazione dall'albo per sopravvenuto accertamento dell'originaria insussistenza del titolo esibito per l'iscrizione, con conseguente nullità di tale misura ove sia stata omessa la preventiva convocazione. Riguardo alle comunicazioni e notificazioni al ricorrente in caso di trasferimento del domiciliatario, Sez. U, n. 24739/2016, Nappi ha confermato che nel giudizio disciplinare a carico di avvocati, in analogia alla disciplina del giudizio in cassazione, il trasferimento del domiciliatario rende l'elezione di domicilio priva di effetti, a norma degli artt. 336, capoverso c.p.c. e 60, terzo comma regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, onde le comunicazioni, come le notificazioni, dovranno essere fatte nella segreteria del Consiglio nazionale forense. In tema di iniziativa del Consiglio dell'ordine e del potere- dovere di promuovere d'ufficio l'azione disciplinare, allorquando venga a conoscenza di fatti lesivi dell'onore dei professionisti iscritti 862 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI e del decoro della classe forense, Sez. U, n. 25633/2016, Cirillo ha chiarito che l'esercizio di tale potere non è condizionato dalla tipologia della fonte della notizia dell'illecito. È stato pertanto ritenuto irrilevante il carattere apocrifo o meno dell'esposto da cui sono originati gli accertamenti ufficiosi che hanno dato luogo all'esercizio dell'azione disciplinare, ferma restando l'inidoneità della denuncia apocrifa a costituire fonte di prova. In ordine ai profili di invalidità della pronuncia resa dal Consiglio dell'ordine, Sez. U, n. 22516/2016, Petitti, Rv. 641531 ha precisato che è nulla la decisione sottoscritta, in qualità di presidente e segretario del Consiglio dell'ordine, da persone diverse, benchè componenti del collegio, da quelle ricoprenti tali cariche alla data della sua deliberazione risultante dal corpo della stessa. L'art. 51 del r.d. n. 37 del 1934, infatti, non prescrive la sottoscrizione del relatore ma impone l'indicazione, in un unico contesto, della data della deliberazione e della sottoscrizione dei soggetti da ultimo indicati. Sui vizi deducibili davanti alle Sezioni Unite, Sez. U, n. 24647/2016, De Stefano, nel confermare la giurisprudenza consolidata della S.C., ha ribadito che le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili, ai sensi dell'art. 56 del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Ne consegue che l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell'uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Alle Sezioni Unite è pertanto precluso sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi a esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale. 3.2.1. Giudizio penale e disciplinare. Riguardo ai rapporti tra giudizio penale e disciplinare sui medesimi fatti e alla possibilità di pervenire alla sospensione del secondo ex art. 295 c.p.c. fino alla definizione del primo, Sez. U, n. 15206/2016, Petitti, Rv. 640612 ha chiarito che ai fini della valutazione della sussistenza di un rapporto di pregiudizialità assume carattere decisivo la circostanza che la contestazione dei fatti all'imputato sia avvenuta nel procedimento 863 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI penale con l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la misura degli arresti domiciliari comporta la necessità della sospensione del procedimento disciplinare. La sospensione, così disposta, si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati sia soggetta a termine di decadenza. Sul dies a quo del termine di prescrizione – qualora il procedimento disciplinare riguardi un fatto costituente reato per il quale sia stata esercitata l'azione penale – Sez. U, n. 11367/2016, De Chiara, Rv. 639926 ha chiarito che la prescrizione dell'azione disciplinare decorre soltanto dal passaggio in giudicato della sentenza penale, anche se il giudizio disciplinare non sia stato nel frattempo sospeso, ciò potendo incidere sulla validità dei suoi atti, ma non sul termine iniziale della prescrizione. Sul medesimo tema Sez. U, n. 22516/2016, Petitti, Rv. 641532 ha precisato che il principio secondo cui il termine prescrizionale dell'iniziativa disciplinare, previsto dall'art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, comincia a decorrere dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, è inoperante laddove quel termine sia invece già interamente maturato al momento dell'esercizio dell'azione penale o in quello, anteriore, della formulazione di un'imputazione per il medesimo fatto, dovendosi, in tali ipotesi, avere riguardo, per l'individuazione dell'inizio della sua decorrenza, alla data della commissione dell'illecito. Sulla questione dell'estensione al giudizio disciplinare dell'indulto per illecito penale, Sez. U, n. 14039/2016, Frasca, Rv. 640222 ha evidenziato che l'art. 174, comma 1, c.p. esaurisce la disciplina degli effetti dell'indulto ove manchino, nella legge che lo dispone, previsioni di contenuto ampliativo. In assenza di una specifica norma, pertanto, la misura non è suscettibile di applicazione estensiva o analogica all'ordinamento disciplinare. 3.2.2. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei. Sulla successione delle norme nel tempo e sul principio del favor rei, in relazione al nuovo codice deontologico forense, va richiamata Sez. U, n. 18394/2016, Petitti, Rv. 640925 secondo cui la sanzione della 864 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI cancellazione dall'albo non è più prevista dal nuovo testo, per cui, trattandosi di disciplina più favorevole per l'incolpato rispetto al regime previgente, la sanzione previgente è inapplicabile, ai sensi dell'art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore. Al principio del favor rei, desumibile dall'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, ha fatto ricorso anche Sez. U, n. 18395/2016, Petitti, Rv. 640927 nel caso della minaccia di azioni alla controparte, per cui il nuovo codice deontologico forense prevede la sanzione della censura, inferiore a quella della sospensione dall'esercizio della professione già prevista, per la medesima condotta, dal regime previgente. Trattandosi di disciplina più favorevole per l'incolpato, la nuova sanzione è applicabile anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore per fatti a essa anteriori. 4. La responsabilità disciplinare dei notai. In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcuni interventi della S.C. relativi a talune fattispecie di illeciti e a questioni afferenti al processo disciplinare. Sez. 2, n. 11507/2016, Scarpa, Rv. 640189 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 135 e 138 della legge notarile, nella parte in cui non prevedono l'operatività del regime del cumulo giuridico delle sanzioni disciplinari anche nelle ipotesi di plurime infrazioni della medesima disposizione compiute in atti diversi, pur se dello stesso tipo. Secondo l'apprezzamento compiuto dalla Corte, si tratta di una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore mentre è stata esclusa una disparità di trattamento rispetto ad altri settori dell'ordinamento in virtù delle specificità della professione notarile, degli interessi protetti e dei valori di riferimento. Sul piano dei principi generali, inoltre, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639767 ha escluso l'applicabilità delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della l. n. 287 del 1990, ai Consigli notarili distrettuali che assumano l'iniziativa del procedimento disciplinare. La S.C. ha sottolineato che, limitatamente all'esercizio della vigilanza, essi non regolano i servizi offerti dai notai sul mercato, ma adempiono una funzione sociale fondata su un principio di solidarietà, affidatagli dalla legge, ed esercitano prerogative tipiche dei pubblici poteri. 865 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 4.1. Gli illeciti disciplinari. Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 14765/2016, Giusti, Rv. 640592 ha ritenuto integrare un'ipotesi di violazione di norma imperativa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28, comma 1, n. 1, e 138 bis, comma 2, della l. notarile, la condotta del notaio che redige un atto di trasformazione societaria da cui risulti un capitale sociale superiore al patrimonio netto in assenza di una delibera di capitalizzazione. Sempre nell'ambito del diritto societario, la Corte ha ritenuto responsabile ex artt. 28, comma 1, n. 1, e 138 bis, comma 1, della l. notarile il notaio che richieda l'iscrizione di una delibera societaria affetta da invalidità "manifesta", cioè inequivoca. Nella specie è stato ravvisato l'illecito anche ove si tratti di mera annullabilità e non di nullità, giacché il controllo notarile sulle delibere sociali è finalizzato ad assicurare la certezza dei traffici mediante una verifica di conformità al modello legale che prescinde dalla tradizionale distinzione dei vizi negoziali. Riguardo alla possibilità per i notai di accedere a messaggi pubblicitari, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639769 ha chiarito che l'abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero professionali non preclude di sanzionare le modalità e i contenuti del messaggio pubblicitario non conforme a correttezza, secondo quanto stabilito dai codici deontologici. Ne consegue che è vietata al notaio la pubblicità funzionale al suo interesse promozionale ovvero all'accaparramento di clientela attraverso diffusione di notizie soggettive, oppure anche oggettive, ma non verificabili e, quindi, autoreferenziali, o comunque non confacenti alla sobrietà, al decoro e al prestigio della professione, secondo il comune sentire dell'etica professionale, mentre è consentita quella volta a informare il pubblico, facilitando una scelta consapevole del professionista da parte della clientela. Sul divieto di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, Sez. 2, n. 01716/2016, Parziale, Rv. 638593 ha ritenuto che risponde dell'illecito disciplinare di cui all'art. 28, comma 1, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 il notaio che abbia ricevuto un atto di disposizione – nella specie, la costituzione di fondo patrimoniale – relativo a un immobile sottoposto a sequestro penale, trattandosi di attività negoziale compiuta in spregio alla norma penale e, dunque, espressamente proibita dalla legge. Si tratta, infatti, di una attività idonea di per sé a sottrarre il bene al vincolo o, comunque, a rendere più difficoltoso il conseguimento della finalità cui il vincolo è funzionale ex art. 334 c.p. 866 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI In ordine all'ambito applicativo del divieto di stipula di cui all'art. 8 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, Sez. 2, n. 24535/2016, Scarpa – alla luce dell'epigrafe del decreto delegato, delle definizioni contenute nell'art. 1, della correlazione con l'art. 7, del chiaro riferimento all'immobile da costruire fatto nell'art. 3, punto n), della legge delega 3 agosto 2004, n. 210 – ha ritenuto che il divieto di stipula di cui all'art. 8 non può che ritenersi operante per gli atti di compravendita che vedano come «acquirente» o promissaria acquirente una persona fisica, come venditore o promittente alienante un «costruttore», ovvero un imprenditore o una cooperativa edilizia, e cha abbiano ad oggetto un «immobile da costruire», ovvero un immobile per il quale sia stato richiesto il permesso di costruire e che sia ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata, versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità. A tal fine è stato precisato che il divieto di stipula contenuto nell'art. 8 si inserisce tra le disposizioni volte alla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, le quali presuppongono una condizione particolare di asimmetria giuridica o economica tra il venditore e l'acquirente e perciò giustificano la specialità del trattamento legislativo. Al di fuori dei requisiti oggettivi e soggettivi di operatività del d.lgs. n. 122 del 2005, pertanto, continua a operare il generale principio della libera circolazione dei beni immobili gravati da ipoteca o da pignoramento, pur permanendo i vincoli pregiudizievoli sul bene. Sez. 2, n. 26369/2016, Orilia ha confermato che costituisce illecito disciplinare di cui all'art. 147, lett. a, della legge notarile per violazione del divieto previsto dall'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, il comportamento del notaio consistente nella stipula di atti di compravendita, di mutuo e di apertura di credito in cui sia parte una società a favore della quale lo stesso notaio abbia prestato precedentemente fideiussione. 4.2. Il procedimento disciplinare. Sui profili del rito, Sez. 2, n. 15073/2016, Giusti, Rv. 640595 ha evidenziato che l'omesso deposito del fascicolo di parte della fase amministrativa non è causa di improcedibilità del reclamo avverso il provvedimento sanzionatorio, poiché le cause dell'improcedibilità sono tassative e l'art. 26 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 non contempla tale ipotesi. Sull'avvio del procedimento disciplinare a carico dei notai e l'obbligo di comunicazione ex art. 7, della legge 7 agosto 1990, n. 867 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 241, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa ha ribadito l'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui non è necessaria la comunicazione prescritta dall'art. 7 allorché il Presidente del Consiglio notarile investa quest'ultimo del promovimento della procedura. L'art. 7 della l. n. 241 del 1990, infatti, limita il proprio ambito di operatività, escludendo l'obbligo di comunicazione, quando esistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento; dette ragioni sono legislativamente presupposte dall'art. 153 della l. n. 89 del 1913, come sostituito dall'art. 39 del decreto legislativo 1 agosto 2006, n. 249, il quale dispone che «il procedimento è promosso senza indugio, se risultano sussistenti gli elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante». Riguardo alla natura dei termini della fase amministrativa del procedimento disciplinare dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa, Rv. 639766 ne ha ribadito il carattere ordinatorio in mancanza di una espressa qualificazione di perentorietà: sicché, laddove l'art. 153, comma 2, della legge n. 89 del 1913 stabilisce che l'organo dotato d'iniziativa debba procedere senza indugio non può determinarsi la decadenza o l'estinzione dell'azione intempestiva. In tema di poteri ispettivi e di vigilanza del Consiglio notarile distrettuale, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 93-bis della legge notarile, sollevata con riferimento agli artt. 3, 76 e 97 Cost. Le attività di indagine attribuite al Consiglio notarile da tale norma, secondo quanto apprezzato dalla Corte, sono strettamente funzionali all'eventuale esercizio del potere di instaurazione del procedimento disciplinare, e non denotano lesione dei principi di imparzialità e di eguaglianza, giacché relegate nella fase amministrativa del procedimento disciplinare notarile, in ordine al quale il Consiglio notarile può rivolgere la richiesta di apertura alla Commissione regionale di disciplina, chiamata a decidere, come organismo terzo ed imparziale, sulla fondatezza dell'addebito. In merito alla partecipazione alla delibera del Consiglio notarile, con cui sia stata avanzata una richiesta di procedimento disciplinare, di un notaio portatore di interessi professionali concorrenziali rispetto a quelli del notaio incolpato, Sez. 2, n. 24962/2016, Scarpa ha escluso la sussistenza della violazione dell'art. 103 regio decreto 10 settembre 1914, n. 1326 – in tema di incompatibilità dei componenti del Collegio o del Consiglio notarile – trattandosi di norma di natura eccezionale, suscettibile solo di stretta interpretazione. 868 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI Sull'impugnazione dei provvedimenti disciplinari e cautelari a carico dei notai, Sez. 2, n. 09041/2016, Scarpa Rv. 639768, ha chiarito che il reclamo dinanzi alla Corte d'appello avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale è soggetto – ai sensi degli artt. 3 e 26 del d.lgs. n. 150 del 2011 – agli artt. 702 bis e 702 ter, commi 1, 4, 5, 6 e 7, c.p.c. Non disponendo nulla tali norme in merito alla pubblicità delle udienze, la S.C. ha ritenuto che opera il regime generale della pubblicità della sola udienza di discussione, compatibile con l'art. 6 CEDU, in virtù del quale non tutta l'attività processuale deve svolgersi pubblicamente, ma deve essere assicurato un momento di trattazione della causa in un'udienza pubblica. 869 CAP. XLVI - L'ARBITRATO CAPITOLO XLVI L'ARBITRATO (di Fabio Antezza) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Convenzione d'arbitrato: operatività, interpretazione, distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale e clausola binaria. – 3. Clausola compromissoria, durata ed invalidità sopravvenuta. – 4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. – 5. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. – 6. Procedimento e principio del contraddittorio. – 7. Nomina giudiziale degli arbitri, termine per la decisione e sua prorogabilità. – 8. Il compenso degli arbitri. – 9. Nullità del lodo e sua impugnazione. – 10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di ritualità o irritualità dell'arbitrato e questioni di competenza e di giurisdizione. – 11. Esecutività del lodo e ricorso per cassazione. 1. Premessa. Nel corso del 2016, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio, alla conseguente distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, alla validità della convenzione di arbitrato, all'applicabilità della clausola binaria ed all'invalidità sopravvenuta della convenzione d'arbitrato. Sono stati altresì diversi i principi sanciti in merito ai rapporti con l'appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro e con l'autorità giudiziaria, nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnazione del lodo per errori di diritto e di esecutività del lodo. 2. Convenzione d'arbitrato: operatività, interpretazione, distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale e clausola binaria. La questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto ad un'altra, intercorrente tra le stesse parti, per arbitrato irrituale, non integra una questione di "competenza", bensì di merito, anche a seguito del revirement attuato da Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786 e 627787, circa la natura giurisdizionale e non negoziale dell'arbitrato rituale. Così argomentando, Sez. 1, n. 04526/2016, Genovese, Rv. 638869, ha concluso nel senso della necessaria attività di interpretazione della clausola, alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici per l'interpretazione dei contratti. Natura irrituale è stata riconosciuta all'arbitrato di cui all'art. 12 bis dell'Accordo Nazionale Agenti, dell'1 agosto 1994, da Sez. L, n. 08182/2016, Spena, Rv. 639484, la quale ha precisato che la 870 CAP. XLVI - L'ARBITRATO determinazione sino alla misura massima della somma aggiuntiva ivi prevista come spettante all'agente a seguito di recesso del preponente, al di fuori delle ipotesi di giusta causa, è rimessa all'intervento degli arbitri senza costituire accertamento di un diritto preesistente, in quanto tale, azionabile in via giudiziaria. In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che l'indennità di cui al citato art. 12 bis era determinabile, come richiesto, nella misura massima solo nel caso di ricorso al collegio arbitrale e non anche a seguito di azione giudiziaria esperita innanzi al giudice ordinario. L'interpretazione della clausola compromissoria necessita, anche a prescindere dalla risoluzione della questione inerente la ritualità dell'arbitrato, al fine di verificare, relazionando tra loro gli artt. 808 bis e 808 quater c.p.c., se la convenzione di arbitrato abbia ad oggetto anche materia non contrattuale. La clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, come difatti ha statuito Sez. 6-1, n. 20673/2016, De Chiara, in corso di massimazione, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi titolo nel contratto medesimo, con esclusione quindi delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico, come nel caso di causa petendi avente titolo aquiliano ex art. 2598 c.c. L'operatività della convenzione di arbitrato non può dipendere dalla decisione sul merito della controversia, pena l'illogicità dell'argomentazione. Nei termini di cui innanzi si è espressa Sez. 6-1, n. 01119/2016, Mercolino, Rv. 638342, per la quale l'azione per l'accertamento della natura usuraria degli interessi dovuti in base ad un contratto di leasing, con la conseguente condanna della controparte alla restituzione di quanto indebitamente percepito a tale titolo, è suscettibile di deferimento alla decisone degli arbitri ai sensi dell'art. 806 c.p.c. Essa, difatti, ha ad oggetto un diritto disponibile, a nulla rilevando in senso contrario, rispetto alla competenza arbitrale, la dedotta nullità del contratto posto a base della domanda, che concerne, invece, il merito della pretesa. La clausola compromissoria binaria, che devolva determinate controversie alla decisione di tre arbitri, due dei quali da nominare da ciascuna delle parti, è stata ritenuta da Sez. 1, n. 06924/2016, Nazzicone, Rv. 639271, applicabile, in lite con pluralità di parti, sempre che, in base ad una valutazione ex post del petitum e della 871 CAP. XLVI - L'ARBITRATO causa petendi, emerga la sussistenza di due soli gruppi omogenei e contrapposti, raggruppanti i vari interessi in gioco compatibilmente con il tipo di pretesa fatta valere. In tema di compromettibilità in arbitri, infine, la S.C. ha confermato il suo consolidato orientamento secondo cui l'azione di risarcimento dei danni erariali e la possibilità per le amministrazioni interessate di promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità restano, anche quando investano i medesimi fatti materiali, reciprocamente indipendenti, integrando le eventuali interferenze tra i giudizi una questione di proponibilità dell'azione di responsabilità innanzi al giudice contabile e non di giurisdizione. Muovendo dal principio di cui innanzi, in particolare, Sez. U, n. 25040/2016, De Chiara, in corso di massimazione, ha ritenuto compromettibile la controversia vertente su asserito inadempimento dell'affidatario IAP, per omessa riscossione dei canoni per il consumo di acqua potabile, sul rilievo della non esclusività della giurisdizione della Corte dei conti e della sua alternatività rispetto a quella ordinaria e, dunque, a quella arbitrale. 3. Clausola compromissoria, durata ed invalidità sopravvenuta. In materia di contratto di investimento finanziario, avente natura di durata, l'art. 6 del d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, nel prevedere che la clausola compromissoria è vincolante per il solo intermediario che abbia predisposto unilateralmente il contratto, si applica anche ai rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, integrando una causa di invalidità parziale sopravvenuta. Sicché, come ha chiarito Sez. 6-3, n. 08900/2016, Rossetti, Rv. 640067, la valutazione di detta invalidità deve essere operata al momento del sorgere della questione di riparto di competenza tra l'arbitro ed il giudice ordinario, a nulla rilevando l'epoca di maturazione dell'inadempimento o degli altri fatti posti a fondamento della domanda giudiziaria. 4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. Il capitolato generale per le opere pubbliche ha valore normativo e vincolante e si applica, quindi, in modo diretto, solo per gli appalti stipulati dallo Stato mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni del capitolato costituiscono clausole negoziali, comprensive anche di quella compromissoria per la soluzione delle controversie con il ricorso all'arbitrato, che assumono efficacia obbligatoria solo se e 872 CAP. XLVI - L'ARBITRATO nei limiti in cui siano richiamate dalle parti per regolare il singolo rapporto contrattuale. Sez. 1, n. 00812/2016, Di Virgilio, Rv. 638482, dopo aver argomentato dall'assunto di cui innanzi, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ha precisato che, affinché si produca l'efficacia obbligatoria della clausola compromissoria contenuta nel capitolato generale con riferimento ad enti pubblici diversi dallo Stato, la volontà di recepire il contenuto dell'intero capitolato e, dunque, anche della detta clausola, deve risultare espressa in maniera esplicita ed univoca. La citata sentenza, ha affermato il principio innanzi enunciato con riferimento al capitolato generale per le opere pubbliche di cui al d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 (oggi abrogato) e, nella specie, ha ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva considerato inidonea a radicare la competenza arbitrale una clausola recante solo un generico richiamo al detto capitolato, alle leggi ed ai regolamenti generali in vigore ed applicabili in materia. Sempre in materia di arbitrato relativo ad appalto di opere pubbliche, qualora le parti nel regolare i mezzi per far valere i loro diritti abbiano fatto riferimento ad una norma legislativa (in particolare l'art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962 in tema di arbitrato) il contenuto della stessa viene recepito nella dichiarazione negoziale, integrandola, con la conseguenza che l'estensione ed i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula e, quindi, la fonte della competenza arbitrale va individuata non nella legge bensì in una disposizione compromissoria. Sez. 1, n. 25410/2016, Genovese, in corso di massimazione, enunciato il principio di cui innanzi, ha chiarito che, formatasi la volontà contrattuale secondo la disciplina dettata dal capitolato generale vigente all'epoca della conclusione del contratto, nella specie il citato art. 47, l'intero rapporto è retto e deve svolgersi secondo quella disciplina. Sicché, le eventuali modificazioni sopravvenute di tale capitolato, al pari degli interventi incisivi della Consulta, non possono alterare il regime pattizio dei contratti in corso, con riferimento sia a disposizioni di carattere sostanziale che a disposizioni di carattere processuale, compresa quella concernente la competenza del collegio arbitrale. In tema di divieto di arbitrato di cui all'art. 3, comma 2, del decreto legge 11 giugno 1998, n. 180 (conv. con modif., dalla legge 3 agosto 1998, n. 267), la S.C. ne ha individuata la ratio nella preclusione del ricorso ad arbitri per le controversie relative alle 873 CAP. XLVI - L'ARBITRATO opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali, a ragione del rilevante interesse pubblico ed anche economico delle stesse. Così argomentando, in particolare, Sez. 1, n. 14782/2016, Di Virgilio, Rv. 640673, ha statuito che il divieto in oggetto deve essere interpretato estensivamente ed in coerenza con la sua ratio, riguardando esso non solo le opere da ricostruire ovvero da realizzare in conseguenza di eventi sismici, ma tutte quelle comunque ricomprese nei programmi di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali e, quindi, finanziate con fondi destinati alla calamità naturale, ancorché non oggetto di "ricostruzione" a causa di essa. Nella specie si trattava di opere di completamento della costruzione della nuova sede del Comune, deliberata in epoca antecedente al sisma, ma ricompresa nel programma di ricostruzione di quel territorio in quanto colpito da calamità naturale. Sempre muovendo dalla predetta ratio, Sez. 6-1, n. 00789/2016, Genovese, Rv. 638121, ha precisato che il divieto in argomento si applica anche alle liti riguardanti le opere previste e finanziate nell'ambito di progetti triennali di sviluppo, regolati dal titolo V della legge 14 maggio 1991, n. 219, atteso che, alla stregua di quest'ultima, non vi è diversità di disciplina tra i procedimenti organici per la ricostruzione e quelli relativi allo sviluppo dei territori colpiti da calamità naturali. 5. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. In materia di rapporti di lavoro, la S.C. è intervenuta in merito alla compromettibilità in arbitri delle controversie inerenti la distribuzione di azioni ai dipendenti mediante l'utilizzo delle "stock option", aventi la finalità di incentivare la produttività, con la possibilità di realizzazione di plusvalenze, costituendo una forma di retribuzione mediante partecipazione agli utili, ex art. 2099 c.c. Sicché, come ha precisato Sez. L, n. 15217/2016, Manna, Rv. 640737, le relative controversie, normalmente, rientranti nella competenza del giudice ordinario, secondo il rito speciale del lavoro, sono compromettibili in arbitri ancorché nei limiti di cui all'art. 806 c.p.c., cioè sempre che ciò sia previsto dai contratti collettivi. In ordine ai rapporti tra compromettibilità in arbitri, nella particolare forma del cd. "arbitrato societario", e previsioni dello statuto societario, Sez. 1, n. 02759/2016, Bisogni, Rv. 638621, ha ritenuto compromettibili, sempre che tale possibilità sia prevista 874 CAP. XLVI - L'ARBITRATO dallo statuto, le controversie tra amministratore e società, anche se specificamente attinenti al "profilo interno" dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori, tra i quali anche quello al compenso. Il rapporto che lega l'amministratore alla società, difatti, come ha precisato la sentenza in esame, è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, rientrando nell'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, non operando così le limitazioni di cui all'art. 806 c.p.c. Per converso non sono compromettibili in arbitri, ex artt. 34 e 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, le deliberazioni di approvazione del bilancio di società per violazione delle norme imperative dirette a garantirne la chiarezza e la precisione. Così si è espressa Sez. 6-1, n. 20674/2016, Mercolino, in corso di massimazione, motivando in forza dell'indisponibilità dei diritti ai quali afferiscono le dette regole, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione. Esse, difatti, contengono principi dettati a tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. Sempre muovendo dalla natura di ordine pubblico dei principi tutelati da talune disposizioni in materia di arbitrato societario, Sez. 1, n. 21422/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha escluso l'operatività del cd. "doppio binario". In particolare la citata ordinanza ha precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società, nella specie di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera delle parti e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta, se non adeguata al dettato dell'art. 34, comma 2, del citato decreto entro i termini di cui agli artt. 223 bis e 223 duodecies c.p.c. La detta clausola, ha precisato la S.C., non è altresì convertibile in clausola di arbitrato di diritto comune, trattandosi di nullità volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione. In materia di arbitrato societario, affrontando anche questioni di diritto intertemporale, Sez. U, n. 13722/2016, Didone, Rv. 875 CAP. XLVI - L'ARBITRATO 640190, ha precisato che il termine di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione del socio di una società cooperativa, previsto dall'art. 2527, comma 3, c.c., nella sua formulazione antecedente alla modifica introdotta dall'art. 8 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, è applicabile anche nel caso in cui il relativo giudizio sia introdotto davanti agli arbitri, in forza di clausola compromissoria statutaria, così andando di contrario avviso rispetto ad un risalente orientamento consolidato, sia pure affermatosi in tema di società di persone. La S.C. è infine intervenuta in merito alla compromettibilità delle liti tra società cooperativa, in particolare edilizia, e socio. Quest'ultimo, difatti, è titolare di due distinti, seppur collegati, rapporti, uno di carattere associativo, derivante dall'adesione al contratto sociale, l'altro originante dal contratto bilaterale di scambio, la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita. Sicché, come ha chiarito Sez. 6-3, n. 12124/2016, Rubino, Rv. 640318, la clausola compromissoria contenuta nello statuto di tale tipo di società, avente per oggetto sociale la costruzione di alloggi da assegnare ai soci, si applica alle sole controversie endosocietarie e non si estende a quelle relative al trasferimento di proprietà, in assenza di espressa previsione statutaria ovvero di autonoma clausola nell'atto di prenotazione o di assegnazione ovvero in quello di trasferimento immobiliare. 6. Procedimento e principio del contraddittorio. In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio la S.C. ne ha chiarito il diverso atteggiarsi a seconda che trattasi di arbitrato rituale o irrituale. Nel primo caso, gli arbitri violano il principio in esame, per mancata conoscenza dei punti di vista di tutte le parti del procedimento, con conseguente impugnabilità del lodo per nullità ex artt. 828 e 829 c.p.c., ove abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e le istanze istruttorie (alla stregua di quelli ex artt. 183 e 184 c.p.c.), sempre che, in forza di tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio delle facoltà di proporre quesiti ed istanze istruttorie. Muovendo dalle argomentazioni di cui innanzi, Sez. 1, n. 01099/2016, Nazzicone, Rv. 638613, ha chiarito che, anche nella descritta circostanza, il contraddittorio è violato solo ove la possibilità di declinare tale perentorietà non fosse prevista dalla convenzione di arbitrato ovvero da un atto scritto separato o dal predisposto regolamento processuale, sempre che ciò sia 876 CAP. XLVI - L'ARBITRATO avvenuto in assenza di specifica avvertenza al riguardo al momento dell'assegnazione dei termini. In materia di arbitrato irrituale, per converso, l'inosservanza del principio del contraddittorio rileva esclusivamente ai fini dell'impugnabilità del lodo ex art. 1429 c.c., cioè come errore che, muovendo dalla violazione dei limiti del mandato conferito agli arbitri, abbia inficiato la volontà contrattuale espressa dagli stessi. Quanto detto rileva, come ha statuito Sez. 1, n. 01097/2016, Genovese, Rv. 638505, in caso di deduzione della violazione del contraddittorio, in merito ai poteri di indagine da parte del giudice del merito, volti ad accertare l'effettivo contenuto del mandato conferito, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato. 7. Nomina giudiziale degli arbitri, termine per la decisione e sua prorogabilità. Sez. 1, n. 07956/2016, Campanile, Rv. 639608, interpretando l'art. 810, comma 2, c.p.c., ha chiarito che la nomina dell'arbitro in sede giudiziale deve essere effettuata, in assenza di ragioni impeditive, tenendo conto della volontà manifestata dalle parti nella clausola compromissoria in relazione alla designazione di soggetti dotati di particolari qualità o appartenenti a determinate categorie. Il previsto intervento del Presidente del tribunale, difatti, è di tipo integrativo-sostitutivo della volontà negoziale, ove questa non sia contra legem o non più concretamente attuabile. Con particolare riferimento, invece, al termine per la decisione arbitrale, l'art. 820, comma 2, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma del 2006), secondo cui quando debbano essere assunti mezzi di prova o sia stato pronunciato un lodo non definitivo gli arbitri possono prorogare per una sola volta il termine, va interpretato nel senso che la locuzione «per una sola volta» va riferita a ciascuno dei due tipi di circostanze giustificative della proroga. Nei precisi termini di cui innanzi si è espressa Sez. 1, n. 12950/2016, De Chiara, Rv. 640101, argomentando dalla circostanza per la quale l'esigenza di disporre di un tempo più lungo per decidere è direttamente proporzionale alla complessità del procedimento, valutata in base agli indici, previsti dal legislatore, dell'assunzione dei mezzi di prova e della pronuncia di un lodo non definitivo. La possibilità di proroga del termine riconosciuta agli arbitri dal citato art. 820, comma 2, c.p.c., per l'ipotesi di assunzione di mezzi di prova, è infine estensibile all'espletamento di consulenza 877 CAP. XLVI - L'ARBITRATO tecnica, coma ha chiarito Sez. 1, n. 12956/2016, Di Virgilio, Rv. 640128. Con riferimento al procedimento di cui al citato art. 814 c.p.c., invece, è stata rimessa alle S.U., in quanto ritenuta di massima di particolare importanza, la questione inerente la ricorribilità straordinaria per cassazione avverso l'ordinanza emessa dalla corte di appello in sede di reclamo contro l'ordinanza adottata dal presidente del tribunale, ritenendo oggi sussistenti forti ed apprezzabili ragioni giustificative per discostarsi del precedente orientamento delle S.U., anche in virtù dell'intervenuto revirement circa la natura dell'arbitrato rituale. Le intervenute Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, in corso di massimazione, hanno ammesso il ricorso straordinario avverso il provvedimento di cui innanzi, in materia di spese ed onorari degli arbitri, in ragione della natura giurisdizionale del relativo procedi-mento ed in virtù della decisorietà e definitività del provvedimento, in quanto incidente su situazioni di diritto soggettivo e non soggetto ad altri mezzi di impugnazione. 8. Il compenso degli arbitri. In tema di arbitrato, qualora il lodo preveda che la quantificazione del compenso degli arbitri debba essere effettuata dal Consiglio dell'ordine degli avvocati, l'accettazione del lodo integra una convenzione tra le parti, riconducibile all'art. 1349 c.c., che determina l'inapplicabilità dell'art. 814 c.p.c. Nei termini di cui innanzi ha statuito Sez. 2, n. 16594/2016, Scarpa, Rv. 640994, in fattispecie anteriore al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. 9. Nullità del lodo e sua impugnazione. In tema di nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia e conseguente sua impugnabilità, le S.U. hanno risolto il contrasto interpretativo sorto in merito all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo riformulato dall'art 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore, ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. Il citato comma 3, laddove ammette l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella. Per stabilire se sia ammissibile l'impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – va 878 CAP. XLVI - L'ARBITRATO identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato. Argomentando nei termini di cui innanzi, Sez. U, n. 09284/2016, Nappi, Rv. 639686, hanno precisato che in caso di convenzione di arbitrato cd. di diritto comune, stipulata anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti, deve intendersi ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile e senza che a differenti conclusioni possa condurre il revirement giurisprudenziale sulla natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale (attuato dalle citate Sez. U, n. 24153/2013). In caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella del 2006, è invece ammissibile l'impugnazione del lodo per errores in iudicando ove gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari, così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi con l'art. 36 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (in questi termini Sez. U, n. 09285/2016, Nappi, Rv. 639687). Sempre in merito all'impugnazione per nullità, la previsione nel compromesso o nella clausola compromissoria della non impugnabilità del lodo, nei casi consentiti, rende inammissibile la sua impugnazione-. Tale inammissibilità, in quanto afferente i limiti all'impugnazione del lodo stabiliti dal codice di rito, va rilevata anche di ufficio (Sez. 1, n. 24550/2016, Di Virgilio, in corso di massimazione). Risolvendo un contrasto interpretativo, Sez. U, n. 23463/2016, Nappi, Rv. 641625, hanno chiarito che, in forza dell'art. 827, comma 3, c.p.c., è immediatamente impugnabile il lodo recante una condanna generica ex art. 278 c.p.c., in quanto parzialmente decisorio del merito della controversia, oltre che quello che decida una o alcune domande proposte senza definire l'intero giudizio, ma non il lodo che decida questioni preliminari o pregiudiziali. Le citate Sez. U, n. 23463/2016, Nappi, Rv. 641624, hanno anche precisato che la questione concernente l'esistenza o la validità della convenzione giustificativa della potestas iudicandi degli arbitri ha natura pregiudiziale di rito, perché funzionale all'accertamento di un error in procedendo che vizia il lodo quale decisione giurisdizionale). 879 CAP. XLVI - L'ARBITRATO È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 813 ter, comma 4, c.p.c., nella parte in cui, subordinando la proponibilità dell'azione di responsabilità degli arbitri al previo accoglimento dell'impugnazione del lodo con sentenza passata in giudicato, non include anche la responsabilità per errori di fatto o di diritto, trattandosi di vizi che non legittimano l'impugnazione del lodo. Nei termini di cui innanzi si è espressa Sez. 3, n. 12144/2016, Graziosi, Rv. 640284, in materia di rapporti tra responsabilità civile degli arbitri e nullità del lodo, escludendo una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per la responsabilità civile dei magistrati oltre che violazione del diritto di agire in giudizio, attesa la non omogeneità delle discipline poste a raffronto. Chi opta per l'arbitrato, difatti, gode di un consistente plus rispetto a chi agisce davanti al giudice ordinario, con la conseguente ragionevolezza, in termini di bilanciamento, della non impugnabilità del lodo per determinati profili, ai quali si riconnette il limite della responsabilità degli arbitri. 10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di ritualità o irritualità dell'arbitrato e questioni di competenza e di giurisdizione. Integrando una questione di competenza, lo stabilire se una controversia spetti, o meno, alla cognizione degli arbitri, in forza dell'overruling giurisprudenziale attuato dalla citata Sez. U, n. 24153/2013, nell'ipotesi di declinatoria della competenza da parte del giudice statale trova applicazione anche l'art. 50 c.p.c. Nei suddetti termini ha statuito Sez. 6-1, n. 01101/2016, Genovese, Rv. 638557, attesa la necessità di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda originariamente proposta davanti al giudice ordinario. Sempre argomentando dalla riconosciuta natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale, Sez. 1, n. 01097/2016, Genovese, Rv. 638504, ha precisato che l'eccezione di ritualità o irritualità dello stesso non è rilevabile d'ufficio ma deve essere proposta dalla parte interessata, la quale ben può rinunciare ad avvalersene, anche tacitamente, ponendo in essere comportamenti incompatibili con la volontà di giovarsi del compromesso, trattandosi di diritti disponibili. Con particolare riferimento ai rapporti tra giudice statale ed arbitri, sempre in termini di competenza, appartiene ai primi la controversia nella quale la parte convenuta in giudizio per l'esecuzione di un contratto comprensivo di clausola 880 CAP. XLVI - L'ARBITRATO compromissoria contesti la conclusione del contratto o disconosca la firma apposta sullo stesso. La devoluzione del giudizio agli arbitri, difatti, come ha precisato Sez. 6-2, n. 13616/2016, Lombardo, Rv. 640248, postula che sia pacifica tra le parti la conclusione del contratto nonché l'esatta individuazione dei contraenti. In tema di competenza, la S.C. ha dovuto poi risolvere questioni di diritto intertemporale, con particolare riferimento all'esperibilità del regolamento di competenza, in ordine a talune delle quali si registra un attuale contrasto. Se il giudice di primo grado, valutata la clausola arbitrale, si sia pronunciato sulla sua competenza, ma nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, non trova applicazione l'art. 819 ter c.p.c. bensì il principio generale del tempus regit actum, per il quale l'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali è soggetta alle forme processuali vigenti al momento in cui essa sia proposta. Ne consegue, per Sez. 1, n. 16058/2016, Nazzicone, Rv. 641315, che la sentenza va impugnata con l'appello o con il regolamento di competenza, a seconda che il giudizio sia stato proposto prima o dopo il 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del citato art. 819 ter. Sez. 1, n. 21523/2016, Di Marzio, in corso di massimazione, ha convenuto con la precedente pronuncia nel ritenere che se il giudice di primo grado si sia pronunciato solo sulla sua competenza, senza decidere il merito della causa, ma nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, non trova applicazione l'art. 819 ter c.p.c., ma il principio generale del tempus regit actum. Tuttavia, andando di contrario avviso rispetto alla citata Sez. 1, n. 16058/2016, ha precisato che, in applicazione del principio di cui innanzi, l'impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali è soggetta alle forme processuali vigenti al momento in cui essi sono pronunciati. Di conseguenza, la pronuncia, anche se, come nella specie, qualificata dal giudice come di inammissibilità della domanda e non di incompetenza, va impugnata con il regolamento necessario di competenza, se successiva al 2 marzo 2016, data di entrata in vigore della l. n. 40 del 2006 di riforma dell'arbitrato. Il contrasto, dunque, non risiede nell'individuazione astratta del principio applicabile, pacificamente individuato nel tempus regit actum, bensì nella concreta applicazione di esso in caso di successione di leggi processuali inerenti l'impugnazione di provvedimenti aventi natura giurisdizionale. Sempre in merito ai rapporti tra arbitrato e processo, ex art. 819-ter, comma 2, c.p.c., il giudice ordinario non può sospendere il processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c. in ragione della pregiudizialità 881 CAP. XLVI - L'ARBITRATO della causa pendente innanzi agli arbitri. Per converso, è questione di giurisdizione lo stabilire se la controversia appartenga al giudice ordinario o al giudice amministrativo, anche quando il problema del riparto sorga in funzione dell'accertamento della compromettibilità in arbitri e, quindi, della validità del compromesso o della clausola compromissoria. Ne consegue che, come ha statuito Sez. U, n. 01514/2016, Greco, Rv. 638225, è ammissibile la questione di giurisdizione sollevata con ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla corte d'appello in sede di impugnazione per nullità del lodo, integrando essa "motivi attinenti alla giurisdizione" e, quindi, rientranti nell'ambito di competenza delle Sezioni Unite ex artt. 360, n. 1, e 374 c.p.c. Sempre in merito al riparto di giurisdizione, le Sez. U, n. 07949/2016, Vivaldi, Rv. 639283, hanno precisato che l'azione di restituzione della somma pagata in esecuzione di un lodo arbitrale dichiarato nullo, con sentenza confermata in cassazione, per sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non rientra nella detta giurisdizione, potendo essere esercitata davanti al giudice ordinario in modo autonomo. La ratio risiede nel dover assicurare l'effettività della tutela del solvens, a prescindere dalla vicende dell'eventuale giudizio di rinvio. 11. Esecutività del lodo e ricorso per cassazione. Sez. 1, n. 21739/2016, Mercolino, in corso di massimazione, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso il rigetto del reclamo nei confronti del decreto che abbia negato l'esecutorietà del lodo ex art. 825 c.p.c. Pur incidendo, il provvedimento di rigetto, sul diritto della parte vittoriosa al conseguimento del titolo esecutivo non si realizza alcuna definitiva preclusione dell'esercizio della facoltà di procedere ad esecuzione forzata. La parte, difatti, come ha chiarito la sentenza in esame, ha facoltà di procedere in via esecutiva previo accertamento, in giudizio ordinario a cognizione piena, della sussistenza dei requisiti cui è subordinata l'efficacia esecutiva del lodo ovvero con suo nuovo deposito, corredato della documentazione della quale sia stata precedentemente rilevata la mancanza o l'irregolarità. 882 883 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE UF F I C I O D E L MA S S I M A R I O _______ Rassegna della giurisprudenza di legittimità ____________ Gli orientamenti delle Sezioni Civili ____________ III Anno 2016 La giurisprudenza delle Sezioni Civili Anno 2016 DIRETTORE: Giuseppe Maria Berruti DIRETTORE AGGIUNTO: Giovanni Amoroso hanno collaborato alla redazione: AUTORI: : Irene Ambrosi, Fabio Antezza, Stefania Billi, Eduardo Campese, Dario Cavallari, Aldo Ceniccola, Gian Andrea Chiesi, Marina Cirese, Francesco Cortesi, Milena d'Oriano, Paola D'Ovidio, Lorenzo Delli Priscoli, Paolo Di Marzio, Luigi Di Paola, Giuseppe Dongiacomo, Giovanni Fanticini, Annamaria Fasano, Francesco Federici, Ileana Fedele, Giuseppe Fichera, Rosaria Giordano, Gianluca Grasso, Stefano Giaime Guizzi, Salvatore Leuzzi, Francesca Miglio, Marzia Minutillo Turtur, Roberto Mucci, Giuseppe Nicastro, Andrea Nocera, Giacomo Maria Nonno, Andrea Penta, Renato Perinu, Francesca Picardi, Valeria Piccone, Paolo Porreca, Raffaele Rossi, Salvatore Saija, Paolo Spaziani, Cesare Trapuzzano, Cristiano Valle, Luca Varrone, Andrea Venegoni. A CURA DI: Giuseppe Fuochi Tinarelli. VOLUME TERZO APPROFONDIMENTI TEMATICI CAPITOLO I IL FIGLIO DI DUE MADRI (di Paolo Di Marzio) ................................................................................................... 1 1. La vicenda personale ed i giudizi di merito. ................................................................................................. 1 2. Il ricorso per Cassazione proposto dal Procuratore generale della Corte d'Appello di Torino............4 3. Il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno. ............................................................................................ 6 4. Gli istituti giuridici coinvolti: 4a) La fecondazione eterologa. ................................................................... 8 4b) La surrogazione di maternità. ...................................................................................................................... 9 5. La decisione adottata dalla Suprema Corte. ............................................................................................... 14 CAPITOLO II I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO (di Luigi Di Paola e Ileana Fedele)..............................................................................................................................20 1. Introduzione...................................................................................................................................................20 2. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente da riassetto aziendale: prevale l'orientamento "liberale". .................................................................................................................... 21 2.1. Le ragioni dell'orientamento "liberale" in una recentissima sentenza. ................................................ 22 2.2. problema del sindacato del giudice in ordine alla effettività e "non pretestuosità" del riassetto.....23 3. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per effetto di riduzione del personale omogeneo e fungibile: rileva anche il criterio del rendimento del lavoratore. .........................25 4. L'onere di allegazione e prova dell'obbligo di repechage.............................................................................26 4.1. La tesi imperniata sull'estensione dell'obbligo di repechage alle mansioni inferiori..............................26 4.2. Implicazioni della riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo ................................................................................................................................................ 27 5. Considerazioni conclusive. ........................................................................................................................... 29 CAPITOLO III LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. (di Ileana Fedele) ................................................................................................................................................................... 31 1. Premessa. ........................................................................................................................................................ 31 2. Il divieto di conversione del rapporto alla prova dei parametri europei. ...............................................32 3. La natura del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed il suo inquadramento nell'ambito del sistema della responsabilità civile. ..................................................................................................................................34 4. I criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001. ........................................................36 5. I limiti dell'interpretazione conforme..........................................................................................................37 6. Il punto di equilibrio di Sez. U, 15 marzo 2016, n. 5072..........................................................................37 7. Riflessi sul cosiddetto "precariato scolastico"............................................................................................39 8. Le reazioni della dottrina. .............................................................................................................................40 9. La (nuova) questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani...................................................41 10. La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Foggia. .......................................................42 11. Considerazioni conclusive. .........................................................................................................................42 CAPITOLO IV LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ (di Valeria Piccone)........................................................................................................................45 1. Il lavoro intermittente nella vicenda Abercrombie & Fitch, la sentenza della corte territoriale..............45 2. La giurisprudenza europea da Mangold a Kücükdeveci..................................................................................47 3. Principio di uguaglianza e interpretazione conforme................................................................................49 4. Il rinvio pregiudiziale della Corte di legittimità..........................................................................................54 CAPITOLO V LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE (di Annamaria Fasano).....................56 1. Il principio di diritto espresso dalle S.U. con sentenza n. 9449 del 2016. ..............................................56 2. L'ordinanza interlocutoria.............................................................................................................................57 2.1. Riflessioni.....................................................................................................................................................58 3. La ripartizione delle spese tra condomini...................................................................................................60 4. Il lastrico solare. .............................................................................................................................................63 5. Lastrico solare in uso esclusivo e danni a terzi. .........................................................................................66 6. La sentenza delle Sezioni Unite, 29 aprile 1997, n. 3672..........................................................................68 7. La giurisprudenza successiva........................................................................................................................69 8. I criteri di imputazione della responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c. .......................................70 9. La soluzione del contrasto. ...........................................................................................................................74 CAPITOLO VI L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA (di Francesca Picardi) ...........................77 1. La questione: il compenso riscosso dopo la cessazione dell'attività........................................................77 2. La soluzione delle Sezioni Unite: distinzione tra presupposto impositivo e condizione di esigibilità. ..............................................................................................................................................................................79 3. Le opinioni della dottrina..............................................................................................................................80 4. Problemi applicativi. ......................................................................................................................................82 5. La cessazione del presupposto impositivo d'imposta per morte.............................................................84 5. Conclusioni. ....................................................................................................................................................85 CAPITOLO VII IL DECORSO DEL TERMINE DI DECADENZA PER L'ACCERTAMENTO NON IMPEDISCE ALL'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI CONTESTARE IL CREDITO CHIESTO A RIMBORSO CON LA DICHIARAZIONE (di Giuseppe Nicastro)..............................................................................................................87 1. Il principio.......................................................................................................................................................87 2. La vicenda .......................................................................................................................................................87 3. I diversi orientamenti della Sezione tributaria e l'ordinanza interlocutoria n. 23529 del 2014............88 4. Il recupero dell'eccedenza d'imposta mediante la richiesta di rimborso in sede di dichiarazione.......92 5. La sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016......................................................................................97 6. Le prime reazioni della dottina.....................................................................................................................98 7. Alcune considerazioni conclusive..............................................................................................................100 IV CAPITOLO VIII LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) (di Marzia Minutillo Turtur) .................................................................................................................................... 103 1. Premessa. ...................................................................................................................................................... 103 2. La vicenda processuale................................................................................................................................103 2.1. Il ricorso alle Sezioni Unite. .............................................................................................................. 106 3. Gli atti di classamento. ................................................................................................................................ 107 4. Gli orientamenti giurisprudenziali sugli atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992. ................ 109 5. I riferimenti normativi..................................................................................................................................111 6. Considerazioni sistematiche. ...................................................................................................................... 116 7. La soluzione delle Sezioni Unite................................................................................................................ 117 CAPITOLO IX LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. (di Dario Cavallari) ....................................................................................... 120 1. La disciplina del ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie centrali. ... 120 2. Le conseguenze della violazione dell'art. 330 c.p.c.................................................................................. 121 3. L'inesistenza e la nullità della notificazione: distinzione......................................................................... 123 4. La vicenda processuale................................................................................................................................125 5. La decisione: i punti fondamentali............................................................................................................. 126 6. Considerazioni finali....................................................................................................................................130 CAPITOLO X LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») (di Roberto Mucci).....................................................................................................................................................133 1. Il principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12084/2016. ........................................... 133 2. Le ragioni dell'orientamento confermato. ................................................................................................ 134 3. I rilievi critici della dottrina......................................................................................................................... 136 4. L'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione n. 9782/2015............................................................... 140 5. Le Sezioni Unite: l'accelerazione del giudicato in funzione della certezza dei rapporti. ................... 141 6. Considerazioni conclusive. ......................................................................................................................... 144 CAPITOLO XI LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA (di Rosaria Giordano)............................................................................................................................146 1. Premessa. ...................................................................................................................................................... 146 2. La rimessione della questione alle Sezioni Unite ..................................................................................... 147 3. La tesi dell'improcedibilità. ......................................................................................................................... 147 4. La tesi della nullità sanabile. ....................................................................................................................... 149 5. Termine entro il quale deve essere depositato l'originale dell'atto........................................................150 6. La decisione delle Sezioni Unite. ............................................................................................................... 152 CAPITOLO XII I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. (di Eduardo Campese).......................................................................................................................................... 155 1. Premessa. ...................................................................................................................................................... 155 2. Il contrasto, manifestatosi in dottrina e giurisprudenza, quanto al regime dell'ordinanza di inammissibilità. ................................................................................................................................................. 156 3. I limiti della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. come sanciti dalle Sezioni Unite. .......................................................................................................................................... 157 4. Brevi osservazioni. ....................................................................................................................................... 167 V CAPITOLO XIII IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO (di Fabio Antezza)........172 1. Premessa: la questione di diritto e la sua duplice rilevanza. ................................................................... 172 2. Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle S.U............................................................................172 3. Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. e spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo. ... 173 3.1. Lo scrutinio di costituzionalità................................................................................................................179 3.2. Ripercussioni della tesi del "vecchio regime". ...................................................................................... 185 VI CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI CAPITOLO I IL FIGLIO DI DUE MADRI (di Paolo Di Marzio) SOMMARIO: 1. La vicenda personale ed i giudizi di merito. 2. Il ricorso per cassazione proposto dal Procuratore generale della Corte d'Appello di Torino. 3. Il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno. 4. Gli istituti giuridici coinvolti: 4a) La fecondazione eterologa. 4b) La surrogazione di maternità. 4c) Il matrimonio omosessuale. 5. La decisione della Suprema Corte. 1. La vicenda personale ed i giudizi di merito. Le signore R.V.M., di nazionalità spagnola, e L.M.B., cittadina italiana, hanno contratto matrimonio in Spagna il 20.6.2009. Dal certificato di nascita del minore risulta che sono entrambe madri di T.B.V., bambino che porta i cognomi di ambedue ed è nato a Barcellona il 21.2.2011. La signora L.M.B. ha donato gli ovuli necessari per il concepimento del bambino mediante fecondazione eterologa, ed è pertanto madre genetica del piccolo, mentre la gravidanza è stata portata avanti fino alla nascita dalla signora R.V.M., madre partoriente; il minore è cittadino spagnolo. Le signore hanno domandato congiuntamente la trascrizione dell'atto di nascita del bambino in Italia nel corso dell'anno 2013. L'ufficiale dello stato civile di Torino, raccolto il parere contrario della locale Procura della Repubblica, ha opposto il rifiuto a trascrivere l'atto, ritenendo ostative ragioni di ordine pubblico. Le signore hanno proposto reclamo in data 30.7.2013. Agli inizi dell'anno 2014 R.V.M. e L.M.B. hanno divorziato consensualmente, sempre in Spagna, sulla base di un accordo sottoscritto il 21.10.2013, in cui si prevede l'affidamento congiunto del minore con condivisione tra le due donne delle responsabilità genitoriali. Avverso il diniego di trascrizione opposto dall'Ufficiale dello stato civile R.V.M. e L.M.B. hanno proposto reclamo ai sensi dell'art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, che è stato respinto dal Tribunale di Torino con decreto del 21.10.2013, ritenendo sussistere un ostacolo di ordine pubblico, perché nell'ordinamento italiano madre è (solo) colei che partorisce. Il Tribunale ha evidenziato che le domande originariamente proposte dalle due donne erano state: 1) l' accertamento del rapporto di filiazione intercorrente tra il minore e L.M.B., cittadina italiana; 2) l'accertamento dei requisiti di 1 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI legge per il riconoscimento nello Stato italiano dell'atto di nascita del bambino; 3) l'accertamento dei requisiti di legge per l'acquisto, da parte del minore, della cittadinanza italiana; 4) l'ordine, da impartirsi all'Ufficiale dello stato civile, di provvedere alla annotazione e trascrizione nei registri dell'anagrafe dell'atto di nascita del bambino. Annotava il Tribunale che nell'atto di nascita del minore allegato dalle parti in integrale, il minore risultava figlio della madre A, di cittadinanza spagnola, e della madre B, di cittadinanza italiana, mentre nel certificato di nascita «prodotto per estratto, la prima risulta essere il padre e la seconda la madre». Osservava, inoltre, che le domande volte ad ottenere l'accertamento del rapporto di filiazione ed il riconoscimento della cittadinanza italiana al minore (comunque cittadino spagnolo) non potevano essere esaminate nella procedura attivata ai sensi dell'art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, prevista per contestare, in sede di volontaria giurisdizione, il rifiuto opposto dall'Ufficiale dello stato civile dal compiere un atto di sua competenza. Unica domanda ammissibile nell'ambito del giudizio promosso era quindi quella volta all' «accertamento dei requisiti di legge per il riconoscimento, nello Stato Italiano, dell'atto di nascita del minore ... domanda che deve essere riformulata come volta ad ottenere la trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero». Il Tribunale rilevava però che al fine della trascrizione di atti di nascita formati all'estero, le disposizioni che regolano la materia sono gli artt. 17 (Trasmissioni di atti) e 19 (Trascrizioni) del d.P.R. n. 396 del 2000. La prima norma disciplina la trasmissione, curata dall'Autorità Consolare all'Ufficiale dello stato civile italiano, degli atti e provvedimenti relativi al cittadino italiano formati all'estero perché possa provvedersi alla trascrizione. La seconda disposizione regola invece gli atti dello stato civile redatti all'estero ed in relazione a cittadini stranieri, residenti però in Italia, che possono essere trascritti presso il Comune di residenza degli interessati nel nostro Paese. Nel caso in esame, però, il minore è un cittadino straniero e risiede all'estero, non vi sono perciò le condizioni perché gli atti che lo riguardano siano trascritti nei registri dell'anagrafe italiana. Il Tribunale ha perciò concluso che non possa procedersi alla trascrizione dell'atto di nascita, formato all'estero, del minore T.B.V., ai sensi dell'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, per contrarietà con l'ordine pubblico, inteso come insieme di principi desumibili dalla Carta Costituzionale o comunque fondanti l'intero assetto ordinamentale, fra i quali le norme in materia di filiazione che fanno 2 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI espresso riferimento ai concetti di padre, madre, marito e moglie. In particolare osta alla trascrizione, nel caso di specie, il principio immanente nel nostro ordinamento secondo il quale la madre è solo colei che partorisce il bambino (art. 269, comma 3, c.c.). Le reclamanti hanno quindi proposto impugnazione domandando alla Corte d'Appello di Torino, previa revoca del decreto impugnato, di accertare e dichiarare esistente il rapporto di filiazione tra il minore e la sig.ra L.M.B. ai sensi dell'art. 33 della L. n. 218 del 1995; di rilevare che sussistono i requisiti di legge per il riconoscimento nello Stato Italiano dell'atto di nascita del minore e del conseguente diritto di quest'ultimo ad acquisire la nazionalità italiana; di ordinare all'Ufficiale dello stato civile di Torino di provvedere alla trascrizione e\o annotazione nei Pubblici Registri dell'Anagrafe dell'atto di nascita del minore con ogni consequenziale provvedimento di legge ritenuto opportuno per la tutela di T.B.V. Ha rilevato la Corte di merito che il minore è nato in Spagna e secondo il diritto spagnolo l'italiana L.M.B. è madre legittima, in applicazione del principio del ius sanguinis, tanto quanto la spagnola R.V.M. e le due donne sono indicate nel certificato di nascita - Certification Literal - del registro dello stato civile del Comune di Barcellona come "madre A" e "madre B". Alla trascrizione del certificato di nascita del minore può pertanto procedersi ai sensi dell'art. 17 del d.P.R. n. 396 del 2000. Secondo la Corte d'Appello, dal disposto dell'art. 33 della l. n. 218 del 1995 discende, con evidenza, che la norma di diritto internazionale privato attribuisce ai provvedimenti accertativi (certificato di nascita) dello Stato estero ogni determinazione in ordine al rapporto di filiazione, con conseguente inibizione al giudice italiano di sovrapporre propri accertamenti sulla validità di un titolo che è valido per la legge nazionale di rinvio (cfr. Cass. Sez. 1, n. 00367/2013, Cass. Sez. 1, n. 14545/2003). Occorreva tuttavia anche valutare se la trascrizione dell'atto di nascita del minore dovesse ritenersi non consentita per contrasto con l'ordine pubblico italiano. I giudici dell'appello hanno ritenuto di aderire, al proposito, all'orientamento proposto dalla Suprema Corte (Cass. Sez. 3, n. 19405/2003; Cass. Sez. L, n. 10070/2013, che richiama Cass. Sez. 1, n. 17349/2012 e Cass. Sez. L, n. 04040/2006) secondo cui il concetto di ordine pubblico ai fini internazional-privatistici si identifica con quello indicato con l'espressione "ordine pubblico internazionale", da intendersi come «complesso di principi 3 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati su esigenze di garanzia comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, sulla base di valori sia interni che esterni all'ordinamento purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale». Questa premessa è risultata necessaria per affermare che, nonostante il coinvolgimento di numerose situazioni problematiche nella vicenda in esame, operando anche riferimento alla necessità di valorizzare il superiore interesse del minore, il possibile contrasto con l'ordine pubblico interno doveva essere escluso. Questo doveva affermarsi sebbene in Italia il matrimonio omosessuale non riceva un riconoscimento legale, non si preveda la possibilità che un bambino abbia una madre (ulteriore e, comunque,) diversa dalla partoriente, la inseminazione eterologa sia consentita solo a coppie infertili di sesso diverso e la maternità surrogata sia vietata, prevedendosi l'irrogazione di sanzione penale per i trasgressori. Secondo i Giudici torinesi occorreva valorizzare adeguatamente il preminente interesse del minore che, ove il suo atto di nascita non fosse stato trascritto, non avrebbe avuto in Italia un esercente la responsabilità genitoriale e nessuno avrebbe potuto esercitarne la rappresentanza con riferimento a problematiche sanitarie, scolastiche e ricreative; oltre all'incertezza giuridica in cui si sarebbe trovato nella società italiana, il minore si sarebbe anche visto privato dei rapporti successori nei confronti della famiglia della madre genetica ma non partoriente. In conseguenza di queste valutazioni la Corte d'Appello di Torino, con decreto depositato il 4.12.2014, ha accolto il reclamo ed ha ordinato all'Ufficiale dello stato civile di Torino di trascrivere l'atto di nascita del minore, figlio di due madri. 2. Il ricorso per Cassazione proposto dal Procuratore generale della Corte d'Appello di Torino. Avverso il decreto emesso dalla Corte d'Appello ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale di Torino. Il ricorrente ha osservato che il «tema centrale della questione» consiste nel verificare se la trascrizione dell'atto di nascita del figlio di due madri comporti la violazione dell'ordine pubblico italiano, ostandovi in tal caso il limite previsto dagli artt. n. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, e n. 65 della l. n. 218 del 1995. La Corte d'Appello di Torino, ha ricordato l'impugnante, aveva richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte laddove 4 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI afferma che in materia di ordine pubblico, ai fini internazional- privatistici, il concetto rilevante è quello di ordine pubblico internazionale, da intendersi come il complesso di principi fondamentali caratterizzanti non solo l'ordinamento interno ma anche esterni, «purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale», fermo restando che ogni giudizio il quale abbia conseguenze su di un minore deve essere orientato al rispetto del suo superiore interesse. Ha osservato allora il ricorrente che la Corte di merito non aveva però ritenuto di operare riferimento anche alla recente pronuncia della prima sezione civile della Suprema Corte del 26 settembre 2014, n. 24001. In questa decisione la Suprema Corte ha ribadito che l'ordine pubblico non si identifica con qualsiasi norma imperativa, consistendo esso nei principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico, mentre è invece inesatto affermare che l'ordine pubblico si identifichi con «i valori condivisi della comunità internazionale». L'ordine pubblico internazionale è il limite che l'ordinamento giuridico nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri a protezione della sua coerenza interna, e «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale», come sostenuto dai ricorrenti, «ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili». In quella decisione, pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che il divieto di pratiche di surrogazione di maternità, protetto da sanzione penale, attiene all'ordine pubblico. Contro questa valutazione non può invocarsi la migliore tutela del superiore interesse del minore, perché l'interesse del minore è stato valutato a monte dal legislatore, che ha deciso di riconoscere la maternità a chi ha partorito il bambino, consentendo peraltro di attivare l'istituto dell'adozione per assicurare al minore anche un secondo genitore che non abbia con lui legami biologici. Il Procuratore ricorrente ha quindi sostenuto che il principio secondo cui «la filiazione sia necessariamente discendenza da persone di sesso diverso» appare come «un principio fondamentale, e addirittura immanente perché discendente dal diritto naturale». Un simile principio non può essere messo in discussione, conseguendone il contrasto con l'ordine pubblico «delle discipline che consentono soluzioni antitetiche, quale quella spagnola che consente la formazione di un atto di nascita nel quale al minore sono attribuite due madri». Il Procuratore Generale di Torino domandava pertanto l'annullamento del decreto di accoglimento della domanda di 5 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI trascrizione dell'atto di nascita del bambino indicato come figlio di due madri, pronunciato dalla Corte d'Appello di Torino, e la conferma del decreto di segno opposto pronunciato invece dal Tribunale di Torino in data 21.10.2013. 3. Il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno. Avverso il decreto della Corte d'Appello di Torino ha proposto impugnazione in Cassazione anche il Ministero dell'Interno. Nel ricorso redatto quale difensore del Ministero, l'Avvocatura dello Stato ha innanzitutto contestato, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, nonché degli artt. 5 e 9 della legge n. 40 del 2004. Il ricorrente ha ricordato, a tal proposito, che l'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 dispone: «Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico», ed ha sostenuto che la nozione di ordine pubblico (internazionale) posta a fondamento della propria decisione dalla Corte d'Appello di Torino nel decreto impugnato, la quale ha indotto i giudici piemontesi a disporre la trascrizione dell'atto di nascita del minore, appare null'affatto condivisibile. La Corte di merito ha affermato, infatti, che l'ordine pubblico internazionale italiano sarebbe costituito dall'insieme di principi e di valori che rappresentano un «patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale», ma questa impostazione non può condividersi. «L'accoglimento di un'interpretazione così estensiva della nozione di ordine pubblico ... finirebbe per vuotare di ogni significato la stessa norma con la quale quel limite è stato introdotto dal legislatore italiano, rendendola assolutamente inutile e superflua ... invero, lo scopo precipuo della norma con la quale il legislatore impedisce la trascrizione di atti esteri contrari all'ordine pubblico è quello di salvaguardare quell'insieme di principi e valori ritenuti fondamentali nel nostro ordinamento al punto di essere considerati parte integrante e imprescindibile del sostrato giuridico nazionale». Il ricorrente ha segnalato che pure la Suprema Corte ha talora proposto, in materia di diritto internazionale privato, definizioni dell'ordine pubblico assai estensive e non condivisibili. Anche il Ministero ha perciò inteso richiamarsi, adesivamente, alla nozione di ordine pubblico dettata dalla Cassazione con sentenza n. 24001 del 2014, analizzando proprio un caso di maternità surrogata, ed ha ricordato che la Corte di legittimità ha affermato con chiarezza che «l'ordine pubblico internazionale ... è il limite che l'ordinamento nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna, dunque non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende 6 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili». Pertanto, secondo il ricorrente, «l'esistenza, nel nostro ordinamento, di principi 'fondamentali' e 'irrinunciabili'», importa che gli stessi «appaiano 'superabili' soltanto» per effetto di «un diverso approccio legislativo interno e non scardinabili dall'esistenza, in altri Paesi, di discipline legislative rappresentative di principi diversi e contrari ... tra questi, un principio fondamentale è senza dubbio quello inerente la nozione di filiazione che il nostro ordinamento intende esclusivamente quale discendenza da persone di sesso diverso». Tanto si desume pure dalla legislazione in materia di fecondazione assistita, cui le resistenti hanno fatto ricorso nel caso in esame, la quale prevede, all'art. 5 della legge n. 40 del 2004, che «possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». In relazione a questo profilo nulla è mutato a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha ritenuto in certi limiti ammissibile la pratica della fecondazione eterologa, da valutarsi pertanto impropriamente citata dai giudici della Corte di merito, ha osservato il ricorrente. Del resto l'art. 12, comma 2, della stessa legge n. 40 del 2004, continua a prevedere l'irrogazione di sanzioni a carico di «chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell'art. 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi». Ancora decisivo, al fine di escludere la possibilità di riconoscere l'esistenza di un rapporto di filiazione tra L.M.B. ("madre italiana"), che ha donato gli ovuli, ed il minore T.V.B., è poi il disposto di cui all'art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004, laddove prevede che « in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi ... nel caso di specie, infatti, avendo» L.M.B. «donato gli ovuli ai fini del concepimento ... l'applicazione del citato articolo 9 precluderebbe la possibilità di riconoscere alla stessa alcun tipo di relazione giuridica parentale con il minore. In forza, dunque, della legislazione attualmente vigente nel nostro ordinamento e dell'intangibile principio ad essa sotteso concernente la nozione di filiazione quale discendenza da persone di sesso diverso, non può negarsi la palese 7 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI contrarietà all'ordine pubblico della trascrizione di un atto di nascita, quale quello oggetto del presente giudizio, che riconosca ad un soggetto una duplice maternità», ha concluso l'Avvocatura sul punto. In definitiva, secondo il Ministero dell'interno, il provvedimento straniero che attribuisca ad un soggetto una duplice maternità si pone in contrasto a tal punto radicale con diversi principi del nostro ordine pubblico da non potersi riconoscere efficace nel diritto interno. 4. Gli istituti giuridici coinvolti: 4a) La fecondazione eterologa. Sembra opportuno ricordare che, pacificamente, il bambino di cui le ricorrenti hanno domandato la trascrizione dell'atto di nascita è nato a seguito di fecondazione eterologa, praticata nell'ambito di una coppia omosessuale. Si attua una tecnica di fecondazione eterologa quando il seme maschile o l'ovulo femminile utilizzati per il concepimento non appartengono ad uno dei componenti della coppia che intende avere un bambino, bensì ad un donatore esterno alla stessa. Prima del divieto introdotto dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), alla fecondazione eterologa si ricorreva senza ostacoli normativi anche in Italia. Nel 1997 la pratica era attuata in ben 75 centri privati, che operavano nel rispetto delle direttive impartite con circolari ed ordinanze dal Ministero della sanità. In questo clima di sperimentazione del libero ricorso alle tecniche di fecondazione è poi intervenuta la ricordata legge n. 40 del 2004, che ha imposto il divieto assoluto di pratica della fecondazione eterologa. Ha avuto così impulso in Italia il fenomeno del c.d. "turismo procreativo". In sostanza, anche le coppie sterili o infertili di connazionali che avrebbero avuto diritto ad accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ma non erano in grado di conseguire un concepimento omologo, hanno cominciato a recarsi all'estero per sottoporsi alla pratica della fecondazione eterologa. Seguivano alcune pronunce contrastanti emesse dalle Corti europee. In particolare, la Sezione I della CEDU aveva affermato nel 2010 - caso S.H. and Others c. Austria, 1° aprile 2010 (C. 57813/00) - l'irragionevolezza del divieto assoluto di accesso alla fecondazione eterologa in Austria, un Paese che, come l'Italia, comunque consentiva la pratica della procreazione medicalmente assistita. La Grande Camera della stessa Corte, cui era stato deferito il medesimo giudizio su cui aveva in precedenza pronunciato la 8 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI Prima Sezione, ha deciso il 3 novembre 2011 in senso (sostanzialmente) opposto, affermando che il legislatore austriaco dell'epoca non aveva ecceduto il limite di discrezionalità che doveva essergli riconosciuto nel disciplinare la materia evidenziando, tra l'altro, il rischio che la donazione di ovuli possa condurre allo sfruttamento ed alla umiliazione delle donne, con particolare riferimento a quelle provenienti da un contesto economicamente svantaggiato. Quindi la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162 del 2014, ha sancito l'incostituzionalità del divieto assoluto di ricorso alla fecondazione eterologa nel nostro ordinamento. La Consulta ha rilevato che il divieto senza eccezioni della fecondazione eterologa si poneva in contrasto con il diritto all'autodeterminazione delle persone e delle coppie ed il diritto alla salute, anche psichica, degli aspiranti genitori. La Corte costituzionale ha quindi osservato che, indubbiamente, i diritti della coppia che intendeva accedere alla pratica della fecondazione assistita dovevano porsi in bilanciamento con i diritti del possibile frutto del concepimento, il figlio, ed ha preso in considerazione, al proposito, i diritti all'identità genetica ed a conoscere il genitore biologico, nonché il rischio psicologico di vedersi attribuire una genitorialità non naturale. Ha osservato allora la Consulta che rischi analoghi si pongono anche in riferimento all'adozione, che non per questo è fatta oggetto di un divieto legislativo, dovendo anche tenersi presente che la pratica della fecondazione eterologa è finalizzata a favorire la vita, pertanto un valore positivo. Il divieto di praticare la fecondazione eterologa è perciò venuto meno nel nostro Paese, per effetto della sentenza n. 162 del 2015 della Corte Costituzionale, ma solo in relazione alle «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La pratica della fecondazione eterologa nell' ambito di coppie di cui non sia accertata l'infertilità, ed anche di coppie di persone dello stesso sesso, in Italia continua pertanto ad essere vietata dalla legge senza eccezioni, anche a prescindere dal possibile collegamento con la pratica, anch'essa vietata, della surrogazione di maternità. 4b) La surrogazione di maternità. In materia di trascrivibilità del certificato di nascita di un minore formato all'estero, quando ciò possa incontrare limiti di ordine pubblico, la prima sezione della Suprema Corte si è pronunciata di recente, in un caso che ha avuto anche ampia eco mediatica. 9 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI Due cittadini italiani, coniugati con problemi di infertilità, avevano ottenuto dalla locale Autorità dell'anagrafe un certificato di nascita in base al quale risultavano essere i genitori di un bambino nato in Ucraina. Tornati in Italia erano stati assoggettati a procedimento penale per alterazione di stato, sospettandosi la non veridicità della loro dichiarazione di nascita relativa al bambino. Il P.M. della Procura della Repubblica presso il competente Tribunale per i minorenni aveva promosso e conseguito anche la pronuncia dello stato di adottabilità del minore. Nel corso del giudizio i coniugi avevano dichiarato che il bambino era stato generato facendo ricorso alla maternità surrogata, in conformità con la legge ucraina che consente questa pratica. Il Tribunale accertava mediante consulenza tecnica che neppure il marito della coppia italiana era geneticamente padre del minore. Il giudice di prime cure osservava che la pratica della maternità surrogata, così come la fecondazione eterologa, in Italia sono vietate dall'art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40. Inoltre, anche la legge ucraina era stata violata perché in quel Paese è consentita la maternità surrogata, ma a condizione che almeno il 50% del patrimonio genetico del bambino provenga dalla coppia committente. Il Tribunale ne desumeva che il bambino avrebbe potuto essere soltanto adottato dai coniugi italiani e che la denuncia di filiazione da loro effettuata era perciò avvenuta in frode alla disciplina dell'adozione. Anche la Corte d'Appello, adita in sede di impugnazione, affermava che sebbene il certificato di nascita ucraino del minore risultasse formalmente regolare, non poteva ugualmente essere trascritto in Italia, ai sensi dell'art. 65 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) essendo contrario all'ordine pubblico, «atteso che la l. n. 40 del 2004 vieta qualsiasi forma di surrogazione di maternità e la stessa fecondazione eterologa». Ne conseguiva inevitabilmente l'accertamento della condizione di abbandono - e dunque lo stato di adottabilità - del bambino, ai sensi dell'art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184, dato che il minore, nato in Ucraina, non era assistito in Italia né dai genitori né da altri parenti. I coniugi proponevano allora ricorso anche per Cassazione, che si pronunciava con la ricordata sentenza n. 24001 del 2014, confermando la decisione adottata dai giudici di merito. La prima sezione della Suprema Corte coglieva l'occasione per chiarire che la nozione di ordine pubblico indicata dai ricorrenti, secondo cui esso 10 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI consiste nei «valori condivisi della comunità internazionale», è (quanto meno) incompleta. L'ordine pubblico, invece, se è vero che certamente non si identifica con le «semplici norme imperative, bensì con i principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico», è anche vero che, nell'accezione di ordine pubblico internazionale, rappresenta il «limite che l'ordinamento giuridico nazionale pone alla rilevanza di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», pertanto «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili». La Suprema Corte, operata la riassunta premessa, ha ricordato che «l'ordinamento italiano - per il quale madre è colei che partorisce (art. 269, comma 3, c.c.) – contiene all'art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004, un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della surrogazione di maternità ... il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale ... vengono qui in rilievo la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in contrasto». Merita peraltro di essere anche ricordato che, come segnalato dalla dottrina, la coppia di coniugi in questione «aveva per tre volte avanzato domanda di adozione. Tali richieste erano state respinte per 'grosse difficoltà nella elaborazione di una sana genitorialità adottiva'» [DISTEFANO, 2015, 164]. La vicenda appena riassunta presenta comunque delle peculiarità che la distinguono dalle altre analoghe sinora sottoposte all'esame delle Corti. In questo caso, infatti, il Giudice italiano ha ritenuto di poter ritenere accertato che il certificato di nascita del bambino, di cui era stata domandata la trascrizione in Italia, risulta invalido anche per la legge del Paese in cui è stato formato. Inoltre, in questa ipotesi di nascita a seguito di maternità surrogata, neppure l'uomo della coppia committente aveva fornito alcun contributo genetico utilizzato per il concepimento del bambino. Il Giudice di legittimità ha pure sinteticamente rilevato che il divieto di pratiche di surrogazione di maternità non è suscettibile di entrare in conflitto con la tutela del superiore interesse del minore, perché «il legislatore italiano, invero, ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce». 11 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI 4c) Il matrimonio omosessuale. Una tematica che presenta motivi di interferenza con la questione della possibilità di trascrivere l'atto di nascita formato all'estero del bambino che è indicato quale figlio di due madri, sottoposta all'esame del Giudice di legittimità, è quella che si ricollega alla qualificazione che deve attribuirsi nel diritto italiano al matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso. Il problema della rilevanza nell'ordinamento interno di un simile matrimonio sembra essersi posto in sede giudiziaria per la prima volta nel 2005, a seguito del rifiuto opposto dall'Ufficiale dello stato civile del Comune di Latina, che era stato richiesto di procedere alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero da due omosessuali. Questi ultimi contestarono la scelta dell'Autorità comunale innanzi al Tribunale di Latina, che ritenne però corretta la valutazione operata dall'Ufficiale dello stato civile, perché un simile matrimonio si pone in contrasto con l'ordine pubblico italiano. I richiedenti la trascrizione non mancarono di ricorrere in appello, e la Corte di merito di Roma affermò che il matrimonio omosessuale non può essere trascritto nei registri dello stato civile italiano perché è inesistente per il nostro ordinamento, in quanto difetta di un requisito essenziale dell'istituto, che consiste nella diversità di sesso tra i coniugi. Sulla ennesima impugnativa proposta dagli interessati la Suprema Corte, con la n. 04184/2012, ha affermato che il matrimonio omosessuale contratto all'estero non è inesistente per il diritto interno ma, non essendo normativamente previsto che esso possa sortire alcun effetto, lo stesso deve considerarsi inefficace. E' parso opportuno ricordare questa vicenda perché sembra esemplarmente rappresentativa delle diverse opinioni che sono state espresse in materia di riconoscimento di un matrimonio omosessuale celebrato all'estero. Nel caso delle due madri deciso dalla Suprema Corte in esame, merita peraltro di essere evidenziato che la domanda (residua) verteva sulla possibilità di trascrivere l'atto di nascita di un bambino, e non l'atto di matrimonio delle due donne che sono indicate entrambe quali sue madri nel documento. Dei limiti entro cui può trovare riconoscimento il matrimonio omosessuale si è occupata la Corte costituzionale già con sentenza n. 138 del 2010. La Consulta ha osservato che per formazione sociale «deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da 12 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI annoverare anche l'unione omosessuale, quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento (che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia) possa essere realizzata soltanto attraverso un'equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». La Corte costituzionale ha operato, pertanto, l'espresso riconoscimento del rilievo costituzionale, ex art. 2 Cost., delle unioni tra persone dello stesso sesso, intese quali formazioni sociali, ed ha ritenuto di dover rimettere al legislatore «nell'esercizio della sua piena discrezionalità, d'individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali», unitamente alla possibilità della Corte stessa d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (com'è avvenuto per le convivenze more uxorio). A sua volta, la Suprema Corte, con la ricordata sentenza n. 4184 del 2012, investita del problema della possibilità di trascrivere nei registri d'anagrafe italiani un matrimonio omosessuale contratto all'estero, ha osservato che «il matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all'estero non è inesistente per l'ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici», in assenza di una specifica previsione legislativa. La Corte ha pure specificato che «nella specie, l'intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all'ordine pubblico, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 ... ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall'ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli, della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell'ordinamento giuridico italiano. Ciò che, conseguentemente, esime il Collegio dall'affrontare la diversa e delicata questione dell'eventuale intrascrivibilità di questo genere di atti per la loro contrarietà con l'ordine pubblico». L'evoluzione della giurisprudenza del Giudice di legittimità in materia ha poi condotto, di recente, ad affermare espressamente che la trascrizione del matrimonio omosessuale non incontra nell'ordinamento giuridico italiano limiti di ordine pubblico, Cass. Sez. I, n. 02400/2012. In materia si è quindi pronunciato, con sentenza n. 4899 del 26.10.2015, anche il Consiglio di Stato, ed ha affermato che «anche escludendo ... l'applicabilità alla fattispecie considerata del fattore 13 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI ostativo previsto all'art. 18» del d.P.R. n. 396 del 2000, «(non potendosi qualificare come contrario all'ordine pubblico il matrimonio tra persone dello stesso sesso), la trascrizione dell'atto in questione deve intendersi preclusa proprio dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell'atto di matrimonio trascrivibile», la diversità di sesso tra i coniugi. 5. La decisione adottata dalla Suprema Corte. La prima sezione della Cassazione ha deciso il giudizio con Sez. 1, n. 19599/2016 (Pres. Di Palma, Est. Lamorgese). Si tratta di una decisione meditata, lunga, articolata, che detta ben sette principi di diritto e non è agevole sintetizzare. Possono forse riassumersi le conclusioni scrivendo che gli ostacoli alla trascrizione dell'atto di nascita straniero del bambino figlio di due madri, poste dalla legislazione nazionale ed invocate dai ricorrenti, non deve ritenersi integrino principi dell'ordine pubblico italiano e non si risolvono, perciò, in ragioni sufficienti ad escludere la trascrizione del suo certificato di nascita, occorrendo assicurare la miglior tutela al preminente interesse del minore. In conseguenza la Suprema Corte ha confermato il decreto della Corte di Appello di Torino che aveva ordinato la trascrizione del certificato di nascita del bambino nei registri dello stato civile italiano. Non essendo possibile, nei limiti di questo contributo, esaminare tutti i principi di diritto espressi dalla Corte di legittimità, sembra opportuno concentrare l'attenzione su almeno uno dei profili innovativi della decisione e quindi, necessariamente, sulla nozione di ordine pubblico adottata dalla Cassazione, perché suscettibile di trovare applicazione in un numero di casi molto elevato. Il Giudice di legittimità ricorda innanzitutto, in materia di definizione di che cosa debba intendersi per maternità surrogata (punto 10.2), che «la legge n. 40 del 2004 non consente alle coppie dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (art. 5) e punisce chi le "applica" con una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, comma 2)». Inoltre, «di "surrogazione di maternità" e di "commercializzazione di gameti o di embrioni" parla l'art. 12, comma 6, che le vieta con una norma che – come sottolineato dalla Corte cost. n. 162 del 2004 (al p. 9) – è attualmente in vigore e le punisce con una sanzione penale detentiva nei confronti di "chiunque, in qualsiasi forma, [le] realizza, organizza o pubblicizza"». 14 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI Tanto premesso, la Suprema Corte scrive che «per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende la pratica con la quale una donna assume l'obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un'altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio. Nel caso in esame, invece, una donna», la madre spagnola, «ha partorito un bambino (anche) per sé, sulla base di un progetto di vita della coppia costituita con la sua partner femminile ... quest'ultima non si è limitata a dare il consenso alla inseminazione da parte di un donatore di gamete maschile (evidentemente esterno alla coppia), ma ha donato l'ovulo che è servito per la fecondazione ed ha consentito la nascita» del bambino, partorito dalla madre spagnola e «frutto dell'unione di due persone coniugate in Spagna. E' questa una fattispecie diversa e non assimilabile ad una surrogazione di maternità». Sulla base di queste premesse la Corte di legittimità ha quindi dettato il principio di diritto secondo cui, in «tema di PMA, la fattispecie nella quale una donna doni l'ovulo alla propria partner (con la quale, nella specie, è coniugata in Spagna) la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un'ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma un'ipotesi di genitorialità realizzata all'interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per averlo l'una partorito e per avere l'altra trasmesso il patrimonio genetico)». A quanto sembra la decisione della Cassazione intende la maternità surrogata come un'ipotesi limitata alla gestazione di un nascituro con l'impegno da parte della gestante di consegnare poi il bambino ai committenti a seguito della nascita. Questa situazione non ricorrerebbe nel caso di specie perché la madre gestante ha condotto innanzi la gravidanza, cui non aveva assicurato un contributo genetico, intendendo consentire la nascita di un bambino (anche) proprio. In che cosa consista la pratica della maternità surrogata non lo dice la legge n. 40 del 2004 e, sembra, la nozione non è definita neanche in altri testi legislativi. Neppure la scienza sembra avere dettato sinora una definizione certa di che cosa debba intendersi quando si parla di maternità surrogata. La Cassazione ha ritenuto 15 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI che, al fine di decidere la controversia sottopostale, occorresse comunque spiegare la pratica in che cosa consista, ma sembra opportuno osservare che la definizione proposta non è la sola ipotizzabile. In Spagna, ad esempio, si preferisce parlare della pratica indicandola come "gestazione per sostituzione". Intesa la maternità surrogata come una gestazione per sostituzione - e, si badi, è solo uno delle ipotesi possibili, possono proporsene di ulteriori - rimane da dubitare che nel caso esaminato dalla Suprema Corte l'agire delle ricorrenti non abbia integrato la fattispecie. Di fatto una madre si è sostituita all'altra, che aveva donato il patrimonio genetico, nel portare innanzi la gravidanza. Se si pone l'accento sull'alterazione del ciclo naturale della nascita, qualsiasi gestazione per sostituzione potrebbe forse anch'essa qualificarsi come una surrogazione di maternità. Particolare attenzione merita poi il concetto di ordine pubblico che la Cassazione ha ritenuto di indicare. La Suprema Corte ha dettato il principio di diritto (punto 7) secondo cui «il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto di stato civile straniero (nella specie, dell'atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della l. n. 218 del 1995 e 18 d.P.R. n. 396 del 2000, deve verificare non già se l'atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo». La questione di che cosa debba intendersi per ordine pubblico non è semplice. E' complesso anche trovare un accordo sul se esista un solo ordine pubblico o se da questo debba distinguersi un ordine pubblico internazionale e, soprattutto, indicare in che cosa le due nozioni si differenziano. Sicuramente condivisibile appare il rilievo che non ogni norma imperativa dell'ordinamento positivo integra un principio di ordine pubblico. Del resto, se così non fosse, non staremmo qui a parlare di "principi" di ordine pubblico, una nozione che, qualunque significato si intenda attribuirle, evidentemente si differenzia da quella di norme di legge. La dottrina tradizionale afferma, e l'impostazione non pare meritevole di censura, che l'ordine pubblico si compone dei principi fondanti dell'ordinamento, desumibili dalla Costituzione e dalle 16 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI leggi. Questo concetto permette di affermare che l'ordine pubblico deve desumersi dall'intero sistema dell'ordinamento positivo, considerato nel suo complesso, dovendo evincersi dallo stesso quali sono i principi fondamentali che lo reggono. E' indubbiamente vero, poi, che il disposto di cui agli articoli 10 ed 11 della Costituzione impone di tener conto degli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale, e sembra possa condividersi pure l'opinione che dal diritto internazionale pattizio e consuetudinario possano desumersi principi che, in quanto recepiti nel nostro ordinamento, concorrono ad integrarne l'ordine pubblico. Ma è proprio questo il punto. Anche il diritto internazionale recepito costituisce un sistema di diritto vigente, ed è dall'intero sistema che sembra debbano desumersi i suoi principi. La Cassazione scrive che l'ordine pubblico italiano deve ritenersi integrato, in materia di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, dai principi desumibili dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e ben venga. Nell'ampia materia in considerazione, peraltro, non sembrano da trascurare, ad esempio, i principi desumibili dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata in sede ONU nel 1948. Inoltre, pressoché in ogni settore del diritto esistono anche norme convenzionali che, essendo state recepite, sono ormai parte dell'ordinamento interno. In materia di tutela dei minori, ad esempio, può farsi riferimento alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1959 ed alla Convenzione europea di Strasburgo sull'esercizio dei diritti dei minori del 1996, e non solo. Sembra allora che pure queste norme convenzionali possano ritenersi parte del sistema da cui occorre desumere i principi vigenti dell'ordine pubblico italiano. Resta poi fermo che occorre anche domandarsi, nell'ipotesi di contrasto: tra un principio, qualificabile come fondamentale e desumibile da norme internazionali, con un diverso principio, anch'esso qualificabile come fondamentale, che sia però previsto dall'ordinamento nazionale, a quale dei due debba assicurarsi prevalenza. Ove si ritenesse che sia sempre il principio desunto dal diritto internazionale a dover prevalere, l'intero ordinamento giuridico nazionale, compresi i suoi principi fondamentali, finirebbe per dover essere considerato un sistema giuridico meramente dispositivo. Ogni principio pur fondamentale del nostro ordinamento giuridico, infatti, potrebbe considerarsi in vigore fin 17 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI quando un principio anch'esso fondamentale, ma posto da fonte internazionale recepita, non si ponga in contrasto con esso. Sembra meritare una considerazione, inoltre, quello che sembra poter essere un problema, ma non ha ricevuto uno specifico esame da parte della Cassazione nella decisione in commento. Tradizionalmente si afferma che l'ordine pubblico è posto a presidio dei valori fondamentali dell'ordinamento, onde evitare che atti stranieri, anche giudiziari, possano essere riconosciuti efficaci nel nostro Paese quando si pongano in contrasto con i suoi principi fondamentali. Nel caso in esame, del bambino con due madri, è la stessa Suprema Corte a ribadire più volte, nel corso della decisione in esame, che le pratiche sottese alla nascita del bambino sono vietate nel nostro ordinamento. Tuttavia le due madri si sono giovate dell'elasticità delle norma del diritto internazionale privato, che trova la sua ragion d'essere nel facilitare il riconoscimento degli atti e delle decisioni straniere, per conseguire l'efficacia in Italia di un provvedimento che in base alle leggi nazionali non avrebbe potuto essere legittimamente adottato. Lo schema potrebbe essere riutilizzato più volte, anche in settori molto diversi dell'ordinamento, con conseguenze imprevedibili. Occorrerà pertanto individuare con attenzione quali siano gli atti ed i provvedimenti stranieri che tuttora non possono essere recepiti nel nostro Paese perché in contrasto con l'ordine pubblico italiano. Nella specifica materia della maternità plurima, poi, suscita perplessità il fatto che, essendo il riconoscimento della stessa inibito dalla legislazione nazionale, si rischia l'insorgere della discriminazione censuaria tra le aspiranti, perché non tutte le donne unite in una coppia possono recarsi all'estero per porre in essere le pratiche necessarie per la nascita di un loro bambino. Inoltre, qualora si ritenesse di seguire in uno Stato estero che lo consenta la medesima pratica, donazione dell'ovulo parte di una donna e gestazione a cura dell'altra, nell'ambito di un rapporto trilaterale di cui sia parte anche un uomo conosciuto, padre genetico e semmai compagno di vita (coniuge ?) di una delle due, quanti saranno i genitori? Chi eserciterà la responsabilità genitoriale? Sulle decisioni di maggiore importanza nell'interesse del minore occorrerà raggiungere un accordo a tre, decidendo a maggioranza? Tanti interrogativi. In questo settore, peraltro, la questione di definire con la massima precisione quali siano i limiti al riconoscimento degli atti stranieri posti dall'ordine pubblico nazionale sembra ancora meritevole di approfondimento, ed il problema si presenta come 18 CAP. I – IL FIGLIO DI DUE MADRI assai attuale. La giurisprudenza di merito ha già esaminato il caso di due donne italiane, coniugate in Spagna, che hanno domandato la trascrizione del certificato di nascita di un bambino nato a Barcellona, a seguito di fecondazione eterologa. Nel documento spagnolo risultano essere entrambe madri del minore. La peculiarità del caso, rispetto a quello esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, consiste nel fatto che una delle due donne indicate come madri nel certificato di nascita non ha fornito l'ovulo utilizzato per la fecondazione e neppure ha portato innanzi la gravidanza. Si tratta, in sostanza, di una donna che può forse definirsi come una co-madre sociale del bambino la quale, in base al diritto italiano, potrebbe al più accedere alla stepchild adoption (cfr. Cass. Sez. 1, n. 12962/2012, Pres. Di Palma, Est. Acierno), ma non potrebbe essere riconosciuta come madre del bambino. Il Tribunale di Napoli, con decreto depositato il 6.12.2016 (Pres. Casoria, Est. Sdino), ha ordinato all'Ufficiale dello stato civile di trascrivere anche questo atto di nascita straniero. Bibliografia M. BASILE, I donatori di gameti, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 223. G. CASABURI, "Requiem" (gioiosa) per il divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa: l'agonia della l. 40/04, in Foro it., 9/2014, I, p. 2343. C. CASTRONOVO, Fecondazione eterologa: il passo (falso) della Corte Costituzionale, in Europa e diritto privato, 3/2014, p. 117 ss. M. DISTEFANO, Maternità surrogata ed interesse superiore del minore: una lettura internazionalistica su un difficile puzzle da ricomporre, in riv. telematica Genius, 1/2015 p. 164. G. FERRANDO, La riproduzione assistita nuovamente al vaglio della Corte costituzionale. L'illegittimità del divieto di fecondazione "eterologa", in Corr. giur., 8-9/2014, p. 1062. M. GATTUSO, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Fam. dir., 7/2010, p. 653. P. MOROZZO DELLA ROCCA, Dove finirà l'embrione se il piano si inclina ancora ?, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 149. 19 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO CAPITOLO II I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO (di Luigi Di Paola e Ileana Fedele) SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente da riassetto aziendale: prevale l'orientamento "liberale". – 2.1. Le ragioni dell'orientamento "liberale" in una recentissima sentenza. – 2.2. Il problema del sindacato del giudice in ordine alla "non pretestuosità" del riassetto. – 3. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per effetto di riduzione del personale omogeneo e fungibile: il criterio del rendimento del lavoratore. – 4. L'onere di allegazione e prova dell'obbligo di repechage. – 4.1. La tesi imperniata sull'estensione dell'obbligo di repechage alle mansioni inferiori. – 4.2. Implicazioni della riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo. – 5. Considerazioni conclusive. 1. Introduzione. Nell'ultimo ventennio, sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo si sono registrate oscillazioni giurisprudenziali concernenti due fondamentali aspetti: a) quello della necessaria presenza di determinate ragioni (o finalità) a sostegno dell'operazione di riassetto organizzativo, nonché dei limiti del sindacato giudiziale sulla predetta operazione - culminante nella soppressione del posto del lavoratore licenziato - effettuata dal datore di lavoro; b) quello degli oneri di allegazione e prova del c.d. obbligo di repechage. Quanto al primo aspetto, si è per lungo tempo escluso che il datore potesse conseguire, mediante l'operazione in questione, un mero profitto, atteso il valore riconosciuto alla stabilità del posto, quale obiettivo - scaturente, per taluno, da principi costituzionali - meritevole di essere salvaguardato, sia pur entro certi limiti, ossia fintanto che l'impresa si trovi ad operare in un quadro di accettabile efficienza, senza patire, pertanto, situazioni (sindacabili dal giudice) di apprezzabile difficoltà economica persistente (costituente la necessaria ragione remota dell'attività di riorganizzazione). Quanto al secondo, il diffuso convincimento della eccesiva gravosità della prova dell'impossibilità, per il datore, di collocare il lavoratore in altri posti non occupati della compagine aziendale, con mansioni compatibili (equivalenti o, secondo un indirizzo riaffermato recentissimamente - e v., sul punto, il successivo § 4.1. -, anche inferiori) con quelle di originaria assegnazione, ha dato fondamento alla tesi - reputata espressione di un alleggerimento dell'onere - secondo cui l'ambito della prova è circoscritto alle 20 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO indicazioni delle postazioni ipoteticamente disponibili prospettate, in esecuzione di un dovere di collaborazione, dal lavoratore. Nell'anno in corso la S.C. ha avviato un processo di rivisitazione dei descritti orientamenti, pervenendo, in relazione al primo aspetto, ad una valorizzazione delle esigenze di competitività dell'impresa e, in relazione all'altro, a ristabilire la piena corrispondenza tra oneri di allegazione e probatori. D'altra parte, la sempre più marcata considerazione per l'efficienza dell'apparato produttivo, strettamente collegata al rendimento dei singoli lavoratori, suggerisce di segnalare ulteriormente una interessante presa di posizione della S.C., versosimilmente destinata a trovare successive conferme, in tema di criteri di scelta - integrati, appunto, anche dall'entità quantitativa e qualitativa della prestazione lavorativa - dei licenziandi, per effetto di soppressione del posto in presenza di più posizioni fungibili. 2. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente da riassetto aziendale: prevale l'orientamento "liberale". Punto di approdo del dibattito è Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ove è precisato che il datore di lavoro, «nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obbiettivo non può essere perseguito soltanto con l'abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico- produttiva ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni. Ne consegue che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l'art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività». Sulla stessa scia si pone Sez. L, n. 24458/2016, Blasutto, in corso di massimazione, secondo cui «non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta dell'imprenditore che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del 21 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO riassetto organizzativo operato. Occorre cioè che risulti l'effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte dall'imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata attraverso l'indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso». In estrema sintesi, dalla combinazione degli illustrati principi sembra ricavarsi l'idea che l'iniziativa datoriale volta alla riorganizzazione aziendale che abbia determinato la soppressione del posto, purché effettiva e non pretestuosa, non necessiti di esplicitazione delle ragioni di supporto alla riorganizzazione stessa. Ed infatti l'obiettivo (pur a livello di mero proposito) datoriale di miglioramento dell'efficienza e competitività dell'impresa, una volta ritenuto naturale espressione di esigenze meritevoli di incondizionata tutela ricomprese nella previsione di cui all'art. 3, seconda parte, della legge 15 luglio 1966, n. 604, è suscettibile di costuire la base di ogni operazione di riassetto, con l'unico limite della effettività e "non pretestuosità". 2.1. Le ragioni dell'orientamento "liberale" in una recentissima sentenza. Sez. L, n. 25201/2016, Amendola, in corso di massimazione, ha ribadito, dando maggior corpo all'orientamento illustrato al § precedente, che «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa». Queste, in sintesi, le ragioni di supporto al principio: a) l'interpretazione letterale della norma esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere il presupposto fattuale della situazione di difficoltà economica non contingente; b) la concezione del licenziamento quale extrema ratio, per cui la scelta che legittima l'uso del licenziamento dovrebbe 22 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO essere "socialmente opportuna", non appare costituzionalmente imposta, essendo l'iniziativa economica privata libera, fermo restando il vincolo invalicabile per cui essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; c) ogni valutazione del giudice che attribuisca rilievo alla situazione sfavorevole di mercato, implica una estensione - preclusa dall'art. 30, comma 1, della l. n. 183 del 2010 - «al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro»; ed è valutazione di merito quella che attribuisce a chi la esercita la facoltà di effettuare un giudizio comparativo tra più possibili soluzioni, selezionando quella che appare più confacente sotto il profilo organizzativo o produttivo e che connota la discrezionalità propria delle opzioni imprenditoriali, ove non altrimenti limitate dalla legge. Non è tale, invece, quella che riguarda l'esistenza stessa di una ragione organizzativa o produttiva che riconduce la decisione datoriale alla giustificazione che la legge postula per l'esercizio del potere; d) l'interpretazione accolta non palesa profili di tensione neanche con l'ordinamento dell'Unione europea. Se ne trae la conseguenza che al datore spetta dedurre e provare la mera effettività della riorganizzazione, quale "ragione organizzativa o produttiva" della soppressione del posto, esplicandosi il sindacato giudiziale, oltre che su tale aspetto, anche su quello della "non pretestuosità" dell'operazione. La questione della esternazione e sindacabilità delle ragioni del riassetto, pur sembrando in linea di massima esser risolta in senso negativo, conserva tuttavia un suo rilievo, per come si dirà al § successivo. 2.2. Il problema del sindacato del giudice in ordine alla effettività e "non pretestuosità" del riassetto. Si tratta di stabilire, in concreto, quando il riassetto organizzativo possa dirsi non effettivo o pretestuoso. Secondo Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ciò si verifica ove le ragioni del predetto riassetto siano «atte a nasconderne altre concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato», ossia ove il mutamento nell'organizzazione tecnico-produttiva non sia genuino ma strumentalmente piegato ad espellere personale (a vario titolo) non gradito. In altri termini, il datore non potrebbe, al solo fine di procedere al licenziamento di uno o più dipendenti sgraditi, architettare un riassetto solo fittizio dell'organizzazione aziendale 23 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO non rispondente alla realtà dei fatti (ossia solo apparente ma senza alcuna ricaduta sostanziale). E' agevole intuire, ad ogni modo, come in tali casi sarà lo stesso lavoratore ad offrire indizi circa la pretestuosità del licenziamento, se non, addirittura circa la portata discriminatoria dello stesso (con conseguente mutamento della stessa tipologia dell'atto espulsivo, assoggettato anche ad una diversa regola in punto di oneri probatori). In senso analogo, la già richiamata Sez. L, n. 24458/2016, Blasutto, ritiene che «il riscontro di effettività non attiene alla sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore o di ridurre il personale, non potendo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trovare la sua ontologica giustificazione nella scelta operata (ad libitum) dall'imprenditore (sarebbe così preclusa in radice la verifica di legittimità non rimanendo al giudice altro riscontro se non la presa d'atto che il lavoratore licenziato occupava il posto di lavoro soppresso), ma attiene alla verifica del nesso causale tra soppressione del posto di lavoro e le ragioni della organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso». Il che equivale a dire che il giudice deve verificare se il riassetto aziendale sia stato la causa effettiva della soppressione del posto e, in ultima istanza, del licenziamento. Per ricondurre tale affermazione a concretezza si precisa - Sez. L, n. 19185/2016, Manna, in corso di massimazione - che «il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati poi distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (...). Infatti, se tale redistribuzione fosse un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un'esigenza di più efficiente organizzazione produttiva)». Occorrerà, tuttavia, verificare come verrà calato nella valutazione delle concrete fattispecie il principio della verifica circa la "congruità causale"; infatti può non essere agevole comprendere quale delle due operazioni - soppressione del posto e redistribuizione - sia stata (non tanto attuata, quanto) concepita 24 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO prima ed abbia dato origine al licenziamento (sopprimo il posto e, quindi, redistribuisco ovvero redistribuisco e, quindi, sopprimo). La pretestuosità può poi essere l'effetto di una ragione di supporto alla riorganizzazione non veritiera. Al riguardo la citata Sez. L, n. 25201/2016, Amendola, puntualizza che ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore. Il che presuppone che il datore, autovincolandosi, abbia fornito l'indicazione delle ragioni a supporto del riassetto organizzativo; ma questa é ipotesi difficile a verificarsi nel futuro, poiché, per come visto al § 2, l'indicazione in questione, secondo l'orientamento qui in esame, parrebbe non doversi ritenere più necessaria, bastando la prospettazione dell'avvenuto, effettivo, riassetto culminante nella soppressione del posto. 3. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per effetto di riduzione del personale omogeneo e fungibile: rileva anche il criterio del rendimento del lavoratore. Quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili, non essendo utilizzabile il criterio della impossibilità di repechage, il datore di lavoro deve improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell'art. 1175 c.c. Sul punto Sez. L, n. 25192/2016, Blasutto, in corso di massimazione, ha puntualizzato che, in tale contesto, l'art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, offre uno standard idoneo ad assicurare che la scelta sia conforme a tale canone; tuttavia, non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati. Tra i criteri in questione possono annoverarsi quello del maggior costo della retribuzione, "il minore rendimento lavorativo" e le condizioni economiche complessive di ciascun lavoratore, in quanto oggettivamente enucleabili tra fatti riferibili alla comune esperienza con riguardo alle qualità e alle condizioni personali del lavoratore; inoltre, tali criteri - secondo la S.C. - si prestano, ciascuno di essi ed anche in concorso tra loro, alla elaborazione di una graduatoria e, dunque, consentono, su basi oggettive, una 25 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO comparazione tra tutti i lavoratori interessati dalla riduzione dell'organico in quanto assegnati a posizioni di lavoro fungibili. Il principio, pur nella sua intrinseca validità, lascia aperta la questione della comparabilità dei rendimenti di più lavoratori - e, a monte, della stessa misurabilità dei predetti rendimenti - ove il frutto dell'attività espletata non sia ben identificabile con un prodotto finito o con un risultato. 4. L'onere di allegazione e prova dell'obbligo di repechage. LaS.C.,all'esitodiunafaseincui-percomesopra anticipato - si era fatta strada l'idea che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo fosse tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, gravando sul datore l'onere di provare, solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse, sembra attualmente tornata all'indirizzo tradizionale. Al riguardo si segnala Sez. L, n. 05592/2016, Patti, Rv. 639305 e, più di recente Sez. L, n. 12101/2016, Manna, Rv. 640388 (non registrandosi in seguito pronunce di segno diverso sul punto), nella quale è evidenziato che incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. In tal quadro il lavoratore ha solo l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo. 4.1. La tesi imperniata sull'estensione dell'obbligo di repechage alle mansioni inferiori. Con una recentissima sentenza - Sez. L, n. 22798/2016, Amendola, in corso di massimazione - è stato ribadito, in conformità ad un orientamento in attuale ascesa, che l'obbligo di repechage si estende, anche nella formulazione dell'art. 2103 c.c. anteriore alle modifiche apportate dall'art. 3 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, alle mansioni inferiori rispetto a quelle disimpegnate dal lavoratore destinato al licenziamento. L'ipotesi della soppressione del posto in conseguenza di riorganizzazione aziendale rende legittimo, infatti, l'adeguamento del contratto, avuto riguardo alle esigenze di tutela del diritto alla 26 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO conservazione del posto di lavoro, da giudicarsi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore. L'assoggettamento all'obbligo in questione incontra, però, secondo la S. C., due limiti, «da individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni». Il che significa, quanto al primo limite, che il datore non è tenuto a modificare l'assetto organizzativo dell'impresa per reperire una postazione disponibile, anche di livello inferiore, per il lavoratore in esubero. Il secondo implica che l'adibizione del licenziando a mansioni inferiori non può essere l'effetto di una mera iniziativa del datore. In concreto, stando alla citata pronuncia, il consenso del lavoratore andrebbe sollecitato dal datore mediante una previa offerta di compiti inferiori, la cui non accettazione legittima l'atto espulsivo. Sul lavoratore graverebbe, peraltro, un onere di allegazione della mancata offerta (il che si desume dal seguente passo della motivazione: «il mezzo di gravame ... non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato sin dall'atto introduttivo del giudizio la circostanza delle nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore»), in difetto del quale sembra lecito ritenere che il datore possa dirsi esonerato dalla prova contraria. Non è chiaro se un tale onere, concernente un aspetto particolare, costituisca deroga alla regola - tenuta ferma dall'orientamento più recente, sopra descritto - della corrispondenza tra oneri di allegazione e prova; o piuttosto non sia espressione dell'altro orientamento cui la S.C. mostri implicitamente di voler nuovamente attribuire maggior dignità. Il tema, in buona sostanza, si risolve, ancora, nella questione, in linea generale illustrata al § precedente, della necessità, o meno, di un onere di allegazione del lavoratore concernente in vario modo l'obbligo di repechage. 4.2. Implicazioni della riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo. La riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie ha come principale e possibile implicazione la ricorrenza della "manifesta insussistenza del fatto" - di cui all'art. 18, comma 7, 27 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO St. lav., come modificato dalla legge "Fornero" -, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria "attenuata", ove sia mancata la prova dell'assolvimento del predetto obbligo. Il rischio, con tale ricostruzione, di azzeramento di ogni ipotesi residuale (in cui sia accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo) cui sia correlabile, per effetto del rinvio operato dal comma settimo del predetto art. 18 al comma quinto, la tutela indennitaria "forte", potrebbe indurre - in presenza di uno scenario dominato proprio dal riconoscimento, sia pur a livello di giurisprudenza di merito, della predetta tutela indennitaria a fronte della violazione dell'obbligo di repechage - ad identificare un fondamento normativo, dell'obbligo in questione, non riconducibile alla previsione di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966. Un primo spunto in tal senso é offerto, ad esempio, da Sez. L, n. 20436/2016, Lorito, ove é statuito che l'onere probatorio inerente sia alla concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo, sia alla impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, può «ricondursi al generale principio della buona fede, che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte». Una rigorosa applicazione del sillogismo potrebbe in ipotesi consentire di configurare il repechage, quale fattore esterno al giustificato motivo oggettivo, oggetto dei doveri contemplati dagli artt. 1175 e 1375 c.c., ossia di un'obbligazione "accessoria" il cui mancato adempimento integrerebbe, a questo punto, non la "manifesta insussistenza del fatto" bensì una tipologia di vizio minore. Del resto, nella già citata Sez. L, n. 22798/2016, Amendola, l'idea - espressa da Sez. L, n. 12101/2016, Manna (su cui v. il § 4) - che l'esistenza del giustificato motivo oggettivo include anche l'impossibilità del c.d. repechage, sembra esser superata dall'affermazione che la predetta impossibilità è mera "condizione di legittimità" del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In tale prospettiva, sarebbe, in primo luogo, arginato in radice il problema della eventuale necessità di una motivazione - nel corpo del licenziamento - circa l'impossibiltà in questione. In secondo luogo, nulla cambierebbe in punto di onere probatorio, gravante, secondo la regola di cui all'art. 1218 c.c., sul datore. 28 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO Più problematico, invece, si rivela, stando a tale ricostruzione, il profilo dell'onere di allegazione del lavoratore, su cui v. il § successivo. 5. Considerazioni conclusive. L'orientamento imperniato sulla limitazione del sindacato giudiziale alla effettività e "non pretestuosità" dell'operazione di riassetto aziendale lascia aperti i problemi: a) della ammissibilità di riassetti operati al fine di intensificare al massimo della tollerabilità (o, eventualmente, oltre misura) il rendimento dei lavoratori, mediante effettive soppressioni di postazioni lavorative - comunque produttive - e redistribuzione delle mansioni tra i restanti occupati, in ipotesi già gravati da un carico non indifferente; b) della plausibilità di eliminazione di postazioni mediamente produttive, seppur in misura non sufficientemente adeguata secondo il giudizio dell'imprenditore (che, in ipotesi, decida di sopprimere il posto perché produttivo, ad esempio, per quattro giorni a settimana anziché per cinque). Si tratta, in altri termini, di stabilire se, in questi casi limite, un principio di ragionevolezza possa orientare il sindacato sulla "non pretestuosità", eventualmente facendo leva - mediante l'utilizzazione di criteri di normalità tecnico-organizzativa - sul parametro costituzionale della "dignità" del lavoratore, suscettibile di essere eventualmente intaccato da un licenziamento operato per il conseguimento di una competitività estrema, quale obiettivo difficilmente giustificabile in quanto riferibile alla mera sfera volitiva datoriale. Sul versante dell'obbligo di repechage rimangono aperti tre interrogativi, di cui il primo di taglio generale, il secondo discendente dalla riconosciuta estraneità del predetto obbligo alla previsione di cui all'art. 3 della l. n. 604 del 1966, il terzo relativo all'esigenza di una migliore articolazione degli oneri di allegazione e prova secondo l'indirizzo attualmente prevalente. Si tratta, pertanto, attualmente di stabilire: a) se l'obbligo in questione - qualora si reputi oramai superata l'idea che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituisca una extrema ratio - possa ancora ritenersi elemento, anche se accessorio (secondo quanto visto al § precedente), della fattispecie; in caso di risposta affermativa: b) se, una volta configurato l'obbligo come esterno alla fattispecie in quanto proiezione dei doveri di correttezza e buona fede, il lavoratore debba allegare in giudizio, oltre alla mancanza di giustificato motivo anche, sia pur genericamente, la violazione del repechage; c) se il lavoratore possa, una volta acquisito 29 CAP. II – I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO il quadro delle difese datoriali emergenti dalle allegazioni contenute nella memoria, contestare specificamente, in prima udienza, le predette allegazioni mediante l'indicazione di postazioni disponibili non evidenziate dal datore (il quale, pertanto, dovrebbe essere ammesso ad ampliare la difesa, dovendo il suo onere essere necessariamente correlato alle indicazioni del lavoratore). Non sembra ipotizzabile, almeno allo stato - in presenza di spunti ancora inidonei a tradursi in mature riflessioni -, una radicale inversione di tendenza che porti al disconoscimento dell'obbligo di repechage; al quesito sub b) potrebbe allora darsi risposta positiva, deducendosi un doppio inadempimento del datore, uno principale ed uno accessorio; qualora l'inadempimento accessorio non sia stato allegato, potrebbe dubitarsi della necessità per il datore di dare comunque la prova del repechage (con la conseguenza che l'unica dimostrazione consisterà nella effettività del riassetto organizzativo); anche al quesito sub c) potrebbe rispondersi affermativamente, in quanto l'impostazione prefigurata potrebbe costituire un punto di equilibrio fra i due indirizzi giurisprudenziali contrapposti, perché recupera, sia pure in seconda battuta allorché l'indicazione appare concretamente possibile ed esigibile, l'onere per il lavoratore di circostanziare la propria richiesta. Bibliografia S. BINI, A proposito della divaricazione tra onus probandi e onus allegandi in materia di obbligo di repechage, in Arg. Dir. Lav., 2016, 993 ss. M. PERSIANI, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. It., 2016, 1166-1167. A. PERULLI, Il controllo giudiziale dei poteri dell'imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, in Riv. It. Dir. Lav., I, 2015, 83. G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Dir. Rel. Ind., I, 2015, 58. S. VARVA, Il licenziamento economico, Giappichelli, 2015, 59. 30 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. CAPITOLO III LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. (di Ileana Fedele) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il divieto di conversione del rapporto alla prova dei parametri europei. – 3. La natura del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed il suo inquadramento nell'ambito del sistema della responsabilità civile. – 4. I criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001. – 5. I limiti dell'interpretazione conforme. – 6. Il punto di equilibrio di Sez. U, 15 marzo 2016, n. 5072. – 7. Riflessi sul cosiddetto "precariato scolastico". – 8. Le reazioni della dottrina. – 9. La (nuova) questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani. – 10. La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Foggia. – 11. Considerazioni conclusive. 1. Premessa. Il fenomeno del precariato nel pubblico impiego contrattualizzato ha indotto un vasto ed ormai annoso contenzioso con particolare riferimento alle conseguenze derivanti dall'illegittima apposizione del termine (o comunque dalla violazione delle disposizioni riguardanti l'assunzione o l'impiego), ai sensi dell'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, nel porre il divieto alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, affida al risarcimento del danno la tutela del lavoratore e - di riflesso - la compatibilità dell'ordinamento interno con la normativa eurounitaria in materia. Infatti, nelle ipotesi in cui siano ravvisabili le condizioni per l'applicabilità del divieto, sia sotto il profilo soggettivo (il datore lavoro va inquadrato fra le «pubbliche amministrazioni») che oggettivo (la fattispecie è sussumibile nell'ambito delle ipotesi di «assunzione o impiego di lavoratori»), occorre affrontare il passaggio successivo, inteso a qualificare il danno risarcibile secondo la disposizione in commento e, di conseguenza, ad individuarne i criteri di liquidazione. Proprio su questo aspetto - determinante per la stessa tenuta del sistema – si è sviluppato un contrasto interpretativo, sfociato nel proliferare di diverse soluzioni in dottrina ed in giurisprudenza, avallate dalla "laconicità" della norma, nel perdurante silenzio del legislatore che, anche in occasione del riordino della disciplina sul contratto di lavoro a tempo determinato, si è limitato a sancire: «Resta fermo quanto disposto dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001.» (art. 29, comma 4, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81). 31 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. 2. Il divieto di conversione del rapporto alla prova dei parametri europei. E' noto che l'opzione incentrata sulla tutela solo risarcitoria del lavoratore a termine nel settore pubblico è stata preservata dalla Corte cost. (27 marzo 2003, n. 89), che ha escluso l'illegittimità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 - così respingendo le censure di irragionevolezza e disparità di trattamento tra lavoratore pubblico e privato - per la necessità di salvaguardare il momento genetico del rapporto con la pubblica amministrazione, a tutela dei principi di imparzialità e buon andamento attraverso il meccanismo del concorso, quale procedura costituzionalmente prevista per garantire l'esigenza di una corretta selezione dei candidati. Se, dunque, la conformità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 alla costituzione sembra ormai acquisita (salvo quanto si dirà infra), è stata ripetutamente sotto esame la conformità con l'ordinamento europeo, per verificare la compatibilità del divieto di costituzione del rapporto a tempo indeterminato con la clausola 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE preordinata alla prevenzione degli abusi da successione di contratti o rapporti a tempo determinato. Infatti, la Corte di giustizia U.E., chiamata più volte a pronunciarsi sull'ordinamento italiano, ha affermato che l'accordo quadro non è ostativo ad una normativa interna che escluda la conversione del rapporto purché le autorità nazionali prevedano misure adeguate a prevenire gli abusi - vale a dire misure non solo proporzionate bensì sufficientemente effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro - e con caratteristiche tali da non essere «meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)» (Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-53/04, n. 52; conforme, in relazione a caso analogo, Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C- 180/04, n. 37). Su tali premesse, la Corte ha concluso che la normativa italiana, «che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato, nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti rapporti di lavoro a tempo determinato, sembra prima facie soddisfare i requisiti» indicati, rimettendo al 32 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. giudice del rinvio di «valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l'attuazione effettiva dell'art. 36, secondo comma, prima frase, del d.lgs. n. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l'utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato» (Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-53/04, n. 52; conforme, Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-180/04, n. 37.). Tale interpretazione è stata ribadita con successiva pronuncia pure emessa in riferimento all'ordinamento italiano (Corte di giustizia, 1 ottobre 2010, C-3/10). Nell'ulteriore intervento sollecitato da un giudice italiano la Corte (12 dicembre 2013, C-50/13), pur confermando il proprio consolidato orientamento, a fronte della prospettazione del giudice del rinvio (secondo cui, in base all'interpretazione elaborata dalla Corte Suprema di cassazione, per un lavoratore del settore pubblico sarebbe impossibile fornire le prove richieste dal diritto nazionale al fine di ottenere il risarcimento del danno, poiché gli si imporrebbe di fornire, segnatamente, la prova della perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante), ha ritenuto di «fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua decisione» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 31). E tali precisazioni hanno comportato l'affermazione - piuttosto perentoria - secondo cui «l'accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione.» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 34). 33 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. In particolare, la Corte, in riferimento al principio di effettività, ha osservato che «dalla decisione di rinvio si evince che la normativa interna in questione nel procedimento principale, nell'interpretazione datane dalla Corte suprema di cassazione, pare che imponga che un lavoratore del settore pubblico, quale il sig. Papalia, il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d'esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo. Secondo il giudice del rinvio, una prova siffatta, quanto all'interpretazione seguita nell'ordinamento nazionale, richiederebbe che il ricorrente sia in condizioni di provare che il proseguimento del rapporto di lavoro, in base a una successione di contratti a tempo determinato, l'abbia indotto a dover rinunciare a migliori opportunità di impiego»; e, nel caso di specie, «la prova richiesta in diritto nazionale può rivelarsi difficilissima, se non quasi impossibile da produrre da parte di un lavoratore quale il sig. Papalia. Pertanto, non si può escludere che questa prescrizione sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte di questo lavoratore, dei diritti attribuitigli dall'ordinamento dell'Unione e, segnatamente, del suo diritto al risarcimento del danno sofferto, a causa dell'utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 32). Sicché, nel rimettere al giudice del rinvio le verifiche del caso, la Corte ha espressamente affidato al giudice interno anche l'esame circa la sussistenza di presunzioni che possano agevolare l'onere probatorio, come sostenuto dal Governo italiano, «e, di conseguenza, incidere sull'analisi concernente il rispetto del principio di effettività in una controversia quale quella di cui al procedimento principale» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C- 50/13, n. 33). 3. La natura del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed il suo inquadramento nell'ambito del sistema della responsabilità civile. La non perspicua formula utilizzata dal legislatore («Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative»: art. 36, comma 5, secondo periodo, d.lgs. 34 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. n. 165 del 2001, testo vigente), ha indotto diverse interpretazioni, anche intese ad escludere la configurabilità di qualsivoglia danno, sul rilievo che il lavoratore ha beneficiato di un'occupazione illegittima e potrebbe vantare unicamente il diritto alle retribuzioni spettanti per l'attività prestata (diritto invero già sancito dall'art. 2126 c.c.). In effetti, la norma sembra collegare il risarcimento non già alla «perdita di una occupazione a tempo indeterminato» - secondo la formula invalsa nella giurisprudenza di merito allorché individua una delle componenti del danno risarcibile nel pregiudizio sofferto dal lavoratore per la mancata conversione del rapporto di lavoro - bensì alla «prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative», senza offrire margini per individuare quale possa essere il danno derivante dalla "prestazione". Tutto ciò dà conto dello sforzo compiuto in prima battuta dalla giurisprudenza di merito per approdare ad una lettura "conforme" dell'art. 36 cit., oscillando fra meccanismi di responsabilità extracontrattuale e forme di responsabilità contrattuale, sino all'emersione di un indirizzo divenuto progressivamente prevalente, coagulatosi intorno alla soluzione genovese del danno da perdita del posto di lavoro, da risarcire per equivalente utilizzando il parametro previsto dall'art. 18, commi 4 e 5, legge 20 maggio 1970, n. 300 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92), quale «unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale, quale è quella alle dipendenze della pubblica amministrazione» (Trib. Genova 14 maggio 2007). Il fondamento di tale giurisprudenza si rinviene proprio nel principio di equivalenza postulato dalla Corte di giustizia, nel senso che le misure adottate nel settore pubblico per prevenire e sanzionare gli abusi da successione dei contratti o rapporti a termine «non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 21): il "danno da prestazione" è stato quindi inteso come "danno da perdita di occupazione", assumendo quale situazione analoga di natura interna le conseguenze sanzionatorie previste per il settore privato (conversione del rapporto ed indennità forfetizzata per il cosiddetto periodo intermedio: art. 32, commi 5 e 6, legge 4 novembre 2010, n. 183), al fine di assicurare al lavoratore del settore pubblico una tutela che, se può legittimamente non consistere nel ripristino del 35 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. rapporto, non deve essere meno favorevole di quella offerta al lavoratore dipendente da datore privato. Anche la dottrina ha contribuito ad alimentare il dibattito, giungendo per lo più alla conclusione che, nel silenzio del legislatore, i pur lodevoli sforzi della giurisprudenza pervengono a soluzioni comunque non in linea con i requisiti europei ed alimentano un quadro di incertezza e disparità di trattamento per l'assenza di un criterio uniforme di determinazione del quantum. Neppure la giurisprudenza di legittimità - sino all'intervento delle Sezioni Unite in commento - ha espresso un orientamento univoco, oscillando fra l'orientamento inteso a mantenere il danno nelle coordinate tradizionali della responsabilità civile, essenzialmente in termini di perdita di chance, con i conseguenti oneri probatori, ancorché alleggeriti da presunzioni (Sez. L, n. 00392/2012, Vidiri, Rv. 620269, Sez. L, n. 15714/2014, Berrino, Rv. 631691), e quello invece inteso a cogliere più direttamente le indicazioni della Corte di giustizia sugli oneri probatori gravanti sui lavoratori, arrivando a configurare un danno con valenza sanzionatoria (per l'appunto denominato "comunitario), presunto e risarcibile tramite indennità forfetizzata, personalizzabile in base al caso concreto (Sez. L, n. 19371/2013, Manna, Rv. 628401, Sez. L, n. 27481/2014, Tria, Rv. 634073). 4. I criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001. A valle - per così dire - della questione affrontata nel paragrafo precedente si pone quella più immediatamente diretta ad individuare i criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001: infatti, ove si acceda alla tradizionale impostazione in chiave compensativa, la liquidazione seguirà gli ordinari schemi (danno emergente e lucro cessante) e, nel caso di perdita di chance, potrà essere stimata in base alle probabilità a vantaggio dell'interessato; nell'ipotesi in cui, invece, si aderisca alla necessità di assumere il danno come presunto, si aprirà la strada all'indennità forfetizzata, in funzione punitiva e con finalità dissuasiva. Nell'attuazione pratica, a parte il ricorso al parametro previsto dall'art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300 del 1970 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012), invalso nella giurisprudenza di merito, la giurisprudenza di legittimità - sino all'intervento delle Sezioni Unite in commento - ha oscillato fra l'applicazione del criterio di cui all'art. 32, commi 5-6, legge n. 183 del 2010 (Sez. L, n. 19371/2013, Manna, Rv. 628401) e quello 36 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. previsto dall'art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604 (Sez. L, n. 27481/2014, Tria, Rv. 634073). 5. I limiti dell'interpretazione conforme. Le difficoltà interpretative testimoniate dalle differenti opzioni sperimentate in giurisprudenza ed in dottrina senza approdare - almeno sinora - ad una soluzione realmente appagante, in assenza di un apposito intervento normativo, potevano anche profilare la necessità di sollevare questione di costituzionalità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in ordine alla compatibilità con la direttiva in materia, con particolare riferimento alla clausola 5 dell'accordo quadro ad essa allegato. Infatti, ove si escluda la possibilità di approdare ad un'interpretazione conforme, non sarebbe possibile la disapplicazione diretta dell'art. 36 cit. in quanto come, più volte ritenuto dai giudici europei, la clausola 5 non è incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale (v. Corte di giustizia, 23 aprile 2009, C-378/07, n. 196). 6. Il punto di equilibrio di Sez. U, 15 marzo 2016, n. 5072. A seguito di ordinanza interlocutoria del 4 agosto 2015, n. 16363, la questione della portata applicativa e dei criteri di determinazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 è stata rimessa alle Sezioni Unite, che, in esito all'udienza del 1° dicembre 2015, hanno enunciato i principi di diritto così massimati: «In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui all'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.» (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639065). «In materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il 37 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito.» (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639066). La pronuncia delle Sezioni Unite affronta la questione partendo da un'ampia ricostruzione della normativa - interna ed europea - in materia, soffermandosi sulle peculiari caratteristiche che legittimano la differente disciplina prevista per il lavoro pubblico contrattualizzato, con particolare riferimento al divieto di conversione a tempo indeterminato, disposizione che ha superato positivamente il vaglio di compatibilità costituzionale e comunitaria. Proprio sul fondamento rappresentato da tale legittima preclusione, la Corte è giunta ad escludere che il danno risarcibile ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 possa consistere nella perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato «perché una tale prospettiva non c'è mai stata». Il danno, invece, va rapportato alla «prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative», secondo la formulazione testuale della norma, ed è configurabile come perdita di chance, nel senso che «se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore» ovvero «le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato». Pertanto, il lavoratore dovrà agire secondo la regola generale della responsabilità contrattuale posta dall'art. 1223 c.c. per vedersi riconoscere il risarcimento del danno e sarà onerato della relativa prova, che potrà essere in concreto difficile. Nondimeno, per l'ipotesi di abuso nella successione di contratti a termine, quale illegittimità qualificata direttamente contemplata dalla clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della compatibilità di tale assetto con il diritto europeo, in specifico riferimento al principio di effettività 38 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. affermato dalla Corte di giustizia, prospettando la necessità di vagliare la praticabilità di un'interpretazione adeguatrice della norma, prima di giungere a sospettarne l'illegittimità costituzionale ex art. 117, primo comma, Cost. In effetti - osserva la Corte - occorre ricercare nel perimetro delle "interpretazioni plausibili" e nell'ambito del dato positivo della disposizione in esame un parametro che valga ad agevolare l'onere probatorio gravante sul lavoratore, per colmare quel deficit di tutela stigmatizzato dai giudici europei. In tale prospettiva, è stato escluso il riferimento alla disciplina del licenziamento illegittimo (sia quella dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966, che quella dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, anche nella nuova formulazione, nonché, in ipotesi, quella del regime indennitario di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015), perché «per il dipendente pubblico a termine non c'è la perdita di un posto di lavoro». Il parametro è stato dunque individuato nella fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, che concerne il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine, quale misura con portata sanzionatoria (e qualificabile come "danno comunitario", per esprimere direttamente la valenza di interpretazione adeguatrice) che esonera il lavoratore dalla prova del danno subito, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto (al lavoratore, quindi, non è «precluso provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato»). Nell'ottica di salvaguardare il canone di equivalenza pure postulato dalla Corte europea, è stato sottolineato come l'utilizzazione del criterio di cui all'art. 32 cit. non comporti una posizione di maggior tutela del lavoratore privato rispetto al pubblico dipendente, in quanto per il primo l'indennità forfetizzata costituisce una misura di contenimento del danno, mentre per il secondo rappresenta uno strumento di agevolazione dell'onere probatorio. Quindi, solo nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine "scatta" l'applicazione del "danno comunitario", mentre l'isolata violazione ricade negli schemi ordinari. 7. Riflessi sul cosiddetto "precariato scolastico". L'approdo ermeneutico di Sez. U, n. 05072/2016 è stato pienamente condiviso dalla Sezione Lavoro in sede di esame del contenzioso sul cosiddetto "precariato scolastico", con le pronunce 39 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. (per tutte, Sez. L, n. 22552/2016, Torrice, in corso di massimazione) emesse a seguito delle sentenze della Corte di giustizia (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13) e della Corte cost. 20 luglio 2016, n. 187. Infatti, i giudici di legittimità, dopo aver affrontato la questione della configurabilità dell'abuso da successione di contratti a termine in riferimento alla specifica normativa di settore (legge 3 maggio 1999, n. 124, rapporti con il d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, evoluzione sino alla legge 13 luglio 2015, n. 107), hanno ritenuto - sul piano delle ricadute sanzionatorie dell'accertata illegittima reiterazione - che, ove l'interessato non abbia conseguito il bene della vita in virtù della stabilizzazione comunque intervenuta, si apre la via al risarcimento ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, in applicazione dei principi espressi da Sez. U, n. 05072/2016, riconoscendo al lavoratore anche la possibilità di offrire la prova del maggior danno. In precedenza, la Sezione Lavoro si era già uniformata alla soluzione ermeneutica di Sez U, n. 05072/2016, applicando i principi del danno comunitario in caso di abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato nel settore della sanità (Sez. L, n. 14633/20016, Napoletano; nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda del dipendente per non aver provato il danno subito). 8. Le reazioni della dottrina. La dottrina si è divisa fra chi, pur non nascondendo i limiti di qualsivoglia interpretazione giurisprudenziale rispetto ad una questione che necessita di un intervento del legislatore, plaude alla soluzione nomofilattica adottata dalla Suprema Corte, quale adeguato bilanciamento fra le opzioni in campo (compatibilità "eurounitaria", da un lato, e valenza costituzionale del peculiare sistema ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, dall'altro), e chi, invece, sottolinea l'inadeguatezza del paramentro prescelto sul piano dell'effettività ed equivalenza della tutela apprestata al lavoratore. Nell'ambito del primo schieramento, secondo taluno l'interpretazione poteva spingersi più oltre, esonerando del tutto il lavoratore dall'onere della prova con il riconoscimento del risarcimento nella misura massima prevista dall'art. 32 legge n. 183 del 2010 (dodici mensilità), come indennità forfettizzata standard per i casi di accertamento dell'illegittimità dei contratti subordinati a termine nella P.A. [PASSALACQUA, 2016, 829], mentre, secondo altri, era necessario salvaguardare il requisito della "proporzionalità", 40 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. accanto a quelli della "dissuasività, proporzionalità, effettività", escludendo arricchimenti oltre il danno effettivamente subito [MISCIONE, 2016, 745]. Le opinioni critiche, invece, stigmatizzano soprattutto la "consistenza" della misura risarcitoria riconoscibile al lavoratore pubblico [NUNIN, 2016, 882], soprattutto ove si consideri che il parametro indennitario di cui all'art. 32 legge n. 183 del 2010 è stato reputato costituzionalmente legittimo poiché si accompagna alla trasformazione del rapporto [Allocca, 2016, 619], sicché si giunge a ritenere preferibile il criterio di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970 nella precedente formulazione, già adottato dalla maggioritaria giurisprudenza di merito [FRASCA, 2016, 855]. Merita, infine, di essere segnalata per l'originalità del contributo, la posizione di chi reputa che la distanza fra le sanzioni applicate nel settore privato e quelle previste nel settore pubblico (distanza che risulterebbe addirittura amplificata a seguito dell'intervento della Corte cost. sui precari della scuola, cui l'ordinamento garantisce l'immissione in ruolo a tempo indeterminato e dunque una misura più satisfattiva dell'indennizzo massimo ottenibile dai precari pubblici "ordinari"), possa essere più adeguatamente colmata ove si inquadri il danno di cui all'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 nell'ambito della responsabilità precontrattuale, quale lesione dell'affidamento del lavoratore precario, collegando la quantificazione del danno alla sua inoccupabilità a tempo indeterminato, derivante dal protrarsi dell'abuso precontrattuale, evitando l'irrigidimento su uno specifico parametro risarcitorio [ARMONE, 2016]. 9. La (nuova) questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani. Proprio sulla conformità della tutela, siccome delineata da Sez. U, n. 05072/2016 ai principi di equivalenza ed effettività più volte indicati dalla giurisprudenza europea si appunta la recente ordinanza con la quale è stata nuovamente adita la Corte di giustizia (Trib. Trapani, 5 settembre 2016). Infatti, nell'ordinanza di rinvio sono state avanzate due questioni pregiudiziali: 1) se costituisca misura "equivalente ed effettiva" l'attribuzione al lavoratore pubblico, vittima di un'abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, di un'indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità della retribuzione, con la possibilità per costui di conseguire l'integrale ristoro del danno 41 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. solo provando la perdita di altre opportunità lavorative o provando che avrebbe superato la prova se fosse stato bandito un regolare concorso; 2) se il principio di equivalenza vada inteso nel senso che, laddove lo Stato membro decida di non applicare al settore pubblico la conversione del rapporto di lavoro (riconosciuta nel settore privato), questi sia tenuto comunque a garantire al lavoratore la medesima utilità, eventualmente mediante un risarcimento del danno che abbia necessariamente ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. 10. La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Foggia. Si incentra, invece, sul divieto di conversione del rapporto ex art. 36 d.gs. n. 165 del 2001 - la cui legittimità è stata ribadita da Sez. U, n. 05072/2016 - la recentissima ordinanza con cui il Tribunale di Foggia (Trib. Foggia 26 ottobre 2016) ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 10, comma 4-ter, d.lgs. n. 368 del 2001, e 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n. 165 del 2001, per violazione - fra gli altri - degli artt. 3 e 117 Cost. in relazione alle clausole 4 e 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, in riferimento all'ipotesi di abusiva reiterazione ultratriennale del termine nel settore della sanità pubblica. Il giudice remittente assume come dato di partenza l'assetto risultante dalla sentenza delle Sezioni Unite in commento, per poi osservare come, alla luce di recenti pronunce della Corte di giustizia europea (Corte di giustizia, 14 settembre 2016, C-184/15 e C-197/15) oltre che della Corte cost. (sentenze n. 260 del 2015, in ordine ai precari delle Fondazioni liriche sinfoniche, e n. 187 del 2016, rispetto ai precari della scuola), si evidenzi un'irragionevole disparità di trattamento - sul piano dell'adeguatezza della tutela - rispetto ai lavoratori privati ed agli stessi dipendenti pubblici cui è stato riconosciuto il diritto alla stabilità lavorativa. 11. Considerazioni conclusive. Il contenzioso sviluppatosi sul cosidetto precariato pubblico ha ormai raggiunto livelli difficilmente arginabili sul piano della fisiologica composizione dei conflitti attraverso l'interpretazione giurisprudenziale. Infatti, nonostante l'apprezzato intento nomofilattico perseguito dalla Suprema Corte, la complessità normativa - declinata in disposizioni speciali per i diversi settori - ed il continuo intreccio di questioni di costituzionalità e di conformità dell'ordinamento 42 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. interno ai parametri europei rendono arduo l'approdo ad una soluzione definitiva per la tutela di tutti i delicati interessi coinvolti. In particolare, appare difficilmente superabile l'antinomia insita nel ruolo che l'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 è chiamato a svolgere nell'ordinamento interno, diviso fra la necessaria salvaguardia dell'interesse pubblico sotteso al divieto di conversione del rapporto ed il risarcimento da riconoscere al lavoratore, al quale va assicurato un risarcimento effettivo e - almeno tendenzialmente - equivalente ad un posto di lavoro cui, tuttavia, non ha alcun diritto; di qui, la tensione, che traspare nella pronuncia delle Sezioni Unite in commento, fra la coerenza con la riaffermata legittimità del divieto e la necessità di riconoscere comunque una tutela in linea con i parametri europei. Il quadro, già di difficile lettura, come dimostrato dai contrasti interpretativi insorti sull'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, è stato ulteriormente complicato dalle pronunce emesse dalla Corte di giustizia e dalla Corte cost. sul precariato scolastico. E se i giudici di legittimità hanno ricondotto anche tale aspetto "a sistema", facendo applicazione della soluzione espressa dalle Sezioni Unite, la giurisprudenza di merito, anche su sollecitazione di parte della dottrina, è tornata a sollevare nuovamente la questione innanzi al giudice europeo ed a quello costituzionale, sottoponendo ulteriormente a prova la tenuta dell'assetto così raggiunto. Il "cerchio", dunque, non può dirsi ancora chiuso, non solo in ordine al punto di equilibrio ricercato sulla misura risarcitoria da liquidare al lavoratore precario pubblico (sulla cui adeguatezza ed equivalenza, rispetto al lavoratore privato, i giudici europei sono stati nuovamente interpellati), ma anche, a ben vedere, rispetto alla stabilizzazione riconosciuta solo in favore di alcuni dipendenti pubblici per effetto di principi affermati dalla Corte di giustizia e dalla Corte cost. (quanto alla configurabilità dell'abuso nella indiscriminata successione dei contratti a termine a fronte di posti di lavoro "vacanti e disponibili"), potenzialmente validi anche per altri settori, come quello sanitario. Bibliografia ALLOCCA, Le Sezioni Unite chiariscono i criteri di liquidazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, in Riv. it. dir. lav., 2016, 619 ss. 43 CAP. III – LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI. ARMONE, Precariato pubblico e risarcimento del danno: declinazioni civilistiche, in Giustiziacivile.com, 13 ottobre 2016. FRASCA, La quantificazione del "danno comunitario" da illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego: nel perdurante silenzio del legislatore, si pronunciano le Sezioni Unite, in Arg. dir. lav., 2016, 855 ss. MISCIONE, La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, in Lav. giur., 2016, 745 ss. NUNIN, Precariato scolastico: la Consulta dice basta agli abusi (ma non scioglie tutti i nodi), in Lav. giur., 882 ss. PASSALACQUA, Le Sezioni Unite sull'abuso del contratto a termine nella pa optano per la trasposizione dell'indennità prevista per il settore privato: il cerchio si chiude davvero?, in Dir. rel. ind., 2016, 829 ss. 44 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ CAPITOLO IV LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ (di Valeria Piccone) SOMMARIO. 1. Il lavoro intermittente nella vicenda Abercrombie & Fitch : la decisione della corte territoriale. 2. La giurisprudenza europea da Mangold a Kücükdeveci. 3. Principio di uguaglianza e interpretazione conforme. 4. Il rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione. 1. Il lavoro intermittente nella vicenda Abercrombie & Fitch, la sentenza della corte territoriale. Il lavoro intermittente [RAIMONDI, 2014, 601; MORONE, 2012, 1252] caratterizzato da una lunga serie di interventi legislativi giunge per la prima volta ad una decisione giurisdizionale di particolare incisività sul punto della non discriminazione, essendo state molto rare le pronunzie che lo hanno riguardato, nessuna in sede di legittimità, fino al recente rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione del febbraio scorso. Tale contratto, come noto, si caratterizza per l'associazione fra subordinazione e discontinuità della prestazione lavorativa, da rendersi solo qualora sia richiesta dal datore di lavoro secondo quanto previsto dagli artt. 33–40 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Le poche pronunzie di merito oscillano fra riconoscimento del diritto alla conversione del rapporto di lavoro (così, Trib. Milano, 9 dicembre 2010) in contratto a tempo indeterminato e riconoscimento del solo diritto al risarcimento del danno (Trib. Monza, 15 ottobre 2012); il contratto è legittimo secondo la normativa vigente, ma l'assenza di una ragione di carattere discontinuo alla base dello stesso assume rilievo atteso che soltanto il contratto che sia ancorato a prestazioni di carattere discontinuo riceve una adeguata giustificazione. Nella vicenda Abercrombie & Fitch, dopo una pronunzia della Corte d'appello di Milano [CALAFÀ, 2015, 536; BONANOMI, 2015, 467] la questione interpretativa è stata oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte della Corte di cassazione con ordinanza Sez. L, n. 03982/2016, Napoletano, Rv. 638852. Il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con "contratto a chiamata a tempo determinato" di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall'1 gennaio 2012 il 45 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ contratto cd. "intermittente" era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle ipotesi legittimanti previste dal d.lgs. n. 276 del 2003; terminato il 26 luglio 2012 il piano di lavoro, il lavoratore non era stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail, gli era stato comunicato che avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell'età, era da considerarsi cessato alla suddetta data. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l'improponibilità delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato - con richiesta di condanna alle conseguenze di cui all'art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 - respingendo quelle dirette ad accertare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato. La Corte di appello di Milano ha accolto l'impugnazione, ritenendo la proponibilità di tutte le istanze avanzate, sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento discriminatorio della società resistente non fosse, in realtà, istanza avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento - che sarebbe stata assoggettata al rito speciale di cui alla l. 28 giugno 2012, n. 92 - bensì domanda volta ad ottenere la rimozione degli effetti della discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all'art. 18 della l. n. 300 del 1970 e, cioè, la rimessione in servizio. La Corte precisa, al riguardo, che la riforma Fornero non ha comportato un diverso assetto processuale, sostituendo ed assorbendo, con riguardo al tema della discriminazione nei casi di licenziamento, il rito sommario regolato dal d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che continua a mantenere efficacia nei casi ivi contemplati. Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, il Collegio sottolinea come l'unico requisito rilevante al momento dell'assunzione del ricorrente ai sensi dell'art. 34 d.lgs. n. 276 del 2003 fosse quello anagrafico (meno di 25 anni o più di 45). Si osserva in primo luogo che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25 delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull'età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione, ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell'età possono essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione degli stati membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità 46 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ siano appropriati e necessari. La Corte milanese richiama a questo punto le sentenze della Corte di giustizia 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold e 19 gennaio 2010, C- 555/07, Seda Kucukdeveci v. Swedex, nella parte in cui hanno statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione dell'età ed il compito del giudice nazionale di assicurare la tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli. Secondo le Conclusioni dell'Avvocato generale del 23 settembre 2008, nella causa C-388/07, The Incorporated Trustees of the National Council for Ageing, l'età è un «criterio fluido», un «elemento in una sequenza»; dunque, la «discriminazione in base all'età può essere graduata» (Conclusioni dell'Avvocato generale del 15 febbraio 2007, causa C-411/05, Palacios de la Villa); essa «non definisce un gruppo fisso e ben definito» [BONARDI, 2007, 130] e la sua individuazione, pertanto, costituisce una indagine complessa. 2. La giurisprudenza europea da Mangold a Kücükdeveci. In Mangold l'interpretazione conforme impone all'interprete di accantonare la norma interna speciale incompatibile a vantaggio della regola generale in forza dell'obbligo per il giudice nazionale di offrire "un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario" (così, Corte di giustizia 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 – C403/01, Pfeiffer) , pur in presenza di una direttiva il cui termine per la trasposizione non sia ancora scaduto. Con tale pronunzia la Corte, pur occasionalmente passando attraverso la normativa "quadro" di cui alla direttiva 2000/78, che vieta, tra l'altro, le discriminazioni in ragione dell'età, giunge per la prima volta ad affermare che il principio comunitario di non discriminazione ha natura sovraordinata, incondizionata ed è immediatamente applicabile. Non è, tuttavia, la direttiva inattuata a trovare un' impossibile applicazione in luogo della norma interna incompatibile; nella interpretazione ad excludendum fornita dai giudici di Lussemburgo, venuta meno la norma discriminatoria, l'opera di uniformazione giudiziale consente il rispetto del principio di uguaglianza per effetto della riespansione della norma generale. Nonostante il risultato finale sia quello di determinare la disapplicazione rispetto ad una norma non dotata di efficacia diretta, nondimeno, l'approdo è reso possibile dal passaggio attraverso il principio generale di uguaglianza. In Mangold, quindi, si impone una ancora più incisiva declinazione del principio di collaborazione sancito dall'art. 10 TCE, 47 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ oggi art. 4 TUE: diventa obbligatorio per l'interprete disapplicare la legge nazionale contrastante con un principio generale anche in presenza di una direttiva il termine per la cui trasposizione non sia ancora scaduto. Nella successiva Corte di giustizia 7 settembre 2006, causa C- 81/05 Cordero Alonso, i giudici di Lussemburgo, chiamati a pronunziarsi su quesiti pregiudiziali relativi all'interpretazione della direttiva del Consiglio del 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, hanno affermato che le istituzioni amministrative e giurisdizionali, nell'applicare la normativa comunitaria sono "vincolate al principio dell'uguaglianza dinanzi alle legge e al divieto di discriminazione risultante dal diritto comunitario, con la portata precisata dall'interpretazione fornitane dalla Corte" e che ciò vale altresì qualora "la normativa nazionale di cui trattasi, secondo la giurisprudenza costituzionale dello Stato membro interessato, è conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall'ordinamento giuridico nazionale". Si impone, quindi, una declinazione del principio di collaborazione sancito dall'art. 4 TUE in chiave di non applicazione della legge nazionale contrastante con un principio generale anche qualora la giurisprudenza costituzionale dello Stato sia conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall'ordinamento interno. Nel tempo, quel principio ha assunto una forza ed una portata dirompenti, facendo del principio di uguaglianza, sub specie di divieto di discriminazione per età, la punta di diamante nella tutela dei diritti fondamentali assicurata dalla Corte di giustizia. In Kücükdeveci la ricorrente, alle dipendenze della Swedex, contestava il proprio licenziamento, sostenendo che il termine di preavviso nei suoi confronti avrebbe dovuto essere di quattro mesi a decorrere dal 31 dicembre 2006, in applicazione dell'art. 622, n. 2, primo comma, punto 4, del BGB. La lesione lamentata consisteva nella previsione della disciplina tedesca secondo cui, per il calcolo della durata del termine di preavviso non sono presi in considerazione i periodi di lavoro svolti prima del compimento del venticinquesimo anno di età, previsione ritenuta misura di discriminazione in base all'età contraria al diritto dell'Unione e, pertanto, da disapplicare. Il giudice tedesco sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte due questioni. 48 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ Con la prima, veniva chiesto se la normativa in esame costituisse una disparità di trattamento in base all'età, vietata dal diritto dell'Unione. Con la seconda, veniva chiesto quali fossero le conseguenze dell'incompatibilità tra la disciplina nazionale e quella dell'Unione, in particolare se fosse possibile disapplicare la disposizione nazionale in una controversia tra privati. Secondo la prospettazione dell'avvocato generale Yves Bot, la normativa rilevante per la fattispecie era da individuarsi nella direttiva 2000/78 perché, tra l'altro, «i fatti all'origine della controversia sono avvenuti dopo la scadenza del termine di cui ha beneficiato la Repubblica federale di Germania per trasporre la direttiva». Nelle conclusioni si legge che la causa ha come oggetto solo l'esclusione di una disposizione nazionale incompatibile con la direttiva 2000/78 (l'art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB), allo scopo di consentire al giudice nazionale di applicare le restanti disposizioni di tale articolo, nella specie, i termini di preavviso determinati sulla base della durata del rapporto; pertanto, si conclude che l'accoglimento di tale tesi non impone alla Corte di ritornare sulla sua giurisprudenza relativa all'assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive. L'avvocato generale invita la Corte a «seguire un percorso più ambizioso» richiamando le affermazioni contenute nella sentenza Mangold. 3. Principio di uguaglianza e interpretazione conforme. Il principio di non discriminazione fondata sull'età, in quanto strettamente collegato alla direttiva 2000/78, nell'interpretazione dell'Avvocato Generale, consente al giudice nazionale di disapplicare ogni contraria disposizione di legge nazionale anche in una controversia che vede contrapporsi due privati. Fulcro della decisione diventa a questo punto (così perfezionandosi l'approdo di Mangold), il principio generale del diritto dell'Unione che vieta ogni discriminazione in base all'età, principio che esiste «per forza propria», anche se poi è inverato nella direttiva 2000/78 che ne è concreta espressione. Entra in gioco, a questo punto, il giudice nazionale cui spetta il compito di «assicurare (...) la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge» (punto 51). Il principio generale di non discriminazione che, secondo la Corte, è applicazione del principio generale della parità di 49 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ trattamento, «trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e viene, poi, consacrato nell'art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che, in virtù dell'art. 6, n. 1, TUE ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. Il principio di uguaglianza, a chiare lettere, viene definito principio generale dell'Unione. Quel principio, ove non fosse stato abbastanza chiaro in Mangold, trova solo "specificazione", secondo la Corte, nella direttiva 2000/78. Il corollario era già stato espresso in termini similari, con riguardo all'art. 119 del Trattato, nelle sentenze Corte di giustizia 8 aprile 1976, C-43/75, Defrenne e Corte di giustizia, 31 marzo 1981, C- 96/80, Jenkins. Ma in Kücükdeveci, il principio generale di uguaglianza si spinge fino alle più ardite conseguenze, quelle che poi condurranno alla recente giurisprudenza riconducibile a Corte di giustizia, 19 aprile 2016, causa C-441/14 Dansk Industri v. Successione Karsten Eigil Rasmussen. Al centro, è il giudice nazionale. La Corte non lascia adito a dubbi: il giudice nazionale rappresenta l'anello centrale della catena interpretativa qualora sia investito di una controversia tra privati; l'obbligo di garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all'età - quale concretamente derivante dalla direttiva 2000/78 ma come espressione di un principio generale del diritto comunitario, sovraordinato, orizzontale ed immediatamente applicabile - gli imporrà di disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall'esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall'art 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione di tale principio. L'interpretazione conforme ha ormai assunto la netta conformazione di strumento di chiusura: essa è un imprescindibile obbligo per l'interprete ma è anche metodo conservativo, perché ogni qualvolta non possa farsi ricorso ad essa e sussista una normativa confliggente, scatterà l'obbligo di disapplicazione della regolamentazione interna per applicare quella comunitaria nella sua interezza e tutelare i diritti che questa riconosce ai singoli. La Corte, nella parte finale della sentenza, conclude affermando che «è compito del giudice nazionale (...), assicurare (...) la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge» (punto 51). 50 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ Registrata la parziale inidoneità dei concetti di primazia e disapplicazione, si è ormai definitivamente intensificato il ricorso all'interpretazione conforme come strumento di composizione del sistema; essa, nella più recente evoluzione, "sfuma" di nuovo nella disapplicazione, nell'intento chiarissimo di assicurare definitivamente il rispetto di quel sovraordinato principio di uguaglianza al centro dello scenario giurisdizionale europeo. Nella opzione interpretativa della corte territoriale, l'interpretazione conforme va condotta su binari estremi e, cioè, fino a determinare la disapplicazione ogni qualvolta l'esito adeguatore non sia scontato. La Corte d'appello di Milano sottolinea come i giudici di Lussemburgo abbiano si riconosciuto la possibilità per gli Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l'occupazione di soggetti con difficoltà di accesso al lavoro, ma purché lo strumento utilizzato non sia sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con il fine perseguito (il richiamo è a Corte di giustizia 19 marzo 2002, causa C-476/99, Lommers) . Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all'art. 6 TUE e alla Carta di Nizza fa si, secondo la Corte, che l'uguaglianza viva "di una vita propria" che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli Stati membri. Osserva ancora la Corte di Milano come dalla natura precisa ed incondizionata di tale principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso altri privati. La Corte di giustizia, infine, precisa la Corte, ha evidenziato che l'art. 6 della direttiva 2000/78 impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all'età, due precisi requisiti dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il perseguimento degli obiettivi, requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all'età, allo scopo di introdurre un trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es. disoccupazione 51 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile. La eliminazione della necessità che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni) frutto delle modifiche apportate all'impianto originario dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, ha determinato l'intervento correttivo della Corte. Il mero requisito dell'età, quindi, secondo la Corte d'appello, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba essere risolto. Alla luce di tali argomentazioni, quindi, secondo il giudice d'appello di Milano, si evidenzia il contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto espressione di un principio generale dell'Unione Europea. Ritenuto, quindi, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il comportamento della società appellata che aveva proceduto all'assunzione dell'appellante con un contratto intermittente esclusivamente sulla base dell'età anagrafica e condannato la Abercrombie a riammettere l'appellante nel posto di lavoro risarcendogli altresì il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della risoluzione del rapporto a quella della sentenza. Nella vicenda in esame sembra configurarsi qualcosa di simile a ciò che avviene, mutatis mutandis, nei contratti a tempo determinato. Non è possibile in questa sede soffermarsi sugli approdi della importante sentenza delle Sezioni Unite n. 5072/2016 sulla "compatibilità comunitaria" e la connessa responsabilità da violazione del diritto dell'Unione, ma può essere opportuno sottolineare che, riguardando la più recente disciplina che concerne il contratto a termine sotto la lente di ingrandimento europea ed alla luce della giurisprudenza di cui a Corte di giustizia 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo, considerata la liberalizzazione nell'apposizione del termine 52 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ che lo caratterizza, affinché la normativa interna possa considerarsi compatibile con i principi dell'Unione, il contratto dovrà essere "strutturalmente" a termine e, cioè, l'apposizione del termine non potrà che rispondere ad esigenze strutturali del contratto, in quanto volto a fronteggiare esclusivamente necessità di carattere temporaneo. Nel caso che qui ci interessa, ancora una volta l'interpretazione conforme conduce all'accantonamento della norma interna configgente e si sostanzia, nonostante la Corte non vi faccia alcun riferimento, nella disapplicazione della norma stessa. Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza, appare di grande evidenza nella predetta decisione: la Corte richiama più volte l'obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme al diritto dell'Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad optare per la disapplicazione della norma interna configgente ritenendo, quindi, costituito fra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Nonostante il nucleo della sentenza, quello che concerne il carattere discriminatorio del regolamento contrattuale considerato, appaia molto succinto nella motivazione della Corte d'appello, esso è estremamente chiaro: il mero requisito dell'età, non accompagnato da ulteriori specificazioni, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per il lavoratore. Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato - si direbbe, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold - tanto da indurre la Corte d'appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di discriminazione per l'assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore. La Corte di Giustizia nella sentenza 21 luglio 2011, cause riunite C-159/10 e C-160/10, Fuchs e nella sentenza del 5 marzo 2009, C-388/07, Age Concerne England aveva chiarito ulteriormente il principio espresso in Mangold secondo cui, se è vero che gli Stati membri dispongono di un ampio margine discrezionale nella definizione delle misure atte a realizzare una finalità di politica sociale e di occupazione, tuttavia, essi non possono svuotare della sua sostanza il divieto di discriminazioni basate sull'età enunciato nella direttiva 2000/78. I giudici di Lussemburgo escludono che semplici affermazioni generiche che riconducono un determinato provvedimento alla politica del lavoro siano sufficienti per 53 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ dimostrare che l'obiettivo perseguito dal provvedimento stesso giustifichi una deroga al principio del divieto di discriminazioni fondate sull'età; inoltre, secondo la Corte di Giustizia, una normativa è idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo addotto solo se risponde realmente all'intento di raggiungerlo, in modo coerente e sistematico (così, Corte di giustizia, 10 marzo 2009, C- 169/07, Hartlauer). 4. Il rinvio pregiudiziale della Corte di legittimità. La sentenza della Corte d'appello di Milano è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di cassazione. La società condannata, infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970 sotto diversi profili, ha dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 e l'art. 702 bis c.p.c. e, cioè, la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire mediante ricorso al procedimento di cui all'art. 1, commi 48 e segg. della l. 28 giugno 2012, n. 92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell'art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, della direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi, sovrapponibile alla normativa dell'Unione. Ha chiesto, poi, l'appellante il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l'esclusiva possibilità di ottenere il risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte. La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza (in particolare, Sez. U, n. 03758/2009, Finocchiaro, Rv. 606660) secondo cui l'inesattezza del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte. Essa osserva, quindi, che l'art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale dell'Unione (il richiamo è a Corte di giustizia C-555/07 Kucukdeveci, nonché a Corte di giustizia 22 novembre 2005, causa C- 144/04, Mangold citate, nonché alla altresì citata Corte di giustizia 8 aprile 1976, causa C-43/75, Defrenne) cui la direttiva 2000/78 da 54 CAP. IV – LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ espressione concreta e che è sancito anche dall'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. L'art. 6, n. 1, comma 1, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento in base all'età non costituisce discriminazione, laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell'art. 34 vigente all'epoca dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell'art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78. Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell'art. 267 del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui all'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1). La palla passa ancora una volta alla Corte di giustizia cui è rimesso il compito di chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio generale di uguaglianza che imponga la rimozione della norma interna con esso contrastante. Sembrava impossibile, ai tempi di Mangold, che la legislazione nazionale italiana potesse formare oggetto di un rinvio pregiudiziale in termini di probabile lesione del divieto di discriminazione per età. La proliferazione normativa e la frammentazione dei tipi contrattuali ha reso evidente, tuttavia, anche per il nostro ordinamento, la continua necessità di verificare la compatibilità dei nuovi strumenti contrattuali con i principi dell'Unione, ormai definitivamente consolidatisi intorno al principio generale di uguaglianza. 55 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE CAPITOLO V LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. Il principio di diritto espresso dalle S.U. con la sentenza n. 9449 del 2016. 2. L'ordinanza interlocutoria. 2.1. Riflessioni. 3. La ripartizione delle spese tra condomini. 4. Il lastrico solare. 5. Il lastrico solare in uso esclusivo e danni a terzi. 6. La sentenza delle Sezioni Unite, 29 aprile 1997, n. 3672. 7. La giurisprudenza successiva. 8. I criteri di imputazione della responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c. .9. La soluzione del contrasto. 1. Il principio di diritto espresso dalle S.U. con sentenza n. 9449 del 2016. Con la sentenza delle Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. n. 639821, la Corte afferma il seguente principio di diritto: "In tema di condominio di edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usurario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione di controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130 comma 1, n. 4, c.p.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usurario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio". Per il Collegio sono chiare le diverse posizioni del titolare dell'uso esclusivo e del condominio: il primo è tenuto agli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c., in quanto si trova in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso, ove non sia sottoposto alla necessaria manutenzione; il secondo è tenuto, ex art. 1130, comma 1, n. 4, e 1135, comma 1, n. 4, c.c., a compiere gli atti conservatisi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell'edificio. 56 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE E sul concorso tra tali due tipi di responsabilità che è stata risolta la questione di massima sottoposta all'esame delle Sezioni Unite. 2. L'ordinanza interlocutoria. Nel corso del giudizio di merito, le decisioni del Tribunale e della Corte di appello si erano uniformate al principio espresso dalla sentenza delle Sez. U, n. 02672/1997, Calabrese, Rv. 106087, emessa in sede di risoluzione di contrasto, secondo cui: "poiché il lastrico solare dell'edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dal citato art. 1126, vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo". Con ordinanza interlocutoria n. 13526 del 2014, la Seconda Sezione civile della Suprema Corte ritiene opportuno l'intervento delle Sezioni Unite per un ripensamento dell'indirizzo condiviso dalle corti di merito (Sezioni Unite n. 2672 del 1997) secondo cui obbligati, sia alle riparazioni che al risarcimento dei danni arrecati all'appartamento sottostante, sono i "condomini che usufruiscono della copertura del terrazzo in concorso con il proprietario superficiario", secondo la proposizione di cui all'art. 1126 c.c. Il Collegio ritiene necessaria una rivalutazione della questione, sia tenendo conto delle criticità espresse da parte della dottrina, sia in ragione di alcuni contrasti insorti nella giurisprudenza successiva, che avevano richiamato l'applicazione dell'art. 2051 c.c., nell'ipotesi di cattiva manutenzione di cose in uso esclusivo, al condominio, seguendo il principio che addebita il danno ascrivibile ai singoli o al condominio all'eventuale comportamento lesivo di chi lo ha cagionato. Si afferma che la linea di contrasto è percepibile anche a proposito della individuazione del legittimato passivo a resistere 57 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE all'azione risarcitoria del terzo (anche se condomino) danneggiato. Si introduce, secondo il Collegio in questo modo una distinzione tra l'ipotesi in cui si lamentavano danni dovuti a vetustà e danni riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, sancendo nel primo caso l'esclusiva legittimazione del condominio e nel secondo caso quella del condomino. Secondo la Seconda Sezione civile, va, altresì, considerato il fatto che quando l'illecito è rappresentato dalla condotta omissiva o commissiva dei condomini fonda una responsabilità aquiliana, la quale deve essere scrutinata secondo le rispettiva colpe e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali, senza utilizzare la normativa coniata ad altro fine. Il Collegio conclude, pertanto, ritenendo condivisibile la tesi che sostiene la responsabilità ex art. 2051 c.c., sottolineando, in particolare, l'indebita applicazione degli artt. 1123 e 1126 c.c., che venivano interpretati dalla sentenza del 1997, non più come norme che disciplinano la ripartizione delle spese interne, ma come fonti da cui scaturiscono le obbligazioni propter rem. 2.1. Riflessioni. Per schematizzare, la Corte, nell' ordinanza interlocutoria, individua alcuni dei passaggi qualificanti dell'orientamento criticato delle S.U. del 1997, ponendo in evidenza come la sentenza delle Sezioni Unite n. 3672 del 1997: 1. Escludeva, in via di principio "che la responsabilità per danni prodotti nell'appartamento sottostante dalle infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico solare per difetto di manutenzione si ricolleghi al disposto dell'art. 2051 cod. civ."; 2. Affermava che "dall'art. 1123 e dall'art. 1126 cod. civ. discendono obbligazioni poste dalla legge a carico ed a favore dei condomini dell'edificio, da qualificare come obbligazioni propter rem di cui i partecipanti al condominio sono ad un tempo soggetti attivi e soggetti passivi"; 3. Deduceva da tali premesse che : "le obbligazioni reali di conservazione riguarderebbero tutti i rapporti reali inerenti, con la conseguenza che la susseguente responsabilità per inadempimento concerne i danni arrecati ai beni costituenti il fabbricato"; 58 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE Si finiva così per assimilare "le condizioni materiali di dissesto e di degrado del lastrico" come species dell'unico concetto tecnico "di difetto di manutenzione" e quale coincidente conseguenza "dell'inadempimento delle obbligazioni propter rem"; La Corte giungeva alla conseguenza che la responsabilità ed il risarcimento dei danni sono regolati secondo gli stessi criteri di imputazione e di ripartizione, cioè quelli prescritti dall'art. 1126 cod. civ. Un aspetto rilevante, posto in evidenza nella ordinanza interlocutoria, consente una riflessione in ordine alla registrata discrasia tra l'imputazione della responsabilità e l'applicabilità dell'art. 1126 c.c.. Il Collegio fa esplicito riferimento alla "maggiore utilità che i condomini aventi l'uso esclusivo (quale piano di calpestio) traggano rispetto agli altri condomini che si giovano della funzione principale del lastrico, quella di copertura", colto nel collegamento tra "il diritto dei proprietari è l'utilità che essi traggono dai beni", ed è stato constatato che "il risarcimento prescinde da ogni considerazione sull'utilità che danneggiante trae dal pregiudizio arrecato, criterio contrario a quello che regge l'art. 1126 c.c., fondato sull'utilità del danneggiante". Questa obiezione assume rilievo in ragione della difficoltà a coniugare la ratio dell'art. 1126 c.c. con il sistema normativo di riferimento della responsabilità risarcitoria. In relazione a questo specifico aspetto, va precisato che l'interesse del condominio quale utilizzatore esclusivo del lastrico è un interesse individuale che si può distinguere, ma certamente non si contrappone, in quanto si coordina, con l'interesse che è comune ai condomini (e quindi anche al proprietario esclusivo del lastrico), in ordine alla funzione di copertura che lo stesso bene svolge. Questa è la ragione che, nell'ambito del rapporto tra il condomino uti singulus ed il gruppo dei partecipanti al condominio giustifica, nella ripartizione delle spese di manutenzione del lastrico solare, l'applicazione della disciplina specifica contenuta nell'art. 1126 c.c.. La soluzione del problema della responsabilità ha conseguenze rilevanti, in quanto non riguarda solo le modalità di allocazione del risarcimento del danno, ma anche la responsabilità per l'adempimento della correlativa obbligazione. Volendo fare una semplificazione molto suggestiva, il criterio di imputazione della 59 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE responsabilità per danni derivanti da infiltrazioni al lastrico solare si trova nella medesima condizione del passante che venga colpito da un pezzo di cornicione che si è staccato dal prospetto condominiale o del proprietario di una autovettura in sosta che da quest'ultimo accadimento abbia a subire danni al proprio bene. In questa prospettiva, le due norme l'art. 2051 c.c. e l'art. 1126 c.c. operano su piani completamente diversi, posto che la prima esprime una imputazione di responsabilità per le conseguenze negative derivanti da un evento danno che prescinde da un preesistente rapporto; la seconda esprime, invece, un criterio di ripartizione di spese erogate o da erogarsi in virtù dell'esistenza e della rilevanza sub specie iuris di una relazione condominiale. Orbene, dovendo ritenere assimilabili le due situazioni, in caso di danno derivante dal distacco del cornicione, i singoli condomini sarebbero tenuti a pagare secondo i criteri individuati dall'art. 1126 c.c.? A questo punto viene spontaneo ricordare l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità che, nelle ipotesi in esame, vede una legittimazione esclusiva del condominio, a cui fa pure cenno la Suprema Corte nella ordinanza interlocutoria, il quale potrà chiamare in giudizio i soggetti dai quali pretenda di essere garantito, sia pure nella forma della garanzia impropria (Sez. 3, n. 00020/2010, Frasca, Rv. 610827). Molto interessante anche l'affermazione conclusiva operata dalla Seconda Sezione civile, laddove, con riferimento alla specie, discorre ex professo di "una responsabilità condominiale" che può essere accompagnata, ma anche sostituita, dalla responsabilità del singoli condomini. Se sussiste una responsabilità condominiale deve anche potersi ipotizzare l'esistenza di un "illecito condominiale", così come anche alla responsabilità aquiliana del singolo condomino deve corrispondere una fattispecie illecita diversamente caratterizzata. Una prospettiva come quella delineata non può non enfatizzare l'individualità del condominio e la soggettività della stesso. 3. La ripartizione delle spese tra condomini. Per comprendere il ragionamento a cui giungono le Sezioni Unite giova brevemente illustrare i criteri di ripartizione delle spese tra condomini. La ripartizione delle spese per la conservazione e il 60 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE godimento delle parti comuni dell'edificio è regolata dall'art. 1123 c.c., a norma del quale vengono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salva diversa convenzione. La dottrina dominante ritiene che la disciplina della ripartizione delle spese relativa alle cose, agli impianti ed ai servizi condominiali, contenute negli artt. 1123 c.c., sarebbe ispirata alla necessità di adottare i principi dettati in materia di comunione alle peculiarità della fattispecie condominiale, contraddistinta dalla possibilità che alcuni partecipanti ricavino dall'uso del bene comune una utilità maggiore rispetto a quella tratta dagli altri condomini. In particolare, la distribuzione delle spese in discorso sarebbe ispirata alla regola della obiettiva utilità, desumibile dalla interpretazione complessiva delle norme citate. Mentre l'art. 1123, comma 1, c.c., riprenderebbe, in ordine alle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio, il criterio della suddivisione in base alle quote di proprietà già enunciato in materia di comunione dall'art. 1104 c.c., i rimanenti commi della medesima disposizione, nel prevedere per le cose destinate a servire i condomini in maniera diversa la ripartizione proporzionata all'uso (potenziale), indicherebbero il principio generale in materia di condominio, che impone di modulare la contribuzione in ragione della obiettiva utilizzabilità della cosa, senza fare alcuna distinzione tra spese di conservazione e di godimento, tutte menzionate espressamente nel comma 1, ed indistintamente ricomprese nel richiamo generale operato dal capoverso. L'art. 1123, comma 2, c.c., stabilisce che se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura differente, le spese sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne. Secondo la S.C., nell'applicazione dell'art. 1123, comma 2, c.c., deve aversi riguardo non al godimento effettivo, bensì al godimento potenziale che il condomino può ricavare dalla cosa comune, atteso che quella del condominio è una obbligazione propter rem che trova fondamento nel diritto di comproprietà della cosa comune, sicché il fatto che egli non la utilizza non lo esonera dall'obbligo di pagamento delle spese suddette ( Sez. 2, n. 13160/1991, Marotta, Rv. 474933). 61 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE Un indirizzo ritiene che in ragione della formulazione dell'art. 1123, comma 2, c.c., si deve tenere conto anche del valore delle singole unità immobiliari. La norma di cui all'art. 1126 c.c., costituirebbe, nella prospettiva tradizionale, solo una speciale applicazione dei principi già enunciati, in quanto la misura del contributo sarebbe predeterminata dal legislatore sulla base della presunzione (assoluta) secondo cui l'utilità desunta dalla funzione di copertura del lastrico è doppia rispetto a tutte le altre (ad es. di calpestio, di affaccio ecc. ) ritraibili dall'utente esclusivo. Secondo l'indirizzo prevalente, se si tratta di beni destinati ad essere utilizzati dai condomini in misura diversa, le relative spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne. Per quanto a noi interessa, come sostenuto dalla giurisprudenza, le spese di rifacimento del tetto (o lastrico) di edificio diviso in più piani sono affrontate dai condomini ex artt. 1117 e 1123 c.c. in base al valore del piano o della porzione di esso appartenente a ciascuno in via esclusiva. Non è applicabile il principio di cui all'art. 1101 c.c. in materia di comunione, per cui le spese gravano sui partecipanti in eguale misura. Il che trova spiegazione nella funzione meramente strumentale delle parti comuni rispetto alle parti in proprietà esclusiva dei condomini delle quali esse sono a servizio, consentendone l'uso. I contributi per la conservazione, quindi, vanno ricondotti al criterio dell'appartenenza e si dividono in proporzione alle quote; le spese per l'uso, aventi origine dal godimento soggettivo e personale, si suddividono in proporzione all'uso e misura di esso. Le spese per la conservazione costituiscono obbligationes propter rem", dove il nesso tra l'obbligo e la res non è modificato da alcuna interferenza con l'elemento soggettivo. L'obbligazione di concorrere alle spese per l'uso, invece, scaturisce da questo e, ciò che più conta, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza. Il contributo è adeguato al godimento, che può cambiare in ordine alla cosa da un condominio ad altro in modo autonomo rispetto al valore della quota. In sostanza, come è stato autorevolmente affermato, l'ordinamento, circa l'imputazione e la ripartizione delle spese, dà rilevanza al rapporto di diritto in un caso, alla relazione di fatto nell'altro. 62 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE In sintesi, la ripartizione delle spese necessarie per le parti comuni dell'edificio avviene proporzionalmente tra tutti i condomini (art. 1123, comma 1, c.c.). La proporzionalità non trova applicazione nel caso fosse utilizzabile il criterio della riparazione in base alle singole utilizzazioni effettive dei proprietari. Così, se il bene servisse i condomini in misura diversa, le spese vanno commisurate all'uso che ciascuno può farne, non al valore delle singole proprietà. Si precisa, infatti, che "il logorio che determina la necessità della manutenzione, infatti, dipende dall'uso, per cui è giusto che alle relative spese i condomini contribuiscano in funzione dell'uso individuale"[TRIOLA, 2007]. Il principio di proporzionalità fra spese ed uso, (secondo cui le spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio sono ripartite, qualora si tratti di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può farne), comporta che ove la possibilità dell'uso sia esclusa, con riguardo alla destinazione delle quote immobiliari di proprietà esclusiva, per ragioni strutturali indipendenti dalla libera scelta del condominio, va escluso anche l'onere del condomino stesso di contribuire alle spese di gestione del relativo servizio. 4. Il lastrico solare. Con riferimento al lastrico solare, diversi possono essere i criteri di ripartizione delle spese, secondo il diverso regime di utilizzabilità di tale manufatto. Il lastrico non è praticabile, servendo al solo fine di copertura dell'edificio, al pari del tetto: in tal caso le spese devono essere ripartite tra tutti quanti i condomini in base all'art. 1123, comma 1, c.c., ossia secondo le tabelle millesimali di comproprietà. L'obbligo di concorso alle spese non grava su quei condomini che non traggono alcun vantaggio (neppure potenziale) dal bene: così in presenza di appartamenti localizzati in distinti corpi di fabbrica o posti in fabbricati che, pur facendo parte dello stesso corpo, si trovino tuttavia (come nel caso di costruzioni a sezione di minore area rispetto a quella di base) a livello superiore a quello del lastrico. Il lastrico solare è praticabile da tutti quanti i condomini: trovano applicazione i criteri suindicati, e tenuto conto che comprende anche la struttura su cui appoggia il manto di materiale impermeabile che ricopre l'edificio, le relative spese di riparazione e 63 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE manutenzione fanno carico a tutti condomini nella misura prevista dall'art. 1123 c.c. Il lastrico solare è, infatti, di proprietà comune ed al condominio incombe, pertanto, l'obbligo di eseguire tutti i lavori necessari affinché la copertura dell'edificio sia perfettamente efficiente e rispondente allo scopo per cui fu costruita, essendo altrimenti responsabile di ogni possibile danno, compresi quelli prodotti eventualmente alla struttura di sostegno. La responsabilità del condominio trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo di curare la conservazione delle cose comuni, che al condominio appartiene per espressa previsione legislativa (art. 1104, 1118, c.c.). Diversa è la situazione in cui il lastrico solare è utilizzabile soltanto da uno o più condomini determinati. La fattispecie, da ultimo richiamata, è espressamente disciplinata dall'art. 1126 c.c. che ripartisce l'onere delle spese: un terzo a carico di coloro che hanno l'uso esclusivo del lastrico ed i residui due terzi a carico dei rimanenti condomini, cui il lastrico serve (ossia i condomini le cui abitazioni si trovino nella colonna d'aria sottostante il lastrico, non necessariamente, peraltro, con riferimento alla sola parte da riparare, in caso di intervento parziale), in proporzione del valore di piano o della porzione di piano di ciascuno (secondo cioè l'art. 1123, 1 comma, c.c.). Ove il lastrico sia di uso esclusivo di più condomini, la quota di un terzo su di essi gravante dovrà essere ripartita in ragione del criterio di cui all'art. 1123, 1 comma, c.c. Il condomino che, oltre ad avere l'uso esclusivo del lastrico, sia anche proprietario di un'unità immobiliare ad esso sottostante, è tenuto ad un duplice contribuzione alle spese: per un terzo, quale utente esclusivo del manufatto, e per i rimanenti due terzi, in proporzione alla sua unità immobiliare, quale proprietario della stessa. Fanno, invece, capo soltanto a chi ha diritto esclusivo di calpestio, le spese relative ai parapetti e altri simili ripari, atteso che essi servono non già alla copertura, ma alla praticabilità del lastrico. Nel caso in cui una parte dell'edificio che, in base all'art. 1117 c.c., dovrebbe considerarsi comune, sia in proprietà esclusiva di un condomino, il diritto di quest'ultimo non può considerarsi pieno ed assoluto, essendo limitato dal concorrente diritto degli altri condomini a che tale parte adempia alla propria funzione tipica. In sostanza, può essere di proprietà esclusiva, ma su di esso non 64 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE possono essere costituite servitù suscettibili di incidere negativamente sui diritti dei condomini. Il diritto di proprietà deve essere inteso come limitato dal concorrente diritto degli altri condomini a che il lastrico (o la terrazza a livello) adempia a funzione di copertura, onde il diritto del comproprietario non può considerarsi in alcun caso "pieno ed esclusivo", ma contemperato anche alle utilità che gli altri condomini ricevono dal lastrico medesimo, cui corrisponde il loro obbligo di concorso, proporzionale all'utilità nelle spese di ricostruzione e riparazione. Può anche verificarsi l'ipotesi, abbastanza frequente, che il lastrico appartenga a persona che non è proprietaria di alcun appartamento nel condominio. In ragione della utilitas arrecata al condominio si stabilisce che la manutenzione del lastrico, come del terrazza a livello, devono provvedere tutti i condomini cui il lastrico (o la terrazza) funge da copertura, in concorso con l'eventuale proprietario superficiario o titolare del diritto di uso esclusivo secondo le proporzioni imposte dall'art. 1126 c.c. già menzionato. Si precisa che la norma, nel disciplinare la ripartizione delle spese di riparazione e ricostruzione del lastrico solare per cui ne ha l'uso esclusivo, non specifica la natura reale o personale di esso, né al fine rileva l'attribuzione millesimale, utilizzata come criterio per contribuire agli oneri condominiali. Secondo la S.C., essendo lecito attribuire il tetto di un edificio in condominio in proprietà esclusiva ad un condomino, nulla vieta che nell'operare tale attribuzione si addossino pure a quel condomino tutte le spese relative alla manutenzione del bene di sua esclusiva proprietà; deve soltanto riconoscersi l'esigenza di una espressa e specifica pattuizione in quel senso, non potendosi presumere, nel silenzio del titolo, che il condominio, per il fatto di riservarsi formalmente tale proprietà esclusiva, intenda assicurare ai proprietari l'esonero di ogni concorso nelle spese di manutenzione . Nel caso in cui manchi tale principio, le spese di manutenzione del tetto stesso vanno ripartite tra tutti i condomini, con i criteri di cui all'art. 1126 c.c., come stabilito per i lastrici solari di uso esclusivo. 65 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità ritiene che l'art. 1126 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui il lastrico solare sia di proprietà esclusiva di un condomino. Per un orientamento della dottrina [R. TRIOLA, 1996], le spese per la manutenzione del lastrico solare in proprietà esclusiva vanno ripartite allo stesso modo di quelle in uso esclusivo, secondo il criterio previsto dall'art. 1126 c.c., dovendosi precisare che tale disposizione non va applicata in via diretta (dal momento che disciplina l'ipotesi del lastrico solare comune con semplice diritto di uso esclusivo in favore di un condominio), ma mediante ricorso all'analogia, da ritenere consentito in considerazione del carattere semplicemente speciale e non eccezionale di tale norma e della ricorrenza della identità di ratio. Infatti, sia nel lastrico solare comune con uso esclusivo in favore di un solo condomino, che nel caso di lastrico solare in proprietà esclusiva, l'usura che rende necessarie le opere di manutenzione o riparazione è ricollegabile, in una certa misura, al godimento di un solo condomino, che non quantitativamente diverso nelle due ipotesi. Per la tesi prevalente, la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione dei lavori di manutenzione e ripristino va proposta nei confronti del condominio, in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, e non già del proprietario del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all'esecuzione dei lavori in questione, al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici, ed ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione. Alcuni autori [TRIOLA, 2007 CIT.] non condividono questa impostazione, obiettando che non si riesce a comprendere in che modo potrebbe essere emessa nei confronti del condominio una condanna ad eseguire lavori su una proprietà di un condomino. La domanda, invece, sarà proposta dal condominio nei confronti del proprietario esclusivo del lastrico, che potrà pretendere il contributo nelle spese dai condomini(Sez. 3, n. 05848/2007, Mazza, Rv. 597528). 5. Lastrico solare in uso esclusivo e danni a terzi. La questione della responsabilità dei danni per infiltrazioni del lastrico 66 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE solare è stata oggetto, anche in passato, di una vastissima giurisprudenza spesso contrastante. Al riguardo, infatti, né dottrina, né giurisprudenza hanno trovato una soluzione definitiva. La questione spesso oggetto di esame riguardava l'omessa manutenzione del lastrico di proprietà o di uso esclusivo di un solo condomino, da cui derivavano danni (alla proprietà di altri condomini o alle persone dei terzi). La giurisprudenza si era orientata sostanzialmente seguendo tre indirizzi: 1. Alcune pronunce ritenevano responsabile il solo usurario o proprietario, in quanto custode della terrazza o del lastrico. Secondo tale tesi, il criterio di ripartizione delle spese, sopra menzionato, trovava il suo fondamento nella norma contenuta nell'art. 1126 c.c., volta a disciplinare soltanto i rapporti tra i condomini, fondati sul vincolo imposto dalla comunione forzosa ai singoli proprietari delle unità immobiliari dell'edificio, nel quale risiedeva la causa di siffatta regolamentazione. 2. Un indirizzo prevalente, invece, ravvisava la responsabilità del condominio. La ratio andava trovata nella funzione svolta dal lastrico solare di copertura dell'intero fabbricato. Di conseguenza, il condominio avrebbe dovuto averne la custodia, occupandosi della relativa manutenzione e rispondere di eventuali danni. Si stabiliva l'imputazione del quantum a cui era tenuto ogni singolo condomino per il conseguente risarcimento al terzo danneggiato secondo i criteri determinati dall'art. 1126 c.c. 3. Un altro indirizzo fondava la responsabilità per i danni cagionati ai terzi dalla rovina del bene nel disposto dell'art. 2051 c.c. e, quindi, nella violazione degli obblighi derivanti dalla qualità di custode del bene stesso. Custode era il soggetto avente un rapporto diretto e giuridicamente rilevante con il bene. La giurisprudenza prevalente individuava quale legittimato passivo il condominio, in persona dell'amministratore, ai sensi dell'art. 2051 c.c., mentre l'art. 1126 aveva, secondo questo orientamento, la funzione interna di ripartire il risarcimento tra i condomini. Quindi anche i danni, al pari delle spese, erano da ripartire in funzione del citato articolo 1126 c.c. 67 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE 6. La sentenza delle Sezioni Unite, 29 aprile 1997, n. 3672. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, Sez. U, n. 03672/1997, Corona, Rv. 503962, sono intervenute per dirimere i suddetti contrasti, statuendo che la responsabilità per danni prodotti all'appartamento sottostante dalle infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico solare (lastrico condominiale o in proprietà o uso esclusivo), per difetto di manutenzione, non vada ricollegata al disposto dell'art. 2051 c.c., ma all'art. 1123 c.c., nel caso di lastrico condominiale, e all'art. 1126 c.c., nel caso di lastrico in proprietà o uso esclusivo. Ne consegue che dei danni cagionati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, parimenti rispondono tutti gli obbligati inadempienti al vincolo di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c., vale a dire i condomini ai quali il lastrico serve di copertura, in misura di due terzi, ed il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo, in ragione della residua frazione di un terzo. Le Sezioni Unite, con la decisione in commento, hanno ritenuto che la responsabilità per i danni si ricollegasse, piuttosto che al disposto dell'art. 2051 c.c., ed al generale principio del neminem laedere, direttamente alla titolarità del diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come conseguenza dell'inadempimento delle obbligazioni di conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini (art. 1223, co. 1, c.c.) e del titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo (art. 1126 c.c.). Secondo la Corte, tanto l'art. 1123 co. 1, c.c., quanto l'art. 1126 c.c. vengono qualificati come tipi di obbligazioni propter rem, contrassegnate dalla titolarità, giacché soggetti attivi e soggetti passivi ne sono i partecipanti al condominio, e dall'oggetto, consistente nella prestazione delle spese per la conservazione dei beni esistenti nell'edificio. Le obbligazioni reali di conservazione coinvolgerebbero tutti i rapporti reali riguardanti l'edificio, con la conseguenza che la responsabilità per inadempimento deve coprire i danni arrecati ai beni comuni costituenti il fabbricato. La Corte precisa che, se alle riparazioni ed alle ricostruzioni del lastrico solare sono obbligati i condomini secondo le regole previste dagli artt. 1123 e 1126 c.c., al risarcimento dei danni cagionati all'appartamento sottostante per 68 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE difetto di manutenzione dovrebbero essere tenuti gli obbligati inadempienti. Si fa salva l'eventualità che con l'individuata responsabilità per inadempimento delle obbligazioni propter rem potesse concorrere la responsabilità extracontrattuale per fatto illecito, fondata nel disposto dell'art. 2051 cod. civ. e nascente dalla lesione di un diritto soggettivo dei condomini estraneo ai rapporti di condominio (per esempio, del diritto alla salute del proprietario del piano sottostante), ovvero dalla lesione di un diritto dei terzi che entrano in relazione con l'edificio. Secondo la Corte, le norme condominiali elaborate dal nostro legislatore sembrano essere riferite essenzialmente al profilo "reale" del fenomeno, pertanto, mediante il ricorso al diritto delle obbligazioni può ritenersi configurato il generale dovere di correttezza e di cooperazione attiva tra i condomini, idoneo a preservare le esigenze abitative dei vicini. Devono, quindi, trovare applicazione i canoni fissati dall'art. 1218 c.c. per le obbligazioni contrattuali, salva l'eventualità di un fatto illecito commesso dal titolare del diritto reale, che configura una responsabilità extracontrattuale. Nella parte motiva della sentenza n. 9449 del 2016, si legge che i profili critici della soluzione data dalla decisione del 1997 vanno inquadrati in ciò che risulta attratta ad una disciplina di tipo obbligatorio una situazione in cui viene in rilievo la produzione di un danno ad un terzo, per effetto della violazione di un obbligo di custodia e comunque nel dovere di manutenzione della cosa comune. 7. La giurisprudenza successiva. La suddetta sentenza non ha uniformato la giurisprudenza successiva, infatti, alcune pronunce della Suprema Corte (Cass. n. 06376/2006, Cass. n. 00642/2003; Cass. n. 15131/2001; Cass. n. 07727/2000) hanno espresso indirizzi difformi richiamando l'applicazione dell'art. 2051 c.c. Si è, infatti, sostenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, essendo obbligato ad adottare tutte la misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, in base al disposto dell'art. 2051 c.c., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ancorché i danni siano imputabili ai 69 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE vizi edificatori dello stabile, comportanti la concorrente responsabilità del costruttore – venditore, non potendosi equiparare i difetti originari dell'immobile al caso fortuito, che costituisce l'unica causa di esonero del custode della responsabilità dell'art. 2051 c.c. Quindi, secondo questo indirizzo della giurisprudenza, la legittimazione passiva del condomino sussiste anche per quanto riguarda i danni subiti dai singoli condomini, in quanto, a tal fine, i criteri di ripartizione delle spese necessarie (ex art. 1126 c.c.) non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio ai sensi dell'art. 1130 c.c. 8. I criteri di imputazione della responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c. La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c., individua un'ipotesi di responsabilità oggettiva, per la cui configurazione è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato origine all'evento lesivo, ed essendo esclusa solo dal caso fortuito, la S.C. ha affermato che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno e risponde dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini. Per la sussistenza di una responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente la prova del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, mentre non assume rilievo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone, né implica, uno specifico obbligo di custodia analogo a quello previsto per il depositario, responsabilità a chi, di fatto, si trova nella condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa. La speciale responsabilità ex art. 2051 c.c. va ricercata nella circostanza che il custode ha il potere di governo sulla cosa. Grava, pertanto, sui condomini la responsabilità per danni subiti da terzi (nel novero dei quali vanno ricompresi anche i conduttori di appartamenti siti nell'edificio), in conseguenza di omissioni addebitabili all'amministratore del condomino ovvero di inerzia da 70 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE parte dell'assemblea condominiale nell'adottare gli opportuni provvedimenti atti ad eliminare una situazione di pericolo. Il più intenso dovere di vigilanza e di precauzione si estende a tutti i danni derivanti da un dinamismo connaturato alla cosa, ovvero per lo sviluppo di un agente dannoso sorto dalla cosa medesima. L'art. 2051 c.c. istituisce una relazione temporale soltanto tra il momento in cui si verifica il danno ed il periodo durante il quale si attua la custodia della cosa, senza attribuire rilevanza cronologica al momento in cui sono cominciati i fatti produttivi del pregiudizio. Nulla impedisce che la serie eziologica sfociata nel danno riferibile in ultima istanza alla cosa venga avviata in epoca anche notevolmente anteriore a quella dell'inizio della custodia, sempre che sia poi individuabile un contributo causale dell'azione o dell'omissione del "custode" alla realizzazione dell'evento. La prevalente giurisprudenza non esita a riconoscere la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. pure quando tra gli antecedenti causali del danno sia presenti delle cause naturali. Né vi è ragione di escludere a priori l'applicabilità della norma quando nella serie eziologica siano inserite attività umane incidenti sul bene produttivo del pregiudizio economico. Il custode del bene ha il dovere di accertarsi che il bene oggetto della sua vigilanza, si trovi in situazione tale, per il dinamismo ad esso connaturato e per lo sviluppo di un agente dannoso in esso insorto, da cagionare danni a terzi e nel caso positivo, di adottare tempestivamente le cautele idonee ad evitare la degenerazione della situazione da pericolosa a dannosa. Il caso fortuito è il limite alla responsabilità del custode. Secondo la comune opinione la nozione di caso fortuito deve essere concepita in termini relativamente ampi, e vi rientra anche il fatto del danneggiato e della condotta del terzo. Una parte rilevante degli interpreti ritiene che il caso fortuito è astrattamente comprensivo non solo delle cause successive, ma anche delle serie eziologicamente antecedenti alla condotta posta in essere dal custode. La giurisprudenza è unanime nell'affermare la responsabilità del condominio se e quando dalla mancata manutenzione del lastrico solare derivi un danno all'appartamento sottostante. La S.C., Sez. 3, n. 17983/2014, Sestini, Rv. 632560, ha affermato il principio 71 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE che il condominio risponde, ai sensi dell'art. 2051 c.c. dei danni ai terzi subiti da terzi estranei ed originati da parti comuni dell'edificio, mentre l'amministratore, in quanto tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell'art. 1218 c.c., solo all'azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati. In passato sul presupposto che il condominio sarebbe privo di soggettività giuridica, ma è un autonomo centro di imputazione di interessi, non identificabile con i singoli condomini, si è affermato che in tema di responsabilità extracontrattuale, se il danno subito da un condomino sia causalmente imputabile al concorso di un condomino e di un terzo, al condomino che abbia agito chiedendo l'integrale risarcimento dei danni solo nei confronti del terzo, il risarcimento non può essere diminuito in ragione del concorrente apporto causale colposo imputabile al condominio, applicandosi in tal caso non l'art. 1227, comma 1, ma l'art. 2055, comma 1, c.c., che prevede la responsabilità solidale degli autori del danno. Oggi questa impostazione potrebbe essere rivalutata in ragione del riconoscimento, da parte della recente giurisprudenza di legittimità, di una soggettività giuridica in capo al condominio. Le Sez. U, n. 19663/2014, San Giorgio, Rv. 632218, la Corte ha stabilito che in caso di violazione del termine ragionevole di durata del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parti in causa, la legittimazione ad agire per l'equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell'amministratore, autorizzato dall'assemblea dei condomini. Con riferimento al lastrico solare ed alla terrazza a livello di uso esclusivo o di proprietà esclusiva, la tesi che sostiene la riconducibilità dei danni derivanti da infiltrazioni all'art. 2051 c.c. fa riferimento alle tesi argomentative esposte. Numerose sono le sentenze della Corte che ritengono configurarsi la responsabilità del condominio, quale custode ex art. 2051 c.c., per i danni derivanti al singolo condomino o a terzi per 72 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE difetto di manutenzione del lastrico solare (ex plurimis, Sez. 2, n. 00642/2003, Cioffi, Rv. 559836). In particolare, con la decisione richiamata si precisa anche che la domanda di risarcimento dei danni è proponibile nei confronti del condominio in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione, ivi compreso il proprietario del lastrico o colui che ne ha l'uso esclusivo. Secondo la Corte, i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione del lastrico solare, e più in generale di tutte le parti comuni dell'edificio condominiale, stabiliti dagli artt. 1123 – 1126 c.c., non incidono su tale legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, che a tale manutenzione è tenuto, comunque, a provvedere. La giurisprudenza di merito, con riferimento a tale obbligo di custodia, ha anche sostenuto che i proprietari dell'appartamento sottostante al lastrico hanno l'obbligo, accertata la colpevole inerzia del condominio, di attivarsi direttamente per provvedere all'esecuzione delle necessarie opere di manutenzione; infatti, l'inerzia dell'assemblea non può esonerare i titolari del diritto di uso esclusivo del lastrico solare dal provvedere, sia pure in via di urgenza, all'esecuzione delle opere necessarie al fine di evitare che vengano cagionati danni a terzi, atteso che ciò discende dal citato obbligo di conservazione che grava anche in capo ai titolari della proprietà superficiaria o del diritto di uso esclusivo. (Trib. Torino 9 giugno 1998, n. 3390). Come si è detto, in queste ipotesi la condotta pregiudizievole può concretizzare una ipotesi di responsabilità ex art. 2051 c.c., in capo al condominio, ma nulla esclude, secondo alcuni, che possa configurarsi l'operatività dell'art. 2055 c.c. Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 12606/1995, Sabatini, Rv. 494988) ha affermato il principio che, in caso di danni a terzi determinati dalla omessa esecuzione dei lavori di manutenzione straordinaria della terrazza a livello di un edificio in condominio, tutti i condomini sono solidalmente responsabili ex art. 2055 c.c., ed ai fini della determinazione delle quote nei rapporti interni, si applicherebbe il criterio di cui all'art. 1126 c.c. Secondo 73 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE questa decisione, infatti, la responsabilità ex delicto investirebbe in realtà i soli rapporti tra danneggiato e danneggiante, mentre nei rapporti interni tra questi ultimi, sono diverse le norme che vengono in considerazione. Un altro indirizzo ritiene che la responsabilità per il danno provocato dalla cosa in custodia può configurarsi anche qualora la cosa sia in comproprietà e, in tale ipotesi, danneggiato può essere anche uno dei comproprietari, come nel caso di danni da infiltrazioni di acqua provenienti da un terrazzo a livello, con funzione anche di copertura degli appartamenti sottostanti, che, formando oggetto di custodia e il proprietario dell'appartamento sottostante, non coinvolge il condominio come tale e l'amministrazione stesso. 9. La soluzione del contrasto. Le Sezioni Unite con la sentenza n. 09446/2016, dopo aver illustrato i vari indirizzi della dottrina e della giurisprudenza in materia ed il sollevato contrasto, sulla base dei rilievi critici sollevati nell'ordinanza interlocutoria, affermano che, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usurario esclusivo, sia il condominio, nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, secondo i criteri offerti dall'art. 1126 c.c. La responsabilità per danni da infiltrazioni prodotte dal lastrico solare o dal terrazzo di proprietà o di uso esclusivo è attratta all'ambito di operatività dell'art. 2051 c.c., avuto riguardo alla posizione del soggetto che del lastrico o della terrazza abbia l'uso esclusivo. Proprio in ragione della funzione assolta dal lastrico solare o della terrazza posta a copertura dell'edificio o di una sua parte, sia configurabile anche una concorrente responsabilità del condominio, nel caso in cui l'amministratore ometta di attivare gli obblighi conservativi delle cose comuni su di lui gravanti ai sensi dell'art. 1130, primo comma, n. 4, c.p.c., ovvero nel caso in cui l'assemblea non adotti le determinazioni di sua competenza in materia di opere di manutenzione straordinaria, ai sensi dell'art. 1135, comma 1, n. 4, 74 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE c.p.c. In particolare, ai pone in evidenza, accogliendo le obiezioni sollevate dalla dottrina più attenta, come sia difficile comprendere che una disciplina di tipo obbligatorio attragga una situazione in cui viene in rilievo la produzione di un fanno ad un terzo per effetto della violazione dell'obbligo di custodia e comunque del dovere di manutenzione della cosa comune. Rilevato che la previsione legislativa della responsabilità del concorso tra il condominio ed il condomino che abbia l'uso esclusivo del lastrico solare o di una sua parte, di cui all'art. 1126 c.c., trova la propria giustificazione nella differente utilizzazione del bene comune e quindi nella necessità che chi abbia l'uso esclusivo della cosa comune concorra in misura maggiore alle spese, restano gli altri due terzi a carico degli altri condomini dell'edificio o della parte di edificio a cui il lastrico solare presta servizio, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano necessari alla conservazione delle parti comuni, ed all'assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria ex art. 1135 c.c. Sulla base del rapporto esistente tra la superficie del lastrico e della terrazza a livello, e la struttura immediatamente sottostante, che costituisce cosa comune, la regola di ripartizione della responsabilità va individuata nell'art. 1126 c.c. Secondo le Sezioni Unite il concorso di tali responsabilità, salvo la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all'uno o all'altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall'art. 1126 c.c., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usurario esclusivo del lastrico ( o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio. Si afferma testualmente: "In assenza di prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare o di una parte di questo, e tenuto conto che l'esecuzione di opere di riparazione o di ricostruzione necessarie al fine di evitare il deterioramento del lastrico o della terrazza a livello e il conseguente danno da infiltrazioni, richiede la necessaria collaborazione del primo e del condominio, il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all'uso e alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai fini della ripartizione del 75 CAP. V – LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE danno cagionato alla cosa comune che, nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione anche nell'interesse dell'intero edificio o della parte di questo ad essa sottostante. " La Corte adotta un indirizzo che media tra i due orientamenti precedenti. Le conseguenze di questa impostazione sono prevalentemente tre. Troveranno applicazione tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che l'acquirente di un appartamento in condominio non potrà essere ritenuto responsabile del pagamento degli obblighi risarcitori sorti in conseguenza di un evento dannoso verificatosi prima dell'acquisto dell'immobile, in quanto dei danni risponde chi era proprietario dell'immobile al momento del verificarsi dell'evento dannoso. Trova, conseguentemente, applicazione l'art. 2055 c.c., pertanto, il danneggiato può agire nei confronti del singolo condomino, sia pure nei limiti della quota imputabile al condominio. Trova anche applicazione l'intera disciplina dell'art. 2051 c.c., anche per i limiti alla esclusione della responsabilità del soggetto che ha la custodia del bene di cui è stato provocato il danno. Bibliografia SCARPA A., Le spese, in Il nuovo condominio, a cura di Triola R., Giappichelli, 2013 TRIOLA R., Manutenzione di lastrico solare in edificio condominiale: ripartizione del spese e responsabilità per danni, nota a Cass., Sez. III, 7 dicembre 1995, n. 12606, Giustizia civile, 1996, I 76 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA CAPITOLO VI L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA (di Francesca Picardi) SOMMARIO: 1. La questione: il compenso riscosso dopo la cessazione dell'attività. – 2. La soluzione delle Sezioni Unite: distinzione tra presupposto impositivo e condizione di esigibilità. – 3. Le opinioni della dottrina. – 4. La cessazione del presupposto soggettivo d'imposta per morte. – 5. Conclusioni. 1. La questione: il compenso riscosso dopo la cessazione dell'attività. Non è infrequente che un professionista cessi la propria attività, ponendo in essere tutti i relativi adempimenti fiscali, anche ai fini IVA, e solo successivamente riscuota un compenso per una sua precedente prestazione professionale. Ciò accade soprattutto ove il debitore sia fallito e la realizzazione del credito, oltre ad essere condizionata dai tempi della procedura concorsuale, resti del tutto incerta. In tale ipotesi si pone il problema della debenza dell'IVA, essendo venuto meno il presupposto soggettivo del tributo, consistente, ai sensi dell'art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nell'esercizio di imprese o di arti e professioni. Così, ad esempio, nella fattispecie pervenuta all'attenzione della Suprema Corte, il contribuente ha impugnato l'avviso di accertamento, notificatogli nel 2007, in relazione all'anno d'imposta 2002, allegando di aver cessato la sua attività di architetto nel 1997 e conseguentemente contestando la carenza del presupposto soggettivo IVA al momento della riscossione dei corrispettivi. L'Agenzia delle Entrate ha denunciato, con il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di merito favorevole al contribuente, la violazione degli artt. 5, comma 1, e 21 e la falsa applicazione dell'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, asserendo che la prestazione, se imponibile a fini IVA, al momento della sua esecuzione, deve necessariamente restare tale anche se il corrispettivo viene incassato successivamente alla cessazione dell'attività professionale, in quanto la realizzazione del compenso non integra l'evento generatore del tributo, ma solo il suo presupposto di esigibilità e l'estremo limite temporale per l'adempimento dell'obbligo di fatturazione. Ha, inoltre, richiamato la propria circolare 11/E del 16 febbraio 2007 e la propria risoluzione 232/E del 20 agosto 2009, secondo cui il contribuente ha l'obbligo di tenere aperta la partita IVA e procedere alla regolare fatturazione dei pagamenti ricevuti anche successivamente alla cessazione delle prestazioni relative alla sua 77 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA attività, ove abbia ancora pendenze creditorie e non vi rinunci, non coincidendo la cessazione dell'attività con quella dell'esecuzione delle prestazioni professionali, ma con l'estinzione di tutti i rapporti giuridici e la dismissione dei beni strumentali. Sez. 6-T, n. 24432/2014, Caracciolo, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima importanza avente ad oggetto l'imponibilità IVA dei compensi per prestazioni professionali percepiti dopo la cessazione dell'attività e la dismissione della partita IVA, concentrando l'attenzione sull'individuazione del momento di esaurimento del presupposto soggettivo di tale tributo, con conseguente attrazione nel campo dell'imposta di registro, e, cioè, sulla cessazione dell'attività professionale, senza porre in discussione l'orientamento consolidato secondo cui, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, il presupposto oggettivo dell' IVA si verifica, per le prestazioni di servizi, con il pagamento, in tutto o in parte, del corrispettivo, fatta eccezione per le ipotesi di cui al precedente art. 3, comma 3, dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972 o per quelle di fatturazione anticipata. Difatti, è stato più volte precisato che l'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione, sicché, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data in cui è stata storicamente eseguita, bensì quella di percezione del relativo corrispettivo (salvo il caso di precedente emissione di fattura). Tale principio è stato affermato per negare la sussistenza dell'obbligazione tributaria e del connesso obbligo di fatturazione prima della riscossione del corrispettivo, ma anche per individuare la disciplina applicabile in caso di successione di leggi nel tempo. In particolare, secondo Sez. T, n. 03976/2009, Scarano, Rv. 606704, e Sez. T, n. 13209/2009, Magno, Rv. 608594, le prestazioni di servizi sono soggette all' IVA, ai sensi dell'art. 3, comm 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, soltanto se rese verso corrispettivo e si considerano effettuate all'atto del relativo pagamento, cosicché prima di tale momento non sussiste alcun obbligo (ma solo la facoltà) di emettere fattura o di pagare l'imposta: ne consegue che la pretesa fiscale relativa ad una prestazione di servizi non può prescindere, in mancanza di fatturazione o autofatturazione spontanea, dall'accertamento che il pagamento del corrispettivo sia stato effettuato, non essendo sufficiente la dimostrazione della sussistenza materiale della prestazione; secondo Sez. 1, n. 11150/1995, Rordorf, Rv. 494387, 78 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA l'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, disponendo che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della sua percezione e la data di esecuzione della prestazione cui il corrispettivo si riferisce, per cui, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data nella quale storicamente la medesima sia stata eseguita, bensì (salvo il caso di precedente emissione di fattura) quella di percezione del relativo corrispettivo: pertanto, anche al fine di stabilire se sia stato o meno raggiunto dal contribuente, in un determinato arco di tempo, un certo volume d'affari da cui derivi l'obbligo di presentazione della dichiarazione annuale per l'assoggettamento ad IVA, il volume d'affari deve essere calcolato in relazione alla data di pagamento dei corrispettivi e non già a quella di effettiva esecuzione delle prestazioni professionali svolte. 2. La soluzione delle Sezioni Unite: distinzione tra presupposto impositivo e condizione di esigibilità. Le Sezioni Unite, pur dichiarando il ricorso inammissibile, in difetto di prova della sua notifica, hanno risolto la questione, ai sensi degli artt. 363, commi 3 e 4, c.p.c., per l'esigenza nomofilattica di rimuovere incertezze e prevenire contrasti interpretativi, ritenendo necessario distinguere, sia alla luce dell'art. 10 della direttiva n. 1977/388/CEE sia degli artt. 62, 63, e 66 della direttiva n. 2006/112/CE, il fatto generatore dell'imposta e, cioè, l'evento da cui scaturisce l'obbligazione tributaria, da identificare con l'espletamento dell'operazione (indifferentemente cessione di beni o prestazione di servizi), dalla sua esigibilità e, cioè dalla sua attitudine ad essere riscossa dall'erario. Ad avviso della Suprema Corte, la discrezionalità, conferita dall'ordinamento comunitario agli Stati membri, può investire esclusivamente le condizioni di esigibilità, ma non può estendersi al fatto generatore dell'obbligazione tributaria, sicché l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 deve essere interpretato nel senso di ritenere il pagamento mera condizione di esigibilità dell' IVA e non suo presupposto impositivo. Ciò, peraltro, è confermato dalla circostanza che il successivo art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972, in conformità con l'art. 90 della direttiva n. 2006/112/CE, prevede che l'inadempimento e la risoluzione del contratto non facciano venir meno l'obbligazione tributaria, ma incidano solo sulla determinazione della base imponibile. 79 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA Si è, inoltre, sottolineato che mentre è del tutto plausibile che muti il momento impositivo in considerazione della tipologia delle operazioni o anche delle scelte degli operatori, il fatto generatore del tributo, quale indice della capacità contributiva, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., deve restare ancorato al dato oggettivo omogeneo della materialità ed effettività della cessione dei beni o prestazione di servizi. A ciò si aggiunga che la coincidenza del presupposto d'imposta con l'ultimazione della prestazione, che non è nella completa disponibilità del contribuente, elimina il rischio di manovre elusive o fraudolente in danno di una risorsa dell'Unione europea ed assicura la neutralità fiscale dell' IVA, consentendo di estendere il tributo a tutte quelle operazioni che, essendo state poste in essere durante l'attività economica imprenditoriale o professionale, hanno beneficiato del regime fiscale IVA e delle relative detrazioni sugli acquisti. In conclusione, come ritenuto dalle Sez. U, n. 08059/2016, Cappabianca, Rv. 639482, il compenso del professionista va assoggetto ad IVA anche se percepito successivamente al venir meno del presupposto soggettivo del tributo e, cioè, alla cessazione dell'attività, ed alla sua formalizzazione, ove sia antecedente a tale momento il fatto generatore dell'obbligazione tributaria, da identificarsi, alla luce del diritto comunitario e del principio di neutralità fiscale, con l'espletamento della prestazione. 3. Le opinioni della dottrina. Come riconosciuto dalla dottrina, la presente ricostruzione è sicuramente coerente con il diritto dell'Unione Europea. Si sono, tuttavia, manifestate alcune perplessità relativamente alla nascita dell'obbligazione tributaria a carico del contribuente in base a direttive comunitarie, che non sono state integralmente e correttamente recepite nell'ordinamento interno, in cui, da un lato, è del tutto assente la distinzione tra fatto generatore e condizione di esigibilità del tributo e, dall'altro lato, l'art. 6, comma 3, del d.P.R n. 633 del 1972 fa coincidere l'esecuzione della prestazione di servizi con il pagamento del corrispettivo e non con il compimento dell'operazione nella sua materialità. In particolare è stato osservato che, in virtù del principio dell'estoppel (v., tra le altre, Corte di Giustizia, 21 ottobre 2010, C- 227/2009), ove le disposizioni di una direttiva comunitaria che, dal punto di vista sostanziale, siano incondizionate e sufficientemente precise, non sono state trasposte nell'ordinamento nazionale, lo 80 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA Stato membro inadempiente non può trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario, invocandone l'efficacia diretta nei confronti del contribuente, per cui si riconosce esclusivamente a quest'ultimo la possibilità di agire in giudizio contro le autorità interne per tutelare la posizione di vantaggio nascente dalla direttiva non attuata [CENTORE, 2016, 568; PEIROLO, 2016, 1952]. Si può, però, rilevare che la distinzione tra fatti costitutivi e condizioni di esigibilità di un diritto non deriva dalla disciplina comunitaria, ma appartiene alla configurazione stessa del rapporto obbligatorio e, pertanto, anche di quello tributario, la cui nascita, collegata ai presupposti d'imposta, non necessariamente coincide con la possibilità di riscossione. A ciò va aggiunto che l'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972 detta una disciplina funzionale non a delineare il tributo, ma a consentirne ed a facilitarne l'esazione, per cui si limita, come si evince dal suo tenore letterale, a stabilire delle mere presunzioni, in virtù delle quali le operazioni si considerano effettuate in un dato momento: presunzioni che non sono, peraltro, qualificate come assolute e sembrano, dunque, ammettere una prova contraria. I presupposti impositivi dell' IVA si ricavano, invece, dall'art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972 e consistono, in modo del tutto conforme alle direttive comunitarie, con le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio delle imprese o di arti e professioni e con le importazioni da chiunque effettuate. Non sembra, pertanto, che si ponga alcun problem di inadeguata trasposizione delle direttive comunitarie – in particolare della direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977 (77/388/CEE) e di quella del 28 novembre 2006 (2006/112/CE) – di cui sarebbe, dunque, vietata l'applicazione orizzontale tra i privati e quella a favore dello Stato membro inadempimente. Invero, la Suprema Corte si è limitata ad adeguare l'interpretazione delle disposizioni già presenti nel nostro ordinamento ai principi generali di diritto interno prima che ancora comunitario. In proposito è sufficiente sottolineare che il presupposto impositivo dell'IVA per i servizi, in quanto espressione della capacità contributiva, deve necessariamente coincidere, in ossequio agli artt. 3 e 53 Cost., con la materiale esecuzione della prestazione e non con la percezione del corrispettivo, così come avviene per le cessioni di beni e per alcune categorie di servizi - si pensi, ad esempio, a quelli resi in ambito transnazionale, per i quali, se non sono caratterizzati dalla periodicità, il momento di effettuazione dell'operazione coincide con l'ultimazione della prestazione in virtù 81 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA dell'ultimo comma dell'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, introdotto dalla legge 15 dicembre 2011 n. 217 in adempimento della direttiva 2010/45/UE del 13 luglio 2010. Va, difatti, osservato che può mutare il momento impositivo in considerazione della tipologia delle operazioni o delle scelte degli operatori, che hanno la facoltà di anticiparlo mediante l'emissione della fattura, ma il fatto generatore del tributo, quale indice della capacità contributiva, deve restare il medesimo, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., e non può, pertanto, essere sganciato dalla materialità ed effettività della cessione dei beni o prestazione di servizi. In conclusione, l'identificazione del presupposto impositivo con la materiale esecuzione della prestazione di servizi, oltre ad essere più coerente con il sistema comunitario, evita, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., quelle disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbero tra i contribuenti in considerazione del diverso trattamento fiscale a cui risulterebbero assoggettate: le cessioni di beni e le prestazioni di servizi; le diverse tipologie di prestazioni di servizi (e, cioè, quelle per cui opera e quelle per cui non opera, ai fini IVA, il principio di cassa); le medesime prestazioni di servizi in considerazione della eventuale volontaria anticipazione del momento impositivo con l'emissione della fattura. In definitiva, la distinzione tra fatto impositivo e condizione di esigibilità e l'identificazione del primo nella materiale esecuzione del corrispettivo trova il suo fondamento, prima ancora che nell'ordinamento comunitario, nel coordimamento, alla luce degli artt. 3 e 53 Cost., degli artt. 1 e 6 del d.P.R. n. 633 del 1972 e nei principi generali. 4. Problemi applicativi. Appare, pertanto, del tutto legittima la pretesa dell' IVA, da parte dell'Amministrazione finanziaria, per le prestazioni di servizi rese da un professionista, ma anche da un imprenditore nell'esercizio della rispettiva attività (professionale o imprenditoriale) pure ove il corrispettivo sia incassato successivamente alla cessazione, di cui, pertanto, diventa, irrilevante individuare l'esatto momento in cui si verifica [per l'estensione della conclusione delle Sezioni Unite anche all'ex imprenditore, v. espressamente PEIROLO, 2016, 1951]. Occorre, piuttosto, chiarire le modalità operative di tale regola. In assenza di un'espressa indicazione in tal senso, la cessazione dell'attività imprenditoriale o professionale, che è pur sempre espressione della libertà d'iniziativa economica, non sembra 82 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA poter essere subordinata né alla riscossione di un determinato credito, che, peraltro, resta del tutto incerta, né alla sua rinuncia. Parimenti non può essere imposta, in via interpretativa, la fatturazione, il cui obbligo di emissione è disciplinato in modo esaustivo dall'art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 e non è affatto collegato alla cessazione dell'attività, sorgendo solo nel momento in cui l'operazione si considera effettuata ai sensi del precedente art. 6, salve le deroghe espressamente previste. Non resta, dunque, che ritenere che al momento dell'eventuale riscossione del corrispettivo l'ex imprenditore o professionista deve pagare l'IVA, assolvendo i necessari adempimenti ed in particolare quello della fatturazione e della dichiarazione, e successivamente deve inserire nella propria dichiarazione annuale tale entrata non tra i redditi diversi, configurati come una categoria chiusa in base all'elencazione di cui all'art. 67 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ma quale reddito da lavoro autonomo o reddito d'impresa. Invero, l'adempimento degli obblighi formali connessi all'IVA presuppone la titolarità di una partita IVA, la cui attribuzione richiede, allo stato, in assenza di una disciplina ad hoc, una nuova denuncia di inizio attività ex art. 35 del d.P.R. n. 633 del 1972, da effettuare al solo fine di incassare il corrispettivo, per procedere immediatamente dopo alla denuncia di cessazione attività. De iure condendo, sarebbe alquanto opportuno un intervento del legislatore che disciplinasse tale ipotesi, prevedendo una dichiarazione speciale, diversa da quelle di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 633 del 1972, funzionale esclusivamente a realizzare il credito relativo alla pregressa attività imprenditoriale o professionale ed idonea ad esaurire tutti i relativi adempimenti relativi all'IVA, possibilmente senza costi a carico del contribuente, che potrebbe altrimenti, essere disencitavato e non incassare somme modeste. Nelle more, tuttavia, i problemi applicativi possono essere risolti con un'interpretazione estensiva dell'art. 35 d.P.R. n. 633 del 1972, tre le cui dichiarazioni può essere ricompresa quella di inizio attività, sia pure limitata alla realizzazione del credito pregresso. Ad ogni modo, l'applicazione di tale disposizione dovrebbe essere adattata dall'Agenzia delle Entrate al caso di specie: ad esempio, con l'elaborazione di un modulo specifico di contestuale inizio e fine attività, limitato alla realizzazione del compenso successivamente alla cessazione dell'attività, da compilare direttamente presso gli uffici ed a cui collegare la ri-attribuzione della precedente partita IV A. 83 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA 5. La cessazione del presupposto impositivo d'imposta per morte. Una delle possibili cause di cessazione dell'attività può essere la morte o l'estinzione del soggetto che la esercita. In passato si è sostenuto che i corrispettivi dei servizi espletati dall'imprenditore deceduto, ma riscossi dagli eredi, i quali non abbiano proseguito l'attività del de cuius, non ricadono nell'ambito applicativo dell'IVA, per assenza del presupposto soggettivo, che deve coesistere con quello oggettivo (Del Federico, Morte dell'imprenditore e successione nella ditta individuale, in Il fisco, 2007, 4718) e che alla medesima soluzione deve pervenirsi per il professionista e lavoratore autonomo, la cui morte "dà luogo all'immediata cessazione dell'attività, attesa la natura personale delle prestazioni rese", a nulla rilevando che "nello stesso luogo e senza interruzione, le medesime prestazioni vengano svolte da un altro lavoratore autonomo, anche se questo sia l'erede" (S. Sammartino, Profilo soggettivo del presupposto dell'IVA, Milano, 1975, 191). In questo stesso senso si era espresso il Ministero delle Finanze con la risoluzione ministeriale n. 501918 del 5 giugno 1973, in cui si legge "come è noto, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, le prestazioni di servizi si considerano effettuate, ai fini dell'applicabilità dell'imposta sul valore aggiunto, all'atto del pagamento dei corrispettivi, sempreché prima di tale evento non si faccia luogo al rilascio della fattura. Peraltro per l'assoggettabilità o meno al tributo delle operazioni in esame, occorre considerare se all'atto del verificarsi del predetto evento, pagamento dei corrispettivi, con i presupposti oggettivi coesistano i presupposti soggettivi voluti dalla legge ai fini dell'imposizione. In particolare, nel caso di decesso del titolare di un'impresa individuale prima del verificarsi del momento impositivo, poiché l'impresa ha cessato di esistere per effetto della morte del suo titolare, non vi è dubbio che i corrispettivi pagati agli eredi e riguardanti prestazioni rese dall'imprenditore deceduto devono considerarsi fuori del campo di applicazione dell'imposta sul valore aggiunto per assenza del presupposto soggettivo". E' evidente l'incompatibilità di tali posizioni con la soluzione delle Sezioni Unite che, distinguendo il presupposto impositivo dalla condizione di esigibilità dell'IVA, consente di collocare il primo quando l'imprenditore/professionista è ancora in vita e, dunque, quando ancora sussiste il presupposto soggettivo d'imposta. 84 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA L'Amministrazione finanziaria, adeguandosi alla Suprema Corte, potrà, peraltro, superare le contraddizioni del passato. Va, difatti, ricordato che, sebbene con riguardo al diverso problema delle imposte sui redditi, nella successiva risoluzione ministeriale n. 8/873 del 1° dicembre 1980, assumendosi una posizione opposta rispetto alla risoluzione ministeriale n. 501918 del 5 giugno 1973, gli onorari riscossi dagli eredi per l'attività professionale, svolta a suo tempo dal de cuius, erano stati classificati come redditi di lavoro autonomo, soggetti alla relativa disciplina impositiva, in quanto l'erede "per effetto della successione mortis causa subentra nei rapporti giuridico patrimoniali del de cuius lasciandoli inalterati", sicché non può variare il titolo del reddito prodotto dal de cuius e confluito tra i redditi dell'erede - tesi confermata dalla Sez. T, n. 04785/2009, Marinucci, Rv. 607666, secondo cui il credito relativo a prestazioni effettuate dal professionista costituisce, per la sua essenza, un reddito di lavoro autonomo, in quanto deriva dall'esercizio di un'attività professionale, e conserva detta natura anche se, a seguito della morte del professionista, la relativa somma venga corrisposta all'erede, il quale è dunque soggetto alla ritenuta d'acconto prevista dall'art. 25 del d.P.R. n. 600 del 1973. Anche in tale ipotesi sorge il problema pratico di come assolvere gli adempimenti connessi all'IVA Come noto, l'art. 35-bis del d.P.R.R. n. 633 del 1972 stabilisce che gli obblighi ai fini IVA derivanti dalle operazioni effettuate dal contribuente deceduto possono essere adempiuti dagli eredi, ancorché i relativi termini siano scaduti non oltre quattro mesi prima della data della morte del contribuente, entro i sei mesi da tale data. Atteso il tenore letterale dell'articolo, sembrerebbe difficile estendere la regola anche all'ipotesi in cui il credito del de cuius per attività professionale o imprenditoriale sia incassato dagli eredi oltre il termine ultimo di sei mesi dal decesso, sebbene questa sia l'unica strada ragionevole. Del resto, è plausibile che il termine ivi fissato si riferisca solo agli obblighi già insorti al momento del decesso, mentre per quelli che nascono successivamente, ferma la possibilità degli eredi di sostituirsi al de cuius negli adempimenti, il termine andrebbe individuato secondo la disciplina ordinaria. 5. Conclusioni. In definitiva, l'interpretazione delle Sezioni Unite, fondata sul coordinamento degli artt. 1 e 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, alla luce della distinzione di carattere generale tra fatti costitutivi e condizioni di esigibilità dell'obbligazione, appare conforme non solo all'ordinamento comunitario, ma anche ai 85 CAP. VI - L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva. Spetta ora agli operatori ed in particolar modo all'Agenzia delle Entrate, da un lato, individuare soluzioni applicative corrette e rispettose della libertà d'iniziativa economica e, dall'altro, assumere posizioni coerenti rispetto ai diversi tributi ed alle differenti cause di cessazione d'attività. Bibliografia CENTORE, La definizione euro-unionale del momento impositivo delle operazioni IVA, in Riv. giur. trib., 2016, 556; DEL FEDERICO, Morte dell'imprenditore e successione nella ditta individuale, in Il fisco, 2007, 4718; PEIROLO, Compensi soggetti a IVA anche se incassati dopo la cessazione dell'attività professionale, in Corr. trib., 2016, 1947; PERRINO, Valore aggiunto (imposta sul), Cessazione di attività professionale, Pagamento successivo del compenso, in Foro it., 2016, I, 1637; S. SAMMARTINO, Profilo soggettivo del presupposto dell'IVA, Milano, 1975. 86 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO CAPITOLO VII IL DECORSO DEL TERMINE DI DECADENZA PER L'ACCERTAMENTO NON IMPEDISCE ALL'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI CONTESTARE IL CREDITO CHIESTO A RIMBORSO CON LA DICHIARAZIONE (di Giuseppe Nicastro) SOMMARIO: 1. Il principio. – 2. La vicenda. – 3. I diversi orientamenti della Sezione tributaria e l'ordinanza interlocutoria n. 23529 del 2014. – 4. Il recupero dell'eccedenza d'imposta mediante la richiesta di rimborso in sede di dichiarazione. – 5. La sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016. – 6. Le prime reazioni della dottrina. – 7. Alcune considerazioni conclusive 1. Il principio. Con la sentenza n. 5069 del 2016 (Sez. U, n. 05069/2016, Cicala, Rv. 639014), le Sezioni unite civili hanno affermato il principio secondo cui, nel caso in cui il contribuente abbia esposto nella dichiarazione dei redditi un'eccedenza d'imposta, chiedendone il rimborso, l'amministrazione finanziaria può contestare il relativo credito anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento senza che abbia adottato alcun provvedimento (escludendo, così, la Corte che l'inutile decorso dei termini per l'accertamento possa comportare la cristallizzazione, nell'an e nel quantum, del diritto del contribuente al rimborso del menzionato credito). Ciò in quanto i termini decadenziali per l'accertamento operano limitatamente al riscontro dei crediti e non anche dei debiti dell'amministrazione, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum. 2. La vicenda. Con la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta 1° ottobre 1996-30 settembre 1997, una fondazione bancaria aveva chiesto, ai sensi dell'art. 94, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 − nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modificazioni apportate a tale d.P.R. dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344 − il rimborso dell'eccedenza d'imposta risultante dalla stessa dichiarazione. Il 21 settembre 2004 − decorsi, quindi, quasi sette anni dalla presentazione della dichiarazione − in mancanza di qualsiasi comunicazione o provvedimento in ordine all'avanzata richiesta di rimborso, la fondazione presentava all'amministrazione finanziaria una domanda di esecuzione dello stesso. Trascorsi novanta giorni 87 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO da tale domanda, in assenza di riscontri da parte dell'Agenzia delle entrate, la stessa fondazione, ai sensi dell'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, proponeva ricorso alla commissione tributaria provinciale avverso il rifiuto tacito della restituzione, deducendo che il credito relativo all'eccedenza d'imposta chiesta a rimborso con la dichiarazione, non essendo stato contestato dall'Agenzia delle entrate né in sede di liquidazione, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né in sede di accertamento in rettifica della dichiarazione, si era ormai consolidato, e chiedendo, perciò, la condanna della stessa Agenzia alla restituzione della detta eccedenza. La commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, condividendo la tesi della fondazione ricorrente secondo cui il credito esposto nella dichiarazione doveva ritenersi «ormai ineccepibile, se non altro per la scadenza dei termini di accertamento» (così la motivazione della sentenza della commissione tributaria provinciale). La Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna, pronunciandosi sull'appello proposto dall'ufficio, confermava la decisione di primo grado, con la motivazione che «l'Agenzia delle Entrate, in sede di appello cerca di contestare un credito ormai ampiamente consolidato riproponendo questioni di merito. Infatti, si tratta semplicemente di un credito derivante da una dichiarazione dei redditi MOD 760bis periodo 1/10/96 - 30/9/1997 presentata nel dicembre 1997. Pertanto bene ha fatto la CTP ad accogliere il ricorso del contribuente relativamente alla spettanza di capitale ed interessi». Tale ultima pronuncia veniva impugnata dall'Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione. 3. I diversi orientamenti della Sezione tributaria e l'ordinanza interlocutoria n. 23529 del 2014. La Sezione tributaria della Corte, assegnataria del ricorso, con l'ordinanza interlocutoria n. 23529/2014, trasmetteva gli atti al Primo Presidente della stessa Corte per l'eventuale rimessione della causa alle Sezioni unite civili, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., presentando essa la questione di massima di particolare importanza, già decisa in senso difforme dalla stessa Sezione tributaria, «se, qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini dell'imposta sui redditi, esponendo un credito di rimborso, l'amministrazione finanziaria sia tenuta, o no, a provvedere sulla richiesta di rimborso nei medesimi termini di 88 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO decadenza stabiliti per procedere all'accertamento in rettifica, con la conseguenza che, decorso il termine predetto senza che sia stato adottato alcun provvedimento, il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza – oppure no – nell'an e nel quantum». La soluzione negativa a tale questione − nel senso, cioè, dell'insussistenza dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere al rimborso del credito d'imposta richiesto in sede di dichiarazione entro il termine di decadenza previsto per l'accertamento in rettifica della stessa e della conseguente mancata cristallizzazione del diritto al rimborso per effetto dello spirare del detto termine senza che sia stato adottato alcun provvedimento – era stata sostenuta dalla Sezione tributaria della Suprema Corte con riguardo sia alle imposte dirette che a quelle indirette. Quanto alle prime, l'ordinanza interlocutoria ricordava le tre sentenze della Sezione tributaria Sez. T, n. 09524/2009, Magno, Rv. 606975, Sez. T, n. 02918/2010, Marinucci, Rv. 611875 e Sez. T, n. 11444/2011, Persico, Rv. 617247. Si erano, peraltro, espresse nello stesso senso anche le sentenze della stessa Sezione tributaria Sez. T, n. 04587/2010, Bognanni, non massimata, e Sez. T, n. 07899/2012, Cirillo, Rv. 622391. Sulla base della lettura di tali pronunce, sembra potersi affermare che, nelle stesse, la negazione del "consolidamento" del credito esposto nella dichiarazione dei redditi riposava, da un lato, sulla non perentorietà del termine previsto dall'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 per il controllo cosiddetto cartolare della dichiarazione (le stesse sentenze, peraltro, nell'escludere il "consolidamento" «anche quando l'amministrazione abbia omesso di procedere ad accertamento e rettifica della dichiarazione nel termine stabilito dall'articolo 43, D.P.R. 600/1973» – così la sentenza n. 9524 del 2009 – nulla dicevano in ordine alla perentorietà di tale termine per l'accertamento, previsto a pena di decadenza); dall'altro, sulla considerazione che, poiché l'azione del contribuente per il recupero dell'eccedenza d'imposta è sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale (e non al termine di decadenza dell'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602), resta «ferma [...] la conseguente possibilità per l'ufficio di opporre eccezioni». Quanto alle imposte indirette, l'ordinanza interlocutoria citava le tre sentenze della Sezione tributaria Sez. T, n. 00194/2004, D'Alonzo, Rv. 569366, Sez. T, n. 29398/2008, Carleo, Rv. 605973, e Sez. T, n. 08642/2009, Carleo, Rv. 607848. L'ordinanza interlocutoria evidenziava tuttavia come l'opposto avviso fosse stato, più di recente, consapevolmente e 89 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO motivatamente espresso dalla stessa Sezione tributaria con la sentenza Sez. T, n. 09339/2012, Olivieri, Rv. 622962, la quale aveva ritenuto inammissibile, alla stregua dei princípi della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, della certezza dei rapporti giuridici e dell'efficienza dell'amministrazione, che, a fronte dell'istanza di rimborso formulata dal contribuente con la presentazione della dichiarazione annuale, l'amministrazione finanziaria potesse postergare sine die il relativo provvedimento, avanzando, eventualmente, contestazioni in ordine alla sussistenza del diritto al rimborso e negando, di conseguenza, lo stesso a distanza di anni dall'istanza. Tale possibilità avrebbe determinato un'ingiustificata perdurante incertezza in ordine alla definizione del rapporto tributario, idonea a incidere negativamente non solo nei confronti del contribuente – che non può fare affidamento in tempi brevi sulla liquidità della somma chiesta in restituzione – ma anche nei riguardi della stessa amministrazione finanziaria che, ai fini della programmazione e dello svolgimento delle attività rientranti nella propria competenza, deve potere conoscere in tempo utile le effettive necessità finanziarie con le quali fare tempestivamente fronte all'adempimento delle proprie obbligazioni ed evitare i maggiori oneri patrimoniali determinati dall'eventuale ritardo colpevole. L'ordinanza interlocutoria proseguiva evidenziando che, secondo la sentenza n. 9339 del 2012, la disciplina positiva in materia di rimborsi d'imposta imporrebbe di distinguere il caso in cui il rimborso venga richiesto con un'autonoma istanza – ipotesi con riguardo alla quale la legge prevede anche il termine per l'adempimento da parte dell'amministrazione e le conseguenze dell'inadempimento della stessa (erano citati l'art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 602 del 1973, , l'art. 37, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 e gli artt. 38-bis e 38-ter del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) – dal caso in cui il rimborso sia invece richiesto con la dichiarazione annuale, rispetto al quale le norme tributarie «sembrano ricollegare l'obbligo di provvedere della PA in ordine alla richiesta di rimborso ai medesimi termini stabiliti per l'esercizio del potere di controllo delle dichiarazioni e di accertamento della maggiore imposta». Con riguardo a tale impostazione, l'ordinanza interlocutoria ritieneva peraltro opportuno rilevare – proprio in relazione all'esigenza di tutela dei princípi della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, della certezza dei rapporti giuridici e dell'efficienza dell'amministrazione sottolineata dalla sentenza n. 9339 del 2012 – 90 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO che quest'ultima, nell'affermare che il diritto al rimborso richiesto con la dichiarazione annuale si cristallizza nell'an e nel quantum una volta decorsi i termini di decadenza imposti all'amministrazione per procedere all'accertamento in rettifica, non risultava avere espressamente considerato, per un verso, le effettive possibilità di controllo, da parte della stessa amministrazione, circa l'esistenza dei presupposti per il godimento delle agevolazioni richieste con la dichiarazione e, per altro verso, il fatto che quando, come nella specie, il credito d'imposta nasce non da un mero computo aritmetico ma, appunto, da un'agevolazione fiscale (si trattava, in particolare, dell'esonero dalla ritenuta sui dividendi da partecipazioni azionarie e della riduzione alla metà dell'IRPEG previsti, in favore di alcuni soggetti, rispettivamente, dall'art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, e dall'art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601), è onere del contribuente richiedente provarne i relativi presupposti; onere che non sembra poter essere soddisfatto con la mera affermazione della ricorrenza degli stessi. D'altro canto − come già era stato sottolineato dalle pronunce favorevoli all'orientamento opposto a quello fatto proprio dalla sentenza n. 9339 del 2012 – ritenere che il provvedimento di diniego del rimborso non sia soggetto al termine decadenziale stabilito per procedere all'accertamento in rettifica e possa essere sempre emanato sino a che il contribuente abbia il diritto di ottenere il rimborso dell'eccedenza d'imposta, non comporterebbe uno "sbilanciamento" in danno del contribuente, posto che neppure lo stesso, quando chiede il rimborso in sede di dichiarazione, è vincolato ad un termine di decadenza, ma solo a quello di prescrizione. L'ordinanza osservava infine che, con riguardo ad un ipotetico atteggiamento dilatorio dell'amministrazione, occorreva considerare anche che, secondo la giurisprudenza della Corte (erano citate, come pronunce più recenti, le sentenze Sez. T, n. 21735/2014, Virgilio, non massimata, e Sez. T, n. 21737/2014, Napolitano, anch'essa non massimata), il contribuente che intenda impugnare il silenzio-rifiuto in ordine alla propria istanza di rimborso avanzata con la dichiarazione non deve attendere i termini di decadenza imposti all'amministrazione per la liquidazione e la rettifica della stessa. Si ricorda, per completezza, che la tesi favorevole alla "cristallizzazione" del diritto al rimborso esposto nella dichiarazione era stata sostenuta, oltre che dalla sentenza n. 9339 del 2012, anche da: relativamente alle imposte sui redditi, Sez. T, n. 11830/2002, Falcone, Rv. 556752, Sez. T, n. 01790/2005, Falcone, Rv. 581714, 91 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO Sez. T. n. 01154/2008, Napoletano, Rv. 601542, Sez. T, n. 17697/2009, Bisogni, non massimata, Sez. T, n. 26318/2010, Giacalone, non massimata sul punto, Sez. T, n. 09339/2012, Olivieri, Rv. 622962, Sez. T, n. 06701/2013, Cicala, non massimata, Sez. T, n. 24916/2013, Olivieri, non massimata sul punto; relativamente all'IVA, Sez. T, n. 19510/2003, Schirò, Rv. 569082, Sez. T, n. 15679/2004, Botta, Rv. 575527, Sez. T, n. 10192/2008, Lupi, non massimata, Sez. T, n. 28024/2008, D'Alessandro, Rv. 605826, Sez. T, n. 04246/2007, Di Blasi, Rv. 595976, Sez. T, n. 07963/2007, Genovese, non massimata. 4. Il recupero dell'eccedenza d'imposta mediante la richiesta di rimborso in sede di dichiarazione. La questione esaminata dalle Sezioni unite presuppone che dalla dichiarazione dei redditi presentata da un soggetto all'IRPEF o all'IRPEG (e ora all'IRES) risulti un'eccedenza d'imposta e che questa venga chiesta a rimborso dal contribuente con la stessa dichiarazione. L'eccedenza d'imposta ed il suo recupero sono attualmente disciplinati, per i soggetti all'IRPEF, dall'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, e, per i soggetti all'IRES, dall'art. 80, unico comma, dello stesso decreto. Tali disposizioni corrispondono agli artt. 19, comma 2 (per i soggetti all'IRPEF), e 94, comma 1 (per i soggetti all'IRPEG), dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo anteriore alle già citate modificazioni della fine del 2003. Nel ricorso all'esame delle Sezioni Unite, veniva specificamente in rilievo, come si è visto, l'art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo anteriore alla citata riforma. Per tale ragione, nell'esposizione si farà riferimento (salvo diversa indicazione) a tale disposizione. Come risulta dal testo della medesima, nonché del precedente art. 93, il contribuente, al momento della dichiarazione, una volta determinata l'imposta dovuta, provvede a scomputare dalla stessa i crediti d'imposta (attualmente, l'art. 80 del d.P.R. n. 917 del 1986 fa peraltro riferimento allo scomputo dei soli crediti per le imposte pagate all'estero), le ritenute d'acconto ed i versamenti in acconto di cui agli articoli precedenti. Nell'ipotesi in cui, da tale calcolo sottrattivo, risulti un importo positivo, egli dovrà effettuare il versamento a conguaglio dell'imposta dovuta; nel caso di importo negativo, si ha, invece, un'eccedenza di imposta, cioè un credito del contribuente nei confronti dell'erario. L'evidenziazione nella dichiarazione di un'eccedenza dipende, dunque, da un lato, dalla 92 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO determinazione dell'imposta dovuta, dall'altro, dagli elementi − crediti d'imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto − da questa scomputati. In ragione di ciò, si è sottolineata in dottrina «l'eterogeneità dei fattori che possono concorrere» [LA ROSA, 2006, 750] a determinare le eccedenze d'imposta, affermando, altresì, che gli stessi fattori causali, nei crediti da dichiarazione, «si fondono, elidendo ogni possibilità di collegamento del credito con le sue cause originarie» [LA ROSA, 2012, 217]. Sempre in dottrina, è stato ancora evidenziato come tale eterogeneità dei fattori causali che determinano le eccedenze d'imposta, unitamente alla «estraneità ad esse di quelle finalità ripristinatorie di assetti patrimoniali ingiustamente alterati che [...] caratterizza» l'indebito oggettivo, dovrebbe indurre ad escludere la riconducibilità delle eccedenze all'area del detto indebito [LA ROSA, 2006, 750]. L'art. 94 attribuiva poi al contribuente, come è noto, la scelta tra l'utilizzazione dell'eccedenza portandola in diminuzione dell'imposta relativa al periodo d'imposta successivo e la richiesta di rimborso della stessa in sede di dichiarazione; ipotesi, quest'ultima, che è quella che rileva nell'àmbito della questione esaminata dalle Sezioni unite. La disciplina vigente dell'art. 80 del d.P.R. n. 917 del 1986 prevede, peraltro, accanto alle due opzioni indicate, l'ulteriore possibilità per il contribuente di utilizzare l'eccedenza esposta in dichiarazione in compensazione ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Un'eccedenza d'imposta può aversi, d'altro canto, anche nell'àmbito della disciplina dell'IVA, ogni qual volta dalla relativa dichiarazione annuale risulti che l'ammontare detraibile dell'imposta subita sugli acquisti, aumentato dei versamenti effettuati in sede di liquidazione periodica, è superiore a quello dell'imposta dovuta in base alla stessa dichiarazione. In tale caso, ai sensi dell'art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, il contribuente ha il diritto di computare l'importo dell'eccedenza in detrazione dall'imposta a debito dell'anno successivo, ovvero di chiederne il rimborso. Tale ultima richiesta è consentita, peraltro, solo nelle ipotesi tassativamente previste dai commi terzo e quarto dello stesso art. 30 «e comunque in caso di cessazione di attività». Va pertanto sottolineato che, nel caso dell'IVA, il rimborso dell'eccedenza si configura come un'ipotesi eccezionale rispetto al riporto a nuovo della stessa, essendo possibile, dietro richiesta del contribuente «all'atto della presentazione della dichiarazione 93 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO annuale», oltre che nell'indicata ipotesi di cessazione dell'attività, nei soli casi in cui risulti un'eccedenza detraibile anche dalle dichiarazioni dei due anni precedenti (comma quarto dell'art. 30) o in quelli − relativi, per lo più, a situazioni di fisiologico credito in conseguenza dell'esercizio di determinate attività o dell'effettuazione di particolari operazioni – individuati dal comma terzo dello stesso art. 30 (e sempre che, per tali ultimi casi, ricorra anche il presupposto quantitativo costituito dall'essere l'eccedenza detraibile di importo superiore a € 2.582,28). Qualora il contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, chieda il rimborso dell'eccedenza d'imposta in essa evidenziata, la stessa dichiarazione «costituisce istanza di rimborso, che soddisfa la condizione posta dall'art. 38 del D.P.R. n. 602/1973 per evitare la decadenza del credito» (così Sez. U, n. 02687/2007, Cicala, Rv. 594805). In effetti – come sintetizzato dalla massima di tale sentenza − «qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione [dei redditi] un credito d'imposta, non trova applicazione, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dall'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, non occorrendo la presentazione di un'apposita istanza, in quanto l'Amministrazione, resa edotta con la dichiarazione dei conteggi effettuati dal contribuente, è posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria»; dal che consegue che «la relativa azione è pertanto sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale» (e non a quello decadenziale del citato art. 38). Oltre ad affermare tali princípi, la sentenza n. 2687 del 2007 ha risolto il contrasto che si era manifestato nella giurisprudenza di legittimità in ordine al momento dal quale decorre il termine prescrizionale dell'art. 2946 c.c., chiarendo che su tale «decorrenza non incide [...] il limite temporale stabilito per il controllo c.d. formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973», trattandosi di «disposizione [...] volta [...] ad imporre un obbligo all'Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all'esercizio dei diritti del contribuente». Ne consegue che, secondo le Sezioni Unite, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso dell'eccedenza d'imposta risultante dalla dichiarazione dei redditi non decorre dalla scadenza del termine previsto dall'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 per il controllo cosiddetto cartolare della dichiarazione, ma – come sembra doversi senz'altro ritenere, pur in assenza di un'affermazione espressa in tale senso, sulla base della 94 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO motivazione della sentenza – dalla data di presentazione della dichiarazione. Con riguardo al séguito della sentenza delle Sezioni Unite n. 2687 del 2007, va peraltro osservato che, mentre la sottoposizione dell'azione di rimborso dell'eccedenza d'imposta all'ordinario termine di prescrizione decennale (e non a quello decadenziale dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973) può ritenersi un principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, lo stesso non può dirsi a proposito dell'affermazione della decorrenza di tale termine prescrizionale dalla data di presentazione della dichiarazione. Circa tale punto, deve infatti rilevarsi che proprio alcune sentenze della Suprema Corte che si erano espresse nel senso del consolidamento del diritto al rimborso esposto nella dichiarazione per effetto di «un riconoscimento esplicito in sede di liquidazione, ovvero per effetto di un riconoscimento implicito derivante dal mancato esercizio nei termini del potere di rettifica» (così sia la massima della sentenza n. 1154 del 2008 che la motivazione delle sentenze n. 17697 del 2009 e n. 26318 del 2010, tutte già citate al paragrafo 3.) hanno affermato − anche successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 2687 del 2007 − che il predetto termine prescrizionale decorre non dalla data di presentazione della dichiarazione ma da quella del riconoscimento, sia esso esplicito o implicito, e, quindi, del consolidamento del credito. Va peraltro rilevato che la decorrenza del termine in considerazione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi è stata, più di recente, riaffermata da Sez. T, n. 21734/2014, Virgilio, Rv. 632511. Tale questione della decorrenza del termine di prescrizione decennale per l'esercizio dell'azione di rimborso dell'eccedenza d'imposta è, peraltro, autonoma rispetto a quella esaminata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5069 del 2016. La risoluzione della stessa dipende infatti dall'affermazione, o no, della possibilità per il contribuente di esercitare la detta azione di rimborso immediatamente, senza, cioè, dovere attendere la scadenza dei termini previsti per l'esercizio dei poteri di liquidazione o di accertamento dell'amministrazione finanziaria; problematica, questa, la cui soluzione è indipendente dalla soluzione che si voglia dare al diverso problema – del quale erano investite le Sezioni Unite – degli effetti che il decorso dei medesimi termini produce sulla possibilità, per la stessa amministrazione, di contestare il diritto al rimborso. La diversità dei piani sui quali si collocano le due problematiche è evidenziata, del resto, anche dalla citata sentenza n. 21734 del 2014. 95 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO Sempre a proposito dell'idoneità della dichiarazione tributaria "a credito" a valere come istanza di rimborso – atta, perciò, ad impedire la decadenza dal relativo diritto – sembra opportuno menzionare anche Sez. T, n. 15840/2006, Virgilio, Rv. 591753, della quale si riporta la seguente massima: «In tema di rimborso delle imposte sui redditi, la disposizione di cui all'art. 36-bis, comma primo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 − in forza della quale (nel testo vigente "ratione temporis") gli uffici delle imposte, in sede di liquidazione delle dichiarazioni, procedono "ad effettuare rimborsi eventualmente spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d'imposta, sulla scorta dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni stesse e dai relativi allegati" −, letta in coordinamento con il disposto dell'art. 41, secondo comma, ultima parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, deve essere intesa, stante il carattere eccezionale della procedura da essa prevista e in base al complesso del sistema normativo tributario, nel senso che non è sufficiente, di per sé, ai fini di investire l'ufficio dell'obbligo di provvedere al rimborso, che dal controllo cartolare della dichiarazione si riscontri una discordanza tra il dovuto ed il versato; è invece necessario che nella dichiarazione stessa risulti − ove le modalità di redazione lo consentano − un credito "esposto" o "fatto valere", e cioè che da essa si possa evincere, con ragionevole certezza, una manifestazione di volontà idonea, in quanto tale, a svolgere la funzione, e quindi a tener luogo, dell'istanza di rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, senza necessità di ulteriori adempimenti, altrimenti operando la normale procedura della richiesta differita di cui a quest'ultima norma. (Sulla base dell'enunciato principio, la S.C. ha quindi ritenuto che nel caso di specie, relativo a dichiarazione di sostituto d'imposta recante l'indicazione di un importo delle ritenute alla fonte "effettuate" inferiore a quello delle imposte "versate", la ricorrente fosse tenuta a presentare istanza di rimborso ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, nel termine decadenziale – all'epoca – di diciotto mesi dalla data del versamento, escludendo che la fattispecie rientrasse invece nei casi in cui l'organo competente aveva l'obbligo di provvedere d'ufficio al rimborso, con conseguente soggezione del relativo diritto all'ordinaria prescrizione decennale)». L'interesse della pronuncia sembra risiedere nel fatto che essa sottolinea la necessità che la dichiarazione, per valere come istanza di rimborso, oltre che essere stata regolarmente presentata, contenga una manifestazione di volontà del contribuente che la renda effettivamente idonea a svolgere la funzione di tale istanza. 96 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO 5. La sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016. Le Sezioni Unite, investite della questione, hanno affermato di non condividere l'interpretazione seguita, in particolare, dalla sentenza n. 9339 del 2012 (e, più di recente, sia pure in modo implicito, da Sez. T, n. 02277/2016, Cicala, non massimata), ritenendo «preferibile» la soluzione accolta dall'altro orientamento della giurisprudenza della Corte «secondo cui i termini decadenziali in questione [cioè quelli per la notificazione degli avvisi di accertamento] sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito». La stessa sentenza osserva poi come tale soluzione «susciti una certa disarmonia nel sistema», dato che, dopo che siano decorsi i termini per l'accertamento, «alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente [cioè la dichiarazione] solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione». Le Sezioni Unite osservano, però, di seguito, che «In sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui "quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum" (art. 1442 del codice civile)». La soluzione preferita, del resto – conclude, sul punto, la sentenza – «non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale». Passando, quindi, all'esame delle ulteriori doglianze avanzate dall'Agenzia delle entrate con il proprio ricorso, le Sezioni Unite affermano che, poiché il credito chiesto a rimborso con la dichiarazione originava dall'asserita spettanza di agevolazioni fiscali (quelle, già menzionate al paragrafo 3., previste dagli artt. 10-bis della legge n. 1745 del 1962, e 6 del d.P.R. n. 601 del 1973), «era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere». Poiché il tema della sussistenza, in capo alla fondazione bancaria, dei presupposti soggettivi e oggettivi necessari al fine di potere fruire dei citati benefici era rimasto, invece, «assolutamente, estraneo alla decisione, non risultando essere stato, né dedotto, né trattato dalla decisione di appello», le Sezioni Unite, accogliendo il ricorso, hanno rinviato ad altra sezione della commissione tributaria regionale perché decidesse in applicazione 97 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO degli enunciati princípi in tema di onere della prova delle condizioni per avere diritto alle invocate agevolazioni. 6. Le prime reazioni della dottina. L'interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite si fonda dunque sul principio, stabilito dall'art. 1442, comma 4, c.c., quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum. Si tratta, come è ben noto, del principio che consente al convenuto per l'esecuzione del contratto di paralizzare la domanda dell'avversario che sia fondata su tale atto negoiale opponendo l'annullabilità dello stesso anche nel caso in cui sia prescritta l'azione per farla valere. Nei primi contributi dottrinali apparsi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016 è stata proprio l'applicabilità del principio dell'imprescrittibilità dell'eccezione di annullamento alla fattispecie della dichiarazione "a credito" a essere messa, talora, in discussione. Si è, in proposito, sostenuto che l'applicazione di tale principio postulerebbe l'esistenza di una lacuna nella disciplina della fattispecie che sarebbe, invece, insussistente. Secondo questa tesi, la normativa tributaria detterebbe, in realtà, una disciplina compiuta del procedimento di rimborso dell'eccedenza d'imposta esposta nella dichiarazione "a credito" in base alla quale, una volta che questa venga presentata, l'amministrazione finanziaria sarebbe obbligata a comunicare al contribuente i fatti impeditivi del riconoscimento del credito, chiedendogli di integrare e, eventualmente, documentare quanto indicato nella dichiarazione (art. 6, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212), entro il termine previsto per il controllo della stessa (art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973), dato che, in caso contrario, sarebbero «nulli i provvedimenti emessi» (art. 6, comma 5, della legge n. 212 del 2000). Da ciò conseguirebbe che, in mancanza della detta comunicazione di fatti impeditivi del riconoscimento del credito entro il termine dell'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, l'inerzia dell'amministrazione assumerebbe il significato di assenza di tali fatti e, per l'effetto, di «"riconoscimento implicito" del credito» [MISCALI e DOGLIO, 2016, 1715-1717]. Secondo un'altra tesi, l'inapplicabilità alla fattispecie della regola quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum deriverebbe dal fatto che, posto che essa, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità, «non è regola generale [ma] vale soltanto per i casi in cui la legge la prevede (artt. 1442, 1495, 1667 c.c.), in deroga alla regola generale dell'art. 2934 c.c. secondo cui la prescrizione estingue il 98 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO diritto, tanto se fatto valere in via di azione quanto se fatto valere in via di eccezione» (Sez. 2, n. 03702/2011, De Chiara, Rv. 616712), non esisterebbe alcuna disposizione che la renda operante nell'ordinamento tributario. Ne discenderebbe che, dovendosi in esso applicare la regola generale dell'art. 2934 c.c., lo spirare del termine di decadenza dell'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 estinguerebbe il potere di accertamento in rettifica dell'amministrazione finanziaria tanto nel caso in cui esso venga fatto valere in via di azione quanto nel caso in cui venga fatto valere in via di eccezione. Il tempestivo esercizio di tale potere entro il termine di decadenza citato e nelle forme autoritative previste dalla legge costituirebbe perciò condizione necessaria perché l'amministrazione finanziaria possa legittimamente contestare, anche in via di eccezione – nell'àmbito del giudizio promosso dal contribuente avverso il rifiuto tacito della restituzione di tributi – la spettanza del credito esposto nella dichiarazione. Discipline analoghe sarebbero, del resto, previste anche nei rapporti di diritto privato, nelle ipotesi in cui il legislatore prevede dei termini di decadenza per l'esercizio di taluni diritti, come nei casi della vendita e dell'appalto, in cui il compratore o il committente che abbiano omesso di denunciare nei previsti termini di decadenza, rispettivamente, il vizio della cosa venduta e le difformità o i vizi dell'opera, decadono dal diritto alle relative garanzie anche se intendano far valere lo stesso in via di eccezione (artt. 1495, comma 3, e 1667, comma 3, c.c.) [GARGIULO, 2016]. Sotto altro aspetto, si è sostenuto che, poiché l'eccezione di annullamento prevista dall'art. 1442, comma 4, c.c., costituisce un'eccezione in senso stretto (e non una mera difesa), di tal ché l'onere della prova dei fatti sui quali essa si fonda dovrebbe gravare, ai sensi dell'art. 2697, comma 2, c.c., su chi la fa valere, ne conseguirebbe che, anche a volere ammettere l'applicabilità della regola dell'art. 1442, comma 4, c.c., alla fattispecie della dichiarazione "a credito", l'onere di provare i fatti suscettibili di paralizzare la domanda di restituzione avanzata dal contribuente doveva gravare sull'Agenzia delle entrate e non, come ritenuto dalle Sezioni Unite, sul contribuente [AIUDI, 2016]. Ha inteso prescindere dal richiamo al principio civilistico dell'art. 1442, comma 4, c.c., anche la dottrina che si è espressa in senso adesivo alla soluzione adottata dalle Sezioni Unite, avendo, essa, preferito fondare l'esclusione della cristallizzazione del diritto del contribuente al rimborso del credito esposto nella dichiarazione sulla considerazione che l'ordinamento tributario raramente 99 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO attribuisce all'inerzia dell'amministrazione finanziaria significato positivo e, quando lo fa, ciò avviene in modo espresso (o, comunque, non controvertibile). In assenza di una siffatta attribuzione di significato, non sarebbe possibile fare derivare dalla semplice mancata tempestiva rettifica «una implicita accettazione della dichiarazione e quindi la incontestabilità del rimborso che dalla stessa emerge» [PACE, 2016]. La dottrina non ha, infine, mancato di sottolineare il passaggio della sentenza n. 5069 del 2016 (riportato al paragrafo 5.) nel quale le Sezioni Unite mostrano consapevolezza di come la soluzione intepretativa prescelta possa generare «una certa disarmonia nel sistema» [AIUDI, 2016]. In effetti, irregolarità suscettibili di determinare l'emersione di un'eccedenza d'imposta richiesta a rimborso con la dichiarazione possono essere contenute sia in una dichiarazione "a credito" che in una dichiarazione "non a credito" e determinano, nelle due ipotesi, un identico pregiudizio per la finanza pubblica. Da ciò la difficoltà di giustificare un diverso trattamento delle stesse, e dei contribuenti che le hanno commesse, quanto ai termini (e alle forme) di contestazione e, in particolare, la sussistenza di un più lungo termine per la contestazione in base alla circostanza, del tutto accidentale, che l'irregolarità sia contenuta in una dichiarazione "a credito". Tale «disarmonia» troverebbe tuttavia giustificazione, secondo le Sezioni Unite, nel più volte menzionato principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum. 7. Alcune considerazioni conclusive. Come si è visto al paragrafo 5., la sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016 ha affermato la possibilità, per l'amministrazione finanziaria, di contestare, in via di eccezione (nell'àmbito del giudizio promosso dal contribuente avverso il rifiuto della restituzione di tributi), il credito esposto nella dichiarazione, ancorché siano ormai inutilmente scaduti i termini per l'esercizio del potere di accertamento. La statuizione delle Sezioni Unite parrebbe, quindi, di portata generale, nel senso che essa sembra consentire la predetta contestazione a prescindere da quale sia il fattore (o i fattori) che, tra i plurimi possibili (vedi il paragrafo 4.), può avere determinato l'eccedenza d'imposta chiesta a rimborso con la dichiarazione. A quest'ultimo proposito, può in effetti osservarsi che le irregolarità che possono avere condotto a una dichiarazione dei redditi "a credito" – e che potrebbero, quindi, essere contestate dall'amministrazione finanziaria – potrebbero riguardare la determinazione dell'imponibile, l'applicazione dell'imposta (sotto il 100 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO profilo dell'aliquota o del regime di tassazione) e, infine, gli elementi scomputati dall'imposta, cioè i crediti d'imposta, le ritenute alla fonte a titolo di acconto e i versamenti in acconto. Tutte tali irregolarità rientrano appieno nell'àmbito dell'attività di accertamento e tutte sembrerebbero poter essere eccepite dall'amministrazione finanziaria, al fine di contestare il credito esposto nella dichiarazione che da esse sia derivato, anche dopo che i termini per l'accertamento siano inutilmente spirati. Tale conclusione non sembrerebbe, tuttavia, poter essere spinta sino a ritenere che l'amministrazione finanziaria possa prospettare, quale eccezione processuale nell'àmbito del giudizio promosso avverso il rifiuto della restituzione di tributi, una rettifica dei ricavi dichiarati dal contribuente, atteso che, in tale caso, sembrerebbe aversi non la contestazione dell'esistenza di un debito dell'amministrazione ma un vero e proprio accertamento (fuori termine) di un suo credito (che verrebbe opposto in compensazione); ciò che la sentenza delle Sezioni Unite ha, invece, escluso. Sempre al paragrafo 5., si è detto come le Sezioni Unite abbiano affermato che, poiché il credito chiesto a rimborso originava, nella specie, dall'asserita spettanza di agevolazioni fiscali, «era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere». Al riguardo, sembra potersi osservare che, nei casi di ricorso avverso il silenzio tacito della restituzione – in cui manca, quindi, un atto amministrativo espresso – considerata anche la più volte sottolineata eterogeneità dei fattori che possono concorrere a determinare le eccedenze d'imposta, potrebbe risultare eccessivo esigere che il contribuente si faccia carico, sin dal ricorso introduttivo, di tutte le possibili contestazioni che l'amministrazione finanziaria potrebbe avanzare in ordine alla spettanza del credito da lui esposto nella dichiarazione, sembrando, invece, corretto ritenere che egli possa assolvere i propri oneri di allegazione e di prova anche nel corso del giudizio, quando solo allora sia stato possibile, per lui, conoscere le specifiche contestazioni dell'amministrazione. Sembra, infine, doversi ritenere che il principio dettato dalla sentenza n. 5069 del 2016, ancorché riferito alla contestazione dei crediti esposti nella dichiarazione dei redditi, non potrà non essere seguíto anche con riguardo ai crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione IVA (nelle ipotesi, tassativamente previste dai commi secondo, terzo e quarto dell'art. dell'art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, in cui tale richiesta è consentita), non ravvisandosi ragioni che 101 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO possano indurre a pervenire, in tale analoga ipotesi, a una diversa conclusione. Successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016, la Sezione tributaria si è, già in due occasioni, pronunciata in senso a essa conforme (Sez. T, n. 12557/2016, Meloni, Rv. 640075, e Sez. T, n. 10476/2016, Locatelli, non massimata). Bibliografia B. AIUDI, Il rimborso del credito esposto nella dichiarazione fiscale annuale? L'Ufficio finanziario può sempre negarlo, in Bollettino Tributario d'informazioni, 2016, 14, pagg. 1131-1134; G. GARGIULO, Rettifica delle "dichiarazioni a credito" tra processo e azione amministrativa, in Rivista di Giurisprudenza tributaria, 2016, 6, pagg. 475-480; M. MISCALI e M. DOGLIO, Il decorso del termine di decadenza non consolida il credito chiesto a rimborso in dichiarazione, in Corriere Tributario, 2016, 22, pagg. 1713-1717; A. PACE, Il consolidamento della dichiarazione "non" implica riconoscimento dell'agevolazione, in Bollettino Tributario d'informazioni, 2016, 14, pagg. 1134-1136; S. LA ROSA, Principi di diritto tributario, IV ed., Giappichelli, Torino, 2012; S. LA ROSA, Accertamento tributario e situazioni soggettive del contribuente, in Rivista di diritto tributario, 2006, 10, pagg. 735-755. 102 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) CAPITOLO VIII LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) (di Marzia Minutillo Turtur) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La vicenda processuale. - 2.1. Il ricorso alle Sezioni Unite. – 3. Gli atti di classamento. – 4. Gli orientamenti giurisprudenziali sugli atti impugnabili ex art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992. – 5. I riferimenti normativi. – 6. Valutazioni sistematiche. – 7. La soluzione delle Sezioni Unite. 1. Premessa. Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639286, hanno affrontato la tematica del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario in tema di atti di classamento catastale. La sentenza, così massimata "La notifica al contribuente dell'avviso di accertamento per revisione del classamento e della rendita - impugnabile davanti alla commissione tributaria, quale operazione catastale individuale - non incide sulla giurisdizione amministrativa concernente gli atti amministrativi generali relativi alle microzone comunali, i quali possono essere autonomamente impugnati davanti al giudice amministrativo, anche da soggetti esponenziali di interessi diffusi." ha rappresentato l'occasione per una disamina approfondita della portata del giudizio tributario e della sua natura nelle diverse modifiche e previsioni normative che lo hanno caratterizzato, nell'ottica di una chiara definizione dell'ambito della giurisdizione amministrativa quanto alla disciplina catastale nella sua portata generale ed individuale. Il presente contributo è volto ad analizzare il contesto in cui matura la questione e la relativa controversia, i presupposti normativi e interpretativi di riferimento in considerazione della soluzione sul punto adottata dalle Sezioni Unite. 2. La vicenda processuale. Raffaele Ungaro, Codacons, Adusbef Puglia, Adoc Provinciale di Lecce hanno proposto ricorso dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione di Lecce, per l'annullamento del provvedimento di suddivisione del territorio del comune di Lecce in microzone catastali ai sensi dell'art. 2 d.P.R. n. 138 del 23 marzo 1998; della delibera della giunta comunale di Lecce n. 639 del 2012 relativa alla 103 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) richiesta di revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del comune di Lecce ai sensi dell'art. 1 comma 335 della l. n. 311 del 30 dicembre 2004; della delibera della giunta comunale di Lecce n. 746 del 2012 con medesimo oggetto e parziale modifica dell'allegato D.G.M. n. 639 del 2010; della determinazione del Direttore dell'Agenzia del Territorio del 29.11.2010 con oggetto "revisione del classamento delle unità immobiliari urbane site nel comune di Lecce ai sensi dell'art. 1 comma 335 l. n. 311 del 2004" e dell'avviso di accertamento catastale del 21.12.2012, nonché di tutti gli atti presupposti, connessi o consequenziali collegati al nuovo classamento catastale della zona in questione. Gli istanti, a sostegno dell'impugnazione, hanno dedotto, in relazione all'adozione di tali atti, violazione e falsa applicazione dell'art. 2 del d.P.R. n. 138 del 1998 lamentando la ricorrenza del vizio di eccesso di potere per sviamento, violazione del principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, eccesso di potere per erroneità dei presupposti, nonché violazione e falsa applicazione della l. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, in relazione alla determinazione dell'Agenzia del Territorio per carenza di motivazione, eccesso di potere per sviamento, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti ed infine illegittimità dell'individuazione delle microzone sempre per violazione di legge ed eccesso di potere per erroneità dei presupposti. In tale giudizio si è costituita l'Avvocatura Distrettuale dello Stato eccependo in via preliminare il difetto di giurisdizione del tribunale adito e contestando tutte le pretese dei ricorrenti. Il comune di Lecce si è costituito sostenendo la posizione dei ricorrenti nei confronti dell'Agenzia delle Entrate. Il T.A.R. Puglia, ritenuta la propria giurisdizione - richiamata la disciplina di legge ed affermato che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia tributaria possono essere disapplicati dalle commissioni tributarie, ma non sono impugnabili dinnanzi alle stesse in considerazione della ricorrenza dell'esercizio nel caso in esame di un potere discrezionale a carattere generale confluito nella emanazione di atti normativi destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti – dopo aver chiarito come oggetto del giudizio non fosse in alcun modo l'atto impositivo, ma bensì i presupposti atti amministrativi di carattere generale riguardanti il procedimento di revisione del classamento degli immobili e l'intera attività di microzonizzazione del territorio leccese, ha accolto il ricorso annullando gli atti impugnati. 104 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) L'Agenzia delle Entrate e il Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno impugnato la sentenza del Tar Puglia n. 1621 del 2013. L'Ungaro e le associazioni di consumatori citate, oltre al comune di Lecce, hanno, in sostanza, invocato la motivazione resa dalla sentenza impugnata, chiedendo, per l'effetto, il rigetto dell'appello proposto. Con sentenza n. 8067 del 2013 il Consiglio di Stato accoglieva l'appello e annullava la sentenza del Tar Puglia dichiarando il proprio difetto di giurisdizione in relazione al ricorso proposto richiamando la giurisdizione del giudice tributario. In particolare nella motivazione il Consiglio di Stato considerava la fondatezza delle osservazioni in materia di giurisdizione contenute nella sentenza di primo grado, ma le riteneva "irrilevanti" nel caso concreto oggetto di giudizio. Si è infatti affermato (pag. 2 della sentenza) che "non vi è modo di dubitare che, stante il testo degli art. 2 e 7 comma 5 del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, in linea generale deve ritenersi che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia tributaria possono essere disapplicati dalle commissioni tributarie, ma non sono impugnabili davanti alle stesse", citando allo scopo la sentenza delle Sez. U, n. 00675/2010, Salvago, Rv. 611201. Riteneva tuttavia il Consiglio di Stato che l'interpretazione e la disciplina richiamata dalla Corte di cassazione, proprio in relazione alle controversie di classamento delle singole unità immobiliari e attribuzione della rendita catastale, non potessero essere riferite al caso in esame, che trova la propria disciplina in ordine alla giurisdizione nella previsione di cui all'art. 74 della l. 21 novembre del 2000 n. 342 secondo la quale "a decorrere dal gennaio 2000 gli atti comunque attributivi o modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita. Dall'avvenuta notificazione decorre il termine di cui all'art. 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni per proporre il ricorso di cui all'art. 2, comma 3, dello stesso decreto legislativo. Dell'avvenuta notificazione gli uffici competenti danno tempestiva comunicazione ai comuni interessati". Dalla norma richiamata il Consiglio di Stato desume la ricorrenza di due diverse norme: - la prima di carattere sostanziale relativa al tempo e modo con il quale gli atti attributivi o modificativi della rendita catastale 105 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) acquistano efficacia (mediante la notifica appunto al contribuente come mera attribuzione di efficacia valevole verso l'esterno), ma che determina una "conseguenza esiziale: in assenza di notifica, gli atti non sono efficaci e, conseguentemente, non possono incidere su situazioni soggettive del contribuente", sicché in assenza di notifica i detti atti non sono efficaci e quindi la giurisdizione in concreto non può essere azionata mancando il presupposto necessario della lesività dell'atto"; - la seconda di carattere processuale con individuazione del regime giurisdizionale per tali atti (sebbene a portata generale), poiché "al compimento della notifica e quindi al perfezionamento della fattispecie eventualmente lesiva, si accompagna l'effetto di uno spostamento della giurisdizione in favore del giudice tributario. Peraltro, lo si noti, provvedendo ad allargare le attribuzioni originarie di tale giudice, in quanto consente di procedere davanti a questi ad una impugnazione in via principale e non già incidentale di un atto presupposto. Infatti è consentito di impugnare immediatamente, visto l'obbligo di rispettare il termine decadenziale, il provvedimento lesivo, proponendo il ricorso di cui all'art. 3 comma 2, delle disposizioni sul processo tributario, ossia facendo riferimento alla disposizione che consente al giudice tributario di risolvere in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione... il che significa che il ricorso di cui all'art. 2 comma 3, proposto a norma dell'art. 74, non è più di mera pregiudizialità, ma aggredisce direttamente l'atto presupposto, ossia quello generale in tema di pianificazione in tema di attribuzione o modificazione delle rendite catastali per terreni e fabbricati, senza attendere la mediazione dell'atto impositivo, attesa che non risulta compatibile con il breve termine decadenziale". Conclude quindi il giudice amministrativo affermando che tale disciplina comporta il superamento del meccanismo della disapplicazione e conduce ad una "cognizione piena del giudice tributario anche dell'atto a monte, con consequenziale attribuzione del potere di annullamento, in un'ottica di concentrazione ed unità del processo del tutto condivisibile". 2.1. Il ricorso alle Sezioni Unite. Con ricorso ex art. 362 c.p.c Ungaro, Codacons, Adusbef Puglia, Adoc provinciale Lecce, e ad adiuvandum il comune di Lecce, hanno contestato la decisione del Consiglio di Stato e hanno chiesto che venisse affermata, quanto all'oggetto della controversia, la giurisdizione del giudice 106 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) amministrativo richiamando il disposto dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 quale base per una conoscenza "meramente incidentale" da parte del giudice tributario di atti amministrativi generali, atti con carattere di presupposto dell'atto impositivo, per risolvere la questione sottoposta alla sua cognizione e relativa al singolo rapporto impositivo tra Stato e contribuente, senza alcuna eventualità di allargamento del potere giurisdizionale del giudice tributario con possibilità di annullamento di atti generali e cogenti, con conseguente violazione del divieto costituzionale di creazione di giudici speciali. L'agenzia delle Entrate e il Ministero dell'Economia e delle Finanze resistono con controricorso sostenendo l'assenza di qualsiasi efficacia lesiva degli atti a monte dei provvedimenti di accertamento con comunicazione di variazione in aumento della rendita catastale. 3. Gli atti di classamento. In via preliminare occorre considerare come con il ricorso introduttivo Ungaro e gli altri ricorrenti (associazioni di consumatori portatori di interessi generali e diffusi della cittadinanza di Lecce) avessero evidenziato come dal comune di Lecce in epoca 1999 fosse stato avviato un procedimento di revisione parziale del classamento delle unità immobiliari di proprietà privata poiché nella prima e seconda micro zona del comune di Lecce il rapporto tra il valore medio di mercato e il corrispondente valore medio catastale, ai fini dell'applicazione dell'ICI, si discostava in modo consistente dal medesimo valore per le altre micro zone comunali. Il primo punto da affrontare è stato dunque quello della valutazione della natura e portata degli atti di classamento catastale, e in particolare del provvedimento di microzonizzazione catastale, con conseguente avvio del nuovo iter di classificazione catastale. L'interpretazione proposta dal Consiglio di Stato tende a svalutare la portata generale di tali atti, configurandone efficacia e rilevanza solo a seguito della notificazione dell'atto impositivo che li presuppone al contribuente, sebbene non ne escluda l'utilizzabilità di tali atti ad altri fini. Secondo l'interpretazione proposta dunque tali atti non sarebbero mai valutabili e oggetto di giudizio in sé, ma solo ed esclusivamente in seguito al manifestarsi in concreto di una specifica pretesa impositiva; risulterebbero dunque sottratti alla giurisdizione del giudice amministrativo per rientrare in quella del giudice tributario, con potere di cognizione non più incidentale, ma bensì diretta (con conseguente potere di annullamento). 107 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) Tuttavia gli atti di classamento catastale, e gli atti presupposto e istruttori che precedono la valutazione finale, rappresentano atti riferibili alla P.A. sia quando il classamento è operato in assenza di una rendita proposta, sia quando la determinazione dell'ufficio avviene a seguito della prescritta dichiarazione del possessore. Tale provenienza dalla P.A. depone per la natura di atto amministrativo dell'atto di classamento, poiché accerta lo stato dei beni con conseguente attribuzione di una corrispondente qualificazione giuridica, tanto che tale tipologia di atti amministrativi è stata costantemente inquadrata tra gli atti dichiarativi e in particolare tra gli atti di certazione. Dalla natura dichiarativa dell'atto di classamento dovrebbe dunque conseguire che il giudizio relativo a tale atto sia un giudizio di accertamento, anche se si è costantemente evidenziato come le illegittimità formali dell'atto, i vizi dell'atto, la sua adozione con eccesso di potere quale conseguenza di violazione di legge, portino ad un vero e proprio giudizio di annullamento dell'atto. Anche in relazione alle tariffe d'estimo, espressione del potere di accertamento valutativo attribuito dalla legge all'amministrazione con riferimento all'entità della rendita nei confronti di una indeterminata pluralità di soggetti, può essere riscontrata la portata di atto amministrativo espressione di discrezionalità e dunque la sua soggezione ad un giudizio di annullamento in relazione ai vizi dell'atto. Ed è proprio quanto a tali atti ed alla loro portata che sembra potersi riferire per interpretazione letterale e sistematica l'art. 7, comma 5, del d. lgs. n. 546 del 1992, ove viene evidenziato il potere di disapplicazione del giudice tributario di regolamenti o atti generali ai fini della decisione in relazione all'oggetto dedotto in giudizio, salva l'eventuale impugnazione nella sede competente. Il classamento dunque non determina un tributo, ma una rendita che costituisce la base per l'applicazione di svariati tributi. Proprio la considerazione del classamento come atto di esercizio del potere discrezionale della P.A. ha portato la giurisprudenza della Corte di cassazione ad evidenziare con costanza ed omogeneità la necessità di una compiuta ed articolata "motivazione" dell'atto di classamento, che non si può più dunque limitare alla sola enunciazione degli elementi oggettivi della categoria catastale, della classe e della rendita, in considerazione appunto della natura valutativa dell'atto di classamento (in questo senso Sez. T, n. 00969/2012, Di Blasi, Rv. 622951, così massimata "In tema di estimo catastale, quando procede all'attribuzione di ufficio di un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a 108 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) destinazione ordinaria, l'Agenzia del Territorio, a pena di nullità del provvedimento per difetto di motivazione, deve specificare se tale mutamento è dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione, oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l'unità immobiliare. L'Agenzia dovrà indicare, nel primo caso, le trasformazioni edilizie intervenute, e nel secondo caso l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano. Tali specificazioni e indicazioni, infatti, sono necessarie per rendere possibile al contribuente di conoscere il presupposto del riclassamento, di valutare l'opportunità di fare o meno acquiescenza al provvedimento e di approntare le proprie difese con piena cognizione di causa, nonché per impedire all'Amministrazione, nel quadro di un rapporto di leale collaborazione, di addurre in un eventuale successivo contenzioso ragioni diverse rispetto a quelle enunciate". Emerge dunque una considerazione complessa dell'atto di classamento, che ha una valenza anche a fini civili e non genera di per sé una pretesa tributaria in considerazione della sua natura amministrativa, dunque con valenza tributaria solo indiretta (ovvero solo in seguito alla formalizzazione dell'atto impositivo). Da ciò dovrebbe dunque conseguire un potere d'impugnazione diretta dell'atto, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione, per un eventuale annullamento con effetti erga omnes dinnanzi al giudice amministrativo; mentre il contribuente potrà chiedere nella specifica controversia tributaria la disapplicazione di un atto amministrativo generale o regolamentare in occasione dell'impugnazione di uno degli atti indicati nell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992. 4. Gli orientamenti giurisprudenziali sugli atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992. Ciò premesso - circa la ricorrenza o meno di un'effettiva giurisdizione del giudice tributario in forma diretta tanto da poter giungere all'annullamento dell'atto di riclassamento catastale - occorre considerare l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità quanto agli atti impugnabili ex art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546. L'interpretazione costantemente emersa è volta a consentire, in considerazione di un'applicazione estensiva dell'elencazione di cui all'art. 19 predetto, in ossequio ai principi costituzionali di tutela del contribuente e buon andamento della P.A., un'impugnazione degli 109 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) atti che portino a conoscenza del contribuente una "ben individuata pretesa tributaria". Emerge dunque un'ampia considerazione del potere d'impugnazione purché tuttavia sia collegato al rapporto autoritativo e dunque all'esercizio concreto del potere d'imposizione da parte dell'Amministrazione finanziaria. In tal senso in particolare si è pronunciata Sez. T, n. 21392/2012, Schirò, Rv. 624436, secondo la quale: "In tema di contenzioso tributario, è inammissibile l'azione del contribuente finalizzata esclusivamente a far accertare le maggiori perdite subite in conseguenza dell'erroneo pagamento di tributi non dovuti, o versati in misura superiore a quella prescritta, dal momento che il ricorso davanti al giudice tributario può essere proposto soltanto avverso gli atti impugnabili, tassativamente indicati nell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, elencazione che pur essendo suscettibile di interpretazione estensiva - in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448 - si riferisce, in ogni caso, solo ad atti dell'Amministrazione finanziaria che, pur non rivestendo l'aspetto formale proprio di uno di quelli dichiarati espressamente impugnabili, portino a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l'interesse a chiederne il controllo di legittimità in sede giurisdizionale.". Nello stesso senso Sez. 6–T, n. 25297/2014, Conti, Rv. 633636, Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281, Sez. T, n. 17010/2012, Virgilio, Rv. 623917, Sez. T, n. 10987/2015, Tirelli, Rv. 618117, Sez. T, n. 2616/2015, Napolitano, Rv. 634214, Sez. 6– T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 636113, Sez. 6–T, n. 13548/2015, Caracciolo, Rv. 635738. Ne consegue quindi una considerazione ampia degli atti impugnabili, ma pur sempre in relazione e correlazione con una specifica pretesa tributaria, con possibilità di disapplicazione da parte del giudice tributario degli atti presupposto in caso di loro illegittimità o adozione con eccesso di potere. Una considerazione dunque del singolo interesse e diritto azionato quanto all'atto impositivo, nell'ambito del quale non sembrano rientrare ed essere compresi gli interessi diffusi della cittadinanza e del territorio (tramite le osservazioni dell'ente locale) in relazione al provvedimento complessivo di classamento, a portata generale e 110 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) con efficacia erga omnes, caso ricorrente nel ricorso presentato da Ungaro ed altri. In tal senso occorre ricordare come l'azione avviata dalle associazioni rappresentative di consumatori e cittadinanza avesse evidenziato la necessità di riconsiderazione dell'atto di classamento e microzonizzazione del comune di Lecce poiché tale procedimento, pur avviato nell'anno 1999, risultava concluso nell'anno 2010 in relazione ad attività impositiva e caratterizzazione territoriale delle zone valutate del tutto diverse rispetto alla fase di avvio del procedimento. 5. I riferimenti normativi. La questione sottoposta con il ricorso pone dunque il problema del coordinamento tra gli articoli 2 e 19 del d. lgs. n. 546 del 1992 in relazione alla previsione di cui all'art. 74 comma 1, della l. n. 342 del 21 novembre 2000 ed al rinvio in tale articolo contenuto all'art. 2 comma 3 del decreto 546 citato, considerato che la previsione di cui all'art. 2 è stata modificata in epoca successiva all'entrata in vigore della l. n. 342 del 2000. In mancanza di un intervento di coordinamento ed adeguamento normativo la disciplina di riferimento dovrebbe essere identificata in relazione all'originario disposto dell'art. 2 comma 3, nel senso di richiamare l'oggetto della giurisdizione tributaria in relazione anche alla materia del classamento catastale, e chiarire che per tutti i provvedimenti che presuppongono un atto di classamento catastale, quando si manifestino in uno specifico atto impositivo, il termine per il ricorso e impugnazione decorre dall'effettiva notificazione dell'atto impositivo stesso. Il richiamo aveva l'evidente funzione di riportare a sistema complessivo e generale la possibilità di impugnare l'atto di accertamento e impositivo solo dal momento dell'effettiva conoscenza dello stesso da parte del contribuente destinatario della pretesa erariale. Una norma dunque di garanzia nei confronti del contribuente ai fini dell'effettiva conoscibilità degli atti, correlata alla nuova disciplina introdotta per la notificazione dell'atto impositivo, che di fatto ha superato la precedente disciplina che attribuiva rilevanza agli atti di riclassamento catastale con la mera pubblicazione sull'albo pretorio del Comune. Una tale disciplina in nessun modo appare incidere sull'ordinaria disciplina degli atti generali e dei regolamenti - e dunque sulla possibile verifica di legittimità degli stessi in relazione 111 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) ai presupposti che ne legittimano l'adozione - dinnanzi al giudice amministrativo. Nonostante tale evidente riferimento temporale e conseguente interpretazione sistematica della previsione di cui all'art. 74 della l. n. 342 del 2000 il Consiglio di Stato ha fondato la propria opzione interpretativa in considerazione della previsione di cui all'art. 2 comma 3 del d.lgs. n. 546 del 1992 per come modificato successivamente alla entrata in vigore del predetto art. 74. La lettura sistematica delle disposizioni richiamate, anche nell'attuale formulazione, e l'analisi del correlato disposto tra tali disposizioni e l'art. 7 comma 5 del d. lgs. n. 546 del 1992, evidenziano tuttavia sempre e comunque un potere di cognizione incidentale del giudice tributario delle questioni da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione e dunque questioni presupposto collegate inscindibilmente, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, all'essere stata azionata una specifica pretesa impositiva in relazione ad un singolo e specifico rapporto tra Stato e contribuente. In quest'ambito complessivo di valutazione si inserisce il disposto di cui all'art. 7 comma 5 citato che attribuisce al giudice tributario il potere di disapplicazione di atti generali e regolamenti nel contesto della propria decisione, salva la facoltà di impugnazione nella sede competente. Un sistema questo improntato ad effettiva completezza e sistematicità, che risulta superato - con un consistente allargamento della giurisdizione tributaria chiamata a giudicare direttamente della legittimità di atti generali e regolamenti con potere di annullamento degli stessi - dall'interpretazione del Consiglio di Stato, che sostanzialmente afferma la assenza di rilevanza degli atti generali prima che gli stessi acquistino portata concreta mediante la confluenza del loro contenuto in un atto impositivo regolarmente notificato al contribuente, e individua la ratio della più ampia giurisdizione del giudice tributario nella decorrenza del termine decadenziale di impugnazione, che tuttavia in relazione alla disciplina richiamata deve essere riferito all'atto impositivo della singola pretesa della Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente. Nel corpo della sentenza infatti si sottolinea che in assenza della notifica gli atti di classamento o la determinazione della rendita non sono efficaci e dunque non possono incidere sulle situazioni soggettive dei contribuenti, ma se ne richiama tuttavia la utilizzabilità ad altri fini, circostanza che evidenzia una sostanziale contraddittorietà della conclusione, considerato che l'efficacia 112 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) conseguente all'effettiva attività di notificazione dovrebbe essere riferita al singolo atto impositivo e non all'atto presupposto. L'opzione interpretativa del Consiglio di Stato lascia poi emergere una mancata considerazione di una serie di diversi interessi alla sindacabilità dell'atto generale e del regolamento in relazione alla loro portata, circostanza questa che di fatto si risolverebbe in una assenza di sindacato e tutela verso tali atti, che tuttavia, a prescindere dal loro essere presupposto di atti impositivi, rappresentano delle scelte valutative, discrezionali e programmatiche della P.A. a carattere generale. La giurisprudenza di legittimità ha affrontato il tema del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario in modo costante ed univoco, evidenziando, come già richiamato in relazione alla tipologia di atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992, il radicarsi della giurisdizione tributaria solo in relazione all'effettiva attivazione di una pretesa impositiva. In tal senso Sez. U, n. 06224/2006, Botta, Rv. 589552, ha chiarito che: "È affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice tributario la tutela del contribuente riguardo ai "tributi di ogni genere e specie", in base all'art. 2, comma 1, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (e quindi anche in ordine alla tassa sulle merci sbarcate, imbarcate ed in transito nei porti italiani, di cui si controverte nella specie). Tale tutela, nondimeno, può svolgersi solo attraverso l'impugnazione di specifici atti impositivi dell'amministrazione finanziaria, nell'inammissibilità di ogni accertamento preventivo, positivo o negativo del debito di imposta, sia dinanzi alle commissioni tributarie, che dinanzi al giudice ordinario: ove manchi uno specifico atto impositivo, nella richiesta del cui annullamento consiste il petitum sostanziale idoneo a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, questo, in mancanza della "mediazione" rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere, "incidenter tantum" ed entro confini determinati, solo ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell'atto amministrativo presupposto dell'atto impositivo impugnato". L'analisi del principio di diritto evidenziato in correlazione con il ricorso introduttivo del giudizio dell'Ungaro Raffaele ed altri sembra quindi chiarire come nel caso in esame il petitum fosse da individuare nella richiesta di valutare la legittimità degli atti amministrativi presupposto di eventuali e successivi atti di 113 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) imposizione in relazione ai vizi tipici di tali atti generali così come richiamati nell'atto introduttivo del giudizio dinnanzi al TAR Puglia. Nello stesso senso Sez. U, n. 00675/2010, Di Iasi, Rv. 611201, ha chiarito, proprio in relazione agli atti di classamento, che: "Spetta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo l'impugnazione proposta da un Comune avverso il provvedimento di classamento di un immobile e di attribuzione della rendita catastale emesso dall'Agenzia del Territorio, qualora si denuncino i vizi tipici previsti dagli art. 2 e ss. della l. n. 1034 del 1971. (Principio affermato con riferimento all'impugnazione proposta da un Comune avverso provvedimenti di classamento di alcuni immobili che, avendoli qualificati nel gruppo "E" come aventi particolari destinazioni pubbliche, li avevano resi esenti dall'ICI)." Un principio già evidenziato, anche se in relazione ad un caso concreto diverso, da Sez. U, n. 16429/2007, Malpica, Rv. 598760, dove si richiama ancora una volta la ricorrenza della giurisdizione tributaria solo in relazione alla cognizione del rapporto autoritativo tra Amministrazione finanziaria e contribuente, con esclusione da tale ambito della controversia relativa all'accertamento in radice della titolarità del diritto di proprietà invocato dal privato nei confronti della p.a. con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Nello stesso senso anche Sez. U, n. 07526/2013, Nobile, Rv. 625841, secondo la quale: "La giurisdizione tributaria non ricorre allorquando non sia in discussione l'obbligazione tributaria, né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà- soggezione, proprio del rapporto tributario, in quanto non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie di competenza delle relative commissioni. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia che, non essendo in discussione l'esistenza dell'obbligazione tributaria, né l'obbligo della ritenuta fiscale, riguardi semplicemente la determinazione dell'ammontare di un assegno straordinario dovuto dal Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito ad ex dipendenti di imprese di credito, aderenti ad un accordo per esodo volontario incentivato, ai sensi dell'art. 10 del d.m. n. 158 del 2000". Nel corpo della motivazione infatti la Corte evidenzia come "la giurisdizione tributaria ha per oggetto sia l'an che il quantum della pretesa tributaria e comprende anche l'individuazione del soggetto tenuto al versamento dell'imposta o dei limiti nel quali esso, per qualità, sia obbligato, ma non ricorre allorquando non è in discussione l'obbligazione tributaria e neppure 114 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) il potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario". Infine un'evoluzione interpretativa in ordine all'individuazione dei soggetti legittimati ad adire la giurisdizione tributaria in materia di classamento delle unità immobiliari e attribuzione della rendita catastale emerge da Sez. U, n. 15201/2015, Di Iasi, Rv. 635996, secondo la quale: "La controversia avente ad oggetto il classamento delle unità immobiliari e l'attribuzione della rendita catastale appartiene alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ex art. 2, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anche quando la rendita o l'atto di classamento siano impugnate dall'amministrazione comunale e non (o non solo) dal contribuente, dovendosi escludere, alla stregua di un'interpretazione letterale, logica e sistematica, oltre che costituzionalmente orientata, che l'inciso "promosse dai singoli possessori", contenuto nella norma, sia idoneo a condizionare, sotto il profilo soggettivo di chi adisca il giudice, i limiti della giurisdizione delle suddette commissioni." La decisione evidenzia come - fermo il principio per cui appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie, con impugnazione degli atti impositivi e di quelli ad essi equiparati – sebbene il giudice tributario sia normalmente adito dal contribuente ciò non esclude, ove ne ricorrano presupposti legittimanti e condizioni adeguate, che sia legittimamente adito da altri soggetti, ed in particolare da un comune, poiché non ricorre alcuna intenzione effettiva ed esplicita del legislatore di delimitare la giurisdizione del giudice tributario da un punto di vista soggettivo, ricorrendo nel caso in esame un'indicazione di tipo meramente esplicativo ricognitivo. Emerge dunque una chiara comprensione ed allargamento della platea dei soggetti interessati ad impugnare un atto impositivo rispetto ad un immobile sito nel territorio comunale, sempre e comunque in relazione alla attivazione di una pretesa tributaria della Amministrazione finanziaria. Precisa la decisione come questo principio non tocca e scalfisce altro principio di carattere generale secondo il quale "la giurisdizione tributaria non ricorre quando non sia in discussione l'obbligazione tributaria, né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione propria del rapporto tributario e che spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo l'impugnazione proposta da un comune avverso il provvedimento di classamento di un immobile o di attribuzione della rendita catastale emesso dall'Agenzia del 115 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) Territorio, qualora si denuncino i vizi tipici previsti dagli art. 2 e seguenti della l. n. 1034 del 1971". 6. Considerazioni sistematiche. In senso critico rispetto alla decisione del Consiglio di Stato alcune considerazioni di tipo sistematico si impongono: non può essere superato il principio generale relativo al riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario per come costantemente individuato anche dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all'oggetto del giudizio introdotto dall'Ungaro, relativo ad atti generali della P.A. quanto alla lamentata ricorrenza del vizio di eccesso di potere e violazione di legge nell'adozione dell'atto stesso; la difficoltà di accedere ad un'interpretazione dell'art. 74 della l. n. 342 del 2000 sostanzialmente "creativa" di cognizione "diretta" con conseguente potere di annullamento dell'atto generale da parte del giudice tributario, identificando la ratio tale allargamento nella previsione di termine decadenziale di impugnazione, termine che tuttavia deve essere evidentemente riferito al rapporto impositivo, alla specifica pretesa tributaria (come costantemente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità) nel rapporto potere – soggezione tra Amministrazione finanziaria e contribuente. La sostanziale assenza di sindacato per atti a portata generale, espressione di discrezionalità amministrativa, validi anche a fini civili e non solo tributari, espressione di poteri di indirizzo e valutazione della pubblica amministrazione, che sarebbero asseritamente inefficaci, mentre entrano a far parte dell'ordinamento con valutazione in funzione di accertamento e creazione conseguente del tributo. L'evidente vuoto di tutela rispetto ad atti che comunque devono poter essere valutati nel loro contenuto generale a prescindere dalla diretta lesione di una posizione di diritto soggettivo in presenza di interessi diffusi e a portata più ampia - espressione anche della comunità territoriale di riferimento - al rispetto del principio di legge legittimante la modifica dell'atto di classamento catastale (per cui si potrebbe eventualmente affrontare nell'avvio e valutazione del giudizio amministrativo il profilo relativo all'eventuale carenza di interesse, non essendo appunto ipotizzabile un'inefficacia assoluta dell'atto generale prima che confluisca nella singola e specifica pretesa impositiva, considerato che si tratta come già detto di atti con portata obiettiva, generale, innovativa ed attributiva di una determinata posizione ai beni di un ampio contesto territoriale). La difficoltà di considerare fondato, nel coordinamento ipotizzato di tali norme, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, 116 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) un così consistente allargamento della giurisdizione tributaria, sulla base di un mero richiamo normativo all'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 tra l'altro senza alcuna considerazione della cadenza temporale che ha caratterizzato tale norma nella sua diversa formulazione e senza una chiara esplicitazione del principio a portata esiziale desunto. 7. La soluzione delle Sezioni Unite. La Corte nell'evidenziare la fondatezza del ricorso ha ricostruito in modo analitico la disciplina di riferimento, richiamando contenuto e modifiche normative dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 quanto all'oggetto della giurisdizione tributaria, dell'art. 7 del medesimo decreto in ordine alla definizione e portata dei poteri dei giudici tributari, dell'art. 19 quanto all'identificazione degli atti impugnabili. È inoltre stata analizzata la disposizione relativa all'attribuzione e modificazione delle rendite catastali ai sensi dell'art. 74 della l. n. 342 del 2000, per correlarne portata e contenuto all'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella sua diversa, e modificata nel tempo, formulazione. Dall'esegesi di tali disposizioni emerge dunque la necessaria conclusione a parere della Corte per cui: "Il senso del perdurante rinvio all'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni non è quello di richiamare nella legge 21 novembre 2000 n. 342, all'articolo 74, qualsivoglia testo del ridetto comma 3, anche il più eterogeneo, ma quello di rinviare a tutte le modificazioni del processo tributario riguardanti le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo tra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale", con la conseguenza che ove nell'art. 74 si legge articolo 2, comma 3, si deve invece leggere articolo 2, comma 2 a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 37, comma 3 della l. n. 448 del 2011 in correlazione con l'intervento effettuato sull'art. 19 lettera f) del d.lgs. n. 546 del 1992 come modificato appunto dal d.l. n. 16 del 2012". Dalla considerazione delle disposizioni richiamate deriva dunque la presenza di un sistema coerente e completo che collega "l'attribuzione e la modificazione delle rendite catastali (art. 74) alla specifica norma processuale tributaria di riferimento (art. 2, nuovo 117 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) comma 2 cit.), e la disapplicazione di un regolamento o atto generale (art. 7, comma 5) con la generale cognizione incidentale del giudice tributario (art. 2, nuovo comma 3) in piena coerenza logica e giuridica". La logica conseguenza della valutazione sistematica e ricostruttiva effettuata è per la Corte che nessuna disposizione del d. lgs. n. 546 del 1992 attribuisce alle commissioni tributarie un potere direttamente incisivo degli atti generali in deroga alla tipica giurisdizione di legittimità costituzionalmente riservata agli organi della giustizia amministrativa, non essendovi alcuno spazio per l'impugnazione di atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con effetti nei confronti della generalità dei contribuenti. Si rifà dunque la Corte al proprio orientamento costante in tal senso e richiama ancora una volta la caratterizzazione in senso impugnatorio del giudizio tributario, sicché l'azione del contribuente si esercita solo mediante l'impugnazione di specifici atti impositivi, di riscossione o di rifiuto. È dunque l'elemento della mediazione, rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, di riscossione o di diniego, l'elemento discretivo e centrale per il giudice tributario per entrare a contatto con gli atti amministrativi generali, dei quali comunque può avere conoscenza solo ed esclusivamente incidenter tantum, al solo fine della disapplicazione nel singolo caso concreto dell'atto amministrativo presupposto dell'atto impugnato. Da ciò consegue dunque che la controversia sugli atti amministrativi generali esula dalla giurisdizione delle commissioni tributarie, il cui potere di annullamento riguarda soltanto gli atti indicati nel d.lgs. 496 del 1992, e non si estende agli atti generali o a questi assimilabili, dei quali l'art. 7 consente esclusivamente la disapplicazione, ferma restando l'impugnabilità dinnanzi al giudice amministrativo. Conclude dunque la Corte la propria valutazione evidenziando come debba escludersi che l'art. 74 della l. n. 342 del 2000, in relazione agli generali di formazione, aggiornamento ed adeguamento del catasto, deroghi all'ordinario riparto della giurisdizione tra giudice tributario ed amministrativo, proprio perché la disposizione in questione è da riferire all'impugnazione delle cd. "operazioni catastali individuali", mentre permane la piena ricorrenza della giurisdizione amministrativa in relazione agli atti a portata generale determinanti un nuovo classamento catastale valido per la generalità dei contribuenti sulla base della revisione dei parametri della microzona. Un nuovo reticolo di microzone dunque 118 CAP. VIII - LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286) avente portata generale in ambito comunale, la cui portata, rilevanza ed anche diffusività, quanto agli interessi coinvolti, è manifestata dalla Corte anche in relazione alla piena legittimazione a contraddire sul punto da parte delle associazioni di consumatori o di categoria, portatrici notoriamente di interessi riferibili alla generalità dei cittadini e contribuenti. La considerazione di tali atti come atti generali - quali atti amministrativi, non dissimili da altri a valenza urbanistica e di natura pianificatoria per l'Amministrazione, con il fine specifico di risolvere specifici problemi tecnico estimativi posti in astratto dall'ordinamento fiscale destinati ad operare nei confronti di una generalità indeterminata di destinatari, individuabili solo ex post – determina dunque la piena riferibilità dei rimedi contro tali atti proprio alla giurisdizione amministrativa. Bibliografia BUCCICO, Il Catasto. Profili procedimentali e processuali, Napoli 2008 DEL VAGLIO, Accertamento catastale e motivazione dell'atto di attribuzione della rendita in Rivista di diritto tributario, anno 2005, pag.809 e seguenti SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell'accertamento catastale Milano 2003 URICCHIO, Il contenzioso catastale: la difficile convivenza tra giurisdizioni in Rassegna tributaria, 2005, 5, pag. 1403 e seg. 119 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. CAPITOLO IX LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. (di Dario Cavallari) SOMMARIO: 1. La disciplina del ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie centrali. – 2. Le conseguenze della violazione dell'art. 330 c.p.c. – 3. L'inesistenza e la nullità della notificazione: distinzione. – 4. La vicenda processuale. – 5. La decisione: i punti fondamentali. – 6. Considerazioni finali. 1. La disciplina del ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie centrali. Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, hanno affrontato, in primo luogo, la questione della disciplina applicabile al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie regionali, con specifico riferimento all'art. 330 c.p.c. In giurisprudenza, sussistono due diversi indirizzi interpretativi in ordine a tale problema. Una prima tesi afferma che alla proposizione del ricorso vanno applicate le disposizioni dettate dal codice di procedura civile, in particolare, l'art. 330 c.p.c., in base al quale la notificazione deve essere fatta: a) presso il domicilio eletto o la residenza indicata dalla parte nell'atto di notificazione della sentenza, purché entrambi questi luoghi siano situati nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza stessa; b) qualora manchi la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nell'atto di notificazione della sentenza (ed anche nel caso in cui non vi sia stata notificazione della sentenza) o l'una o l'altra vi siano, ma siano fuori dalla circoscrizione del giudice che ha pronunciato quest'ultima, presso l'ufficio del procuratore costituito o la residenza dichiarata o il domicilio eletto per il giudizio che si è concluso con la sentenza da impugnare; c) nel caso in cui manchino la costituzione di procuratore, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, e, comunque, quando l'impugnazione sia proposta dopo un anno dalla 120 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. pubblicazione della sentenza, presso la parte personalmente nei luoghi degli artt. 137 ss. c.p.c. Tale tesi trova giustificazione nel fatto che l'art. 62, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, richiamerebbe proprio il codice di rito, e sulla circostanza che detto decreto non conterrebbe disposizioni peculiari in ordine alle modalità di proposizione del ricorso per cassazione, mentre prescriverebbe, con gli artt. 20, 22 e 53, forme semplificate di presentazione del ricorso in primo grado ed in appello dinanzi alle commissioni tributarie. Pertanto, l'art. 330 c.p.c. disciplinerebbe la notifica degli atti di impugnazione, mentre, per quanto concerne, in generale, le ulteriori notificazioni e le comunicazioni in corso di procedimento, troverebbe applicazione l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992, che derogherebbe, quindi, all'art. 170 c.p.c. Una seconda impostazione sostiene, invece, che la disciplina di cui all'art. 17, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992, in base a cui l'elezione di domicilio, una volta effettuata dal contribuente, conserva efficacia anche nei successivi gradi di giudizio, è applicabile pure al giudizio di legittimità, rappresentando l'equivalente tributario del dell'art. 330 c.p.c., con la conseguenza che la notificazione del ricorso per cassazione effettuata presso il domicilio eletto nel ricorso proposto innanzi al giudice di prime cure sarebbe sempre valida. 2. Le conseguenze della violazione dell'art. 330 c.p.c. La seconda questione affrontata nella sentenza in esame concerne, sul presupposto che sia ritenuto applicabile l'art. 330 c.p.c. alla notificazione dei ricorsi per cassazione in ambito tributario, le conseguenze del mancato rispetto di questa disposizione. Infatti, l'ordine, stabilito dall'art. 330 c.p.c., dei luoghi nei quali deve essere eseguita la notificazione dell'impugnazione è chiaramente previsto con lo scopo di rendere possibile la difesa della parte impugnata. Peraltro, nonostante l'univocità dello scopo della disposizione, sono state proposte in giurisprudenza varie interpretazioni degli effetti derivanti dalla sua violazione. Un primo gruppo di sentenze ha considerato l'eventualità che il ricorso per cassazione sia stato notificato presso il procuratore della controparte nominato in primo grado quando, nel giudizio di appello, la medesima parte sia rimasta contumace. 121 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. Fra queste, un orientamento valorizza la circostanza che l'elezione di domicilio presso il procuratore spiega effetto limitatamente al grado del giudizio per il quale la procura medesima è stata conferita, salvo espressa contraria previsione, e giunge ad affermare che, pertanto, la notificazione del ricorso per cassazione alla parte rimasta contumace in secondo grado, che avvenga presso il procuratore domiciliatario della medesima in primo grado, è affetta da giuridica inesistenza e non da mera nullità, in quanto eseguita in luogo e presso persona non aventi più alcun riferimento con il destinatario. In simile ipotesi, quindi, il ricorso deve ritenersi inammissibile, senza alcuna possibilità di sanatoria mediante rinnovazione o costituzione della parte intimata, ai sensi dell'art. 291 c.p.c. (Sez. 2, n. 01100/2001, Settimj, Rv. 543481). Una ulteriore tesi, invece, muove dal medesimo presupposto secondo cui, ove la procura non sia stata espressamente rilasciata per tutti i gradi del giudizio, l'elezione di domicilio nella stessa contenuta spiega i suoi effetti solo per il grado di giudizio per il quale è stata conferita e, ai fini della notificazione della sentenza, non oltre l'anno dalla pronuncia di questa, ma perviene ad una conclusione opposta. Infatti, si sostiene che la notificazione del ricorso per cassazione alla parte rimasta contumace in secondo grado, se effettuata presso il procuratore domiciliatario della medesima in primo grado, deve ritenersi eseguita in luogo diverso da quello prescritto dall'art. 330, comma 3, c.p.c., ma non privo di un qualche riferimento con il destinatario della notifica, con la conseguenza che deve considerarsi nulla e non inesistente, e, perciò, sanabile mediante rinnovazione o costituzione della parte intimata. Chi propone questa soluzione considera che l'atto in questione, pur se viziato, perché eseguito al di fuori delle previsioni dell'art. 330, commi 1 e 3, c.p.c., può essere riconosciuto come appartenente alla categoria delle notificazioni, anche se non è idoneo a produrne in modo definitivo gli effetti propri (Sez. U, n. 10817/2008, Malpica, Rv. 603086). Un secondo gruppo di sentenze ha esaminato, invece, l'ipotesi in cui la parte destinataria del ricorso per cassazione abbia revocato la nomina del difensore che la aveva assistita nel giudizio di prime cure, designandone uno diverso per il secondo grado, ed 122 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. abbia ricevuto la notifica del ricorso presso il primo difensore nominato. Come nelle fattispecie precedenti, la procura conferita in prime cure, all'atto della notifica del ricorso per cassazione, era divenuta inefficace, ma non perché il suo effetto fosse limitato al giudizio di primo grado e la parte fosse rimasta contumace in appello, bensì in quanto la revoca del mandato al precedente procuratore, accompagnata dalla sua sostituzione con un nuovo difensore, comportava l'inefficacia della procura conferita per il primo grado, ai sensi dell'art. 85 c.p.c. Alcune pronunce hanno ritenuto che la notifica del ricorso per cassazione, eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario, determinasse la nullità della notifica, che pertanto, era sanata, con effetto ex tunc, per raggiungimento dello scopo mediante rinnovazione o costituzione in giudizio dell'intimato, anche se effettuata al solo fine di eccepire la nullità, con conseguente ammissibilità del ricorso (Sez. 3, n. 13451/2013, Carluccio, Rv. 626356). Un ulteriore orientamento interpretativo ha affermato, invece, che la notificazione del ricorso per cassazione, che avvenisse non presso il procuratore domiciliatario della parte nel giudizio di secondo grado, ma presso quello designato per il primo grado, fosse affetta da giuridica inesistenza, non da mera nullità, con esclusione, pertanto, di ogni possibilità di sanatoria o rinnovazione. Infatti, la seconda procura con elezione di domicilio travolgerebbe la prima elezione e non consentirebbe di considerare il luogo in essa indicato come ancora riferibile al destinatario dell'atto, essendo venuto meno ogni rapporto tra la parte ed il procuratore cessato, il quale non sarebbe più gravato da alcun obbligo, poiché non opererebbe, in tale ipotesi, la proroga disposta dall'art. 85 c.p.c. per il solo caso della semplice revoca del mandato, non accompagnata dalla nomina di un nuovo difensore (Sez. 3, n. 00759/2016, Travaglino, Rv. 638542). 3. L'inesistenza e la nullità della notificazione: distinzione. Dall'esame della giurisprudenza appena svolto emerge come la problematica concernente la notificazione nulla e quella inesistente sia stata estremamente dibattuta, venendo in questione esigenze fra loro fortemente contrapposte (per una completa 123 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. disamina delle tematiche qui trattate si rinvia anche alla relazione n. 150/2014 dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo). Da un lato, la disciplina codicistica della nullità degli atti processuali è fondata sul principio di strumentalità delle forme, per cui la nullità dell'atto non dipende dalla semplice violazione di regole formali, ma dalle conseguenze che ne derivano sull'idoneità dell'atto a raggiungere lo scopo prefissato dal legislatore. Pertanto, l'art. 160 c.p.c., mentre stabilisce che l'inosservanza delle prescrizioni sulla persona ed il luogo della consegna in tema di notificazione comporta la nullità della stessa, dopo aver sanzionato tale violazione con la previsione della nullità, allo stesso tempo fa salvo l'art. 156 c.p.c., nella parte in cui esclude che la nullità medesima possa essere pronunciata a fronte del raggiungimento dello scopo [CONSO, 1965, 135; FAZZALARI, 1945, 254]. Dall'altro, per quanto riguarda, invece, l'inesistenza della notificazione, si ritiene comunemente in dottrina che la violazione delle prescrizioni sulle modalità di notifica non esuli dall'ambito della nullità finché i relativi vizi siano logicamente conciliabili con il verificarsi della conoscenza dell'atto e, quindi, tale conoscenza sia ipotizzabile come potenziale sviluppo dell'attività irritualmente compiuta [DENTI, 1962, 635 SS.]. L'attività è inesistente, al contrario, quando, per una radicale estraneità delle modalità di esecuzione della notifica dal modello processuale, non possa ragionevolmente ritenersi conseguito lo scopo prefissato, vale a dire il raggiungimento della sfera di conoscibilità del destinatario, essendo la conoscenza ascrivibile solo a fatti accidentali, esterni ed autonomi, privi di ogni nesso con l'attività di notifica (Sez. U, n. 22641/2007, Botta, Rv. 600100). Si afferma tradizionalmente che l'inesistenza giuridica della notificazione nella fase di consegna consegua ad una anomalia nel procedimento per effetto di una violazione che escluda in astratto, con un giudizio ex ante, qualsiasi possibilità di raggiungimento dello scopo dell'atto, rappresentato dalla conoscenza di esso da parte del destinatario. Tale violazione deve sostanziarsi nella mera apparenza della notificazione, difettando del tutto i requisiti essenziali per individuare un atto rispondente al modello di notificazione delineato dal legislatore, in quanto la consegna è fatta a soggetto o in luogo che non abbia alcuna attinenza con il destinatario della notificazione stessa. 124 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. Sez. U, n. 22641/2007, Botta, Rv. 600100, peraltro, hanno precisato ulteriormente l'ambito applicativo dell'inesistenza della notifica, escludendola sia qualora sussista un effettivo collegamento tra il luogo della notifica ed il suo destinatario, sia ove detto collegamento, pur mancante, sia stato presunto dal notificante in forza di un affidamento meritevole di tutela. Questa ultima impostazione sembra porre in secondo piano la circostanza che le garanzie di conoscibilità dell'atto da parte del destinatario sono ispirate, nel sistema codicistico, ad un criterio di effettività, con la conseguenza che il collegamento fra il destinatario stesso ed il luogo di notifica dell'atto dovrebbe fondarsi, al fine di escluderne l'inesistenza, solo su criteri oggettivi e non soggettivi [FRASSINETTI, 2009, 514 SS]. In conclusione, secondo la giurisprudenza precedente alla sentenza in esame, possono verificarsi due situazioni: a) la notificazione è stata posta in essere in luogo o presso persona che abbiano, comunque, un collegamento con il destinatario dell'atto che faccia apparire ipotizzabile, secondo un giudizio ex ante, il raggiungimento dello scopo dell'atto nonostante il vizio della notificazione: in tale evenienza la notificazione è nulla e suscettibile di sanatoria; b) la notificazione è integralmente difforme dal suo modello legale per la sua abnormità: ne derivano l'insanabilità e l'impossibilità di disporne la rinnovazione ex art. 291 c.p.c. 4. La vicenda processuale. Nella fattispecie oggetto di Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, l'Agenzia delle Entrate, per mezzo di cinque avvisi di accertamento emessi ai fini IVA per gli anni dal 1999 al 2003, aveva recuperato a tassazione, nei confronti di una società statunitense, l'imposta, precedentemente rimborsata, ritenuta illegittimamente detratta ai sensi dell'art. 74 ter, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto tale società aveva svolto attività di tour operator, e non solo di autonoleggio, con conseguente indetraibilità dell'IVA relativa ai costi sostenuti per le cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate da terzi a diretto vantaggio dei viaggiatori. I giudici di primo e di secondo grado avevano ritenuto detti avvisi di accertamento illegittimi, ritenendo non fosse stata data adeguata prova che la contribuente, negli anni in contestazione, svolgesse effettivamente attività di tour operator e non esclusivamente di autonoleggio. 125 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. Davanti alla Suprema Corte la società resistente ha eccepito l'inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 330 c.p.c., perché notificato presso il difensore domiciliatario per il giudizio di primo grado, anziché presso il difensore costituito nel giudizio di appello e presso il quale essa aveva eletto domicilio per tale grado del processo. La quinta sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 15946 del 2014, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite, avendo rilevato contrasti nella giurisprudenza della Corte su due questioni: a) se alla proposizione del ricorso per cassazione avverso sentenze delle commissioni tributarie regionali debba applicarsi la disciplina dettata dall'art. 330 c.p.c., oppure quella speciale prevista dall'art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, relativo al processo tributario; b) ove si accolga la prima tesi, se sia affetta da inesistenza giuridica oppure da nullità, sanabile secondo le norme del codice di rito, la notificazione eseguita presso il procuratore domiciliatario della controparte in primo grado, nel caso in cui questa sia rimasta contumace in appello o qualora abbia revocato il mandato a detto difensore e lo abbia sostituito con uno nuovo presso il quale abbia anche eletto domicilio. I profili della controversia che qui interessano, pertanto, concernono l'applicabilità al ricorso per cassazione, nel processo tributario, del codice di rito e l'individuazione dei casi in cui la notificazione di un atto (nella specie, di impugnazione) debba essere considerata inesistente oppure nulla. 5. La decisione: i punti fondamentali. Le Sezioni Unite hanno affrontato, in primo luogo, la questione dell'individuazione del luogo di notificazione del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza di una commissione tributaria regionale, dovendo stabilire se dovesse essere applicato il disposto dell'articolo 330 c.p.c. o quello dell'art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Tale questione era resa particolarmente complessa dalla poca chiarezza delle disposizioni del d.lgs n. 546 del 1992. Infatti, gli artt. 1, comma 2, e 49 di detto decreto stabiliscono, rispettivamente, che i giudici tributari devono applicare le norme del decreto stesso e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile, e che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si 126 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, fatto salvo quanto disposto nel decreto in questione. Al contrario, l'art. 62, comma 2, in tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, prescrive che si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del decreto de quo. Per decidere il caso le Sezioni Unite hanno richiamato il proprio precedente di Sez. U, n. 29290/2008, Cicala, Rv. 606008, secondo cui l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 costituirebbe eccezione al solo art. 170 c.p.c. per le notificazioni endoprocessuali, con la conseguenza che, mancando, per la notifica degli atti di impugnazione, una disposizione specifica, deve trovare applicazione quella prevista dall'art. 330 c.p.c. Inoltre, le Sezioni Unite hanno evidenziato che Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629829, occupandosi dell'applicabilità al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie delle disposizioni di cui all'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, aveva già rilevato la contrapposizione tra le disposizioni di rinvio contenute negli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, relative al processo e alle impugnazioni in generale, e quella del successivo art. 62, concernente il giudizio di cassazione, in quanto gli artt. 1 e 49 stabilivano la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale aveva un ruolo sussidiario, mentre l'art. 62, viceversa, per il giudizio di cassazione, rendeva applicabile espressamente il codice di procedura civile, escludendo l'esistenza di un giudizio tributario di legittimità e, pertanto, di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria. La sentenza in commento ha chiarito, perciò, che occorre tenere distinta la disciplina dell'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 che, benché non si riferisca alle sole notificazioni endoprocessuali, regola il processo dinanzi alle commissioni tributarie, da quella prevista dal codice di rito ordinario in tema di ricorso per cassazione, che riguarda quest'ultimo. Pertanto, al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali deve applicarsi, con riferimento al luogo della notificazione, l'art. 330 c.p.c. Tale ultima disposizione deve tenere conto del principio di ultrattività dell'indicazione della residenza o della sede e dell'elezione di domicilio effettuate in primo grado, stabilito dall'art. 127 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. 17, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, con la conseguenza che è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi del citato art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., nel caso in cui la parte non si sia costituita nel giudizio di appello, oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione [RUSSO, 2016, 3287]. In secondo luogo, la sentenza in esame si è occupata delle conseguenze derivanti dalla violazione del menzionato art. 330 c.p.c., in ordine alle quali esistevano i sopra riportati orientamenti difformi nella giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite hanno ritenuto di individuare, al fine di arrestare le continue oscillazioni della giurisprudenza al riguardo, un criterio distintivo il più possibile chiaro, univoco e sicuro tra le tradizionali nozioni di inesistenza e di nullità della notificazione, e di esaminare la stessa configurabilità della inesistenza come vizio dell'atto autonomo e più grave della nullità. La Corte di cassazione ha rilevato che la categoria della inesistenza non è prevista nel codice di rito, il quale contempla eventualmente la sola ipotesi della nullità insanabile, per cui essa deva essere definita in termini assolutamente rigorosi e confinata ad ipotesi del tutto eccezionali. Pertanto, l'inesistenza non è stata ritenuta qualificabile, in senso stretto, come un vizio dell'atto più grave della nullità, concernendo essa, invece, il diverso profilo della contrapposizione fra non atto ed atto venuto ad esistenza. Al fine di meglio definire tale ultima contrapposizione, la decisione in commento ha chiarito, quindi, che l'inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile tale atto. Per individuare tali ipotesi, ha attribuito rilievo all'art. 156 c.p.c. e ad altre disposizioni codicistiche, quali gli artt. 121 e 131, comma 1, i quali sono espressione del principio di strumentalità delle forme degli atti processuali, in base a cui dette forme sono prescritte al fine esclusivo di conseguire un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell'ambito del processo e con lo scopo ultimo dello stesso, rappresentato dalla pronuncia sul merito della situazione giuridica controversa. 128 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. In particolare, ha valorizzato proprio l'art. 156 c.p.c. il quale, dopo avere previsto che la nullità di un atto può essere pronunciata, anche al di là dell'espressa comminatoria di legge, quando lo stesso manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, stabilisce che la nullità non può mai essere dichiarata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Le Sezioni Unite hanno sottolineato, inoltre, che pure il principio del giusto processo ex artt. 111 Cost. e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali impone all'interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire la pronuncia di decisioni sul merito da parte del giudice. Da tali disposizioni hanno dedotto che, per quanto concerne la notificazione, ove un atto, riconoscibile come tale, esista, ogni vizio dello stresso ricade nell'ambito della nullità, senza che possa distinguersi, al fine di individuare ulteriori ipotesi di inesistenza attraverso la negazione del raggiungimento dello scopo, tra valutazione ex ante e constatazione ex post, poiché il legislatore ha inteso dare prevalenza a quest'ultima e, quindi, ai dati dell'esperienza concreta, sia pure dovuta ad accadimenti del tutto accidentali, rispetto agli elementi di astratta potenzialità e prevedibilità. Pertanto, poiché scopo della notificazione è la presa di conoscenza di un atto da parte del destinatario, attraverso la certezza legale che esso sia entrato nella sua sfera di conoscibilità, con gli effetti che ne conseguono in termini di instaurazione del contraddittorio, una notificazione nulla può essere sempre sanata, con efficacia retroattiva, attraverso la costituzione in giudizio della parte intimata oppure, in mancanza di tale costituzione, in seguito all'ordine di rinnovazione della notificazione emesso dal giudice ex art. 291 c.p.c. (a meno che la parte stessa non abbia a ciò già spontaneamente provveduto). Inoltre, la decisione in questione chiarisce che l'effetto sanante ex tunc prodotto dalla costituzione del convenuto opera anche qualora la costituzione sia effettuata al solo fine di eccepire la nullità. Per quanto concerne, invece, la distinzione fra notificazione inesistente e notificazione esistente, le Sezioni Unite hanno affermato che gli elementi costitutivi imprescindibili del relativo procedimento vanno individuati, con riferimento al ricorso per cassazione: 129 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. a) nell'attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l'attività stessa, in modo da potere ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento, in virtù dei quali la stessa debba comunque considerarsi eseguita ex lege. Se ne ricava che, secondo la decisione in esame, restano esclusi dall'ambito della nullità, integrando la fattispecie di inesistenza della notificazione, oltre alle ipotesi di mancanza materiale dell'atto, quelle di assenza degli elementi costituivi summenzionati e, in particolare, i casi in cui l'atto venga restituito al mittente, tale notifica dovendosi considerare tentata, ma non compiuta. E' stata superata, quindi, la tesi che include nel modello legale della notificazione, facendone derivare, in sua mancanza, l'inesistenza della stessa, il requisito del collegamento o del riferimento tra il luogo della notificazione e il destinatario, poiché il luogo ove il ricorso per cassazione è notificato non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, ma si colloca fuori del perimetro strutturale della notificazione. Ne consegue che la mera assenza di tale collegamento o riferimento con il destinatario ricade nell'ambito della nullità, sanabile, con effetto ex tunc, attraverso la costituzione dell'intimato o la rinnovazione dell'atto, spontanea o su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c. 6. Considerazioni finali. La decisione in commento si caratterizza per l'affermazione di due importanti principi, l'uno in tema di giudizio tributario, l'altro riguardante la distinzione fra notificazione inesistente e notificazione nulla. Con riferimento al primo profilo, è affermata con forza l'insussistenza di un giudizio tributario di legittimità e, pertanto, di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria, dovendosi ritenere che vi sia un unico giudizio ordinario di cassazione per tutte le controversie. La Corte di cassazione ha così ribadito il suo ruolo di giudice di ultima istanza per ogni tipologia di causa, a prescindere dalla natura dell'autorità giudiziaria che ne abbia avuto cognizione nei gradi precedenti. 130 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. Quanto alla seconda questione, le Sezioni Unite sono intervenute per risolvere in via definitiva ogni possibile contrasto che potesse sorgere in giurisprudenza in ordine ai casi in cui una notificazione poteva essere considerata o meno inesistente. La sentenza in esame ha ridotto al minimo la categoria della inesistenza della notificazione, riconducendola ad alcune ipotesi di rara verificazione, e ha superato, almeno dal punto di vista della ricostruzione del fenomeno, la giurisprudenza precedente. Di indubbio rilievo, per la loro valenza sistematica, sono due affermazioni delle Sezioni Unite. La prima riguarda la necessità di intervenire per evitare, per il futuro, interpretazioni variegate nella materia de qua. In questo modo, la Corte di cassazione sembra avere dato alla sua funzione nomofilattica una particolare portata, non essendosi limitata ad accogliere una delle soluzioni prospettate in precedenza, ma avendone elaborata una dotata di rilevanti profili di novità. Per raggiungere tale obiettivo, essa si è avvalsa, nella migliore tradizione delle corti supreme, della possibilità di interpretare dei principi generali presenti nel sistema (come quello di strumentalità delle forme), attribuendo loro il contenuto concreto da essa ritenuto più consono alle esigenze del sistema medesimo. La seconda concerne l'importanza attribuita al principio del giusto processo, inteso come diretto ad ottenere una decisione nel merito ad opera del giudice. Detto principio pare ormai sempre più destinato, in futuro, a rendere meno probabili decisioni in rito delle cause. Viene da chiedersi, infatti, se non si stia assistendo ad una notevole riduzione dell'ambito delle questioni meramente processuali, le quali potrebbero quasi scomparire, dovendo il giudice valutare esclusivamente l'avvenuta instaurazione di un contraddittorio effettivo (o almeno il tentativo di tale instaurazione), mentre perderebbero ogni importanza violazioni solo formali della legge processuale che questo contraddittorio non precludano. Una simile tendenza potrebbe favorire, ad esempio, almeno nei casi dubbi, una applicazione estensiva del principio della "ragione più liquida" e, quindi, una inversione dell'ordine delle questioni, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall'art. 111 Cost., con statuizione nel merito della domanda senza valutare le problematiche di rito logicamente preliminari. 131 CAP. IX - LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016. Bibliografia CONSO G., Prospettive per un inquadramento delle nullità processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 110; DENTI V., voce Inesistenza degli atti processuali civili, in Noviss. dig. it., vol. VIII, 1962; FAZZALARI E., Notificazione dell'atto di appello presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, invece che alla residenza dichiarata o al domicilio eletto all'atto di notificazione della sentenza, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 254; FRASSINETTI A., Sulla nullità della notifica del ricorso in cassazione presso il difensore in primo grado della parte rimasta contumace in appello, in Riv. dir. proc., 2009, 2, 514 ss.; RUSSO A., Le Sezioni Unite indicano le linee-guida sul luogo di notificazione del ricorso per cassazione, Il Fisco, 2016, 34, 3287. 132 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») CAPITOLO X LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») (di Roberto Mucci) SOMMARIO: 1. Il principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12084/2016. – 2. Le ragioni dell'orientamento confermato. – 3. I rilievi critici della dottrina. – 4. L'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione n. 09782/2015. – 5. Le Sezioni Unite: l'accelerazione del giudicato in funzione della certezza dei rapporti. – 6. Considerazioni conclusive. 1. IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE N. 12084/2016. Sez. U, n. 12084/2016, D'Ascola, Rv. 639972, ha enunciato il seguente principio di diritto: «La notifica di un primo atto di appello (o ricorso per cassazione) avvia una dinamica impugnatoria al fine di pervenire alla definizione della lite e dimostra conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante. Ne consegue che qualora questi, prima che sia giunta declaratoria di inammissibilità od improcedibilità, notifichi una seconda impugnazione, quest'ultima deve risultare tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione». La sentenza ha così ribadito l'orientamento consolidato di legittimità richiamando i principi della consumazione del potere di impugnazione e della equipollenza tra notificazione della sentenza e notificazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare. Il primo principio – sancito dagli artt. 358 e 387 c.p.c. rispettivamente per il giudizio di appello e per quello di cassazione – comporta che l'impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non può essere riproposta, anche se non è scaduto il relativo termine di legge. In tal modo, con una soluzione innovativa rispetto al previgente codice di rito civile, è stato ampliato l'ambito di applicazione del divieto di riproposizione del gravame estendendolo anche al vizio di improcedibilità e al giudizio di appello, nel quadro della revisione del sistema delle impugnazioni e dei relativi termini. Ciò in adesione ad un indirizzo di fondo, di derivazione carneluttiana, teso a favorire il rapido esaurimento del processo e la certezza dei rapporti giuridici; certezza, questa, 133 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») conseguente appunto alla certezza del provvedimento giurisdizionale che quei rapporti abbia definito. L'altro principio – di derivazione giurisprudenziale – comporta che «gli effetti consustanziali alla notificazione della sentenza effettuata nei modi indicati dall'art. 285 c.p.c., consistenti nel surrogare il termine breve di cui all'art. 326 c.p.c. a quello lungo decorrente dalla pubblicazione, si producono anche a seguito di fatti diversi dalla notificazione della sentenza, purché idonei a dimostrarne in modo inequivocabile la conoscenza legale» [CAPORUSSO, 2013, 1994]. 2. Le ragioni dell'orientamento confermato. E' noto che l'art. 326, primo comma, c.p.c. stabilisce che i termini brevi di impugnazione di cui al precedente art. 325 sono perentori e decorrono dalla notificazione della sentenza. Nondimeno, la giurisprudenza della Corte di cassazione insegna da tempo (pur constando alcuni precedenti dissonanti, deponenti nel senso della non surrogabilità della notificazione della sentenza agli effetti del decorso del termine breve per impugnare) che la decorrenza del termine breve discende – oltre che dalla notifica della sentenza – dalla proposizione di una prima impugnazione che non consumi il potere di riproporre quella impugnazione, o altra diversa, posto che, come prima ricordato, ai sensi degli artt. 358 e 387 c.p.c. la riproposizione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile è preclusa solo dalla sentenza che dichiara l'inammissibilità o l'improcedibilità. L'orientamento, peraltro risalente, è stato fissato da Sez. U, n. 03111/1982, Tondo, Rv. 421045, così massimata: «La riproposizione del ricorso inammissibile od improcedibile, consentita, tanto nella forma di un nuovo ricorso autonomo, quanto in quella del ricorso incidentale (quando sia sopravvenuta l'impugnazione di altra parte), fino a che non sia intervenuta pronuncia giudiziale di inammissibilità od improcedibilità, è soggetta, in difetto di notificazione della sentenza, al termine breve decorrente dalla data di notificazione dell'impugnazione da rinnovare, atteso che tale notificazione deve ritenersi equipollente, al fine della conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante, alla notificazione della sentenza medesima». Questa sentenza ha così risolto il contrasto che sussisteva tra quelle pronunce che davano rilievo alla notificazione dell'impugnazione quale equipollente della notificazione della sentenza e le altre che consideravano esclusivamente la notificazione della sentenza 134 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») impugnata, indipendentemente dalla circostanza che tale notificazione fosse anteriore o posteriore all'impugnazione invalida. Le Sezioni Unite hanno riconosciuto sufficiente, ai fini del termine breve di impugnazione, la "scienza legale" della sentenza derivante all'istante dalla notificazione di un'impugnazione inammissibile o improcedibile, muovendo dal tenore dell'art. 326, cpv., c.p.c. ritenuto estensivamente applicabile anche al caso in cui l'impugnazione notificata sia inammissibile o improcedibile e debba pertanto essere riproposta (e dunque non solo al caso dell'impugnazione "valida"). Il criterio della scienza legale ha poi trovato conferma in Sez. U, n. 21864/2007, Botta, Rv. 599805: «Il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante». Successivamente la Corte, pur invitata a ripensare le ragioni poste a fondamento dell'orientamento in discorso, le ha ribadite con riferimento a una fattispecie di concorso cumulativo di impugnazioni. Così, secondo Sez. 3, n. 10053/2009, Frasca, Rv. 607914, due sono le ragioni essenziali della sufficienza della scienza legale comunque acquisita: a) il difensore, per redigere l'atto di impugnazione, deve necessariamente aver esaminato, e quindi conoscere, la sentenza impugnata e, d'altro canto, lo stare in giudizio per mezzo del difensore realizza per la parte quella situazione di conoscenza legale della sentenza cui è preordinata la notificazione della sentenza e cui allude l'art. 326, primo comma, c.p.c.; b) la scienza legale della sentenza, idonea a far decorrere il termine per impugnare, si ha quante volte alla redazione dell'atto di impugnazione, che è atto interno alla sfera della procura, segue la sua notificazione, che ne costituisce l'esternazione nel processo. Tale orientamento è stato confermato con riferimento a una ricca casistica: ad es., con riguardo alla proposizione di un'impugnazione diversa da quella prevista dalla legge, come nel caso dell'appello avverso sentenza inappellabile, la Corte ha ritenuto che dalla detta impugnazione decorre per la parte il termine breve per impugnare nei modi rituali; del pari, in caso di concorso 135 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») cumulativo di impugnazioni la Corte ha affermato che la proposizione di una delle impugnazioni fa decorrere per la parte il termine breve per proporre l'impugnazione concorrente. Dunque, il fondamento di tale fungibilità della notificazione della sentenza ai fini del decorso del termine breve per l'impugnazione risiede nella ritenuta attitudine della notificazione ad assicurare alle parti la conoscenza legale della sentenza, con la conseguenza – sul presupposto dell'efficacia bilaterale della notificazione della sentenza [IMPAGNATIELLO, 2003, 175-177], per il quale l'effetto acceleratorio si determina anche nei confronti del notificante – che la detta notificazione non risulta indispensabile tutte le volte in cui la parte abbia dato prova di conoscere il contenuto del provvedimento impugnabile avendo proposto l'impugnazione o avendo ricevuto la notifica dell'impugnazione della controparte ovvero avendo posto in essere un atto diverso dall'impugnazione, ma "collegato" al contenuto della sentenza. Inoltre, un argomento testuale viene rinvenuto dalla Corte nel disposto dell'art. 326, cpv., c.p.c. che, nel far decorrere dall'impugnazione proposta nei confronti di alcune delle controparti in causa scindibile ex art. 332 c.p.c. il termine breve per impugnare nei confronti delle altre controparti, è ritenuto suscettibile di esprimere un principio di carattere generale al pari di quello contenuto nel primo comma. Infine, altro argomento si rinviene talora nelle pronunce della Corte con riferimento all'art. 333 c.p.c.: la norma, che pone a carico della parte che riceve la notifica dell'impugnazione principale l'onere di impugnare in via incidentale, non distingue tra le impugnazioni principali validamente proposte e quelle inammissibili. Pertanto, se si ritenesse che dalla notifica dell'impugnazione inammissibile non debba decorrere per la stessa parte impugnante il termine breve per riproporla, si creerebbe una disparità di trattamento tra tale parte – che per rinnovare l'impugnazione beneficerebbe del termine lungo – e la parte alla quale l'impugnazione è notificata, astretta ad impugnare in via incidentale nei più brevi termini di cui agli artt. 343 e 371 c.p.c. 3. I rilievi critici della dottrina. Il descritto meccanismo acceleratorio della decorrenza del termine breve per impugnare, riferito alla conoscenza legale della sentenza, è stato criticato in modo pressoché unanime dalla dottrina. In sintesi, un primo rilievo si è incentrato sulla constatazione che l'equipollenza tra notifica della sentenza e proposizione 136 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») dell'impugnazione ai fini del decorso del termine breve si pone in contrasto con quanto la Corte è solita affermare in altre fattispecie, nelle quali si ribadisce che il decorso del termine breve presuppone la notificazione della sentenza ex artt. 285 e 327, primo comma, c.p.c., sicché, in difetto di tale puntuale attività, la "scienza legale" della sentenza acquisita aliunde non fa decorrere il termine breve né per il notificato, né per il notificante. Si tratterebbe di una «frattura nella giurisprudenza della Cassazione, circa l'individuazione (e quindi le applicazioni) della regola sancita dal combinato disposto degli artt. 285 e 326 c.p.c.» [IMPAGNATIELLO, 2003, 178]. Conclusivamente, l'orientamento in parola sarebbe «1) in contrasto con quanto in casi analoghi la Suprema Corte ha avuto occasione di affermare; 2) privo di base normativa espressa e ricavato per via interpretativa in violazione di principi giuridici fondamentali» [Triola, 2007, 1514]. Al riguardo, sono stati richiamati i casi: a) della notificazione della sentenza eseguita personalmente alla parte costituita ai fini dell'esecuzione forzata (dove pure non può esservi dubbio circa la conoscenza della sentenza da parte del notificante); b) della notificazione della sentenza solo ad alcune delle parti di un giudizio su cause scindibili (sicché si afferma che la notifica della sentenza ad alcuni litisconsorti non fa decorrere per il notificante il termine per impugnare nei confronti degli altri); c) della notificazione della sentenza in unica copia al procuratore costituito per più parti (benché sia evidente che detta notifica, pur viziata, sia sufficiente ad assicurare la conoscenza legale del contenuto della sentenza); d) della proposizione dell'istanza di correzione in pendenza del termine annuale; e) della riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio; f) della normale infungibilità della notificazione ex art. 285 c.p.c. rispetto ad altre forme di notificazione o di comunicazione del testo integrale del provvedimento impugnabile (come, p. es., nel caso delle ordinanze aventi natura di sentenza o della comunicazione della sentenza tramite biglietto di cancelleria contenente il dispositivo). Si è allora affermato in dottrina che l'orientamento criticato appare, in definitiva, contraddittorio. Per altro verso, si è notato come il meccanismo acceleratorio del termine di impugnazione previsto dagli artt. 285 e 326 c.p.c. presenti una "impronta di formalismo" che lo rende assolutamente non surrogabile. Inoltre, la soluzione affermata dalla Corte finirebbe col ridurre la questione del termine breve a un'indagine di fatto sull'an e sul quantum del "collegamento" tra atto e motivazione della sentenza, aprendo le 137 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») porte a complicazioni pratiche in una materia che, per sua natura, avrebbe invece bisogno di certezze. Un secondo rilievo si è basato sul presupposto che la notificazione della sentenza è atto formale infungibile ai fini del decorso del termine breve per impugnare, sicché nessuna rilevanza potrebbe avere la conoscenza del provvedimento impugnabile conseguente alla proposizione di una prima impugnazione. In particolare, è stato attaccato l'assunto, alla base dell'orientamento criticato, secondo cui la notificazione della sentenza ex art. 285 c.p.c. ha lo scopo di fornire alla parte alla quale è diretta la conoscenza legale del provvedimento e la conoscenza della sentenza, pur non ottenuta tramite la notificazione, produce gli stessi effetti della conoscenza legale. Ciò in quanto la presunzione legale di conoscenza della sentenza si produrrebbe in capo alle parti per effetto della pubblicazione della sentenza, non già in conseguenza della notificazione effettuata nei modi previsti dall'art. 285 c.p.c. [Cerino- Canova, 1982, 633], ché, diversamente opinando, non si spiegherebbe la decadenza della parte dall'impugnazione ex art. 327 c.p.c. con il decorso del termine lungo dalla pubblicazione ed anche in assenza di notificazione, né la previsione dell'art. 327 cpv. circa la non applicabilità del termine lungo di decadenza al contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della sua notificazione o per nullità degli atti previsti dall'art. 292 c.p.c. Si è pertanto concluso che la pubblicazione non potrebbe essere considerata estranea alla formazione della conoscenza legale della sentenza da parte dei litiganti, conoscenza che anzi scaturisce direttamente dalla pubblicazione e alla quale la notificazione non aggiunge alcunché [Impagnatiello, 2003, 184], essendo essa invece preordinata all'interesse della parte ad anticipare il passaggio in giudicato della sentenza, sicché sarebbe incongruo far dipendere lo stesso effetto acceleratorio dalla proposizione di un'impugnazione, la quale mira invece al risultato opposto della caducazione o della riforma della sentenza. Un terzo rilievo ha riguardato la valenza dell'art. 326, cpv., c.p.c. a supporto dell'orientamento criticato. La norma avrebbe un ambito limitato di applicazione poiché presupporrebbe la pendenza di un processo con pluralità di parti su cause scindibili e la proposizione di una valida impugnazione, sicché essa non potrebbe essere invocata per giustificare l'effetto del decorso del termine breve di impugnazione non solo nei processi con due sole parti, ma anche nei casi di impugnazione principale inammissibile che, 138 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») essendo l'inammissibilità rilevabile d'ufficio, è inidonea a instaurare un valido giudizio e a consentire la litis denuntiatio di cui all'art. 332 c.p.c. Essa inoltre avrebbe lo scopo di garantire l'unità del procedimento in fase di gravame mediante l'estensione il più possibile sollecita dell'impugnazione a tutte le parti vittoriose e – almeno secondo un'opinione [IMPAGNATIELLO, 2003, 189] – costituirebbe una deroga all'art. 329 c.p.c. al fine di sottrarre la disciplina dell'impugnazione parziale nei processi con pluralità di parti su cause scindibili agli effetti dell'acquiescenza poiché consentirebbe alla parte che ha notificato l'impugnazione soltanto ad alcune delle controparti di estenderla anche alle altre, con l'unico limite del rispetto del termine breve decorrente dalla prima notifica. L'art. 326, cpv., c.p.c. non avrebbe, insomma, nulla a che vedere con la conoscenza legale della sentenza comprovata dalla proposizione dell'impugnazione nei confronti di alcuni dei litisconsorti in cause scindibili; si tratterebbe invece di una norma di favore per la parte che, in un processo con pluralità di parti, abbia proposto un'impugnazione limitata ad alcuni capi della sentenza, perché le permette di impugnare anche i capi inizialmente non impugnati superando la preclusione di cui all'art. 329 c.p.c. Inoltre, poiché la Corte è ferma nel ritenere che, in caso di scindibilità delle cause, la notificazione della sentenza nei confronti di uno dei litisconsorti non fa decorrere, neanche nei confronti del notificante, il termine breve per impugnare nei confronti degli altri litisconsorti, si perverrebbe a una disparità di trattamento tra la parte che notifica la sentenza e quella che notifica l'impugnazione: il termine breve non decorrerebbe per la prima, mentre decorrerebbe per la seconda. Infine, un quarto rilievo [TRIOLA, 2007, 1515] è stato mosso all'altro aggancio positivo individuato dalla Corte, ovverosia, come detto, l'art. 333 c.p.c. Si è osservato che la paventata disparità di trattamento tra la parte che impugna in via incidentale e quella che ha impugnato in via principale sarebbe solo eventuale, poiché dipenderebbe dal momento in cui è proposta l'impugnazione principale (potrebbe infatti mancare del tutto, ove la parte residua del termine annuale coincida o superi di poco il termine breve), e comunque potrebbe essere ipotizzata solo nel caso in cui questa presenti vizi formali e necessiti, pertanto, di essere riproposta emendata poiché solo in tal caso sorgerebbe l'onere per la parte che ha ricevuto l'impugnazione principale di impugnare in via incidentale nello stesso processo. Nessuna disparità di trattamento sarebbe invece concepibile in caso di impugnazione principale inammissibile per errore nella scelta del mezzo di impugnazione 139 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») (non essendovi alcun onere per le controparti di impugnativa incidentale nello stesso processo), né in caso di concorso cumulativo di impugnazioni (stante l'autonomia delle impugnazioni concorrenti). 4. L'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione n. 9782/2015. Le sollecitazioni della dottrina per la riconsiderazione della questione da parte delle Sezioni Unite hanno trovato positiva considerazione nell'ordinanza Sez. 1, n. 09782/2015, Genovese. La fattispecie scrutinata ha riguardato una società che aveva agito contro un piccolo comune chiedendo la risoluzione per grave inadempimento del contratto di noleggio di un autovelox e il risarcimento dei danni. Accolta la domanda con sentenza depositata il 3 settembre 2003 (non notificata), il comune interponeva appello notificando l'atto il 3 novembre 2003 alla società in bonis. Si costituiva però il fallimento deducendo che la società era stata dichiarata fallita con sentenza del 30 giugno 2003 e che l'appello era nullo, in quanto notificato a soggetto non più esistente. Abbandonato il giudizio ex artt. 181 e 309 c.p.c., il comune riproponeva nel marzo 2004 una seconda impugnazione nei confronti della curatela che resisteva eccependo la tardività del gravame. La corte di appello, richiamando il costante orientamento di legittimità (citava Sez. 2, n. 15082/2006, Correnti, Rv. 590863, e Sez. 3, n. 20912/2005, Purcaro, Rv. 584204), accoglieva l'eccezione affermando che la prima impugnazione aveva fatto decorrere per il comune appellante il termine "breve" di trenta giorni di cui all'art. 325 c.p.c. e la seconda impugnazione, notificata quattro mesi dopo, era stata proposta tardivamente, quando la sentenza di primo grado era ormai passata in giudicato. Ricorreva allora per cassazione il comune lamentando falsa applicazione dell'art. 358 c.p.c.: contestava la "lettura tradizionale" di tale norma da parte della giurisprudenza di legittimità, ritenendo non applicabile alla fattispecie il principio di consumazione del potere di impugnazione; allegava infatti l'incolpevole ignoranza circa l'intervenuto fallimento e la conseguente nullità del gravame dopo che il termine breve per impugnare era già decorso; invocava a tal fine un risalente precedente (Sez. L, n. 03132/1984, Chiavelli, Rv. 435180, secondo cui l'art. 358 c.p.c. non è applicabile nel caso in cui venga dichiarata la nullità del gravame, dovendosi considerare il diritto di impugnazione, anziché consumato, non esercitato per la nullità del relativo atto, in ordine al quale la pronuncia del giudice ha valore soltanto dichiarativo); denunciava di incostituzionalità la 140 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») detta lettura tradizionale dell'art. 358 c.p.c. alla stregua dell'art. 24 Cost. poiché essa sottrarrebbe all'appellante il diritto di impugnazione senza che gli sia imputabile alcuna negligenza; sottolineava come detto orientamento fosse criticato pressoché unanimemente dalla dottrina, secondo la quale la notificazione della sentenza ai fini del decorso dei termini di impugnazione non può avere equipollenti. La Prima Sezione, richiamato il principio di consumazione dell'impugnazione e il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale la notificazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile è equipollente alla notificazione della sentenza, con la conseguenza, cui esso conduce, di far decorrere il termine breve per l'impugnazione anche se la sentenza non sia stata notificata, ha rilevato che, ai fini del decorso dei termini di impugnazione, la notificazione della sentenza non avrebbe equipollenti e la conoscenza effettiva della sentenza ottenuta dalla parte aliunde (cioè in modo diverso dalla notificazione o dalla pubblicazione) dovrebbe rimanere irrilevante. Ha altresì osservato che una riconsiderazione del consolidato orientamento di legittimità potrebbe trovare fondamento nell'attuale formulazione dell'art. 327 c.p.c., che ha ridotto da un anno a sei mesi il termine lungo di decadenza per proporre impugnazioni: «In tal modo – si legge nell'ordinanza di rimessione –, anche il temuto pregiudizio per la celerità del procedimento si verrebbe sensibilmente ad attenuare poiché la parte che abbia proposto irrituale impugnazione contro una sentenza non notificata vede sensibilmente ridotto il termine per far valere le sue difese con una impugnazione correttamente proposta». 5. Le Sezioni Unite: l'accelerazione del giudicato in funzione della certezza dei rapporti. Ritenuti insussistenti i presupposti di fatto (la declaratoria di nullità del primo atto di appello, considerato che il primo giudizio era stato spontaneamente abbandonato da parte ricorrente, e la scusabilità dell'ignoranza del fallimento di parte appellata) allegati dal comune a sostegno dell'unico motivo di ricorso per cassazione, le Sezioni Unite hanno svolto una nuova riflessione sul principio di diritto (la notificazione dell'impugnazione equivale, per il notificante, alla notificazione della sentenza eseguita ex art. 285 c.p.c. ai fini del decorso del termine breve) di cui la Prima Sezione aveva richiesto il riesame, confermando e precisando l'orientamento tradizionale mediante la confutazione, punto per punto, dei rilievi critici mossi dalla dottrina. 141 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») Per fare ciò, le Sezioni Unite spostano risolutamente l'asse del discorso sul piano assiologico, riportandosi all'indirizzo carneluttiano di cui si diceva all'inizio: rammentati i cardini dell'orientamento tradizionale e sottolineato che il suo assunto di fondo, legato alla conoscenza legale della sentenza, è stato corroborato con il principio dell'efficacia bilaterale della notificazione della sentenza ex art. 285 c.p.c. (in forza del quale il termine per impugnare decorre tanto per il notificato che per il notificante, il quale deve assoggettarsi all'effetto acceleratorio che ha voluto imporre alla controparte) applicato anche a chi notifica l'impugnazione, è allora «da questo effetto acceleratorio che occorre muovere per cogliere l'elemento unificante che giustifica la tesi dominante», sicché il nesso unificante (la ratio autentica) delle norme in gioco (l'art. 326 cpv. c.p.c. e gli addentellati di cui agli artt. 332 e 333 c.p.c., ma altresì gli artt. 358 e 387 c.p.c. esprimenti il principio di consumazione del potere di impugnazione) risiede «nel voler stimolare l'esercizio del potere di impugnazione al fine di accelerare la formazione del giudicato» per «agevolare la certezza dei rapporti giuridici che scaturisce dalla fine del processo». E' questo, per le Sezioni Unite, «il fattore che giustifica la decorrenza del termine breve per impugnare in capo a chi propone l'impugnazione. Questo atto innesca una dinamica processuale che fa trascendere il processo in un'orbita impugnatoria, dalla quale non può regredire per rientrare in una fase di stasi meditativa». Alla luce di questo «nesso coerenziatore» non è consentita una lettura disaggregata delle norme: dal complesso di esse è invece dato cogliere la volontà del legislatore di favorire la formazione del giudicato con strumenti idonei (artt. 285, 325, 326, primo comma, c.p.c.), unificare le impugnazioni (art. 332 c.p.c.), limitare la loro proliferazione (artt. 358 e 387 c.p.c.), ancorare il termine per le impugnazioni successive a un dato normativo (l'art. 326 cpv. c.p.c.). Cadono allora le quattro obiezioni della dottrina più sopra ripercorse. 1) Nessuna "frattura" nella giurisprudenza della Corte, denunciata dalla dottrina soprattutto con riferimento alla notificazione della sentenza a fini esecutivi: «a qualificare la notificazione dell'impugnazione è proprio la dimensione impugnatoria di questo atto, che lo rende ben diverso dalla notificazione della sentenza unita al precetto, di cui è un qualcosa in più e non in meno». 2) Nessuna applicazione "analogica" dell'art. 326 c.p.c.: semmai estensiva, da riconnettere a quella situazione di notum facere realizzata dalla notificazione della sentenza, cui allude il primo comma della norma, poiché «la conoscenza della sentenza 142 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») entra nel processo in quanto essa stessa è sottoposta a critica mediante un'impugnazione, la quale implica la conoscenza e la volontà di procedere oltre», dovendosi inoltre tenere fermo – al contrario di quanto opinato in dottrina – che notificazione della sentenza e notificazione dell'impugnazione hanno lo stesso obiettivo della stabilizzazione della decisione mediante l'accelerazione della scelta processuale successiva, tanto che sia percorsa quanto che sia omessa l'impugnazione successiva. 3) Nessuna "marginalità" del dato positivo di cui all'art. 326 cpv. c.p.c.: esso è invece «testualmente rivelatore dell'onere dell'impugnante di esercitare la sua facoltà di attacco entro il termine breve decorrente dal momento in cui lo esercita per la prima volta» e il riferimento alle cause scindibili (art. 332 c.p.c.) si spiega in quanto solo per esse è stato necessario esplicitare quell'onere; la norma «vale quindi come utile e convergente riferimento interpretativo». 4) Nessuna "irrilevanza" pratica del profilo della disparità di trattamento nelle impugnazioni incidentali ex art. 333 c.p.c.: al contrario, il problema ben potrebbe sorgere nel caso – tutt'altro che raro, stante l'incremento di previsioni codicistiche sanzionatorie – di impugnazione inammissibile per motivi di carattere formale, rispetto alla quale si configura l'onere di reagire immediatamente in via incidentale. Verificata la valida resistenza dell'indirizzo tradizionale alle obiezioni della dottrina e riconosciutane la ratio nel meccanismo di accelerazione della formazione del giudicato a fini di certezza dei rapporti giuridici (il «filo ermeneutico» che dà respiro alla trama degli indici normativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità ormai ultratrentennale), il discorso delle Sezioni Unite può approdare all'elemento di chiusura: il «valore intrinseco della stabilità della giurisprudenza in materia processuale». Se la tesi tradizionale, confermata dalle Sezioni Unite, risulta «portatrice di un'opportuna tensione verso la ragionevole durata del processo (...) anche il principio della certezza del diritto compone i canoni del giusto processo regolato dalla legge. Soprattutto la legge processuale deve essere interpretata con rassicurante costanza, senza scarti innovativi che non siano giustificati da mutamenti del quadro normativo o da evidenze risolutive», secondo gli insegnamenti sul valore immanente della regola dello stare decisis, in cui si esprime la funzione nomofilattica della Corte, contenuti in Sez. U, n. 13620/2012, Mazzacane, Rv. 623343, Sez. U, n. 10143/2012, Amoroso, Rv. 622883, e Sez. U, n. 10864/2011, Vivaldi, Rv. 617621, nonché sui confini dell'applicazione dell'overruling di cui a 143 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») Sez. U, n. 15144/2011, Morelli, Rv. 617905. Vale anche qui, insomma, il «principio di precauzione» da tempo fissato dalle Sezioni Unite: dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi (Sez. U, n. 10864/2011, cit.). In definitiva, il valore della stabilità processuale colpisce in radice le accuse di incertezza mosse dalla dottrina all'orientamento tradizionale. 6. Considerazioni conclusive. La formulazione testuale delle norme incidenti sulla questione qui esaminata consente contrapposte linee interpretative che trovano giustificazione in più generali opzioni di fondo. Le critiche – numerose e autorevoli – mosse dalla dottrina pressoché unanime alla tesi giurisprudenziale richiamano, come si è visto, esigenze di certezza delle regole processuali e di promozione delle facoltà di impugnazione, intese in termini di diritti non altrimenti modellabili se non per via di previsione positiva. A tale ultimo riguardo, tuttavia, ben può rilevarsi che l'impugnazione può inquadrarsi in termini non di diritto (in sé tendenzialmente insuscettibile di compressioni), ma di potere (come tale conformabile), che l'appello non possiede una garanzia costituzionale e che il relativo grado di giudizio è affetto da crescenti criticità le quali possono esigere sanzioni di inammissibilità o preclusioni finalizzate alla effettività del sistema giudiziario nei confronti di tutti i suoi possibili fruitori (così, tra le altre, Sez. 6-3, n. 10723/2014, De Stefano, Rv. 630697, in tema decorrenza del termine breve dalla comunicazione dell'ordinanza ex art. 348 c.p.c., che ha particolarmente approfondito gli aspetti di compatibilità costituzionale). Ad ogni modo, a fronte dei rilievi critici della dottrina, l'orientamento confermato dalle Sezioni Unite appare, al postutto, ispirato ad una pragmatica ragionevolezza della soluzioni in vista della salvaguardia dell'esigenza di concentrazione dei giudizi di impugnazione e di sollecita formazione del giudicato e della certezza propria di esso. A tal fine, il criterio della conoscenza legale viene esplicitamente utilizzato – ad onta delle critiche – in una prospettiva 144 CAP. X - LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE») di deformalizzazione degli adempimenti, in adesione ai principi del giusto processo. Così, la Corte ha più volte affermato che il principio di consumazione dell'impugnazione, secondo un'interpretazione conforme ai principi costituzionalizzati del giusto processo, che sono diretti a rimuovere, anche nel campo delle impugnazioni, gli ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto di difesa, rifuggendo formalismi rigoristici, impone di ritenere che, fino a quando non intervenga una declaratoria di improcedibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti (Sez. 3, n. 23220/2005, Petti, Rv. 585279, e successive conformi). Costituendo l'orientamento in discorso un vero e proprio ius receptum (in tal senso Sez. 3, n. 20912/2005, cit.), non poteva prescindersi da un attento vaglio del necessario bilanciamento tra le ragioni di un eventuale mutamento di indirizzo e le esigenze di stabilità proprie delle regole di diritto vivente, particolarmente sentite nel campo del diritto processuale. Le Sezioni Unite hanno coerentemente percorso e sviluppato questa seconda opzione. Bibliografia S. CAPORUSSO, Sull'esercizio del potere d'impugnazione secondo il canone della Cassazione, in "Il Foro italiano", 2013, I, c. 1993 ss. S. CAPORUSSO, La "consumazione" del potere di impugnazione, Napoli, 2011. A. CERINO-CANOVA, Sulla soggezione del notificante al termine breve di gravame, in "Rivista di diritto processuale", 1982, p. 624 ss. G. IMPAGNATIELLO, Conoscenza della sentenza e termine breve per impugnare, in Annali della Facoltà di economia di Benevento, VIII, Napoli, 2003, p. 171 ss. R. TRIOLA, Osservazioni in tema di termini per la riproposizione di impugnazione inammissibile, in "Giustizia civile", 2007, 6, p. 1514 ss. 145 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA CAPITOLO XI LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA (di Rosaria Giordano) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La rimessione della questione alle Sezioni Unite. – 3. La tesi dell'improcedibilità. – 4. La tesi della nullità sanabile. – 5. Termine entro il quale deve essere depositato l'originale dell'atto. – 6. La decisione delle Sezioni Unite. 1. Premessa. L'improcedibilità, nell'ambito dei mezzi di impugnazione, sanziona l'omissione o il ritardato compimento di determinate attività processuali da effettuarsi in limine litis, sebbene successivamente alla proposizione del gravame. Il legislatore, peraltro, non definisce in generale la categoria dell'improcedibilità alla quale, per quanto attiene alle impugnazioni, si limita a fare riferimento in quattro specifiche disposizioni, ossia l'art. 348 c.p.c. in tema d'appello, l'art. 369 c.p.c. relativo al ricorso per cassazione, l'art. 399 c.p.c. in materia di revocazione e l'art. 408 c.p.c. sull'opposizione di terzo. Tali norme hanno il proprio comune denominatore nel sanzionare con l'improcedibilità, in luogo dell'estinzione, determinate inattività processuali poste in essere dall'impugnante, dopo la proposizione del gravame, ed integrano fattispecie ritenute tassative [LUISO, 2015, 363]. Più in particolare, gli effetti dell'improcedibilità dell'appello sono disciplinati dall'art. 358 c.p.c. per il quale, ove sia intervenuta la relativa declaratoria, il gravame non potrà essere riproposto, sebbene non sia ancora decorso il termine per impugnare: tale previsione - cui fa da "pendant", in materia di ricorso per cassazione, l'art. 387 c.p.c., sancisce il principio di cd. consumazione dell'impugnazione [CARNELUTTI, 1941, 437], che ha vocazione generale. In tema di improcedibilità dell'appello, l'art. 348, comma 1, c.p.c., stabilisce che: «L'appello è dichiarato improcedibile, anche d'ufficio, se l'appellante non si costituisce in termini». Su un piano generale, occorre ricordare che la costituzione in causa è un atto processuale formale che pone stabilmente la parte davanti al giudice, rendendone attuale la partecipazione al giudizio. Pertanto, poiché ai sensi dell'art. 347 c.p.c. ai fini della costituzione in giudizio in appello trovano applicazione le norme dettate dagli artt. 165 e ss. c.p.c. per il processo di primo grado, l'appellante deve 146 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA costituirsi in cancelleria nel termine di dieci giorni dalla notifica dell'atto di citazione, termine decorrente, ove l'atto debba essere notificato ad una pluralità di parti, dalla prima notifica, come chiarito da Sez. U, n. 10864/2011, Vivaldi, Rv. 617622. La problematica in esame attiene, nel quadro sinteticamente delineato, alle conseguenze della costituzione in causa in appello mediante il deposito, entro il predetto termine, non già dell'originale dell'atto introduttivo notificato, bensì di una copia dello stesso. 2. La rimessione della questione alle Sezioni Unite. Proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza che aveva parzialmente accolto il gravame dell'altra parte, il ricorrente deduceva, mediante i primi due motivi di impugnazione, che il giudice di secondo grado aveva deciso sul merito del gravame sebbene: a) il primo atto di citazione notificato era stato iscritto a ruolo da esso appellato al solo fine di ottenere la declaratoria di improcedibilità per l'inattività dell'altra parte ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c.; b) era stato notificato dall'appellante un secondo atto di appello, da ritenersi inammissibile in virtù del principio di consumazione dell'impugnazione di cui all'art. 358 c.p.c., appello peraltro iscritto a ruolo con il deposito della "velina" dell'atto notificato, senza che, nel prosieguo del giudizio, fosse stato depositato l'originale. La Sezione Seconda della Corte di Cassazione, mediante ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 25529/2015, Picaroni, non massimata, assumendo la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza della S.C., concernente le conseguenze dell'iscrizione a ruolo "con velina" delle cause di appello rimetteva alle Sezioni Unite delle seguenti questioni: a) se la costituzione in giudizio mediante il deposito di copia dell'atto di appello comporti di per sé l'improcedibilità del giudizio di gravame, oppure dia luogo a una nullità sanabile; b) «in questa seconda ipotesi, se per evitare l'improcedibilità il deposito dell'originale dell'atto di impugnazione debba necessariamente avvenire entro la prima udienza, oppure possa essere utilmente effettuato nel prosieguo del giudizio, oppure ancora se sia già di per sé sufficiente (ipotesi che in giurisprudenza non risulta essere stata prospettata) la costituzione stessa in giudizio dell'appellato, in quanto dimostrativa dell'avvenuto raggiungimento dello scopo dell'atto». 3. La tesi dell'improcedibilità. Il precedente più significativo nella giurisprudenza della Corte per il quale la 147 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA costituzione in appello attraverso il deposito della copia, in luogo dell'originale, dell'atto di citazione notificato comporta, ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., l'improcedibilità del gravame è costituito da Sez. 2, n. 18009/2008, Bertuzzi, Rv. 604107, per il quale il deposito dell'atto di citazione in appello privo della notifica alla controparte, all'atto della costituzione nel giudizio di secondo grado, determina l'improcedibilità del gravame ex art. 348 c.p.c., essendo privo di effetti sananti l'eventuale deposito tardivo dell'atto notificato in prima udienza, oltre il termine perentorio stabilito dalla legge. Nella richiamata decisione si evidenzia, invero, l'impossibilità di assimilare, quoad effectum, le conseguenze dell'omessa o ritardata costituzione in giudizio in primo grado ed in appello, atteso che la disciplina dettata, per il solo giudizio d'appello, dall'art. 348 c.p.c. è ispirata ad un favor per il passaggio in giudicato della decisione oggetto di impugnazione che sanziona l'omessa costituzione in giudizio con l'improcedibilità, istituto che si distingue nettamente dalla nullità e non contempla, a differenza della stessa, alcuna possibilità di sanatoria [SASSANI - CONSOLO – LUISO, 1996, 390]. Nella delineata prospettiva, la Corte aveva escluso, almeno in tale precedente, che in appello si possa evitare la radicale conseguenza dell'improcedibilità nell'ipotesi in esame, rilevando che il differente assetto proprio del giudizio di primo grado – nell'ambito del quale la ritardata costituzione delle parti è un'irregolarità che non produce alcuna conseguenza in un sistema nel quale la materia della nullità degli atti introduttivi del giudizio è ispirata al principio della conservazione dell'atto per effetto di sanatoria ex art. 164 c.p.c. o successiva regolarizzazione ai sensi dell'art. 182 c.p.c. – possa "trasporsi" in appello. Conferma di tale tesi si trae, secondo tale decisione, inoltre, nel rilievo officioso dell'improcedibilità da parte del giudice, sanzione che, pertanto, deriva direttamente dalla legge qualora non venga rispettato il termine previsto dall'art. 348 c.p.c. per la costituzione in giudizio, la quale, peraltro, deve avvenire, avendo riguardo al disposto dell'art. 347 c.p.c., nel rispetto delle regole formali dettate dagli artt. 165 e ss. c.p.c. che comprendono, tra l'altro, il deposito dell'originale, e non della cd. velina, dell'atto di citazione. In effetti, non si dubita, nell'ambito della dottrina più autorevole che ha approfondito la problematica, che tra le formalità cd. necessarie (contrapposte a quelle cd. eventuali) della costituzione 148 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA in giudizio rientra il deposito dell'originale dell'atto di citazione [SALETTI, 1993, 2]. Inoltre, come si è più di recente osservato, l'argomento principale che è posto a fondamento dell'altra tesi, ovvero quello per il quale il deposito di una velina dell'atto di impugnazione in luogo dell'originale notificato non comporta l'improcedibilità del gravame ma solo una nullità sanabile, è suscettibile di giustificare, "a catena", la medesima conclusione anche a fronte di difformità della costituzione in giudizio rispetto al modello legale più gravi, come, ad esempio, l'omesso deposito nel termine previsto anche della cd. velina [BERNINI, 2013, 146]. 4. La tesi della nullità sanabile. Nella giurisprudenza della Corte era tuttavia assolutamente dominante la differente impostazione per la quale la costituzione in appello mediante il deposito, entro il termine di dieci giorni dalla notifica, della copia, in luogo dell'originale dell'atto di impugnazione, non comporta l'improcedibilità del gravame. Tale orientamento è stato inaugurato da Sez. 1, n. 23027/2004, Luccioli, Rv. 578443, ed è stato sviluppato, con dovizia di argomentazioni, da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670. In particolare, quest'ultima decisione ha evidenziato che l'improcedibilità dell'appello è comminata dall'art. 348, comma 1, c.p.c. per l'inosservanza del termine di costituzione dell'appellante, non anche per l'inosservanza delle forme di costituzione, sicché, essendo il regime dell'improcedibilità di stretta interpretazione, in quanto derogatorio al sistema generale della nullità, il vizio della costituzione tempestiva ma inosservante delle forme di legge soggiace al regime della nullità e, quindi, al principio del raggiungimento dello scopo, per il quale rilevano anche comportamenti successivi alla scadenza del termine di costituzione. La ritenuta tassatività delle fattispecie di improcedibilità e l'impossibilità di ricondurre a quella prevista dal comma primo dell'art. 348 c.p.c. anche l'ipotesi nella quale l'appellante si sia tempestivamente costituito in giudizio mediante, peraltro, il deposito di una velina dell'atto di citazione, è stata, inoltre, posta in evidenza da Sez. 2, n. 23192/2010, Settimj, Rv. 614870, la quale ha sottolineato che l'art. 348 c.p.c., nella formulazione novellata dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, ha apportato significative modifiche alla disciplina dell'improcedibilità dell'appello, in quanto ha previsto quali ipotesi testualmente tassative quelle individuate nei 149 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA suoi due commi, ovvero la mancata tempestiva costituzione dell'appellante e la mancata comparizione dello stesso, una volta costituitosi, alla prima udienza ed in quella successiva. Questo implica, in accordo con tale impostazione interpretativa, che la sanzione immediata ed insanabile, attiene alla sola mancata tempestiva costituzione dell'appellante che deve aver luogo "in termini" non anche all'omessa osservanza delle "forme" previste per i procedimenti davanti al tribunale, nonostante per le stesse, compreso dunque il deposito dell'originale della citazione, operi rinvio il precedente art. 347 c.p.c. In alcune decisioni si è rilevato, inoltre, per supportare la medesima tesi prevalente, anche su una non meno trascurabile argomentazione tratta dall'ormai consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di perfezionamento del procedimento notificatorio, in ordine alla scissione soggettiva, quanto all'individuazione del momento di siffatto perfezionamento, tra la posizione del notificante e del destinatario della notifica, tutte le volte che venga in rilievo il necessario rispetto di un termine perentorio per il compimento della notifica. A riguardo è stato osservato, in particolare, da Sez. 2, n. 15715/2013, Carrato, Rv. 626894, che «la possibilità di provvedere alla costituzione in giudizio da parte dell'attore (e, corrispondentemente, da parte dell'appellante in secondo grado) e alla contestuale iscrizione a ruolo della causa prima del perfezionamento della notificazione (mediante il deposito della cd. "velina") è un dato che deve ritenersi acquisito alla luce della lettura costituzionalmente orientata operata dal Giudice delle leggi (cfr. sentenza 2 aprile 2004, n. 107, ed ordinanza 12 aprile 2005, n. 154, ma già prima v., in senso analogo, l'ordinanza 23 giugno 2000, n. 239), secondo cui tale ultimo adempimento si perfeziona per il notificante sin dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, sicché a partire da tale momento egli è legittimato a compiere tutte le attività che presuppongono la notificazione, ferma restando la decorrenza del termine ultimo per la costituzione dalla consegna effettiva al destinatario». 5. Termine entro il quale deve essere depositato l'originale dell'atto. La seconda questione prospettata, in termini maggiormente problematici, dall'ordinanza interlocutoria, era quella, laddove si ritenga che la costituzione in appello con velina dia luogo ad una nullità sanabile, se per evitare l'improcedibilità il deposito dell'originale dell'atto di impugnazione debba necessariamente 150 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA avvenire entro la prima udienza, oppure possa essere utilmente effettuato nel prosieguo del giudizio, oppure ancora se sia già di per sé sufficiente (ipotesi che in giurisprudenza non risulta essere stata prospettata) la costituzione stessa in giudizio dell'appellato, in quanto dimostrativa dell'avvenuto raggiungimento dello scopo dell'atto. In realtà, solo alcune delle pronunce che hanno affermato il principio per il quale la costituzione nel giudizio di appello con il deposito della cd. velina comporta una nullità sanabile si sono occupate espressamente anche della correlata questione del momento ultimo entro il quale l'originale deve essere prodotto in gravame. Alcune decisioni hanno ritenuto, a riguardo, che, una volta sancito il principio per il quale la sola omessa costituzione nel giudizio d'appello implica l'improcedibilità dello stesso, mentre la costituzione mediante il deposito della cd. velina in luogo dell'originale è una nullità sanabile (o, come talvolta si è pure ritenuto, una irregolarità), ne consegue che, ove lo scopo dell'atto sia stato raggiunto non essendovi difformità tra originale e copia, non rileva il momento del giudizio di appello nel quale avviene la produzione. In particolare, è stato affermato da Sez. 2, n. 23192/2010, Settimj, Rv. 614870, che tale controllo può essere effettuato in sede di decisione dell'impugnazione. In senso più rigoroso, un altro orientamento, fatto proprio da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, ha affermato che il controllo sulla procedibilità del gravame deve essere effettuato alla prima udienza, ossia quella di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. laddove la stessa si svolga dinanzi alla corte d'appello (ovvero l'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. nell'ipotesi di appello di fronte al tribunale). Sotto altro profilo, l'importanza, per la soluzione della seconda questione prospettata dall'ordinanza interlocutoria delle considerazioni effettuate dalla stessa Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, si individua anche nella necessità che siffatta pronuncia si pone di farsi carico dell'esigenza che, pur ove venga richiesto un rinvio per la produzione dell'originale o si adducano elementi giustificativi per l'omesso deposito dello stesso, ciò non comporti un rinvio "sine die" per l'effettuazione di questo controllo necessario ai fini della decidibilità del gravame. La soluzione era stata individuata nell'utilizzo da parte del giudice dei poteri di direzione del procedimento ex art. 175, comma 1, c.p.c.: invero, per consentire un sollecito svolgimento del processo, il giudice 151 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA dovrebbe assegnare un termine alla parte appellante ex art. 152 c.p.c. in modo da scongiurare manovre dilatorie poiché, pur trattandosi di termine ordinatorio, ove non prorogato prima della scadenza ai sensi dell'art. 154 c.p.c., la parte incorrerebbe nella relativa decadenza. 6. La decisione delle Sezioni Unite. Nel decidere sul complesso delle ripercorse questioni prospettate dall'ordinanza interlocutoria, Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829, ha enunciato il principio per il quale la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione (cd. velina) in luogo dell'originale non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184 bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello. Le Sezioni Unite, pertanto, hanno in primo luogo avallato l'orientamento già dominante, almeno nella giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale la costituzione in giudizio in appello, mediante il deposito della velina, in luogo dell'originale dell'atto notificato, comporta non già l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348 c.p.c. bensì una nullità sanabile. La Corte ritiene, in particolare, che tale ricostruzione sia giustificata in base al raffronto tra il comma 1 dell'art. 347 c.p.c. ed il comma 1 dell'art. 348 c.p.c., atteso che nella prima disposizione si richiamano le forme ed i termini della costituzione in giudizio dinanzi al tribunale, mentre l'art. 348 c.p.c. sanziona con l'improcedibilità la sola mancata costituzione tempestiva, senza fare riferimento, in sostanza, alle forme della stessa. Con riguardo alla seconda e condizionata questione prospettata dall'ordinanza interlocutoria, in ordine all'individuazione del termine ultimo entro il quale deve avvenire la regolarizzazione della costituzione in causa in sede di gravame, mediante il deposito dell'originale dell'atto notificato, le Sezioni Unite si riconducono alla 152 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA posizione più rigorosa già affermata da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, statuendo che la sanatoria deve avvenire entro la prima udienza del giudizio di appello - purché effettivamente celebrata e non di mero rinvio – in quanto è nel corso della stessa che il giudice è tenuto a svolgere, anche d'ufficio, i controlli in ordine alla regolarità della costituzione in giudizio. Peraltro, le Sezioni Unite si discostano – e probabilmente questo è il profilo più innovativo della pronuncia rispetto alla giurisprudenza precedente – dalla predetta decisione, non riconoscendo al giudice d'appello il potere, riscontrato l'omesso deposito dell'originale dell'atto introduttivo anche alla prima udienza, di concedere d'ufficio un termine all'appellante per la relativa produzione. Si osserva, infatti, che l'art. 350 c.p.c. non attribuisce al giudice siffatto potere mentre assegna per converso allo stesso alcuni poteri volti alla regolarizzazione del processo sotto altri profili, ossia quello di ordinare l'integrazione del contraddittorio, quello di cui all'art. 332 c.p.c. e quello di ordinare il rinnovo della notificazione dell'atto di appello. Peraltro, al contempo, le Sezioni Unite precisano che l'appellante il quale non è in grado, per "circostanze esterne" alla propria responsabilità integranti caso fortuito o forza maggiore, di depositare entro la prima udienza l'originale dell'atto di citazione notificato può, prima o nel corso della stessa, chiedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 153, comma 2, c.p.c. La differenza rispetto alla giurisprudenza precedente è una svolta in senso più rigoroso per l'appellante che non soltanto dovrà depositare, ove possibile, l'originale dell'atto entro la prima udienza ma avrà egli stesso l'onere di richiedere la rimessione in termini, senza potersi giovare di un ulteriore termine concesso d'ufficio dal giudice, anche, peraltro, in difetto dei presupposti di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c. Le Sezioni Unite affermano, quindi, il principio per il quale, se l'appellante non sana entro la prima udienza la nullità costituita dalla costituzione in causa mediante il deposito della cd. velina in luogo dell'originale dell'atto di citazione, detta nullità si "consolida" e deve essere dichiarata l'improcedibilità del gravame. La pronuncia delle Sezioni Unite effettua, altresì, alcune considerazioni circa la rilevanza della condotta processuale dell'appellato. In particolare, si osserva che qualora l'appellante si sia costituito mediante il deposito della copia dell'atto di citazione e 153 CAP. XI - LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA non abbia sanato il vizio entro l'udienza di cui all'art. 350 c.p.c., ove l'appellato contesti la conformità della copia rispetto all'originale, non potrà che essere dichiarata l'improcedibilità dell'appello. Laddove, per converso, l'appellato si costituisca senza nulla eccepire, le Sezioni Unite effettuano una distinzione. Invero, qualora l'atto depositato sia costituito da una copia recante la relata dell'attività di notificazione dell'ufficiale giudiziario (completa o meno con riguardo al perfezionamento nei confronti del destinatario), la mancata contestazione da parte dell'appellato sana il vizio della costituzione in causa. Diversamente, tale sanatoria non può verificarsi ove la copia non rechi la relata di notificazione, fattispecie nella quale deve essere quindi dichiarata l'improcedibilità del gravame a prescindere dalla condotta processuale dell'appellato. Bibliografia BERNINI, Inammissibilità, improcedibilità ed estinzione, in Le impugnazioni civili a cura di Luiso e Vaccarella, Torino 2013, 144; CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma 1941, 341; CONSOLO – LUISO - SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano 1996; LA CHINA, Procedibilità (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXV, Milano, 1986, 794; LUISO, Diritto processuale civile, II, 8a ed., Milano 2015, 359; PANZAROLA, Sulla rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2009, 1638; SALETTI, Costituzione in giudizio, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, 1. 154 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. CAPITOLO XII I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. (di Eduardo Campese) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il contrasto, manifestatosi in dottrina e giurisprudenza, quanto al regime dell'ordinanza di inammissibilità. - 3. I limiti della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. come sanciti dalle Sezioni Unite. - 4. Brevi osservazioni. 1. Premessa. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la con sentenza Sez. U, n. 01914/2016, rv. nn. da 638368 a 638370, Di Iasi, hanno affrontato la questione della ricorribilità, o meno, dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello ex art. 348-ter c.p.c., intorno alla quale - fin dal suo ingresso sulla scena del processo civile - era insorto un dibattito sia in dottrina, sia, per l'affacciarsi di divergenti opinioni, presso la giurisprudenza di legittimità. È bene da subito circoscrivere il campo dei profili controversi su cui la decisione è intervenuta in funzione nomofilattica. Stante il silenzio della legge intorno all'impugnabilità di quell'ordinanza, - indiscussa la mancanza di uno specifico mezzo di impugnazione/contestazione, quali che ne siano i vizi denunciati - il disappunto avverso la scelta legislativa si era orientato, non tanto sul caso in cui l'inammissibilità vertesse su ragioni di "merito" (appello erroneamente ritenuto privo di ragionevole probabilità di accoglimento), quanto su quello in cui essa fosse viziata per ragioni processuali: il problema, riguardava, in altri termini, l'impugnabilità dell'ordinanza per "vizi propri". Se, infatti, la contestazione del "merito" della stessa si può riversare sul ricorso per cassazione (ordinario) avverso la sentenza di primo grado (art. 348-ter, comma 3, c.p.c.), non altrettanto può dirsi quando l'ordinanza è resa al di fuori delle ipotesi contemplate dalla legge, o comunque in presenza di doglianze processuali non enucleabili nella decisione di prime cure. Il farraginoso meccanismo contemplato dalla disciplina del filtro in appello - che rende impugnabile in cassazione la sentenza di primo grado ove l'appello sia privo di ragionevole probabilità di accoglimento - pur nelle sue criticità, aveva finito quindi per essere accettato quale strumento di contestazione dell'ordinanza filtro nell'un caso, ma non aveva trovato spazio nell'altro, e ciò ha 155 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. condotto al consolidarsi del dubbio su cui le Sezioni Unite sono intervenute a componimento del contrasto: se e quale sia il rimedio impugnatorio invocabile avverso i "vizi propri" (processuali) dell'ordinanza de qua. Sembra opportuno, allora, ancor prima di esaminare il contenuto della suddetta interessante statuizione, fare un passo indietro per ricordare il contesto dottrinale e giurisprudenziale sul quale, con riguardo a questo specifico aspetto (così prescindendosi, in questa sede, per intuibili ragioni di sintesi, dalla trattazione, se non nei limiti di quanto si rivelerà strettamente necessario, dei presupposti e dei limiti temporali dell'ordinanza predetta), la stessa sarebbe poi andata ad incidere. 2. Il contrasto, manifestatosi in dottrina e giurisprudenza, quanto al regime dell'ordinanza di inammissibilità. Gli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. nulla dicono in ordine a possibili rimedi avverso l'ordinanza di "inammissibilità", ma prevedono che, a seguito della sua pronuncia, sia possibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado per i motivi di cui all'art. 360 c.p.c., ad esclusione del n. 5) laddove il giudice del gravame abbia giustificato la dichiarata "inammissibilità" sulle stesse ragioni di fatto che avevano fondato la decisione già impugnata con l'appello. L'interprete deve, quindi, inevitabilmente interrogarsi sui rapporti tra il giudizio di appello, conclusosi con la predetta pronuncia di "inammissibilità" e l'instaurando giudizio di cassazione, con particolare riguardo al profilo delle censure deducibili con il ricorso per cassazione. E qui il discorso si snoda in una duplice direzione, giacchè, da un lato, deve essere affrontata la questione relativa all'an ed al quomodo per dedurre (in cassazione ?) gli eventuali vizi dell'appello e dell'ordinanza conclusiva del giudizio; dall'altro, si propone la problematica concernente la possibilità di impugnare, o meno, con il ricorso per cassazione parti della sentenza di primo grado in precedenza non impugnate, ovvero di denunciarne vizi non sollevati con l'atto di appello. Precisandosi, fin da ora, che, attese la specificità e la sinteticità doverosamente caratterizzanti il contenuto di questo breve scritto, tale seconda problematica non potrà essere in questa sede affrontata, la risposta al primo interrogativo ha profondamente diviso la dottrina perché, ferma l'impossibilità di censurare con l'impugnazione la valutazione del giudice sulla ricorrenza del 156 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. presupposto della "non ragionevole probabilità di accoglimento", sulla quale sussiste un generale consenso, mentre alcuni commentatori hanno ritenuto l'ordinanza affetta da vizi autonomamente ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost., altri, invece, sono stati dell'avviso che le suddette censure sarebbero (quasi sempre) deducibili attraverso il ricorso proposto contro la sentenza di prime cure. E su tale apetto anche le prime pronunce rese dalla Suprema Corte sul punto si sono rivelate, tra loro, in dichiarato contrasto. In particolare, secondo un orientamento (Sez. 6-2, n. 07273/2014, Giusti, rv. 630754), quell'ordinanza, se emanata nell'ambito suo proprio, cioè per manifesta infondatezza nel merito del gravame, non era ricorribile per cassazione, non avendo carattere definitivo, giacché il comma 3 dell'art. 348-ter consente di impugnare per cassazione il provvedimento di primo grado; viceversa, la stessa era ricorribile per cassazione ove avesse dichiarato l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, avendo, in tal caso, carattere definitivo e valore di sentenza, in quanto la declaratoria di inammissibilità dell'appello per questioni di rito non può essere impugnata col provvedimento di primo grado e, ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., deve essere pronunciata con sentenza. Ad avviso di altro indirizzo interpretativo, invece (Sez. 6-3, n. 08940/2014, Frasca, rv. 630776), il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non era mai esperibile avverso l'ordinanza de qua, e ciò a prescindere dalla circostanza che essa fosse stata emessa nei casi in cui ne era consentita l'adozione, ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all'esperibilità del ricorso ordinario, la lettera dell'art. 348-ter, comma 3, c.p.c. (che definisce impugnabile unicamente la sentenza di primo grado), e, quanto al ricorso straordinario, la non definitività dell'ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, della quale si chiede tutela, e non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l'appello sia deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti, nonché al rispetto delle regole processuali fissate dall'art. 348 ter c.p.c.. Tutto ciò aveva, allora, indotto Sez. 6-2, n. 00223/2015, Giusti, a sollecitare l'intervento delle Sezioni Unite per risolvere il contrasto fin qui descritto. 3. I limiti della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. come sanciti dalle Sezioni 157 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. Unite. Nel risolvere la riportata questione, Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, rv. nn. da 638368 a 638370, ha affermato i seguenti principi: a) l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l'inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348-bis, comma 2, e 348-ter, commi 1, primo periodo e 2, primo periodo, c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso; b) l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., ove si denunci l'omessa pronuncia su un motivo di gravame, attesa la natura complessiva del giudizio "prognostico" che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione; c) la decisione che pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, ancorché adottata con ordinanza richiamante l'art. 348-ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti. In particolare, le Sezioni Unite hanno preliminarmente ricordato, da un lato, che, ai sensi del comma 1 dell'art. 360 c.p.c., possono essere impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado (dovendo, pertanto, escludersi l'esperibilità del ricorso ordinario per cassazione avverso le ordinanze, fatti salvi eventuali casi di ordinanze aventi natura sostanziale di sentenza), nonché (giusta il disposto del comma 4 dell'art. 360 c.p.c.) le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza avverso i quali sia ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge; dall'altro, che, avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall'art. 111, comma 7, Cost., deve altresì escludersi che l'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. sia impugnabile con censure riguardanti il "merito" della controversia, giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell'ordinanza predetta. 158 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. Ne hanno, quindi, tratto la conclusione che il contrasto de quo, nei termini di cui si è in precedenza dato conto, doveva essere circoscritto alla ricorribilità (o meno) di quell'ordinanza per vizi propri di carattere processuale, cioè alle ipotesi in cui, non essendo l'errore del giudice d'appello deducibile come motivo di impugnazione del provvedimento di primo grado, mancherebbe la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo attraverso il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di primo grado. Tanto premesso, il collegio ha innanzitutto ritenuto di dover sgomberare il campo di indagine da possibili suggestioni indotte dalla costatazione che, come risulta con chiarezza anche dalla Relazione Illustrativa dell'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, le intenzioni del legislatore nell'introdurre gli articoli 348-bis e 348-ter c.p.c. erano volte alla creazione di un ennesimo strumento di semplificazione ed accelerazione del processo civile e che l'orientamento che esclude sempre l'impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. appare certamente più conforme a tale intento perché, almeno prima facie, sembra idoneo ad evitare che uno strumento pensato per accelerare e semplificare si trasformi in una possibile fonte di complicazione del sistema e moltiplicazione delle impugnazioni. Tale non del tutto ingiustificata suggestione è stata, tuttavia, giudicata come non determinante nella indagine in esame sul presupposto che «...non sempre la voluntas legislatoris coincide con la voluntas legis come realizzatasi nel testo legislativo, senza considerare che, se pure la direttiva interpretativa secondo l'intenzione del legislatore riflette l'antico topos dell'autorità, non rappresenta di certo criterio ermeneutico unico o prevalente, essendo peraltro appena il caso di sottolineare che l'intentio auctoris non potrebbe giammai legittimare una lettura delle norme in ipotesi contraria a costituzione....». Successivamente, muovendo dal duplice rilievo che (a) risulta ormai da tempo chiarito che un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio - requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. - quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti, nonché della definitività, - in quanto non altrimenti modificabile - può essere oggetto del ricorso predetto, e che (b), le ordinanze tra le quali si è ravvisato il contrasto in esame non pongono in discussione il concetto di decisorietà sopra riportato, né il fatto che 159 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. tale carattere sia riscontrabile nell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. (non perché essa incide sul diritto processuale all'impugnazione ma perché è emessa in un giudizio vertente su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità), le Sezioni Unite rimarcando che quel contrasto si era radicato, quindi, esclusivamente in relazione al significato da attribuire al presupposto della "definitività" dell'ordinanza in esame (come già evidenziatosi in precedenza), hanno ritenuto non condivisibile la spiegazione che, di tale concetto, è stata resa da Cass. n. 8940 del 2014 (secondo la quale, giova ribadirlo, tale sarebbe solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, con la conseguenza che finché quest'ultima sia ridiscutibile - nella specie con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado - difetterebbe la definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario). Ciò, innanzitutto, in quanto essa non trova riscontro nel dato normativo costituzionale e neppure nella legislazione processuale ordinaria, né può ritenersi confermata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, le quali, con le sentenze Sez. U, n. 03073/2003 e Sez. U, n. 11026/2003 (richiamate, peraltro, dalla medesima Cass. n. 08940/2014, benché deducendone conseguenze che il collegio non ha ritenuto, allo stato, di poter avallare), hanno, sia pure con differente grado di chiarezza, affermato che se il provvedimento al quale il processo è preordinato non ha carattere decisorio perché - non costituendo espressione del potere/dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tenda all'accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell'altra - non ha contenuto sostanziale di sentenza, analogo carattere non decisorio permane anche quando si faccia valere la lesione di un diritto processuale, in quanto la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo ha necessariamente la medesima natura dell'atto giurisdizionale cui quest'ultimo è preordinato, e, quindi, ove esso sia privo di decisorietà, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, alla stregua della sua natura strumentale, sicchè le censure relative ad inosservanze di norme regolanti la procedura non possono utilizzare strumenti processuali diversi da quelli previsti per le doglianze relative al merito del giudizio. Inoltre - hanno proseguito le Sezioni Unite - «...la già riportata opzione interpretativa di Cass. n. 8940 del 2014, troncando la potenziale corrispondenza tra l'ambito della decisorietà e quello della definitività attraverso una operazione ermeneutica non avallata dalla lettura dei citati precedenti 160 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. giurisprudenziali, finisce per proporre una interpretazione ingiustificatamente riduttiva del comma 7 dell'art. 111 Cost., che rischia di non sottrarsi alle insidie di avventurosi paralogismi e potrebbe, in ipotesi, finire, di fatto, per ridurre l'ambito della denunciabilità, ai sensi dell'art. 111 comma 7 Cost., delle violazioni della legge processuale...». La disciplina processuale vigente, però, non consente, allo stato, una simile lettura della "definitività" richiesta ai fini del ricorso straordinario per cassazione, risultando, peraltro, quest'ultima «...potenzialmente idonea a confondere o comunque sovrapporre due nozioni di definitività (e le ragioni ad esse sottese) che, pur riguardando entrambe il ricorso per cassazione, hanno motivo di rimanere concettualmente separate: la definitività di cui al comma 3 dell'art. 360 c.p.c. (questa sì ancorata ad un dato normativo esplicito) e la definitività che consente l'impugnazione straordinaria per violazione di legge ai sensi del comma 7 dell'art. 111 Cost., essendo evidente che, nel primo caso, è in discussione solo il "momento" dell'impugnazione, trattandosi comunque di sentenze impugnabili con ricorso ordinario per cassazione e la mancanza di "definitività" (nel senso che la decisione non "definisce" neppure parzialmente il giudizio) non elimina la ricorribilità con ricorso ordinario ma (in alcuni casi) la pospone prevedendola insieme con l'impugnazione della sentenza che invece "definisce almeno parzialmente il giudizio", mentre, nel secondo caso, si tratta di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione ordinaria (neppure successiva), in ciò realizzandosi il presupposto della "definitività" (intesa come non modificabilità) in relazione al rimedio straordinario previsto dall'art. 111 Cost...». Si è, peraltro, ritenuto di dover ricordare che, in sede di Assemblea costituente, si pervenne alla formulazione della previsione dell'art. 111, comma 7, Cost. dopo un'articolata discussione ed all'esito di una mediazione tra la proposta che intendeva configurare il ricorso per cassazione esclusivamente come garanzia individuale delle parti e quella volta ad affermare, attraverso la disposizione in parola, non solo lo ius litigatoris ma anche lo ius costitutionis. Il ricorso per cassazione che ne è risultato costituisce perciò - ad avviso del collegio - «...un modello di impugnazione assolutamente peculiare, in cui (almeno finché la disposizione permanga nell'attuale testo) deve trovare spazio e ragione sia la funzione nomofilattica della Corte di cassazione sia la tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito: rispetto a tale modello di ricorso (ed alle ragioni che ne hanno determinato la genesi) non può non risultare impropriamente riduttiva una interpretazione che escluda la possibilità di impugnare sempre, per le violazioni di legge commesse dai giudici di merito, i provvedimenti decisori che non siano altrimenti modificabili o censurabili...». 161 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. Ferme le considerazioni generali sopra esposte, si è poi ritenuto necessario evidenziare che la prospettazione di una sorta di relazione "asimmetrica" tra il requisito della decisorietà e quello della definitività richiesti per la ricorribilità ex art. 111 Cost. imporrebbe «...non solo che si precisi con chiarezza il tipo di relazione che si intende richiamare - individuandone esplicitamente i referenti normativi - ma soprattutto che si estenda l'indagine a tutti i possibili profili esegetici idonei a rendere non solo la tenuta speculativa ma anche la fecondità pratica di tale ipotizzata asimmetria...». E, proprio sul versante "concreto" dell'indagine in esame, non può trascurarsi che il caso in cui - come nella specie - vi sia una pronuncia a carattere decisorio (siccome resa in un giudizio che verte su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità) che non sia in sé altrimenti modificabile, ma che tuttavia non possa ritenersi definitiva con riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, rappresenta, di fatto, un'ipotesi particolarissima, essenzialmente connessa all'assoluta novità che il meccanismo costituito dagli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. ha introdotto nel nostro ordinamento, dovendosi, così, esaminare le conseguenze alle quali si giungerebbe aderendo all'una o all'altra delle soluzioni prospettate, per valutare se esse siano in concreto compatibili col sistema di valori ai quali si è ispirato il legislatore costituente nel disciplinare il ricorso straordinario per cassazione nell'ambito dei principi fondamentali del processo, e, perciò, verificare l'astratta configurabilità di ipotetici limiti al concetto di definitività, quale presupposto per il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., anche in relazione alle censure in concreto ipotizzabili con riguardo all'ordinanza in discussione. Orbene, alla stregua della disciplina risultante dagli artt. 348- bis e 348-ter c.p.c., il soccombente che si è visto dichiarare inammissibile l'appello con l'ordinanza di cui all'art. 348-ter c.p.c., proponendo ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, non può ovviamente che dedurre motivi attinenti a quella decisione e non può, quindi, far valere censure riguardanti eventuali errores in procedendo commessi dal giudice d'appello, posto che, per poter conseguire una pronuncia su tali eventuali, errori l'unica possibilità sarebbe quella di impugnare il provvedimento che pone termine al procedimento di appello, ossia l'ordinanza declaratoria dell'inammissibilità dello stesso. Se tale ordinanza non fosse impugnabile, non sarebbe, perciò, in alcun modo sindacabile la decisione che "nega" alla parte il giudizio d'appello, vale a dire l'impugnazione idonea a provocare 162 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. un riesame della causa nel merito non limitato al controllo di vizi specifici ma inteso ad introdurre un secondo grado in cui il giudizio può essere interamente rinnovato non in funzione dell'esame della sentenza di primo grado ma come nuovo esame della controversia, sia pure nei limiti del proposto appello. E' vero - hanno rimarcato le Sezioni Unite - che non è previsto alcun diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio di secondo grado inteso come diritto ad un nuovo esame della causa nel merito, onde il legislatore ordinario ben avrebbe la possibilità di eliminare completamente il giudizio di appello ovvero di escluderlo in relazione a specifiche controversie ed a cagione delle relative peculiarità o ancora, come nella specie, di prevederne l'inammissibilità sulla base di un giudizio prognostico affidato al giudice d'appello nella ricorrenza di determinate circostanze e nel rispetto di una specifica procedura. In tale ultimo caso, tuttavia, l'esclusione di ogni possibile controllo sul rispetto di limiti, termini e forme previsti dal legislatore per la decisione prognostica affidata al giudice d'appello equivarrebbe a lasciare al mero arbitrio di quest'ultimo la possibilità che la parte fruisca di un giudizio di secondo grado, in quanto la mancanza di ogni possibile impugnazione - sia pure straordinaria - finirebbe per determinare di fatto l'impossibilità di verificare la correttezza della decisione, e, a fortiori, la "giustificatezza", rispetto a regole date, della disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell'appello e chi non ha potuto fruirne. Peraltro, lasciare che, senza alcun potenziale controllo, il giudice d'appello resti arbitro di decidere se la parte possa, o meno, fruire del giudizio di secondo grado, potrebbe, in prospettiva, determinare una sorta di incontrollabile soppressione "di fatto" del procedimento di gravame, finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione anche oltre le ipotesi ed i limiti previsti dal legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che (alla stregua della disciplina vigente, non contemplante una generalizzata ricorribilità per saltum) potrebbero e dovrebbero essere "filtrate" attraverso il giudizio d'appello, mentre la previsione della impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. ne faciliterebbe un utilizzo "fisiologico", evitando possibili arbitrii ed ingiustificate disparità di trattamento, e senza che, in concreto, ciò arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Suprema Corte di cassazione (se si pensa che la mera possibilità di impugnazione dell'ordinanza, scongiurando un ipotetico uso abnorme e incontrollato dell'istituto, potrebbe ridurre in prospettiva agguerrite, 163 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. complesse ed "improprie" impugnazioni in cassazione della sentenza di primo grado, riguarderebbe in ogni caso ipotesi limitate e questioni di pronta soluzione - siccome esclusivamente riferibili ad alcuni vizi processuali propri dell'ordinanza - e potrebbe essere esaminata dalla Corte di cassazione - come nella specie - insieme alla eventuale impugnazione della sentenza di primo grado, in alcuni casi potendo la relativa decisione risultare "assorbente" rispetto all'esame di quest'ultima). In altri termini, secondo il collegio «....rendere incontrollabile una decisione che, escludendo la possibilità di esperire un giudizio di secondo grado, ha indiscutibilmente la potenzialità di determinare l'esito della lite (o comunque influire in maniera rilevante su di esso) significherebbe sottrarla al fisiologico percorso potenzialmente "correttivo" assicurato attraverso il sistema delle impugnazioni (anche "straordinarie") e consegnare quindi le ragioni della parte che, senza il rispetto delle regole previste, sia stata privata del mezzo di gravame in parola, esclusivamente - concorrendone i presupposti - ad una eventuale azione risarcitoria, tra l'altro con indubbio effetto moltiplicativo del contenzioso...». Anche alla luce di tali considerazioni, valutate in riferimento alla particolare realtà processuale delineata dagli artt. 348-bis e 348- ter c.p.c., le Sezioni Unite hanno, dunque, optato per l'impugnabilità, ex art. 111 Cost., dell'ordinanza suddetta per vizi propri consistenti in violazione della normativa processuale, ritenendo, però, di dover precisare che non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili con riferimento ad una decisione giurisdizionale sono compatibili con la peculiare disciplina introdotta dagli artt. 348-bis e 348-ter citati e che, d'altro canto, non sempre avverso tali errori il ricorso straordinario si rivela l'unico rimedio esperibile. Fermo quanto precede, tra gli errores in procedendo denunciabili in relazione all'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. sono stati individuati, innanzitutto, quelli derivanti dall'inosservanza delle specifiche previsioni rinvenibili nei medesimi artt. 348-bis e 348-ter. In particolare, occorre considerare che, giusta l'art. 348-bis, l'ordinanza in esame, essendo, nelle intenzioni del legislatore, uno strumento di semplificazione e di accelerazione inteso alla riduzione dei tempi necessari per la definizione delle cause civili, può essere pronunciata nella fase iniziale del processo "all'udienza di cui all'art. 350..., prima di procedere alla trattazione, sentite le parti" e che, pertanto, la pronuncia di tale ordinanza oltre il suddetto termine, ovvero senza aver sentito le parti, sicuramente costituisce error in procedendo che non potrebbe essere fatto valere altrimenti che attraverso il ricorso straordinario. 164 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. L'art. 348-bis, comma 2, poi, esclude il "filtro" per le cause in cui è obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero, ex art. 70, comma 1, c.p.c., e per quelle che in primo grado si sono svolte secondo il rito sommario di cognizione, mentre l'art. 348-ter, comma 2, prevede che, in presenza di un appello principale e di un gravame incidentale, l'ordinanza di inammissibilità è pronunciata a condizione che per entrambe le impugnazioni ricorrano, appunto, "i presupposti di cui all'art. 348-bis, comma 1", essendo, in mancanza, il giudice tenuto a procedere "alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza". E non vi è dubbio che anche il mancato rispetto delle suddette regole comporti altrettante violazioni della norma processuale che non potrebbero essere fatte valere se non attraverso il ricorso straordinario. Particolare attenzione le Sezioni Unite hanno riservato al comma 1 dell'art. 348-ter c.p.c., laddove si precisa che l'ordinanza in questione non può essere pronunciata se non "fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello" e quando l'impugnazione non ha "una ragionevole probabilità di essere accolta", così chiaramente limitando l'ambito applicativo dell'ordinanza medesima a quello dell'impugnazione manifestamente infondata nel merito. Infatti, se la suddetta ordinanza è prevista solo nelle ipotesi in cui viene emesso un giudizio prognostico sfavorevole circa la possibilità di accoglimento dell'impugnazione nel merito, la decisione che pronunci, invece, l'inammissibilità dell'appello per ragioni di carattere processuale - ancorché erroneamente con ordinanza, richiamando l'art. 348-ter c.p.c. e, in ipotesi, pure nel rispetto della relativa procedura - è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, perciò senza neppure la necessità di valutare la sussistenza dei presupposti per la proposizione del ricorso straordinario, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito della impugnazione e perciò differisce dalle ordinanze in cui tale giudizio prognostico viene espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti. A quelle finora esaminate devono, poi, aggiungersi ulteriori ipotesi di violazione delle previsioni dettate per disciplinare l'ordinanza in questione, ancorché implicite siccome non espressamente previste dai citati artt. 348-bis e 348-ter ma indirettamente ricavabili dal sistema delineato in proposito dal 165 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. legislatore: ci si riferisce alle ipotesi in cui l'appello è fondato su ius superveniens o fatti sopravvenuti (ad esempio, sopravvenienza di norme interpretative, sentenze della Corte costituzionale, o fatti che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado, la denuncia di alcuni vizi revocatori). Ciò in quanto il giudizio prognostico sfavorevole espresso dal giudice d'appello nell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. si sostanzia nella conferma di una sentenza "giusta" per essere l'appello prima facie destituito di fondamento, e non potrebbe, pertanto, intervenire rispetto a norme o fatti che non siano stati considerati dal giudice di primo grado. Infine, alla stregua delle considerazioni finora espresse circa il fondamento e le ragioni della ricorribilità dell'ordinanza in esame ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., non può escludersi la denunciabilità degli errores in procedendo riferibili ad ogni altro provvedimento giudiziario, ovviamente, come rilevato, nei limiti della compatibilità logica e/o strutturale dei medesimi con il contenuto tipico della decisione espressa nell'ordinanza suddetta, ed a tale ultimo proposito viene innanzitutto in considerazione la violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione ai vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extra petizione. Soffermandosi, in particolare (per il rilievo indiretto che la questione avrebbe assunto per la decisione del merito della controversia sottoposta al loro esame), sulla omessa pronuncia, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, nell'ipotesi di ordinanza ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c., in cui non è possibile una pronuncia di inammissibilità dell'impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento se non in relazione a tutti i motivi d'appello (ed a tutti gli appelli proposti avverso la medesima sentenza), non risulta pertanto neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione della decisione - necessariamente complessiva - assunta. Per quanto riguarda, da ultimo, gli eventuali errori processuali configurabili in riferimento alla statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza in questione, si è preliminarmente evidenziato che tale decisione non può risultare in alcun modo "coinvolta" dall'esito del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, non potendo a tale ipotesi riferirsi l'effetto espansivo cd. "esterno" previsto dal comma 2 dell'art. 336 c.p.c., posto che la cassazione giudica su di una impugnazione che, pur essendo proposta avverso 166 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. la medesima sentenza di primo grado, è oggettivamente diversa da quella sulla quale ha giudicato il giudice d'appello e che l'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. non può assimilarsi ai "provvedimenti e atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata" ai quali, secondo il citato comma secondo dell'art. 336 c.p.c., devono ritenersi estesi gli effetti della riforma o della cassazione della sentenza. La statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza suddetta può, perciò, essere rimessa in discussione (ai sensi del comma 1 del citato art. 336 c.p.c.) soltanto se -ammessa l'impugnabilità dell'ordinanza medesima - l'impugnazione venga accolta, oppure se vi sia stata impugnazione con espresso riguardo a detta statuizione (ad es. da parte del vincitore che lamenti una impropria compensazione ovvero una liquidazione inferiore al minimo previsto o anche da parte del soccombente che lamenti una liquidazione eccessiva). In tal caso - hanno concluso le Sezioni Unite - non vi è ragione alcuna (giuridica, logica e/o "pratica") per escludere l'impugnabilità dell'ordinanza in questione, risultando, del resto, difficilmente condivisibili (non fosse altro perché "improprie" e comunque idonee a moltiplicare il numero dei processi e dei giudici chiamati a conoscerne) impugnazioni alternative da proporsi in sede esecutiva o attraverso apposito giudizio di cognizione (con tutte le impugnazioni relativamente previste). 4. Brevi osservazioni. Le Sezioni Unite, come si è visto, hanno ammesso, sebbene nei limiti finora descritti, la ricorribilità dell'ordinanza di inamissibilità ex art. 348-ter c.p.c. esclusivamente per vizi suoi propri di carattere processuale. Qualche riflessione merita, però, anche la questione della ricorribilità della medesima ordinanza per la sindacabilità da parte dei giudici della legittimità della sussistenza di una ''ragionevole probabilità'' di infondatezza. Su quest'aspetto problematico, in verità, le Sezioni Unite prendono posizione in maniera chiara nel senso di escludere qualsiasi sindacabilità della valutazione compiuta dal giudice d'appello, e ciò sulla base della condivisibile considerazione che quest'ultima si estrinseca in un vero e proprio giudizio prognostico, come tale difficile da sottoporre a controllo esterno. Si è però osservato [CARRATTA, 2016, 1382 e SS.], che una siffatta argomentazione, sebbene inoppugnabile, non risolve il problema della sindacabilità dell'operato del giudice nel compimento di tale giudizio prognostico. 167 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. Invero, anche quanto alla contestazione della sussistenza di questo elemento, la ricorribilità diretta dell'ordinanza andrebbe ammessa, sebbene anche qui con opportuni limiti. Se con la pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello proposto per mancanza di una ''ragionevole probabilità di essere accolto'' il giudice d'appello, di fatto, decide sulla fondatezza, o meno, di un diritto sostanziale (lo stesso sul quale si è pronunciata la sentenza appellata), la sindacabilità in cassazione dell'ordinanza del giudice d'appello andrebbe ammessa anche con riguardo all'assenza o alla non corretta applicazione di tutti i presupposti richiamati dall'art. 348-bis c.p.c. per consentire di pervenire ad una decisione ''semplificata'' dell'appello proposto. E' indubbio, infatti, che anche con riferimento ad una simile ipotesi (non corretta valutazione della mancanza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento dell'appello proposto) l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità è stata emessa all'esito del procedimento decisorio ''semplificato'' previsto per il ''filtro'', senza la piena e completa esplicazione del diritto di difesa e del contraddittorio che si sarebbe avuta ove la sentenza fosse stata emessa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. oppure seguendo il procedimento ordinario ex art. 352 c.p.c.: anche in relazione a tale profilo, di conseguenza, l'ordinanza assume, nella ''sostanza'', l'efficacia propria della sentenza definitiva di rigetto nel merito dell'appello proposto. Occorre intendersi, tuttavia, sulla sindacabilità da parte del giudice della legittimità di questo particolare presupposto del ''filtro'' [CARRATTA, 2016, 1382 e SS.]. Infatti, quella circa l'insussistenza di una ''ragionevole probabilità'' di fondatezza dell'appello è una valutazione - come appare evidente - di natura prognostica e, come tale, sottratta al controllo diretto del giudice della legittimità. Quindi, non è nella direzione del ''merito'' della valutazione prognostica compiuta dal giudice d'appello che potrebbe rivolgersi il sindacato della Corte. Non si può escludere, tuttavia, che tale valutazione risulti corroborata dal giudice d'appello con riferimento ad elementi di fatto e/o di diritto non corretti. Se così avesse operato il giudice d'appello, anche il presupposto dell'assenza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento, pur formalmente affermato sussistente, nella sostanza mancherebbe, aprendo ancora una volta la strada alla possibilità di ricorso diretto avverso l'ordinanza-filtro. Si pensi, ad esempio, 168 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. all'ipotesi in cui la valutazione del giudice d'appello sia fondata sull'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che configurerebbe il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., o a quella in cui detta valutazione si basi su un'erronea applicazione o interpretazione di una norma di diritto sostanziale, che integrerebbe il vizio di cui al n. 3 del medesimo articolo. O, ancora, si pensi all'ipotesi in cui il giudice d'appello sia incorso in omissione di pronuncia rispetto a qualcuno dei motivi di appello proposti e questo - come evidenziano le stesse Sezioni Unite - abbia determinato un vizio di motivazione dell'ordinanza. Ebbene, sembra difficile escludere che anche in queste situazioni, proprio per la presenza di vizi propri dell'ordinanza, sebbene riferibili alla non corretta valutazione dell'assenza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento dell'appello, la parte possa sindacare davanti al giudice della legittimità l'operato del giudice d'appello. Non è mancato, peraltro, chi [TISCINI, 2016, 1141], ha rimarcato che, quanto alla violazione dell'art. 112 c.p.c. (error in procedendo e perciò astrattamente rientrante nell'ambito del ricorso straordinario), le Sezioni Unite hanno precisato che intorno all'ordinanza dell'art. 348-ter c.p.c. non si possa contemplare il vizio di omessa pronuncia, concretamente delineabile solo in presenza di impugnazioni articolate su più motivi di cui il giudice abbia esaminato solo alcuni. Dal momento che l'ordinanza di inammissibilità opera solo quando la mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento sussiste in relazione a tutti i motivi di appello, «...non risulta pertanto neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione della decisione - necessariamente complessiva - assunta...». Ma la lettura così offerta del vizio motivazionale non sposta di molto i termini della questione, quanto all'impugnabilità in cassazione. Quale che ne sia la qualificazione (omessa pronuncia o difetto di motivazione), si tratta pur sempre di error in procedendo, "vizio proprio" dell'ordinanza denunciabile direttamente con il ricorso straordinario nei termini visti [TISCINI, 2016, 1141]. Da ultimo, va sottolineato che le Sezioni Unite hanno espressamente indicato tra le ragioni di autonoma impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. la pronuncia della medesima oltre il termine previsto dalla norma esemplificabile nella formula "prima di procedere alla trattazione", ovvero prima di procedere alla verifica della regolarità del contraddittorio ex art. 350, comma 2, 169 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. c.p.c. ed agli adempimenti di cui al successivo comma 3, oltre che alla trattazione vera e propria. L'indicazione che delimita lo spatium processuale all'interno del quale può procedersi all'adozione dell'ordinanza filtro si completa con quella desumibile dall'art. 348-ter comma 2, che ne definisce il limite iniziale da non oltrepassare (lo spirare del termine per l'impugnazione incidentale). Non può sottacersi, tuttavia, che recentemente, Sez. 3, n. 12293/2016, rv. 640215, Graziosi, ha ritenuto validamente adottata l'ordinanza predetta prima della scadenza del termine per l'impugnazione incidentale sul rilievo della mancanza d'interesse a far valere il vizio da parte del ricorrente (in precedenza appellante). Se ne deve inferire che qualora la censura fosse stata posta dall'appellato si sarebbe rilevato un deficit del contraddittorio produttivo dell'invalidità del provvedimento adottato. Il profilo della sequenza procedimentale all'interno della quale può essere adottata la predetta ordinanza assume un diverso rilievo in ordine alle modalità di realizzazione concreta del contraddittorio che deve precedere la decisione ex art. 348-ter c.p.c., garantita dal riferimento testuale "sentite le parti" (da intendersi ovviamente costituite) contenuto nell'art. 348-ter, comma 1, c.p.c.. Al riguardo la menzionata pronuncia n. 12293 ha ritenuto l'insussistenza di una lesione effettiva del diritto di difesa nell'adozione del provvedimento all'esito di un'udienza "dedicata" alla conferma, modifica o revoca del provvedimento d'inibitoria, assunto inaudita altera parte, ex art. 351, comma 3, c.p.c.. A sostegno della soluzione adottata è stato rilevato che la valutazione dell'ammissibilità dell'appello sotto il profilo prognostico costituisce un vaglio obbligatorio officioso al pari delle altre verifiche di rito ex art. 350, comma 2 e 3, c.p.c., ancorché anticipata rispetto a queste ultime; che, al fine di assumere la decisione ex art. 348-ter c.p.c. non è necessario attivare un sub procedimento incidentale dedicato esclusivamente a tale adempimento; che il rispetto del contraddittorio non s'identifica con la predeterminazione dell'oggetto del contraddittorio medesimo; che la cognizione di natura sommaria, alla base della decisione sull'inibitoria non è diversa dal giudizio prognostico ex art. 348-ter c.p.c. e l'aver attivato la discussione sulla prima è sufficiente a decidere anche in ordine alla seconda; che la valutazione prognostica positiva giustifica la conferma dell'inibitoria, quella negativa l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c.; che entrambe le valutazioni 170 CAP. XII - I LIMITI DELLA RICORRIBILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C. si fondano su un accertamento di tipo prognostico, ancorché incompleto. Si deve osservare, tuttavia, che per evitare l'eterogenesi dei fini, sarebbe senz'altro auspicabile l'indicazione preventiva in contraddittorio della gamma di decisioni che possono essere assunte in limine litis, anche senza scandirle in più di un'udienza, rivelandosi, infine, nettamente preferibili (e, del resto, molte corti d'appello hanno adottato tale modulo organizzativo) soluzioni organizzative di smistamento preventivo delle cause a seconda del binario ad esse proprio (inibitoria, ordinanza ex art. 348-ter c.p.c.; sentenza ex artt. 281-sexies e 351, commi 1 e 4, c.p.c., sostitutiva della decisione sull'inibitoria, o assunta per altre ragioni impedienti la prosecuzione del giudizio ma non rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 348-ter c.p.c.; sentenza assunta all'esito della piena trattazione, da riservarsi a cause caratterizzate da complessità di decisione). Bibliografia CARRATTA A., Le Sezioni Unite e i limiti di ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza sul "filtro in appello", in Giurisp. it., Giugno 2016, 1378 e ss.. TISCINI R., Impugnabilità dell'ordinanza filtro per vizi propri. L'apertura delle Sezioni Unite al ricorso straordinario, in Corr. giur., 2016, 8-9, 1132 e ss.. 171 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO CAPITOLO XIII IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO (di Fabio Antezza) SOMMARIO: 1. Premessa: la questione di diritto e la sua duplice rilevanza. – 2. Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle S.U.. – 3. Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. e spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo. – 3.1. Lo scrutinio di costituzionalità. – 3.2. Ripercussioni della tesi del "vecchio regime". 1. Premessa: la questione di diritto e la sua duplice rilevanza. In forza delle ordinanze interlocutorie Sez. 1, n. 25039/2015, n. 25040/2015 e n. 25662/2015 (non massimate) è rimessa alle S.U. la questione di diritto relativa all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore ma la cui convenzione arbitrale sia stata stipulata in data anteriore. Il contrasto verte, dunque, sull'interpretazione e sulla portata della disciplina transitoria esplicitamente prevista dall'art. 27, commi 3 e 4, del citato decreto (di riforma dell'arbitrato) la quale distingue le norme introdotte dall'art. 20 del medesimo decreto, relative alla convenzione di arbitrato, da quelle di cui agli artt. 21, 22, 23, 24 e 25, inerenti il giudizio arbitrale ed in particolare anche il novellato art. 829 c.p.c.. Nell'attualità la questione ha una duplice rilevanza, de iure condito ma anche de iure condendo, in ragione dell'emananda riforma dell'arbitrato, oggetto del più ampio disegno di legge delega per la riforma del processo civile, presentato alla Camera l'11 marzo 2015. Quest'ultimo difatti prevede, tra i criteri direttivi, il potenziamento dell'istituto dell'arbitrato anche attraverso l'eventuale estensione del meccanismo della translatio iudicii, ai rapporti tra processo ed arbitrato, nonché attraverso la razionalizzazione della disciplina dell'impugnativa del lodo arbitrale. 2. Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle S.U. Secondo un primo orientamento, il nuovo regime impugnatorio non sarebbe applicabile nel caso di convenzione arbitrale antecedente all'entrata in vigore della riforma, in applicazione del generale principio sancito dall'art. 11 preleggi ed in ragione dell'incostituzionalità della specifica norma transitoria, di cui all'art. 172 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO 27, comma 4, d.lgs. n. 40 del 2006, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., se interpretata nel senso dell'applicabilità del "nuovo regime" (si veda, ex plurimis, Sez. 1, n. 06148/2012, Rv. 622519) [NELA, 2009, 919, e PETRILLO, 2009, 1088]. Il contrapposto orientamento, condiviso dalla quasi unanime giurisprudenza di merito, si fonda invece sul "chiarissimo" disposto letterale della citata norma transitoria, considerato anche conforme ad una lettura logico-sistematica, teleologica e storica della norma, oltre che a Costituzione, a "Convenzione" ed alla natura giurisdizionale e non negoziale del lodo rituale e del relativo procedimento arbitrale (si veda, ex plurimis, Sez. 6-1, n. 21205/2013, Rv. 627936). Le Sez. U, n. 09284/2016, Rv. 639686, Sez. U, n. 09285/2016, Rv. 639687, e Sez. U, n. 09342/2016 (non massimata), risolvono il contrasto, seguendo un autonomo percorso argomentativo, sancendo principi massimati da questo Ufficio nei termini che seguono. «In tema di arbitrato, l'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella, ma, per stabilire se sia ammissibile l'impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge - cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia - va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di convenzione cd. di diritto comune stipulata anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti deve intendersi ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. ...»...«In caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella, è ammissibile l'impugnazione del lodo per "errores in iudicando" ove "gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari", così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi con l'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003». 3. Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. e spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo. Evidenziata la questione di diritto, dato atto del contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità si è esplicitato l'iter logico-giuridico seguito dalle S.U. per concludere con i presenti spunti di riflessione che l'importante intervento della S.C. suscita, come detto, de iure condito oltre che in vista della redigenda riforma dell'arbitrato. 173 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO Il contrasto interpretativo, ancorché denunciato con riferimento alla norma transitoria di cui all'art. 27 d.lgs. n. 40 del 2006, per le S.U. deve trovare la sua risoluzione nell'interpretazione del riformato art. 829, comma 3, c.p.c.. È infatti indiscutibile la portata del citato art. 27, nel senso di rendere applicabile il nuovo regime impugnatorio per errores in iudicando ai soli arbitrati azionati successivamente all'entrata in vigore della riforme del 2006 ancorché fondanti su convenzioni arbitrali stipulate antecedentemente a tale data. La statuizione delle S.U. di cui innanzi coglie le ragioni del contrasto, pur non esplicitandone le argomentazioni e rifacendosi alla "chiara" disposizione transitoria. Tentando ora di esplicitare le dette ragioni, in quanto rilevanti per i presenti spunti di riflessione, deve rilevarsi che il legislatore delegato dispone, per i giudizi arbitrali ancora da azionare alla data di entrata in vigore della riforma, l'applicabilità esclusiva delle nuove disposizioni procedimentali. Il d.lgs. n. 40 del 2006 sembrerebbe quindi aver inteso disciplinare in materia unitaria tutti i procedimenti arbitrali sorti a partire dall'entrata in vigore della riforma, ancorché fondati su convenzioni arbitrali preesistenti, anche con riferimento alla disciplina dell'impugnabilità degli errores in iudicando, di cui al riformato art. 829, comma 3, c.p.c.. Tale disciplina, difatti, pur potendo essere, entro certi limiti, oggetto di accordo tra le parti, non attiene alla convenzione arbitrale nella sua essenza di presupposto del giudizio arbitrale ed è oggetto di specifica direttiva con legge delega n. 80 del 2005. Il legislatore, sia delegante che delegato, attribuisce infatti alla disciplina dell'impugnazione per nullità la funzione di conferire maggiore stabilità ai lodi rituali e, quindi, maggiore appetibilità all'arbitrato, quale procedimento avente natura giurisdizionale. La finalità è quella di deflazionare la giustizia civile ordinaria, così concorrendo ad attuare il principio costituzionale e "convenzionale" della ragionevole durata del processo ordinario (con le positive ricadute anche in termini di attrattiva per investimenti, in ipotesi, anche provenienti dall'estero). Si potrebbe ritenere dunque interpretabile il combinato disposto degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27 del d.lgs. n. 40 del 2006 nel senso che il nuovo regime di impugnabilità del lodo per errores in iudicando, al pari di tutte le altre nuove norme che regolano il giudizio arbitrale, sia applicabile ai procedimenti arbitrali azionati successivamente alla riforma, ancorché fondati su convenzioni precedenti ad essa. Il detto regime di impugnazione, pur potendo 174 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO avere un collegamento con la volontà delle parti in termini di previsione dell'impugnabilità, in ipotesi anche contenuta nella convenzione di arbitrato, non afferisce alla convenzione arbitrale nella sua essenza di presupposto del giudizio arbitrale. L'intervento delle S.U., premessa l'applicabilità del riformato art. 829 c.p.c. anche alle convenzioni arbitrali antecedenti la riforma del 2006, in forza della norma transitoria di cui al citato art. 27, sostanzialmente "sostituisce" la norma transitoria prevista dal legislatore delegato con una di portata opposta, identificandola nello stesso riformato comma 3 dell'art. 829 c.p.c.. La S.C. evidenzia, difatti, che la "legge", alla quale il riformato art. 829, comma 3, c.p.c., fa riferimento al fine di rendere ammissibile l'impugnazione del lodo per i detti motivi di diritto, deve necessariamente essere differente dallo stesso citato comma 3, il quale ammette l'impugnazione del lodo per errores in iudicando nel caso di espressa previsione delle parti o della legge. Deve altresì trattarsi della legge che disciplina la convenzione d'arbitrato, in quanto essa definisce, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del loto, ma vigente nel momento in cui la convenzione viene stipulata. Solo la legge vigente in quel momento può quindi ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato. Il chiarimento delle S.U. di cui innanzi priva di efficacia, sostanzialmente riscrivendola, la norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40 del 2006, che, invece per stessa statuizione del Supremo consesso, implicherebbe l'applicazione del "vecchio regime" impugnatorio anche nel caso di convenzioni antecedenti alla riforma. Potrebbe considerarsi altresì che, comunque, il nuovo art. 829 comma 3, c.p.c., utilizzando la particella disgiuntiva "o", fa riferimento, circa il regime impugnatorio, sia all'espressa volontà delle parti sia a disposizione di legge. Per quest'ultima potrebbe quindi intendersi espressa previsione legislativa di impugnabilità per errores in iudicando, quale potrebbe essere, in ipotesi, l'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003 per il c.d. arbitrato societario, e non la legge che disciplina e regola la convenzione arbitrale quale frutto della volontà delle parti. Diversamente opinando si interpreterebbe la norma nel senso di farle prevedere un'inutile duplicazione di riferimenti. Le S.U. argomentano altresì muovendo dall'assunto in forza del quale il silenzio è comportamento di per sé neutro, potendo quindi solo il contesto normativo preesistente attribuirgli un particolare significato, ed ambiguo, potendo assumere un significato 175 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO convenzionale solo in ragione del contesto, anche normativo, proprio del luogo e del momento dell'azione. Particolari spunti di riflessione, quindi, potrebbero sorgere dalla disamina delle argomentazioni delle S.U circa la valutazione del comportamento silente delle parti, di cui innanzi. In primo luogo, la S.C. fa esplicito riferimento all'art. 1368, comma 2, c.c. che, però, prevede un criterio di interpretazione di clausole ambigue. Circostanza, quest'ultima, difficilmente rinvenibile nel caso che ci occupa, non essendovi ambiguità circa gli effetti negoziali del silenzio delle parti, sia antecedentemente che successivamente alla riforma del 2006, ma dubbi solo in ordine alla portata della norma transitoria in esame. Sarebbe forse condivisibile il richiamo al diverso art. 1339 c.c., nella sua applicazione con riferimento ai contratti di durata o ad esecuzione differita, con conseguente sopravvenuta inefficacia della "tacita clausola di impugnabilità" e sua sostituzione con la "clausola di non impugnabilità" (si veda, ex plurimis, Sez. 3, n. 01689/2006, Rv. 587843). Il principio di diritto di cui innanzi si attaglia al caso in esame, al fine di verificare, ed in ipotesi escludere, eventuali effetti sostanziali retroattivi indiretti della norma transitoria sulle convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma del 2006. Si deve necessariamente considerare, difatti, che quello in esame è un intervento del legislatore in materia di procedimento avente natura giurisdizionale e, quindi, caratterizzato da norme preordinate alla risoluzione di controversie da parte di soggetti, gli arbitri, in posizione di terzietà e nel rispetto delle regole del contraddittorio e, quindi, della parità delle armi. L'inversione del rapporto tra regola ed eccezione, operato con il nuovo art. 829, comma 3, c.p.c., dunque, potrebbe essere letto, con riferimento alle convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma, come frutto di norma imperativa di diritto pubblico (processuale) in quanto regolante il procedimento arbitrale. L'imperatività della norma (nuovo comma 3 dell'art. 829 c.p.c.) non esclude infatti che il regime impugnatorio, in forza della stessa previsione legislativa, possa essere derogabile dalle parti, contrattuali o processuali, a determinate condizioni, attagliandosi ciò, peraltro, perfettamente all'arbitrato. Deve altresì considerarsi che l'inderogabilità della norma imperativa deve essere valutata con riferimento alla portata di essa e, quindi, nella specie, all'inversione del rapporto tra regola ed eccezione attuata con il nuovo comma 3 dell'art. 829 c.p.c. 176 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO Tale norma inciderebbe indirettamente sulla convenzione arbitrale, non nella sua valenza di presupposto del giudizio arbitrale ma solo con riferimento alla previsione delle parti circa il regime di impugnabilità per errores in iudicando che non ha ancora prodotto i suoi effetti al momento dell'entrata in vigore della riforma. In forza del meccanismo di cui al previgente art. 829, comma 2, c.p.c., infatti, per espressa disposizione normativa, la mancata esclusione dell'impugnabilità per errores in iudicando ad opera della parti, in accordo tra loro sul punto, implica scelta pattizia per il regime di impugnabilità del lodo. Le stesse S.U., sempre in merito al "silenzio" delle parti, citano poi esplicitamente precedenti di legittimità inerenti valutazione e portata negoziale o "probatoria" di un comportamento silente. Nel caso di specie, però, trattasi di valutazioni e di portata del silenzio non in discussione, determinando esso l'applicabilità di uno dei due regimi di impugnazione a seconda del momento di proposizione della domanda arbitrale. Potrebbero invece ritenersi rilevanti le questioni inerenti l'interpretazione della norma transitoria, la sua eventuale portata retroattiva e, nel caso di ritenuta retroattività, la compatibilità di essa con i principi costituzionali. In secondo luogo, sempre a detta delle S.U., il silenzio potrebbe assumere un significato convenzionale (del quale, comunque, nel caso che ci occupa non si discute per quanto già innanzi evidenziato) solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento dell'azione. La stessa S.C., benché con riferimento al non rilevante significato negoziale da attribuire al consenso, fa quindi esplicito riferimento al "momento dell'azione" che, in materia di arbitrato, coincide proprio con la proposizione della domanda arbitrale. È certo possibile, precisano le S.U., che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata, ma sarebbe invece impossibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto. Con tale ultima argomentazione la S.C. sembra ritornare sulla questione alla stessa rimessa ma senza esplicitare se l'impossibilità di cui innanzi sia riconducibile alla natura non retroattiva della norma transitoria, alla sua interpretazione costituzionalmente orientata 177 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO ovvero se, data la natura retroattiva della norma, necessiterebbe un sindacato da parte della Consulta. Con specifico riferimento al c.d. arbitrato societario, infine, le S.U. chiariscono che la norma di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003 è certamente in rapporto di specialità con l'art. 829 c.p.c. ma il fatto che vi faccia esplicito riferimento pone il problema della natura del rinvio. Si è molto discusso in ordine al se il detto rinvio debba intendersi riferito alla sopravvenuta nuova versione della norma richiamata ma, per le S.U., è indiscutibile che il legislatore abbia inteso escludere la possibilità delle parti di rinunciare all'impugnabilità del lodo per errores in iudicando, in particolare quando oggetto della controversia sia la validità di una delibera assembleare. In questa prospettiva, precisa la S.C., non ha alcuna rilevanza se il rinvio all'art. 829 c.p.c. debba essere inteso in senso materiale, al precedente testo (come indurrebbe a ritenere il riferimento al secondo comma, che solo in quel testo disciplinava l'impugnazione del lodo), o in senso formale, al nuovo testo della norma richiamata. Nel rapporto con il vecchio testo dell'art. 829 c.p.c., infatti, il citato art. 36 ha una portata inequivocabilmente derogatoria, imponendo comunque la pronuncia secondo diritto e, dunque, l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando anche contro l'originaria volontà delle parti (quando per decidere si sia conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari). Nel rapporto con il nuovo testo dell'art. 829 c.p.c. il citato art. 36 deve essere considerato una "legge" che "dispone" l'impugnazione del lodo da c.d. arbitrato societario, anche per violazione delle regole di diritto. Queste ultime condivisibili argomentazione sembrerebbero confermare le evidenziate riflessioni e la necessità di non identificare, anche in ragione dell'utilizzo della particella disgiuntiva "o", il riferimento che il nuovo art. 829, comma 3, c.p.c. fa all'impugnabilità per errores in iudicando in forza di specifica previsione di legge (quale effettivamente potrebbe essere l'art. 36 citato con riferimento al c.d. arbitrato societario) con la legge che attribuisce effetti alla volontà delle parti circa il regime impugnatorio, alla quale pure fa riferimento il detto riformato art. 829, comma 3, c.p.c.. La disamina dell'iter motivazionale delle tre sentenze delle S.U. costituisce quindi spunto per le riflessioni di cui innanzi e per un alternativo approccio alla risoluzione della questione di diritto, a 178 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO prescindere dall'adesione ad uno dei due contrapposti orientamenti di legittimità. Muovendo dal quadro normativo di riferimento, anche alla luce della ratio degli interventi legislativi in materia di arbitrato, a partire dal codice di rito del Regno d'Italia del 1865 fino ai recenti disegni di legge delega per nuove riforme, si potrebbe interpretare la norma transitoria in esame per verificare se essa sia suscettibile di una lettura, in ipotesi "costituzionalmente" e "convenzionalmente" "orientata", tale da escludere l'applicabilità del "nuovo regime" impugnatorio ai procedimenti arbitrali azionati dopo la riforma del 2006 ma in forza di convenzioni arbitrali antecedenti. All'esito dell'interpretazione della norma transitoria, non solo letterale e logico-sistematica ma anche teleologica e storica, si potrebbe vagliare la sua eventuale efficacia retroattiva – processuale o sostanziale –, nonché la "compatibilità costituzionale" e "convenzionale" di essa, se considerata retroattiva. Nell'ipotesi di ritenute criticità costituzionali, infine, si sarebbe potuto analizzare l'annesso profilo dell'ammissibilità di un'eventuale questione di legittimità costituzionale. 3.1. Lo scrutinio di costituzionalità. Trattandosi di ambito, quello del diritto transitorio, nel quale la discrezionalità del legislatore è ampia, in quanto limitata solo da ragionevolezza costituzionale, nel caso che ci occupa potrebbe ritenersi difatti elevato il rischio di sollecitare alla Consulta un intervento additivo- manipolativo, di tipo "creativo", tale da sostituirsi al legislatore in possibili scelte discrezionali (con conseguente plausibile pronuncia in termini di manifesta inammissibilità). In merito si può preliminarmente rilevare che la S.C., in assenza di contrasto interpretativo in seno a se stessa, ritiene conforme a costituzione una fattispecie sostanzialmente identica a quella in esame. Trattasi in particolare della disciplina transitoria dettata dalla precedente legge di riforma dell'arbitrato (art. 27 della legge 5 gennaio 1994, n. 25) in relazione all'art. 838 c.p.c., applicabile ratione temporis, che esclude per gli arbitrati internazionali l'applicabilità dell'art. 829, comma 2, c.p.c.. Il riferimento specifico è a plurime e concordi sentenze, addirittura emesse antecedentemente al "revirement" del 2013 circa la natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale, ed in particolare a: Sez. 1, n. 01102/2010, Rv. 611481, conforme a Sez. 1, n. 03696/2007, Rv. 592221 (sul punto preceduta da Sez. 1, n. 00544/2004, Rv. 569448). 179 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO Nel dettaglio, si ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 27 della l. n. 25 del 1994, relativamente alla disciplina transitoria della normativa sull'arbitrato internazionale, introdotta con la detta riforma del 1994, nella parte in cui prevedeva il divieto di impugnazione per errores in iudicando anche per i lodi emessi in procedimenti arbitrali iniziati dopo la sua entrata in vigore ma attivati sulla base di clausola compromissoria stipulata anteriormente. L'esistenza di antecedenti situazioni convenzionalmente scelte dalle parti, come specificano le pronunce innanzi richiamate, non può paralizzare la discrezionalità del legislatore relativamente ad un mutamento, per il futuro, delle regole processuali, che valga per entrambe le parti, così non violando non solo il principio di uguaglianza ma anche quello inerente l'esercizio del diritto di difesa, in un ordinamento nel quale, peraltro, il doppio grado di giudizio non è costituzionalmente tutelato. La tutela giurisdizionale dei diritti è comunque suscettibile di limitazioni se ciò non determini un sostanziale svuotamento del diritto di azione. Tale ultima argomentazione potrebbe ritenersi valevole, a fortiori, con riferimento alla norma transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006 in quanto l'impugnazione per nullità permane, ancorché con i detti limiti circa la deducibilità degli errores in iudicando, peraltro oggetto di possibile accordo di impugnabilità stipulabile non solo in sede di convenzione arbitrale ma anche successivamente. Circa la violazione del principio di ragionevolezza, conclude infine la S.C. nel caso in esame, essa è ravvisabile soltanto quando le deroghe alle regole stabilite siano ingiustificate ed arbitrarie e non anche quando le scelte siano espressione della discrezionalità del legislatore. Trattandosi di disciplina transitoria, quindi fisiologicamente destinata ad applicazione limitata nel tempo, il parametro di ragionevolezza va altresì individuato con riferimento alla sua astratta idoneità ad interrompere la conseguenzialità logica dei principi affermati dal legislatore, non rilevando le disparità di mero fatto, venutesi in tal modo occasionalmente a determinare. Come già innanzi evidenziato, sempre in termini di ragionevolezza della scelta legislativa, la riforma dell'arbitrato del 2006, al pari della precedente riforma del 1994, ed in particolare la nuova formulazione dell'art. 829, comma 3, c.p.c. e la norma transitoria per essa operante, tendono peraltro a conferire maggiore stabilità al lodo e, quindi, a rendere maggiormente appetibile il ricorso all'arbitrato. Esse contribuiscono a decongestionare la 180 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO giurisdizione ordinaria, in funzione della ragionevole durata dei processi civili, ed a favorire gli scambi e gli investimenti, anche internazionali. La regola della non impugnabilità del lodo per violazione di norme sostanziali attinenti al merito della decisione, peraltro, subisce, ovviamente anche nel caso rientrante nell'ambito applicativo della norma transitoria in esame, le due eccezioni di cui allo stesso riformato art. 829, comma 3, ultimo inciso, e comma 4, c.p.c., concorrendo a confermare la ragionevolezza della scelta discrezionale del legislatore. Lo scopo del legislatore del 2006 e la stessa ratio della riforma dell'arbitrato verrebbero difatti sacrificati in assenza della norma transitoria in esame, così come innanzi interpretata, procrastinando di decenni la razionalizzazione dell'impugnazione del lodo rituale per errores in iudicando. La scelta del legislatore del 2006, se ritenuta ragionevole, potrebbe escludere, pertanto, non solo la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. ma anche del principio dell'affidamento legislativo. L'ordinamento giuridico, comprendendo in esso il sistema costituzionale, non impedisce difatti al legislatore di emanare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, nel quale potremmo annoverare la convenzione di arbitrato perlomeno in ordine alla scelta delle parti circa il regime di impugnazione in esame, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, per le norme penali incriminatrici il divieto di retroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (in tal senso si veda, ex plurimis, con riferimento particolare all'arbitrato, Corte cost., n. 419/2000). Quanto detto potrebbe ritenersi condivisibile, nel caso di specie, in quanto le disposizioni non trasmodano in un regolamento irrazionale, così frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto (in tal senso si veda Corte cost., n. 31/2011). Nel caso che ci occupa, difatti, come già evidenziato, la norma transitoria in oggetto, anche con riferimento all'entrata in vigore del nuovo art. 829, comma 3, c.p.c., è giustificata dall'esigenza di assicurare la coerente attuazione della riforma del 2006 e, quindi, dello scopo ad essa sotteso e funzionale ad assicurare attuazione di altri principi di rango costituzionale e "convenzionale", tra i quali anche la ragionevole durata del processo civile ordinario. La scelta legislativa discrezionale, trasfusa nella norma transitoria in esame, potrebbe dunque ritenersi ragionevole anche 181 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO con riferimento al discrimen temporale dal quale dipende l'applicazione della nuova o della vecchia disciplina, individuato dal citato art. 27, comma 4, nella data di proposizione della domanda di arbitrato. Il legislatore della riforma, difatti, come già innanzi ricostruito, fa in merito ragionevole applicazione del principio tempus regit processum con la norma transitoria in oggetto, con la quale, peraltro, si è conformato al principio di cui all'art. 5 c.p.c. Il discrimine discrezionalmente individuato dal legislatore, pertanto, oltre a non violare l'art. 3 Cost. in termini di ragionevolezza, è conforme al principio di uguaglianza, essendo trattati in modo diseguale situazioni non uguali proprio in ragione del "fluire del tempo" (per il riferimento all'importanza del fluire del tempo si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 108/2002, Corte cost., n. 376/2001). Quest'ultimo, difatti, a fortiori trattandosi nel caso in esame di disciplina transitoria, costituisce idoneo elemento di differenziazione delle situazioni soggettive di coloro che azionano il procedimento arbitrale antecedentemente alla riforma del 2006 rispetto a coloro che promuovono l'arbitrato successivamente ad essa, tanto se in virtù di convenzione antecedente quanto se in forza di convenzione susseguente alla riforma. Potrebbe quindi concludersi circa l'insussistenza di alcuna ingiustificata disparità di trattamento per il fatto che situazioni soggettive identiche, di coloro che hanno stipulato la convenzione antecedentemente alla riforma del 2006, siano nel caso concreto soggette a diversa disciplina ratione temporis. Si potrebbe altresì ritenere insussistente anche la violazione degli artt. 41 Cost. e 117 Cost., in riferimento all'art. 6 della CEDU ed 1 del relativo protocollo addizionale. La garanzia costituzionale dell'autonomia privata non è difatti incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali, in ragione del rilevante interesse pubblico di cui risulta portatrice la riforma del 2006 (si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 31/2011, cit., e Corte cost.. n. 162/2009). Per converso, come già evidenziato innanzi, la riforma in esame e segnatamente la nuova disciplina dell'impugnazione del lodo per nullità e la relativa norma transitoria integrano misure urgenti per la giustizia civile in ottica di deflazione della giurisdizione ordinaria e, quindi, di ragionevole durata dal processo ordinario. Trattasi di beni-interessi di rango costituzionale e "convenzionale" di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU (rilevante in ragione del parametro interposto costituito dall'art. 117 Cost.), le cui tutele nel caso in oggetto non pregiudicherebbero il diritto ad un 182 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO "processo equo", innanzi ad un organo imparziale e con parità delle armi. All'esito della presente disamina emerge, come maggiormente problematico, il profilo inerente la compatibilità costituzionale e convenzionale della norma transitoria in esame, se interpretata nel senso della sua applicabilità anche con riferimento alle convezioni arbitrali antecedenti alla riforma del 2006, con la tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex art. 24 Cost., sotto il profilo del "diritto di accesso al Giudice" ex art. 6 CEDU. Premesso infatti che il diritto di accesso ad un giudice non è assoluto, potendo essere sottoposto a legittime restrizioni, dal momento che la sua stessa natura richiede una regolamentazione da parte dello Stato, la Corte EDU in merito afferma che nella conformazione a tale diritto inviolabile gli Stati dispongono di un certo margine di valutazione. I relativi confini sono però segnati dall'esigenza che le limitazioni apportate non restringano l'accesso offerto all'individuo in modo o fino a un punto tale da pregiudicare in maniera sostanziale il diritto stesso. Tali limitazioni, precisa altresì la Corte EDU, sono conciliabili con l'art. 6 par. 1 della CEDU a condizione che perseguano uno scopo legittimo e che sussista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (si vedano, Corte europea diritti dell'uomo, 3 dicembre 2009, Kart c. Turchia; Corte europea diritti dell'uomo, 14 dicembre 2006, Markovic c. Italia; Corte europea diritti dell'uomo, 18 febbraio 1999, Waite e Kennedy c. Germania). Nel caso che ci occupa, essendo introdotta una limitazione alla facoltà di impugnare il lodo nonostante preesistente volontà contraria delle parti, potrebbe configurarsi una questione di restrizione del "diritto di accesso al giudice" nei termini di cui innanzi. Il quesito potrebbe però essere risolto in considerazione della disciplina in esame e della ratio sottesa alla scelta del legislatore più volte esplicitata ed in ciò le S.U., di cui innanzi, non sono di guida per l'interprete, non affrontando la questione. Potrebbe difatti considerarsi ragionevole l'effetto della disciplina in esame in quanto normativa transitoria, quindi destinata ad esaurirsi nel tempo, volta a soddisfare rilevanti interessi di ordine pubblico, anche essi di rango costituzionale e convenzionale, trattandosi di arbitrato, che, in quanto tale, già implica di per sé la scelta per in "giudice privato". Nella specie sembrerebbe anche difficile argomentare la lesione degli artt. 3 e 24 Cost. in ragione di un legittimo affidamento delle parti in ordine alla perdurante applicabilità del "vecchio regime impugnatorio", sia in ragione della 183 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO "chiara" norma transitoria sia in ragione della quasi totale assenza di incertezze, nella giurisprudenza di merito, circa il regime applicabile oltre che nell'esplicitato conflitto in seno alla giurisprudenza di legittimità (Per un'attenta e recente applicazione giurisprudenziale del "diritto di accesso al Giudice", nei termini di cui nel testo e con riferimento a normativa transitoria, inerente la materia fallimentare ed in particolare l'appello avverso la dichiarazione di fallimento in luogo del precedente sistema di opposizione a tale dichiarazione, si veda Sez. 6-1, n. 16270/2016, Rv. 641032). Lo scrutinio della norma transitoria, infine, potrebbe ulteriormente avvalorare quanto già detto circa il possibile profilo di manifesta inammissibilità di una eventuale questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, sempre che la si ritenga effettivamente incostituzionale. In virtù dell'ampia discrezionalità del legislatore ordinario in materia di diritto transitorio, in una fattispecie come quella in oggetto, nella quale, in assenza della norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006, la "scelta legislativa" conforme a Costituzione potrebbe non dirsi certa ed univoca. L'eventuale questione di legittimità costituzionale potrebbe difatti sostanziarsi in una richiesta di intervento di tipo manipolativo-creativo. Si tratterebbe di questione inammissibile, in quanto implicante la sostituzione della Consulta al legislatore in scelte discrezionali tra una pluralità di soluzioni (per la manifesta inammissibilità di questione di legittimità costituzionale nel caso in cui la pronuncia additiva della Consulta che si evoca non costituisca una conseguenza necessitata dell'applicazione del principio costituzionale si vedano, ex plurimis: Corte cost., n. 9/2006, cit.; Corte cost., n. 273/2005; Corte cost., n. 260/2005; Corte cost., n. 399/2005). Solo se si ritenesse violato il diritto di difesa, inteso, come innanzi chiarito, in termini di "diritto di accesso al giudice", forse, vi sarebbe spazio per la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in ipotesi non manifestamente inammissibile. Se vi fosse una tale violazione, difatti, la Consulta potrebbe ritenersi chiamata a sostituire il legislatore in una scelta guidata e non altamente discrezionale, in quanto la scelta legislativa opposta potrebbe considerarsi lesiva non solo dell'art. 24 Cost. ma anche dell'art. 117 Cost., in ragione della violazione dell'art. 6 CEDU. Se si propendesse per la manifesta inammissibilità di una questione di costituzionalità potrebbe infine ritenersi, a fortiori, insostenibile un'interpretazione della norma transitoria in oggetto, "costituzionalmente orientata", tale da escludere l'applicabilità del 184 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO riformato art. 829, comma 3, c.p.c. ai procedimenti arbitrali azionati successivamente all'entrata in vigore della riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. Se si argomentasse nei termini di cui innanzi, difatti, sembrerebbe difficilmente sostenibile una interpretazione, che si dica "costituzionalmente orientata", tale da "forzare il quadro normativo di riferimento" ottenendo un effetto di dubbia verificazione con l'eventuale intervento della Consulta. 3.2. Ripercussioni della tesi del "vecchio regime". Qualora si propendesse per la tesi dell'applicabilità del "vecchio regime" impugnatorio, si dovrebbero considerare gli effetti di essa in merito ad altre norme introdotte o modificate con la riforma del 2006 che, al pari di quella di cui al riformato art. 829, comma 3, c.p.c., pur se procedimentali hanno quale necessario presupposto la volontà espressa delle parti nella convenzione di arbitrato. Trattasi, in particolare, perlomeno, dell'art. 816-quater c.p.c., in materia di arbitrato con pluralità di parti, e dell'art. 820 c.p.c., in merito al termine per la pronuncia del lodo, per le quali opera la medesima disposizione transitoria di cui all'art. 27, comma 4, c.p.c.. Nel caso in cui si dovesse invece propendere per l'interpretazione della norma transitoria nel senso dell'applicabilità del "nuovo regime" impugnatorio, sempre che si ritenesse essa avente efficacia retroattiva incostituzionale, in quanto scelta discrezionale irragionevole, si dovrebbero sottoporre al medesimo scrutinio perlomeno le altre due disposizioni innanzi citate. L'art. 816-quater c.p.c., novità della riforma del 2006, introduce l'arbitrato con pluralità di parti, in precedenza previsto solo per il c.d. arbitrato societario dall'art. 34 d.lgs. n. 5 del 2003. La detta norma prevede che si possa dar luogo ad un arbitrato multiparti solo ove la convenzione arbitrale devolva ad un terzo la nomina degli arbitri, ovvero se gli arbitri siano nominati con l'accordo di tutte le parti o se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l'arbitro o gli arbitri, nominino d'accordo un ugual numero di arbitri o ne affidino ad un terzo la nomina. La detta disposizione prevede, per il caso in cui non ricorra taluna delle dette ipotesi, la scissione dell'unico procedimento in più procedimenti bilaterali e, nel caso di litisconsorzio necessario, l'improcedibilità dell'arbitrato. Sicché, potrebbe porsi il problema dell'individuazione delle conseguenze di una convenzione arbitrale stipulata antecedentemente alla riforma, quindi soggetta al regime previgente ex art. 27, comma 3, d.lgs. n. 40 185 CAP. XIII - IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO del 2006, che non preveda modalità di nomina conformi a quelle specificatamente indicate dall'introdotto art. 816-quater c.p.c.. Con particolare riferimento al termine per la pronuncia del lodo, il riformato art. 820 c.p.c. prevede, salva diversa disposizione delle parti, che gli arbitri debbano pronunciare il lodo entro il termine di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina, in luogo dei centottanta giorni invece contemplati dal previgente art. 820 c.p.c.. Nel caso in esame, quindi, applicare la detta norma a procedimenti arbitrali instaurati successivamente all'entrata in vigore della riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali anteriori a tale data implicherebbe, perlomeno secondo la tesi del "vecchio regime", incidere retroattivamente sull'autonomia privata delle parti che, non convenendo un diverso termine di pronuncia del lodo rispetto a quello normativamente previsto, avevano inteso riferirsi proprio al termine di centottanta giorni di cui al previgente art. 820 c.p.c. Tale ultima questione rileva anche in ragione della circostanza per la quale il mancato rispetto del detto termine è causa di impugnazione del lodo per errores in procedendo, ex art. 829, comma 1, n. 6, c.p.c., salvo che ricorrano le condizioni di cui all'art. 821 c.p.c. Analoghe considerazioni potrebbero essere effettuate anche con riferimento all'art. 832 c.p.c., inerente i "regolamenti arbitrali" la cui disciplina è stata introdotta con la riforma del 2006, con contestuale abrogazione della disciplina dell'arbitrato internazionale, e per la quale opera la medesima disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006. È infine il caso di evidenziare che la tesi del "vecchio regime" potrebbe portare, di riflesso, ad una rivisitazione dell'orientamento della S.C., costante ed uniforme, inerente la disposizione transitoria di cui all'art. 27 della l. n. 25 del 1994 con riferimento all'art. 838 c.p.c., come modificato dalla riforma del 1994, nei procedimenti ove ancora rilevi ratione temporis. Bibliografia P.L. NELA, Contro l'applicazione dell'art. 829, comma 3, c.p.c. alle convenzioni arbitrali concluse prima della riforma, in Riv. dir. proc., 2009, pag. 919 e ss.; C. PETRILLO, Arbitrato – entrata in vigore della nuove discipline sul giudizio di cassazione e dell'Arbitrato, AA.VV., in BRUGUGLIO-CAPPONI (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, Vol. III, Tomo II, Padova, 2009, pag 1088 e ss.. 186 187

 

 

 

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